Preistoria, o storia di Massimo Veltri

Preistoria, o storia di Massimo Veltri

 

 Se si può affermare che la storia di un territorio, di una comunità, è anche e non residualmente scritta e da scrivere in funzione delle caratteristiche strutturali del suolo e  della sua solidità e delle sue forme, del suo clima, è parimenti  necessario ricordare che, fra gli altri ma qui più significativamente di altri,  Augusto Placanica, sia con Storia della Calabria e sia con Il filosofo e la catastrofe, indica un’utile traccia di ragionamento. Riassumibile,  drasticamente, in due paradigmi: abbandonare fatalismi e rassegnazione; quello che è ci dato e troviamo in natura possiamo se non curvarlo in qualche modo adattarlo agli scopi di una vita dignitosa e civile.

Pentadattilo, le alluvioni del ’56, l’Alto Jonio cosentino, la frana di Cavallerizzo, Corigliano, Soverato, Cosenza, i trasferimenti dei centri abitati (sullo stesso luogo o altrove, come argomentano Vito Teti e Tomaso Montanari), i maremoti, i terremoti devastanti, intere montagne che se ne scendono trascinando persone, cose, affetti e beni, il mare che si mangia tutto, le fiumare pensili del reggino, gli incendi apocalittici di quest’estate… hanno contribuito a scrivere la nostra storia, a definire la nostra stessa identità, se si può dire.

E la stessa, antica e quanto mai attuale, polemica della polpa e dell’osso, del contrasto fra pianura e montagna, della progressiva desertificazione delle aree interne non sono leggibili e non aiutano a capire fenomeni fisici e antropologici legati agli insediamenti umani e tecnici nel tempo e al formarsi di un terreno sempre più fragile ed esposto?

Una storia che è possibile non solo leggere ma scrivere, per noi stessi e per i nostri figli attraverso una individuazione di cause, non solo naturali ma pure e in alcuni casi essenzialmente e sciaguratamente umane, e la messa in agenda di operazioni da compiere. Operazioni che, beninteso, travalichino sia la rassegnazione che l’indolenza rivendicazionista.

Di seguito saranno illustrati, ovviamente con caratteri di sintesi ma mi auguro non di superficialità, elementi che auspico siano utili se pure non risolutivi principalmente lungo quattro direzioni fra loro strettamente e organicamente intrecciate: il rispetto per il suolo il territorio; recuperare politiche di pianificazione  e programmazione; unire responsabilità politiche  e amministrative dell’agire con i saperi tecnici e scientifici; acquisire la coscienza diffusa che non tutto ma molto l’uomo può fare per fronteggiare e limitare insorgere e effetti di fenomeni catastrofici.

L’ANTEFATTO

 

Non si può dire che prima degli anni Settanta degli anni duemila, quando si avviarono e poi conclusero i lavori della Commissione De Marchi, messa in piedi dal Governo dopo il disastro dell’Arno a Firenze del 1966 e  si giunse poi  al varo della legge 183 – ma ci volle il 1989… –  che non si era avvertita l’esigenza, nel paese,  di un approccio sistemico alla soluzione del problema dell’assetto e della manutenzione del territorio, della difesa del suolo: basterà citare quanto ricostruisce diffusamente Giuseppe Barone nel suo libro “Mezzogiorno e Modernizzazione” del 1986, circa il potente e concertato intervento orchestrato da Bastogi, Banca Commerciale e uno stuolo di tecnocrati e di tecnici, per realizzare gli impianti silani in Calabria, a fini prevalentemente energetici, idroelettrici sì, ma inseriti in una logica esplicita di conservazione del suolo, politica di montagna e pianura, bonifica idraulica. Solo che l’idea stessa di intervenire con strumenti pianificatori, per di più intersettoriali, ha stentato ad affermarsi: forse era troppo in anticipo con i tempi.

Poi il susseguirsi con frequenza e intensità crescenti di eventi di portata particolarmente disastrosa,  l’occupazione  generalizzata di suolo e sottosuolo nel boom del dopoguerra, una maturità e una presa di coscienza adeguate, l’invalersi   della cultura della pianificazione, un vento nuovo che soffiava in Italia e che parlava di programmazione, di proiezione verso il futuro, ma aggiungerei pure l’autorevolezza e l’impegno di esponenti della comunità scientifica nelle discipline idrauliche e di scienza della terra, questo coacervo di fattori, insomma, crearono le condizioni perché ‘difesa del suolo’ non rimanesse un concetto confinato a pochi addetti.  E vissuto come particolarmente se non esclusivamente limitativo se non vessatorio. Certo, ci vollero molti anni: da che le conclusioni di Giulio De Marchi si trasferissero in un dettato normativo molta acqua passò sotto i ponti.

E nel frattempo, in un contesto non parlamentare o politico bensì scientifico, accademico, culturale, nacquero il Progetto Finalizzato Conservazione Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Gruppo Nazionale Catastrofi Idrogeologiche, sempre in ambito CNR, nelle università corsi di laurea e materie di insegnamento propri della difesa del suolo, ricerche finalizzate alla gestione e alla previsione di eventi estremi. Sembrava davvero che fosse scoppiata una nuova primavera per la gestione e la manutenzione del territorio. Figuratevi: anche con una sorta di pax fra ingegneri, geologi e agronomi, architetti, pianificatori eccetera sempre pronti in genere ad affermare il loro primato esclusivo ed escludente in materia, e a danno degli altri. Nacquero istituti di ricerca per la protezione idrogeologica, da noi nell’Università della Calabria addirittura dipartimenti universitari come Scienza della terra, Pianificazione territoriale,  finanche… Difesa del suolo.

 LA LEGGE 183

  

Molti e diversi governi nazionali, ebbe il nostro paese, durante la gestazione della legge, così che il risultato finale non può non risentire di orientamenti, equilibri politici, patteggiamenti fra diversi poteri che insistevano sulla struttura del dettato normativo. Le Regioni, il decentramento di una serie di funzioni, la sottrazione di competenze a una istituzione e il conseguente passaggio ad altre – con le immancabili contrarietà, i consueti attriti, le conseguenti paralisi – rappresentano le tortuosità, le viscosità, i compromessi con i quali ebbe a misurarsi il legislatore. Senza tacere il fatto che la superfetazione che ne conseguì, dettata da mediazioni, bracci di ferro, disaccordi e accordi, sfociò nell’impugnativa davanti alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni in materia di conflitti di competenza, e che di fatto frenò se non addirittura bloccò l’applicazione della legge. Legge, che è bene ricordare, è una legge quadro, che rimanda cioè le diverse Regioni a legiferare con norme regionali, all’interno della cornice generale della norma nazionale.

Non era facile, è necessario affermarlo senza falsi infingimenti, misurarsi con la 183: da parte di organi dello stato, amministrazioni, cittadini, tecnici, stake holders: i così detti portatori d’interessi. Una vera e propria ‘rivoluzione’ in cui si andava al di là dei confini amministrativi e l’attenzione era incentrata su quelle porzioni territoriali definite ‘bacini idrografici’, superando così barriere che da sempre avevano delimitato competenze, responsabilità , ‘bacini’ di consenso elettorale.  Prevedere negli organismi di governo dei bacini le ‘Autorità di bacino’ con composizioni che contemplavano dicasteri diversi e poteri locali e non locali di vario tipo rimandava di fatto alla cultura della concertazione, alla multidisciplinarietà, e tutto questo in un quadro legislativo pre-esesitente estremamente complesso in merito a sovrapposizione di norme, di competenze, di procedure autorizzative, di iter da seguire: un groviglio in cui non era facile  orientarsi, che nello stesso tempo depotenziava attribuzioni e, diciamo le cose come stanno, arbitri con i quali si era fino ad allora vissuto.

Né può tacersi per un verso che l’istituto Regione non era pronto a muoversi sul piano dell’adozione di norme che di fatto costituivano una limitazione d’uso del suolo e per altro verso il termine stesso ‘difesa’ che esplicitamente richiama a politiche, o soltanto azioni, limitative e prescrittive quando in Italia stava prendendo piede la cultura della deregulation e della sempre più crescente occupazione indiscriminata di aree pur in presenza di una miriade di piani: regolatori, dei parchi, delle comunità montane, gli Ambiti Territoriali Ottimali a norma della legge così detta Galli… , e il massiccio spostamento verso valle, nelle aree urbane, della vita che prima, in un paese sostanzialmente agricolo contemplava presenze significative in collina e in montagna, proprio laddove si originano i fenomeni di cui tratta la difesa del suolo: frane e alluvioni. Dicevo che non era facile, e infatti non fu facile: fatto sta che fino alla metà degli anni novanta del secolo scorso la legge 183 rimase essenzialmente al palo.

Rimase al palo fino a quando a qualcuno venne in mente di verificare il perché, dopo dieci anni e se pure con lo stop dato dalla Consulta di cui dicevo prima, in Italia le Regioni non avevano provveduto a legiferare nella cornice della legge nazionale né nessuno (in ambito parlamentare ma non solo) si fosse curato di capirne i motivi e sollecitasse l’avvio d’una stagione susseguente, o meglio: conseguente, alla legge. D’altronde non è questo, l’unico caso che si riscontra in cui fatta la legge si ritiene d’aver risolto il problema, quasi miracolisticamente o se si preferisce illuministicamente parlando. Nel frattempo, però, frane  e alluvioni continuavano imperterrite e l’occupazione indiscriminata del suolo era un leit moiv a scala nazionale, non risparmiando nessuno.

Ma veniamo allo specifico: fu instituito, presso il Senato della Repubblica, un Comitato Paritetico Camera dei Deputati-Senato della Repubblica con le finalità di verificare lo stato di attuazione della legge n. 183 del 1989, su tutto il territorio nazionale, individuarne criticità e proporre soluzioni. Conta, nell’attività parlamentare più che in altri ambiti, il background, il retroterra culturale, il know how professionale, e se si riesce a trasferire tutto questo in azioni istituzionali, in contesti di rappresentanza elettiva, senza però – e il punto è decisivo – pensare d’avere in mano bacchette magiche ché le virtù di mediazione, confronto, ascolto, flessibilità eccetera sono l’abicci della cultura politica, dicevo…  beh… può uscirne qualcosa non solo in termini declamatori o demagogici, ma effettivamente utili oltre che autorevoli. Il Comitato Paritetico in meno di un anno ha ultimato i suoi lavori fatti di audizioni, richiesta e raccolta di pareri, atti, proposte. Non  è questa la sede  per richiamare tutti suoi contenuti, ovviamente: chi vuole potrà consultare  i due volumi editi dalla Tipografia del Senato della Repubblica che riportano integralmente i lavori del Comitato, incluso il documento finale – quella che prende il nome di mozione – fatto di venti punti che sintetizzano in termini di operatività più o meno rapida il da farsi in sede parlamentare e governativa per quanto riguarda la ‘manutenzione’ della 183, sia attraverso modifiche legislative che attraverso atti di indirizzo volti alla semplificazione  e alla concertazione. Un documento finale ch’è stato presentato nell’Aula sia del Senato che della Camera nelle sedute di conversione in legge del decreto legge del Governo dopo i tragici fatti di Sarno, ed è stato fatto proprio dal Governo. Documenti e volumi che sono stati per anni oggetto di studio e di interesse da parte di soggetti diversi, ma oggi l’attenzione è pesantemente scemata: vedremo poi anche se succintamente perché. I punti essenziali: previsione e prevenzione esaltati e sottolineati; coniugare il sapere con il fare; promuovere la manutenzione del territorio; superare la ripartizione far bacini regionali, interregionali, nazionali; ridurre drasticamente i soggetti competenti nei bacini idrografici (ne furono conteggiati una cinquantina); abolire tutta una serie di vagli autorizzativi per le procedure esecutive dei progetti; assicurare fondi certi per la difesa del suolo; passare da una pianificazione effettivamente troppo rigida a strumenti di piano magari settoriali ma più snelli e più concretizzabili; prefigurare quanto si avvertiva era già nell’aria con la normativa europea che si percepiva si muovesse secondo certe linee; recuperare insediamenti e stanzialità nelle aree interne sia di tipo umano che tecnico e funzionale.

Ebbene: i due volumi di cui dicevo furono presentati a Palazzo Zuccari a Roma, con massiccio concorso e con convinta adesione del mondo, chiamiamolo così, della difesa del suolo. Alcuni di quelli interessati e richiamati dall’evento, presenti allora, sono qui anche oggi. Le Regioni cominciarono a muoversi, a legiferare, il Governo, attraverso decreti ma mai con leggi ordinarie, modificò la 183 secondo le indicazioni del Comitato Paritetico, e devo dire che l’impianto complessivo che ne uscì fuori era un insieme coerente, snello, poteva funzionare.

 

IN MEDIA RES

 

Poi intervenne Bruxelles, poi la grande attenzione e la grande tensione ch’erano state dedicate all’argomento, si potrebbe dire da ogni dove nel paese, molto si affievolirono e se pure possiamo e dobbiamo dire che tanto fu fatto, siamo in un limbo di indifferenza e di sottovalutazione, oggi, a un livello di  percezione dei fatti, cioè, ché di fatti si tratta, molto bassa, tanto dai responsabili e delle ruling class in generale quanto dei cittadini comuni, tutti attenti solo al ristoro dei danni e esclusivamente al post evento, che ci trovano se non disarmati certamente scoperti al cospetto di un territorio fragile, esposto a eventi gravosi, di un tessuto normativo non adeguato, di un presidio tecnico e amministrativo insufficiente, di un difficoltà persistente nello spendere le risorse finanziarie disponibili, nell’inquadrare sempre e comunque interventi e azioni tanto a livello di scala di bacino quanto e prioritariamente in termini di previsione e di prevenzione. Con per di più eventi atmosferici da un verso – non da ora, e certamente con qualche ragione si parla sempre più insistentemente di mutamenti climatici – inclementi e con manifestazioni di precipitazioni e di deflussi intensissimi sia giornalieri quanto orari, dall’altro in presenza di occupazione senza regole e indifferente a rischi direi oggettivamente conclamati di ogni porzione di suolo disponibile: l’ISPRA che è istituto dello Stato lo ha dimostrato e squadernato a chiare lettere. Niente si percepisce in direzione di un adeguamento antisismico alle costruzioni, dichiarate esposte ad altissimo rischio, le fiamme che quest’estate hanno provocato terre desolate senza distinzione di sorta per tutta la nostra regione, e non solo, hanno agevolato scoscendimenti e frane in uno scenario già di suo predisposto, a fronte di una polverizzazione di presenza umana e di strutture di controllo che rende, ahinoi, tutto più facile ad essere aggredito.

 

Dall’anno 2000 viviamo in una vacatio. La direttiva europea emanata in quell’anno in materia ha abrogato l’esistente, la legge dello Stato n. 183, i bacini, i piani… tutto. Ha introdotto il Distretto Idrografico. Il nostro paese non ha recepito la direttiva, o meglio: l’ha recepita con legge dello stato ma subito dopo questa è stata impugnata davanti la Corte Costituzionale, dichiarata incostituzionale e ancora, ad oggi, non ‘corretta’ in forza della corrispondente sentenza della Consulta, se non per un provvedimento emanato dal governo attuale nel suo ultimissimo periodo di vita, a carattere meramente formale, direi addirittura burocratico. Non abbiamo, cioè, né le Autorità di bacino ex legge 183 e né le Autorità di distretto a norma della Direttiva UE. E’ vero, alcuni compiti e taluni adempimenti sono stati nel frattempo attribuiti ad alcuni organismi in essere in ossequio alla 183, così come numerosi tavoli tecnico-istituzionali sono stati messi in cantiere per assegnare al nostro paese una legge sulla difesa del suolo per così dire europea, ma per intanto non ci siamo ancora. Né mi risulta che a livello parlamentare, oltre che governativo, l’attenzione sulla difesa del suolo sia percepita come prioritaria, se non in termini meramente declamatori in corrispondenza di questo o di quello evento, ed esclusivamente con solenni impegni volti esclusivamente alla ricostruzione e non già all’intervento organico.

In questa vacatio di cui dicevo si è, oggettivamente inserita la Protezione Civile. Con il suo encomiabile lavoro di soccorso alle popolazioni e di operazioni di pronto intervento, ma di fatto perdendo per strada gli altri due piloni della sua identità: previsione e prevenzione. Ma chiediamoci pure: può mai il Dipartimento della Protezione Civile surrogare compiti che attengono ad altre sfere? Può essere il Dipartimento della Protezione Civile l’unico braccio e l’unica mente delle politiche per la difesa del suolo, per le politiche sul territorio? Né può qui sottacersi come l’impianto della legge 183 fosse da tutti ritenuto valido, se pure con le imperfezioni cui si è accennato, in specie se lo si considera dopo le novelle legislative che si sono succedute: eppure il nostro paese non è stato in grado di difendere tale impianto, a Bruxelles, laddove più che proporre una direttiva fotocopia della 183 (non sarebbe stato opportuno, giusto, onesto) avrebbe potuto e dovuto avanzare e difendere scenari fortemente improntati alla nostra legge di riferimento. Perché così non è stato? Scarso interesse per la materia, peso specifico dell’Italia non adeguato? Entrambe le cose, ritengo, e forse pure altro.

 

SCENARI EUROPEI E QUESTIONI CALABRESI

 

Non rinvengo elementi di positività nello spezzettamento in più direttive europee dell’argomento difesa del suolo, territorio e acque, direttive numerose e a raffica, che danno il segno di come una visione per così dire di cornice non rientri più nel radar della percezione del legislatore anche a scala europea.  A me pare che un impianto, una visione, una politica generale non ci sia, appunto, nemmeno a livello europeo, oltre che in Italia: non è un continente keynesiano, il nostro, si potrebbe concludere. Con la conseguenza che abbiamo o meglio si sia scelta la via del riduzionismo, della frammentazione, dell’empirismo induttivo, che si può dire risultino la cifra prevalente del momento storico che viviamo. Oppure, diciamolo: di pianificazione e programmazione – ché in estrema sintesi di questo si tratta –  non  si vuole più sentir parlare. D’altro canto le istituzioni parlamentari sono effetto e specchio di quanto si muove o non si muove nel paese: quale vagìto si avverte da parte delle municipalità, delle comunità scientifiche, dei tecnici, degli imprenditori, dei partiti politici, delle forze sociali? Solo e soltanto richiesta di risorse finanziarie per una generica quanto fallace richiesta di ‘messa in sicurezza’ post-evento, slogan declamatori, ignoranza assoluta del ‘di-che-trattasi’, oscuramento e colpevole dimenticanza di quanto si è prodotto, pensato, realizzato negli ultimi vent’anni, almeno. E’ come se la storia non esista più e si voglia partire sempre da zero. Come se fra rischio zero e deregulation non ci siano tanti spazi intermedi, come se intervenire dopo non costi di più che intervenire prima. Come se risparmiare vite umane non fosse possibile.

Come può intendersi il lavoro di ‘Italia Sicura’, altrimenti? La struttura messa in piedi dal Governo in carica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ha l’esplicito, e meritorio, compito di accelerare, di promuovere, l’apertura dei cantieri per le numerose opere da tempo in posizione di stand by. Ebbene, per diretta ammissione del responsabile di Italia Sicura, è vero: la qualità progettuale non sempre è quella giusta, gli interventi sono invischiati in una rete perversa di procedure burocratiche, bisogna accelerare, accelerare… ma delle norme insufficienti, della politica di piano che non esiste più, di collina e montagne abbandonate non si parla: chi ne parla, chi dovrebbe parlarne? Eppure collina e montagna sono la sede dove originano i processi fluviali, dove insorgono i movimenti di massa, dove si sono bruciati quest’estate ettari e ettari, e se lì il presidio umano e tecnico sì è se non desertificato fortemente ridotto, se il modello di sviluppo è tutto incentrato a valle, come interveniamo, di che cosa parliamo? E ancora: se per aprire i cantieri di un’opera il vaglio, i vagli, durano l’enormità di anni e di timbri, e la qualità progettuale non è sempre una perla fra le perle, non ci si rende conto che la questione delle politiche territoriali va vista, va rivista, dalle fondamenta, a cominciare dalla promozione profonda e robusta della interdisciplinarietà e dal dialogo fra i diversi saperi: altro che baruffe chiozzotte fra i molteplici professionisti.

Da poco è stato pubblicato nell’Aggiornamento della Enciclopedia Treccani la voce Difesa del Suolo ed Eventi Estremi: ho in quella sede sviluppato una traccia di ragionamento improntato alla ricostruzione di un filo storico su quanto finora prodotto a livello istituzionale oltre che scientifico sulla difesa del suolo. Ho, lì, avanzato alcune proposte di recupero di un ethos come condizione necessaria per una inversione di tendenza. Un ethos essenzialmente basato su due parole chiave: responsabilità e modello di sviluppo. La responsabilità non solo delle istituzioni preposte ma anche, e direi soprattutto, dei soggetti competenti. Tecnici, ingegneri, geologi, agronomi, architetti, docenti universitari… sono o no classe dirigente? Intendono riappropriarsi d’un ruolo che ha fatto grande l’Europa, che ha scritto pagine importanti nel nostro paese? I laghi silani di cui parlavo prima si debbono ai costruttori di dighe, sì, ai progettisti di impianti, di turbine eccetera. Ma si debbono pure ed essenzialmente all’ingegnere Omodeo, questo meridionale che non con il cappello in mano, non per chiedere, non per protestare, ma per proporre è riuscito a smuovere banche, governi, imprenditori in una visione da New Deal ante litteram.

 

PER CHIUDERE UNA RELAZIONE E (RI)APRIRE UNA DISCUSSIONE

 

Possiamo, ingegneri e geologi, litigare fra di noi, possiamo, noi tutti, aspettare Godot, un Godot che, se lo aspettiamo soltanto, siamo sicuri per davvero che arriverà?! Godot lo aspettiamo, e va bene… , se però recuperiamo quel senso di partecipazione attiva che ancor più necessita, in tempi non propriamente brillanti. Fuor di metafora: coniugare saperi tecnici con scelte politiche, motivare l’azione in ambito legislativo, impegnarsi in prima persona per dare la nostro paese un sistema moderno e funzionante di difesa del suolo e assetto territoriale, attraverso una chiamata di alto profilo di quanti hanno voce in capitolo, da promuovere senza particolari indugi. Una chiamata che non può che partire dal modello di sviluppo e dagli strumenti d’intervento. Cementificazione, “stra-uso” e “stra-abuso” del territorio, urbanizzazione massiccia, abbandono della se pur minima azione programmatoria devono stare al centro di una riflessione accurata e però non soltanto improntata alla denuncia. Non basta la denuncia: serve la proposta, la proposta sostenibile e praticabile, da offrire alle sfere decisionali. E la proposta, ritengo, uscirà fuori. Non semplice, non immediatamente e di colpo realizzabile, ma uscirà fuori. Ed ovviamente non riguarderà solo la difesa del suolo. Potremmo dire: la difesa del suolo come metafora di un nuovo modello di sviluppo, come recupero dello strumento della pianificazione per il governo del territorio, che contempli una visione di insieme fra città e campagna (come si diceva una volta), di rischi, di limitazioni d’uso ma anche di prospettive reali di crescita. Ché i fondi ci sono, spesso ci si trincera dietro la loro insufficienza, ma ci sono: non si sa – piuttosto – chi deve spenderli, dove, quando e con quale priorità e a quale scala, ma ci sono. E se dopo i tragici fatti di Soverato mi indignai nel leggere la folle richiesta avanzata dalla Regione al Governo nazionale di non ricordo più, dopo quasi ventotto anni, quanti milioni di euro, quando non avevamo ancora recepito la legge 183, quando avevamo autorizzato di tutto e da per tutto, quando si costruiva tutto e da per tutto, poi quella doverosa e scontata indignazione si ebbe modo di tramutarla in altro, in proposta, per questa nostra travagliata terra, al riparo da fatalismi e attendismi.

E in qualche modo bisogna iniziare: cinquanta e più comuni della nostra regione hanno sottoscritto, fatta propria, una proposta di legge regionale sulla valorizzazione dei centri storici calabresi, una proposta redatta da diverse associazioni di cittadini che hanno sede a Cosenza e di cui faccio parte. La proposta è stata formalmente depositata ormai mesi orsono presso la Presidenza del Consiglio, a Reggio  Calabria, ma se pur avendone chiesto e sollecitato, come pure è previsto dallo Statuto regionale, l’avvio della discussione nella competente Commissione a tutt’oggi non ne avvertiamo traccia alcuna. Ma noi aspettiamo e premiamo, continuiamo a premere: perché molto crediamo nella cittadinanza attiva, perché siamo convinti che il problema delle aree interne e dei nostri comuni sia decisivo per la crescita, per la sopravvivenza stessa nostra. Il tutto non estraneo, affatto, al tema della discussione di oggi.

 

 Relazione di Massimo Veltri all’incontro pubblico sul tema “Difesa del suolo e pianificazione del territorio: una questione nazionale, fra rischio zero e deregulation” promosso dall’Associazione degli Ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento Regionale Calabria “P. Poerio” e Associazione fra ex Consiglieri Regionali della Calabria a  Lametia Terme, il 20 gennaio 2018 

 

 

 

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