Questa autonomia non si migliora, va fermata di Massimo Villone di Massimo Villone

Questa autonomia non si migliora, va fermata di Massimo Villone di Massimo Villone

Fino al 20 luglio, termine ultimo per un voto dopo l’estate, il regionalismo differenziato procederà col passo del gambero: uno leghista avanti, uno M5S di lato. È quel che serve a palazzo Chigi e in questa linea si colloca anche l’ultimo, affollato, vertice di maggioranza. Di sicuro non serve al paese. Nella confusione, alcuni punti rimangono irrinunciabili.

Il primo, sul metodo. Emendabilità delle intese, sì o no? Pare che Salvini abbia parzialmente aperto alla possibilità che sulle intese intervengano le commissioni di merito. Una soluzione comunque inaccettabile, se esclude una piena emendabilità, in commissione come in aula. L’articolo 116 comma 3, si impernia su una legge cui in tutto si applica il procedimento legislativo disegnato dall’art. 72 della Costituzione, che non può considerarsi bypassato dal richiamo alla previa intesa. Da tale richiamo non può discendere un procedimento legislativo che in Costituzione non esiste. Quindi, piena emendabilità anche in aula. Come corollario, il dettaglio delle intese deve essere scritto nella legge, che non può limitarsi a generici principi da attuare successivamente a trattativa privata, nei comitati paritetici tra ministero delle autonomie e singole regioni.

Il secondo punto, sulle competenze da trasferire. Bisognerà pur dire, prima o poi, che le richieste delle regioni almeno in parte vanno respinte. La richiesta avanzata da una regione non comporta alcuna accettazione automatica. Si delimiterà così il campo della trattativa possibile. Ad esempio, sulla scuola si può ben dire che non si tratta alcunché. Davvero si pensa a sistemi regionali di istruzione? Per insegnare la storia veneta o lombarda? Per giungere a un esame di stato veneto e ad uno pugliese? O a studenti capaci e meritevoli suddivisi per territorio?

Ci sono poi materie geneticamente non trasferibili se non in profili marginali. Tale, ad esempio, è il caso delle infrastrutture: porti, aeroporti, autostrade, ferrovie, produzione e distribuzione nazionale dell’energia devono rimanere strumenti di politiche nazionali, se ha ancora un senso la nozione di paese unito. Regionalizziamo l’Autostrada del sole, o l’alta velocità? Lo stesso vale per i beni culturali: è vero o no che Fontana insiste per mettere le mani della Lombardia sull’Ultima cena di Leonardo e la Pinacoteca di Brera? E come eviteremmo il Colosseo della Regione Lazio?
Innovazioni di tale portata non si fanno solo per una o due regioni. Il processo, una volta avviato, sarebbe inevitabilmente contagioso. Bisogna invece ritrovare nella lettura dell’art. 116 la dimensione regionale dell’interesse, legando il trasferimento di potestà legislative e funzioni amministrative a dimostrate specificità del territorio, e non solo a una maggiore efficienza gestionale, peraltro affermata apoditticamente, ed anzi smentita dalla prospettiva di un disordinato moltiplicarsi di apparati pubblici.

Il terzo punto è sulle risorse. Per molti versi siamo a zero. Rimane valida l’obiezione (di Tria) che il quadro dei costi non può essere determinato prima di sapere cosa si trasferisce. Lo stesso può dirsi per i fabbisogni standard, che però è acquisito non saranno stabiliti prima dell’approvazione delle intese. Quindi, si consolidano intese, potenzialmente non reversibili, senza sapere quanto costano e a chi? Partendo dalla spesa storica, che ormai una ampia documentazione prova in danno al Sud? Con privilegi fiscali e una prescrizione di invarianza di spesa per cui il guadagno di alcuni è fatalmente pagato da altri? Una operazione verità sui conti si impone prima di approvare le intese, non dopo.

La smettano Di Maio e Conte di dichiararsi a parole garanti della coesione nazionale, dell’unità del paese, del Sud. Perché non tirano le carte fuori dai cassetti blindati della ministra Stefani, consentendo una pubblica discussione? Si evince dall’appunto del Dipartimento affari giuridici e legislativi reso a Conte, e da anticipazioni di stampa, che le ultime bozze sono pessime non meno delle precedenti. Le pretese delle regioni non calano, e si conferma il separatismo nordista. E quindi Di Maio non parli di un piano per il Sud come se potesse bilanciare il regionalismo differenziato. Gli ricordiamo che i piani – come i governi – passano. Le riforme strutturali restano.

 

Il Manifesto

5.7.2019

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