“Gioia Tauro, la siderurgia mancata parla di Taranto e Bagnoli” di Tonino Perna e Giuliano Santoro

“Gioia Tauro, la siderurgia mancata parla di Taranto e Bagnoli” di Tonino Perna e Giuliano Santoro

C’è un pezzo di Sud che costituisce una specie di ucronia, una catena di eventi alternativa rispetto a quella di Taranto, con un Meridione che si sottrae agli altiforni. La storia di Gioia Tauro e della piana che doveva ospitare un’industria siderurgica come Taranto e Bagnoli non è priva di conflitti e contraddizioni. Quella che qui raccontiamo non è una vicenda a lieto fine, ma contiene e rimescola molti degli elementi che compongono la storia dell’Ilva prima e di Arcelor Mittal poi tra i due mari di Taranto: le politiche industriali e i fondi per lo sviluppo del Mezzogiorno, la crisi petrolifera e l’ingresso nella competizione globale del nuovo millennio, lo sviluppo insostenibile e l’arretratezza da cui emanciparsi, l’avvicendarsi tra investitori pubblici e profittatori privati di ogni risma. Tutto comincia all’indomani della rivolta di Reggio Calabria, nell’estate del 1970. Il governo di centrosinistra presieduto da Emilio Colombo vara un pacchetto di misure per il sostegno all’industria in Calabria e Sicilia: in tutto si tratta di 1300 miliardi di lire. Reggio Calabria, la città alla quale è stato sottratto il titolo di capoluogo di regione, è destinata ad essere ricompensata con la nascita di un polo industriale. Per capire la temperie, bisogna ricordare che il primo a prendere soldi pubblici è l’ingegnere Angelo Rovelli detto Nino, presidente del gruppo chimico Sir. Rovelli acquista dai giapponesi un brevetto per ricavare bio-proteine dal petrolio. Avrebbe dovuto consentire all’economia nazionale di sopperire al deficit di soia, bene che allora importavamo dagli Usa. Solo che il processo basato sulla biosintesi, è insicuro, considerato cancerogeno. Eppure, Rovelli costruisce la sua fabbrica a Saline, sulla punta ionica dello stivale. L’altissima ciminiera in mattoni giace ancora lì, mai utilizzata. Nel 1974 la Liquichimica inaugura e chiude i battenti nel giro di due mesi e i settecento lavoratori che avrebbe dovuto impiegare finiscono in cassa integrazione perpetua: una forma degenerata di reddito di cittadinanza ante litteram. Nel mezzo del sogno industriale sopraggiunge lo shock petrolifero e il prezzo del combustibile nero si moltiplica del 400%. Nel 1975 il ministro del bilancio con delega agli interventi straordinari nel Mezzogiorno è Giulio Andreotti, lo affianca come sottosegretario un certo Salvo Lima. Andreotti arriva nella piana di Gioia Tauro e sceglie la data simbolica del 25 aprile per posare la prima pietra del nuovo stabilimento siderurgico, per il quale si bandisce una prima gara d’appalto di cento miliardi di lire, cifra spropositata per l’epoca. «Comprendo la sfiducia dei calabresi perché alle prime pietre spesso non sono seguite le seconde», dice Andreotti. Nel suo discorso, il ministro non menziona affatto la criminalità organizzata e al rinfresco che segue la cerimonia vengono avvistati anche esponenti della famiglia ‘ndranghetista dei Piromalli. Quattro anni prima, nel pieno dei moti di Reggio, proprio a Gioia Tauro la dinamite aveva fatto deragliare il Treno del Sole, il direttissimo che da Palermo arrivava fino a Torino. Erano morte 6 persone ed altre 66 erano rimaste ferite. Molte inchieste hanno ipotizzato che quell’attentato fosse parte della «strategia della tensione» che intrecciava ‘ndrangheta, servizi segreti e terrorismo neofascista. A dispetto della battuta di Andreotti, la seconda pietra dell’acciaieria di Gioia Tauro non verrà mai deposta. In compenso proseguiranno i lavori per la costruzione del porto propedeutico alla grande fabbrica. Per fargli spazio si devono scavare per 12 chilometri nell’entroterra, sbancare trecento ettari di ulivi e agrumeti per costruire 140 ettari di strade. L’effetto della crisi petrolifera si ripercuote anche sull’industria dell’auto, generando la prima crisi del settore del dopoguerra, con effetto domino nella domanda di acciaio. È il periodo in cui già l’Italsider di Bagnoli opera in perdita, nonostante manchino più di venti anni alla sua chiusura. Nel 1979 Enel propone che Gioia Tauro nasca il più grande impianto a carbone d’Europa, composto da quattro centrali per una produzione complessiva di 2640 megawatt per un investimento totale di 5625 miliardi di lire. Questa volta il consenso non è unanime. Per la prima volta al Sud non si cede al ricatto, sorge un movimento che rifiuta lo sviluppo in cambio della distruzione dell’ambiente e del benessere delle popolazioni locali. Legambiente, Comitato ambiente e territorio e 30 sindaci della piana trainati da quello di Polistena, l’ex bracciante comunista Girolamo ‘Mommo’ Tripodi culmina con la convocazione in dodici comuni di un «referendum autogestito». L’Enel demorde. Rimane solo il porto che per un breve periodo diventa il più importante del Mediterraneo, poi inseguito dalla competizione degli approdi della sponda sud, comincia un lento declino. Si ritorna alle origini. Mentre Taranto passa dallo stato ai Riva e Bagnoli viene smontata pezzo a pezzo per essere venduta ai cinesi, sulla piana rimangono le arance, vendute alla grande distribuzione a 12 centesimi di euro al chilo, e i kiwi (la quotazione si aggira sui 20 centesimi), la cui coltivazione costituisce la metà del totale italiano. La ricchezza, basata sullo sfruttamento selvaggio, la violenza dei caporali e le condizioni di vita infauste delle baraccopoli, sono i migranti, soprattutto africani, che lavorano nei campi. Attorno a loro si muovono esperimenti di reti di commercio alternativo, mentre la ‘ndrangheta ha spostato il suo obiettivo dall’intermediazione tra piccoli produttori al grande business della merce globale più redditizia della storia del capitalismo: la cocaina. Il miraggio dell’acciaio di Gioia Tauro è sfociato in questo mix di locale e globale, schiavitù pre-moderna e mobilità post-moderna che il teorizzatore dell’economia-mondo Giovanni Arrighi, che in Calabria visse, studiò e insegnò proprio negli anni in cui l’industrializzazione pareva dietro l’angolo, aveva riconosciuto in diversi scritti. Un contesto dal quale nessuna forma di riconversione potrà sfuggire.

 

Il Manifesto

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