Mese: agosto 2019

Appello No alle elezioni anticipate *

Appello No alle elezioni anticipate *

Dello scenario aperto dalla crisi di governo ciò cha a noi colpisce di più, per la drammatica superficialità con cui finora ha esortato al voto, è la posizione del Partito Democratico, attraverso la voce del suo segretario. Due domande. E’ nell’interesse di questo partito entrare nell’agone elettorale? E per quali particolari meriti dovrebbe essere premiato dagli elettori?Per la capacità di mobilitazione che ha mostrato negli ultimi mesi? Per la forza incalzante dell’opposizione al governo espressa nel Parlamento e nel paese? Per il fascino suscitato dalle sue proposte programmatiche? Per la forza della sua unità interna? Per la larga popolarità dei suoi potenziali candidati?

Seconda domanda. E’ nell’interesse dell’Italia andare alle urne? In tal caso la consegna del paese a questa destra barbarica sarebbe cosa certa, accresciuta nelle proporzioni probabilmente dal fatto che Salvini conserverebbe la postazione strategica del ministero degli Interni.

E allora, che cosa aspettiamo ancora per capire che l’Italia sta già precipitando   in una deriva autoritaria ? Che cosa deve fare e dire di più Salvini per essere creduto capace di portare il nostro paese ad una forma di stato semidittatoriale? Deve continuare a dire che vuole pieni poteri, deve tornare a umiliare il Parlamento, evitando di dar conto dei suoi traffici con la Russia, deve reiterare altre leggi incostituzionali, deve continuare a irridere e minacciare i giornalisti sgraditi, deve violare i trattanti internazionali, deve usare la ferocia del potere contro gli individui più disperati della terra, i naufraghi? A proposito dello svuotamento autoritario della democrazia   consideriamo puri esorcismi filologici i distinguo degli storici, pur legittimi, tra l’esperienza del fascismo e la situazione presente. La storia genera sempre l’inatteso, ma nulla assicura che esso non somigli o non sia peggio del passato.

Dunque noi esortiamo a rinviare le elezioni e dar vita a un governo di transizione che dovrebbe avere almeno due scopi. Il primo l’hanno messo bene in evidenza Tomaso Montanari e Francesco Pallante su Il Fatto (11/8) : una nuova legge elettorale proporzionale. Sarebbe davvero la via maestra per ristabilire finalmente un rapporto di comunicazione tra governanti e governati, si ridurrebbero tante zone di astensionismo, la ricchezza della cultura politica italiana sarebbe finalmente rappresentata in tutte le sue varie componenti, salterebbe la camicia di forza del maggioritario che ha mostrato il suo inoccultabile fallimento. Una crescita inattesa di democrazia. Anche in caso di vittoria elettorale del centro destra la preminenza di Salvini e della Lega nelllo schieramento verrebbe ridimensionata.

L’altro compito che si dovrebbe urgentemente svolgere – approfittando del tempo a disposizione- a cui chiamare tutte le persone di buona volontà, qualunque sia il partito di appartenenza, è una lotta senza quartiere contro l’autonomia differenziata. Ricordiamolo. La Lega da partito del Nord è diventato partito nazionale con Salvini perché è riuscito a trovare consenso tra le popolazioni del Sud. Ma le popolazioni meridionali sono state tenute all’oscuro del disegno secessionista della Lega, sono state deliberatamente ingannate e questo apre oggi un fronte di lotta di grande potenzialità a chi vuole sconfiggere elettoralmente e culturalmente Salvini. Occorre un grande lavoro di informazione e di chiarimento tra i cittadini. Ma è necessario trovare il linguaggio giusto, semplice, pur senza cadere nel plebeismo e dire ai meridionali e agli italiani tutti che la Lega ha in progetto non solo di emarginare il Mezzogiorno, ma di dividere la compagine unitaria dell’Italia. Un paese autoritario, ingiusto e diviso, è questo il modello di società proposto da Salvini. Occorre riempire i muri delle città e dei paesi del Sud di un unico manifesto, con una sola frase:<< Chi vota per la Lega tradisce il Mezzogiorno, condanna l ‘Italia alla divisione e al declino.>>

Piero Bevilacqua, Enzo Scandurra, Battista Sangineto, Tomaso Montanari, Francesco Pallante P Francesco Trane, Rossano Pazzagli, Alberto Ziparo, Enzo Paolini, Lucinia Speciale, Ignazio Masulli, Giuseppe Saponaro, Andrea Ranieri, Vezio De Lucia, Aldo Carra, Alfonso Gianni, Stefano Fassina, Giulia Rodano, Elettra Deiana, Luisa Boccia, Alberto Olivetti, Piero Di Siena, Anna Maria Bianchi, Paolo Gelsomini, Elena Spinelli, Antonio Castronovi, Carmelo Caravella, Luigi Vavalà, Ivo Mattozzi, Giuseppe Aragno, Francesco Santopolo, Quinto Borghi, Piero Caprari, Franco Novelli, Margherita Palmieri, Anna Solimini, Adriana Vallone, Luisa Marchini, Massimo Baldacci, Anna Maria Bianchi, Tonino Perna, Maurizio Acerbo, Paolo Favilli, Rossella Latempa, Massimo Veltri, Giorgio Sganga, Franco Novelli.

Hanno sottoscritto anche: Angelo Broccolo, Paride Leporace, Andrea Ghilarducci, Sandrino Fullone, Franco Cambi, Edina Regoli, Vincenzo Franciosi, Roberto Corsi, Maria Sepe, Franca Cavagnoli, Angelo Gelmini, Rosa Menduni, Giovanni Orsi, Maurizio Sbrana, Caterina Strambio De Castillia, Graziella Bertani, Moreno Biagioni, Gabriella Reboa, Erica Sereno, Angela Bergonzi, Maria Ricciardi Giannoni, Stefano Guarguaglini, Erik Rosset, Toni Baldi, Angelo Alonzo, Federica Misturelli, Liborio Mingoia, Tommaso Zaccheo, Anna De Benedictis, Gianfranco Castiglia, Giuseppe Pontrelli, Rosi Lubes, Teresa Trocino, Valentino Pace, Angelo Petrella, Adriana Abbamonte, Nicola Andriola, Nella Ginatempo, Giuseppe Cip, Vera Masoero, Silvia Acquistapace, Alberto Frau, Clara Amato, Mauro Bidoni. Marcello Mariella, Antonio Vitolo, Maria de Falco, Stefania Di Donato, Paolo Chiarelli, Pina Casella, Giuseppe Natale, Adriana Ricci, Giovanni Turano, Rita Fiorani, Renato Sala, Marina Boscaino, Martino Melchionda, Elena Rampello, Daniele Zangrossi, Isabella Temperelli, Virginia Piazza, Maria Antonella Sanna, Aldo Carra, Nicla Nati, Mauro Zanella, Nadia Conti, Celeste Zaccaria, Paolo Lombardi, Cristina Quaglio, Paola Pasquini, Mauro Annoni, Cinzia Favalli, Eugenio Camerlengi, Giacomo Risso, Antonello Murgia, Germano Zanzi, Patrizia Rossetti, Irina Casali, Giuseppe Barnato, Lidia Gilberti, Francesco Ciraco, Loredana Zorzi, Salvatore Minisci, Maurizio Bernardini, Nadia Ronchini, Domenico Bonometti, Giovanni Cizza, Lorenzo Viceconte,Silvia Pagano, Carlo Aiello, Tommaso Tedesco, Nadia Ronchini, Domenico Cantore, Paola Massaro, Alberto Sabato, Alessandro Martelli,Mario Viola, Liliana Ruffa, Cristina Quintavalla, Giuseppe Gallelli, Maurizio Schiavo,Marina de Rogatis,Elio Rindone, Giuseppina Natale, Maurizio Laezza, Enzina Sirianni, Patrizia Zavataro, Maria Grazia Illuzzi,Antonio Marotta.

* Le adesioni devono essere inviate a osservatoriodelsud@gmail.com

Riabitare l’Italia, o della Questione italiana di Sandro Abruzzese

Riabitare l’Italia, o della Questione italiana di Sandro Abruzzese

 Riabitare l’Italia, Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli 2018), è un libro che ha diversi pregi, ne sottolineo qui, per cominciare, due: un consuntivo dettagliato di anni di studi e ricerche multidisciplinari sull’argomento; l’attenzione a un altro modo di guardare la penisola che indica delle possibilità e delle strade concrete in termini di strategia della politica nazionale sui territori e di rapporti con le istituzioni locali.

Come scrive nell’introduzione il curatore Antonio De Rossi, attraverso l’inversione dello sguardo, il libro tenta di restituire una rappresentazione dell’Italia vista dai margini molto più profonda e veritiera della versione mediatica del Paese. Una prospettiva che innanzitutto vuol dire non fermarsi alla classica dicotomia nord-sud, per fotografare, come sottolineato da Cersosimo nel primo capitolo, un’Italia dei vuoti e dei pieni, fatta di varietà incredibili ma anche di divari abnormi, in cui la dimensione demografica, per esempio, svela l’incidenza delle cosiddette risorse umane sullo sviluppo: i territori che attraggono maggiormente giovani laureati nella fascia 25-39 anni segnano un fattore determinante nella crescita e nello sviluppo di un territorio. Basti dire, per dare una cifra, che “la percentuale di cittadini laureati sotto i 40 anni nella provincia di Bologna, Firenze, Triste e Milano è più del doppio dell’analoga incidenza che si riscontra nelle province di Imperia e Barletta-Andria-Trani”.

Tra l’Italia dei pieni e dei vuoti, dunque, cambia anche la dimensione economica e sociale, motivo per cui nelle aree vuote o semivuote (spesso relative al centro-sud, ma non solo) è più rischioso fare impresa, i servizi e le infrastrutture sono assenti o scadenti, insomma lo svantaggio di partenza per il cittadino come per l’attore economico si fa addirittura schiacciante. In questa situazione l’attuazione della Costituzione e i diritti di cittadinanza restano mero proposito astratto, si vive in assenza di equità, le persone sono legate alla lotteria del luogo di nascita, ricorda Cersosimo, e il divario sociale di questa Italia mostra un’asimmetria inaccettabile.

 

Se poi si tiene conto della varietà italiana, ecco che, sottolineano Carrosio e Faccini, alla natura policentrica del territorio italiano dovrebbe rispondere un’implementazione dei servizi di base: un piano per incidere sulla qualità della vita attraverso un innalzamento dei livelli di inclusione sociale. L’Italia interna, per intenderci, è un’area che racchiude all’incirca il 60 per cento del territorio italiano e il 52 per cento dei comuni. Questo vuol dire che 13 milioni di abitanti, prevalentemente delle zone alpine e appenniniche, hanno meno opportunità e servizi (occupazione, reddito medio, mobilità). La conseguenza è lo spopolamento e l’abbandono del territorio, che non vuol dire solo perdita della superficie agricola, bensì dissesto idrogeologico (si veda il capitolo di Piero Bevilacqua all’interno del volume), contrazione demografica, sottoutilizzo o degrado del patrimonio edilizio pubblico e privato, e nel lungo periodo impoverimento generale della popolazione.

 

Occorrono, lo ribadisce da tempo il gruppo riunito da Fabrizio Barca intorno alla Strategia nazionale per le aree interne, politiche orientate ai luoghi e livelli essenziali di cittadinanza. Dopodiché occorrerà lavorare sul ruolo “scardinatore” delle istituzioni centrali, che devono aprire e emancipare le elites locali, spesso chiuse nei privilegi delle loro prerogative. Si tratta di veri e propri “soggetti propulsori” da attivare sui luoghi, per dirla con Bonomi, che vengano coadiuvati dalla rigenerazione della rappresentanza e attraverso il rapporto con le istituzioni centrali.

Riabitare l’Italia, quindi, ha l’indiscutibile merito di riportare al centro del discorso elementi di solito relegati “nella penombra del discorso mediatico”. Il fatto è che si impoverisce una popolazione non solo per via dell’inarrestabile e antico esodo rurale e poi intellettuale, ma per la perdita del patrimonio storico, del saper fare artigianale, della qualità e specificità delle risorse primarie. Insomma, se ripopolare e riabitare nella sinergia tra nuove tecnologie e vecchi saperi è una strada, l’altra parte della medaglia, di cui nessuno o quasi vuole parlare, è la decompressione delle aree massicciamente urbanizzate, per ridisegnare il territorio secondo un assetto più equilibrato e sostenibile. Il punto poi, dicono esplicitamente Lanzani e Curci, è la quasi completa assenza di una politica nazionale e regionale che abbia la capacità di guardare al tutto, e non solo a settori specifici, per altro sempre slegati e miopemente parcellizzati.

In conclusione, rimandando ai numerosi contributi interni, tra cui Clemente, Bevilacqua, Sacco, solo per citarne alcuni, è opportuno sottolineare che l’Italia fragile, dei pieni e vuoti, produce anche sradicamento, migrazioni, sdoppiamenti, gemmazioni, nostalgia (si veda il capitolo di Teti), e con esse una sostanziale continua richiesta di ri-appaesamento, e che questi stati d’animo portano parte della cittadinanza al rancore, al voto anti-sistema, al nazionalismo di stampo etnico, alla rabbia dei cosiddeti luoghi dimenticati, a cui la politica nazionale pare rispondere – prova ne è la questione degli sbarchi nel Mediterraneo – con un sostanziale populismo xenofobo più o meno bipartisan.

 

Allora, sebbene sia auspicabile una riterritorializzazione della politica in grado di calarsi nelle diversità e articolarsi sulla storia dei luoghi, come ricorda Clemente, questo non può passare che per una parallela politica di omogeneizzazione dei livelli socio-economici e culturali del Paese: base e ossatura della nazione. Solo la ricomposizione o almeno l’attenuazione dello squilibrio italiano, rimettendo al centro la Costituzione, potrà assopire le istanze pseudo-identitarie, gli egoismi regionali, il degrado inarrestabile del linguaggio e della proposta politica della classe dirigente nostrana, di cui è esempio lampante il tentativo di secessione mascherata dell’attuale locomotiva economica del Paese (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), chiamata autonomia differenziata.

In definitiva, se si è guardato all’Italia sempre dal punto di vista urbano, una maggiore reciprocità prospettica, o, come dice Clemente citando Adorno, il centro visto dalla periferia, porta alla costruzione di una rete che per natura è policentrica e plurale. Si tratta di edificare il corpo democratico di un Paese e questo non può che darsi con un New deal dell’inclusione e della partecipazione, senza più margini né dimenticanze o veri e propri deliberati abbandoni.

 

Sandro Abruzzese

Ripartiamo dal Sud di Tonino Perna

Ripartiamo dal Sud di Tonino Perna

Se il nuovo governo targato Pd-M5S deve rappresentare una svolta reale rispetto al governo Conte, non basta cambiare i nomi, non è sufficiente, bisogna cambiare radicalmente la visione e le prospettive del nostro paese. Purtroppo, nei cinque punti elencati da Zingaretti, al di là della genericità, manca proprio un rovesciamento dell’approccio al modello di sviluppo del nostro paese : un’Italia che è diventata sempre più diseguale sul piano sociale e territoriale. Come ci ricorda anche l’ultimo Rapporto Svimez la diseguaglianza tra Nord e Sud è diventata una voragine che rischia di travolgere l’intero paese. Per questo è necessario ripartire dal Sud, non come un’appendice al programma generale come si è fatto per tanto, troppo tempo (la scuola, la sanità, i giovani, il Mezzogiorno, e bla bla bla…), ma mettendo la rinascita del Sud al centro di una strategia di politica economica, sociale, ambientale e culturale. Innanzitutto, lo dico brutalmente, per un calcolo politico che non si può eludere: togliere alla Lega il consenso che in pochissimo tempo ha conquistato nel Mezzogiorno, spiegando alle popolazioni meridionali come sarebbero stati depredati dall’autonomia finanziaria fortemente voluta da questo partito che rimane Lega Nord (anche se ha cambiato la maschera). Bisogna fare ogni sforzo affinché la Lega ritorni nei suoi confini storici che l’hanno generata alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Dovrebbero farlo in primo luogo tutti i cittadini meridionali che per decenni hanno subito, in silenzio, i pesanti insulti della Lega. Dovrebbe farlo il M5S che proprio nel territorio meridionale ha la sua base: ricordiamo che il successo del M5S è partito dalla Sicilia e che nelle elezioni politiche del 2018 nel Mezzogiorno ha superato il 40% dei consensi. Dovrebbe farlo anche il Pd se qualcuno ricordasse al segretario che fino a poco tempo fa i presidenti delle Regioni del Sud erano tutti targati Pd (ed ora rischiano di perderle tutte!).

Per questo serve una svolta nel breve e nel medio periodo. Immediatamente, attraverso un programma di assunzioni nella Pubblica Amministrazione in settori vitali dove il blocco del turn over ha causato danni ingenti: sanità, servizi sociali, Università, centri di ricerca, Comuni piccoli e medi, ecc. In secondo luogo attraverso un Piano nazionale che riguarda le “aree interne” che stanno subendo un pesante processo di spopolamento, di abbandono di terre fertili, di rischio idrogeologico crescente, di patrimonio edilizio sprecato. Ormai esistono studi e proposte circonstanziate su cui hanno lavorato da anni team di esperti (come quello presieduto da Fabrizio Barca), ma manca una strategia complessiva che, utilizzando i fondi europei e coordinando le proposte delle diverse regioni, debba includere anche la valorizzazione del lavoro dei migranti, unitamente a quello dei giovani disoccupati. L’agricoltura collinare e la pastorizia sarebbero morte senza i lavoratori immigrati, ma il valore del loro lavoro deve essere riconosciuto unitamente al loro inserimento sociale e alla dignità dell’abitare. Dobbiamo dirlo con franchezza: non basta annullare gli orrendi “decreti sicurezza”, bisogna pensare ad una vera politica dell’accoglienza, che non lasci più gli immigrati a marcire nei C.A.S. o in squallidi alberghi senza prospettive di vita e lavoro. Bisogna pensare a una programmazione dell’accoglienza che faccia i conti con la formazione dei migranti, l’avvio di veri processi di socializzazione e di inserimento lavorativo. In questa direzione ha molto senso pensare ad una politica di investimenti mirati alla rinascita dell’Appennino del Centro-Sud.

Infatti, in un vero programma di rinascita delle aree interne avrebbero possibilità di lavoro, giovani meridionali e immigrati, in tanti settori: restauro/recupero del patrimonio architettonico, sistemazione idrogeologica delle colline a rischio frane, bonifica e ripascimento dei corsi d’acqua dolce, sentieristica per il turismo escursionistico, arredo e abbellimento artistico dei borghi, ecc.   Senza ovviamente dimenticare un settore di punta come quello dell’agricoltura biologica (biodinamica e permacoltura) che vede il Mezzogiorno, a partire dalla Sicilia, al primo posto in Itaolia per quantità e qualità delle produzioni.

In questa nuova prospettiva, il Mezzogiorno può essere anche l’occasione per far fare un salto di qualità del nostro paese in campo ambientale. Pensiamo solo alle energie rinnovabili che hanno una potenzialità nel territorio meridionale solo in parte utilizzata, o alle aree protette nel Mezzogiorno (parchi nazionali, regionali, aree di riserva integrale) che rappresentano più della metà della superficie delle aree protette a livello nazionale, il cui contributo alla riduzione della CO2 andrebbe quantificato e fatto pesare sul piatto del Pil, e della sua falsa rappresentazione della ricchezza reale.

Pertanto, richiamando il titolo di un noto film del grande Troisi, potremmo dire: Ricominciamo da 3. Ovvero: Sud, Migranti, Ambiente.

Il Manifesto

23.8.2019

Perché l’emigrazione meridionale galoppa e non si fermerà di Tonino Perna di Tonino Perna

Perché l’emigrazione meridionale galoppa e non si fermerà di Tonino Perna di Tonino Perna

A differenza degli ultimi anni, il Rapporto Svimez 2019 presenta tre novità meritevoli di approfondimento. Si tratta del calo degli investimenti pubblici, del credito e del Pil. Ma soprattutto della galoppante emigrazione.

Non sorprendono tanto le variazioni percentuali di Pil del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord a cui, purtroppo, siamo abituati, il divario che aumenta: se il Pil nazionale è a zero, quello del Sud è già in recessione, una tendenza al ribasso che è ormai un dato di fatto dal 2008.

Le novità sono nelle le cause che determinano questo gap crescente.

Per la prima volta, in maniera diretta, la Svimez spiega la recessione meridionale con il divario di spesa pubblica: dal 2008 al 2018 si è registrata una caduta dell’8,6% nel Mezzogiorno contro un aumento dell’1,4% nel Centro Nord.

Come sappiamo il motore dello sviluppo economico del Mezzogiorno è stato ed è la spesa pubblica, non perché sia maggiore rispetto al Centro-Nord (come spesa pro-capite), ma in quanto sono più deboli gli altri settori, industria e servizi non tradizionali, rispetto al resto del paese.

Ed è scandaloso pensare che la parte più ricca del paese che gode già di una maggiore spesa pubblica punti oggi ad aumentarla ancora attraverso la famigerata “autonomia finanziaria differenziata”.

Un secondo dato che merita un commento è quello relativo ai prestiti bancari alle imprese nei primi quattro mesi di quest’anno: -8 per cento nel Centro-Nord e -12 per cento nel Sud.

Questo significa che malgrado il Quantitative easing , il fiume di liquidità immesso nelle nostre banche dalla Bce non basta da solo a rianimare l’economia perché le imprese, come ci ha insegnato Keynes, quando vedono nero il futuro non investono, anche se hanno mille incentivi o gli regali il denaro. E questo riguarda l’intero paese che oggi vive un momento di grande incertezza e mancanza di visione.

Un terzo dato, forse il più importante di questo Report, è quello che riguarda l’emigrazione meridionale definita vera emergenza nazionale.

Dal 2002 al 2017 sono emigrati oltre 2 milioni di meridionali, ed il dato è sottostimato dato che la Svimez registra solo i cambi di residenza mentre molti giovani meridionali mantengono per molti anni la residenza nel Mezzogiorno pur studiando o lavorando nel Centro-Nord.

Secondo una stima prudenziale dovrebbero essere almeno 2,5 milioni di meridionali emigrati a fronte in un flusso immigratorio decisamente più ridotto. Sono più i meridionali che emigrano dal Sud per andare a lavorare o studiare al Centro_Nord e all’estero che gli stranieri immigrati regolari che scelgono di vivere nelle regioni meridionali.

Nel solo triennio 2015-17 sono emigrati dal Mezzogiorno 387.871 unità contro l’arrivo di nuovi migranti dall’estero pari a 204.348 unità.

Se continua questo trend la popolazione meridionale al 2030 non arriverà a 16 milioni di abitanti contro i 20 milioni degli inizi di questo secolo.

Infine, una nota critica. L’approccio economicistico della Svimez non cambia malgrado nel dibattito politico e scientifico ci siano da anni altre priorità, a partire dall’emergenza ambientale e la qualità della vita che non può essere ridotta agli zero virgola di variazione del Pil.

Non è il divario economico tra Nord e Sud che è diventato insostenibile, ma la quantità e qualità dei servizi socio-sanitari, scolastici, universitari. Questo è un obiettivo politico irrinunciabile e riguarda il modo con cui lo Stato interviene nel Sud.

Se si riduce l’ospedale, la scuola, l’Università ad aziende che per sopravvivere devono farsi pagare dai cittadini di un determinato territorio, anche se povero e marginale, allora veramente l’Unità d’Italia diventerà carta straccia.

Il Manifesto 2.08.2019

 

Guzzo e i cantoni dei Brettii: la Calabria tra Magna Grecia, Annibale e Roma di Battista Sangineto di Battista Sangineto

Guzzo e i cantoni dei Brettii: la Calabria tra Magna Grecia, Annibale e Roma di Battista Sangineto di Battista Sangineto

I Brettii, gli italici che hanno occupato la Calabria fra la metà del IV ed il II secolo a.C., non hanno mai goduto di una buona stampa. Già nel 1502, Ambrogio Calepino, nel suo Dictionum interpretamentafissava questa precocissima communis opinio sui Bruzi: “brutii dicti, quasi bruti et obscoeni sint…”. Un perfido equivoco, Bruzi/bruti, sul quale hanno giuocato per secoli i detrattori, tanti, dei calabresi e della Calabria. Si è così consolidato uno stereotipo che, passando dagli spagnoli (addirittura Cervantes e Lope de Vega) e dai viaggiatori stranieri di tutte le epoche, arriva fino al positivismo lombrosiano ed all’incapacità di cogliere, archeologicamente, le tracce materiali dei Brettii fino agli anni ’60 del secolo scorso quando ancora, nelle pubblicazioni scientifiche, erano solo popolazioni anelleniche. Ci sono voluti gli anni ‘80 per far attribuire esplicitamente, in un rapporto di scavo pubblicato da Pier Giovanni Guzzo e Silvana Luppino, alcune tombe ai Brettii.

Guzzo pubblica, ora, un libro importante –Storia e cultura dei Brettii edito da Rubbettino-destinato a lasciare una impronta durevole nella storia degli studi dei popoli italici, dei Brettii e, più in generale, della Magna Grecia.  Un libro nel quale sono raccolte ed interpretate le ricerche archeologiche sui Brettiidegli ultimi tre decenni e si avanzano nuove e affascinanti ipotesi riguardo all’origine, all’organizzazione statuale, militare, economica e sociale di questo popolo.

Le ipotesi più affascinanti e innovative avanzate dall’autore riguardano l’etnogenesi dei Brettii e l’estensione del loro territorio. L’autore ipotizza che la maggior parte di essi discenda dalle popolazioni indigene di tradizione protostorica delle quali abbiamo iscrizioni in alfabeto acheo ed in lingua paleo-italica, che occupavano quasi tutto il territorio dell’attuale Calabria. I Brettii, dunque, non sono schiavi o discendenti dei Lucani che avevano occupato solo la porzione settentrionale della regione, come gli antichisti avevano concordemente ritenuto finora, ma italici che avevano innervato, a partire almeno dal V a.C., il sostrato etnico autoctono degli Enotri. I Brettii avevano rivendicato la loro autonomia, alla metà del IV a.C., occupando tutta la Sila, denominazione che gli antichi estendevano a tutta la complessa articolazione montuosa della Calabria, fino all’Aspromonte. Diodoro Siculo ci dice che i Brettiiproclamano l’autonomia nel 356 a.C. che sembrerebbe, però, solo l’anno più importante e conclusivo di un più che secolare processo. I Brettii formano un insieme del quale non si riesce, ancora, a riconoscere l’istituzione di una vera e propria federazione, anche se ci è tramandata dalle fonti storiografiche. Sulla scorta delle fonti archeologiche Guzzo ipotizza che essi si siano organizzati per “cantoni” indipendenti il cui insediamento è stato favorito dalla complessa e variegata articolazione geomorfologica della Calabria che ha fornito “utili vocazioni o disposizioni o inclinazioni o inviti che dir si voglia” (Gambi 1960) nelle epoche precedenti e successive.

  Uno dei motivi che rendono questo libro appassionante è il modo sciolto e felice con il quale l’autore, sulla base dell’accuratissima lettura ed interpretazione delle fonti letterarie, dipana il complicato racconto dei due secoli della traiettoria storica dei Brettii. Ci racconta come i Brettii cerchino, da subito, di allargare il loro territorio attaccando le città di tradizione magnogreca e conquistandone il territorio. Lo fanno, prima, combattendo contro Alessandro il Molosso, poi, alleandosi ad Agatocle e, ancora dopo, combattendo quasi fino alla fine contro Pirro, ma dovendo, infine, cedere ai romani gran parte della Sila. L’autore ci guida, con piglio autorevole ma lieve, attraverso le vicende non sempre chiare che portano iBrettii -dopo la sconfitta di Pirro nel 272 a.C., tornante storico fondamentale per la Magna Grecia- ad allearsi, a volte, con Roma, ma, a volte, con i suoi nemici. Secondo Tito Livio, alla notizia della battaglia di Canne, combattutasi nel 216 a.C., tutti i Brettii, esclusi i petelini ed i cosentini, dall’alleanza forzata con Roma, passarono con Annibale. Le vicende della seconda guerra punica, svoltasi in gran parte nei territori calabresi, sono ingarbugliate perché segnate da frequenti e repentini capovolgimenti delle alleanze, soprattutto da parte dei Brettii. Questo comportamento altalenante è, infatti, uno degli elementi che fanno ipotizzare all’autore che essi non avevano una struttura politica federativa e che, di conseguenza, i rapporti fra romani e Brettii, anzi sarebbe meglio dire singoli cantoni brettii, sono stati differenziati e mutevoli. Con la definitiva sconfitta di Annibale nel 202 a.C., a Naraggara, i Brettii, che erano venuti alla luce della storia con azioni militari, cessano la loro esistenza come popolo proprio con la violenza. I romani, agli inizi del II a.C., deducono, nella regione che Augusto chiamerà Bruttii, quattro colonie, centuriano territori, costruiscono strade, ampliano i porti romanizzando pienamente la regione i cui abitanti di condizione libera, a seguito della lex Iulia de civitate del 90 a.C., diventano tutti cittadini romani.

Una complessa parabola storica consumatasi in pochi secoli, quella dei Brettii, ma che ora, grazie a Piero Guzzo, è stata riportata alla luce, pur conservando angoli problematici, ma, anche, meno adoperabile per inaccettabili rivendicazioni identitarie mitopoietiche o recriminazioni metastoriche antiromane.

 

Alias – Il Manifesto

28 luglio 2019