Mese: marzo 2020

Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017. – di Gianfranco Viesti Una forte riduzione con crescenti disparità territoriali

Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017. – di Gianfranco Viesti Una forte riduzione con crescenti disparità territoriali

L’emergenza coronavirus sta mettendo in luce le conseguenze del grave sotto-finanziamento del sistema sanitario nazionale (SSN), documentato da molte fonti; da ultimo, con semplicità e chiarezza da Reforming (2020). Sono da tempo disponibili molte analisi economiche del SSN, anche nelle sue articolazioni territoriali: si vedano per tutte quelle, recenti, dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB 2019) e della Fondazione Gimbe (2019). Esse si concentrano particolarmente sull’analisi della spesa corrente, che in sanità è della massima rilevanza sia per il personale sia per gli acquisti di beni (farmaci) e servizi. Convergono nel sottolineare il progressivo definanziamento del SSN; ricordano i meccanismi di riparto territoriale delle risorse e i bilanci sanitari regionali, sottolineando la più difficile situazione delle regioni del Sud, in termini finanziari e di esiti delle cure. In molti casi esse comprendono anche analisi sulle dotazioni strutturali del SSN e delle sue articolazioni regionali, in particolare in termini di posti-letto; anche da questo punto di vista vengono sottolineate crescenti differenze territoriali, soprattutto per gli effetti di riduzione della spesa indotti dai Piani di Rientro (ad esempio Aimone Gigio et al., 2018).
Può essere utile affiancare a questo vasto corpo di analisi una riflessione specifica sulla spesa in conto capitale in sanità, nell’insieme del paese e nelle Regioni. Questa analisi è possibile grazie al sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), che rende disponibili dati di cassa sulla spesa per investimenti pubblici in sanità, dal 2000 in poi, in valori costanti e consolidati per livello di governo (la spesa finale è effettuata per la quasi totalità dalle Aziende Sanitarie Locali). La figura 1 mostra il totale nazionale degli investimenti pubblici in sanità, a prezzi del 2010, fra il 2000 e il 2017; essi sono ammontati complessivamente a 47 miliardi di euro.

Il profilo della spesa è costante fino al 2007 intorno a 2,8 miliardi; crescente per un breve periodo fino al 2010, anno in cui tocca i 3,4 miliardi. Poi fortemente decrescente, fino al valore minimo di 1,4 miliardi nel 2017, che è del 60% più basso rispetto al 2010. Dal 2012 la spesa è inferiore a quella dell’anno 2000. Un vero e proprio tracollo. Stando al rapporto annuale della Corte dei Conti (2019, p. 244) sulla finanza pubblica, che analizza i
bilanci delle ASL, si tratta di un livello molto inferiore, nel 2016, a quello degli altri paesi europei. “In Italia solo lo 0,3% del Prodotto è destinato ad accumulazione, contro importi più che doppi nelle principali
economie europee: lo 1,1 della Germania, lo 0,6 della Francia. Superiori anche Spagna e Portogallo con rispettivamente lo 0,7 e lo 0,6”.
Ma di che parliamo? Dallo stesso Rapporto si può calcolare (dalla pagina 243, medie quadriennali 2015-18 a prezzi correnti), la composizione tipologica degli investimenti, che appare piuttosto qualificata in senso scientifico-tecnologico, e quindi di grande rilevanza per la qualità delle cure. Infatti, se per il 40% si tratta di terreni e fabbricati e per il 17% di mobili, automezzi e altri beni materiali, quasi un terzo della spesa (32%) è per attrezzature scientifiche e sanitarie, il 7% per impianti e macchinari e il 5% per immobilizzazioni immateriali.
La spesa per investimenti in sanità in questi 18 anni è stata poi molto squilibrata territorialmente.
Dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno; in particolare in quest’ultima area, che nella media del periodo pesa per il 35% della popolazione italiana, gli investimenti sono stati pari al 17,9% del totale. In termini pro-capite, a fronte di una spesa nazionale media annua di 44,4 euro, quella nel Nord-Est è pari a 76,7 (cioè di ben tre quarti più alta), mentre quella nelle Isole è pari a 36,3 euro e nel Sud Continentale a 24,7: poco più della metà della media nazionale. Al Centro e al Nord-Ovest si è stati molto vicini alla media. La tabella 1 mostra il dettaglio regionale, interessante anche per le sensibili differenze interne alle macroaree territoriali.

Sono evidenti grandissime differenze. Colpiscono i valori straordinariamente alti del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta, i cui cittadini hanno una disponibilità di strutture e servizi sanitari molto maggiore di quello degli altri italiani. Molto più alti della media nazionale sono anche i valori degli investimenti in Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. Diverse regioni hanno valori simili a quelli medi, anche se un po’ inferiori in Umbria, Abruzzo e Sicilia. Vi è invece un gruppo di regioni con livelli di investimento intorno alla metà della media nazionale: sono, come si vede, Puglia, Molise, Campania e Lazio. Impressionante, infine, il dato della Calabria: i suoi meno di 16 euro pro-capite significano una intensità di investimento nella sanità che è stata quasi 12 volte inferiore a quella della Provincia Autonoma di Bolzano e quasi tre volte inferiore alla media nazionale. Per quanto si può vedere dalla media dell’ultimo quadriennio sulla composizione tipologica degli investimenti, non paiono esservi grandi differenze territoriali: elaborando i dati della tabella a pagina 243 di Corte dei Conti (2019), si può calcolare che nel Mezzogiorno (Sud e Isole) è maggiore rispetto al valore nazionale il peso delle attrezzature sanitarie e scientifiche (38%) e un po’ inferiore quello dei macchinari (5%) e delle immobilizzazioni immateriali(4%).
Può essere interessante comparare i flussi degli investimenti con il livello delle dotazioni e dei fabbisogni infrastrutturali delle diverse regioni. Anche questo è un terreno molto complesso, data la difficoltà di stabilire con precisione indici di dotazione infrastrutturale. Ad esempio la Corte dei Conti (2019) segnala che nella comparazione internazionale delle dotazioni di attrezzature sanitarie italiane non vanno considerati solo i livelli ma anche l’obsolescenza; che naturalmente tende ad aumentare in periodi di calo complessivo degli investimenti.
Un confronto di massima può essere compiuto utilizzando l’indicatore sintetico di divario di fabbisogno infrastrutturale delle regioni italiane calcolato per il 2006 dalla Fondazione CERM su dati Health for All, elaborando 19 diverse variabili (Banca Intesa, “Il mondo della salute fra governance federale e fabbisogni
infrastrutturali, Milano, 2010, pag. 74). Il quadro al 2006 mostrava una dotazione maggiore nelle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud, con le regioni del Centro su livelli simili a quelle del Nord. Tale quadro può essere confrontato con l’intensità degli investimenti pubblici (espressi in pro-capite) per il 2007-17. Da questa comparazione vengono esclusi il Molise, che aveva al 2006 un indicatore di dotazione molto più alto delle altre regioni e Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, che, come appena visto hanno potuto realizzare investimenti in misura molto maggiore rispetto al resto del paese. La Figura 2 mostra in istogramma le dotazioni 2006 (posta pari a 100 la regione meglio dotata e cioè l’Umbria) e in linea continua gli investimenti pro-capite 2007-17 (in numero indice, posta pari a 100 la regione con il flusso maggiore e cioè la Toscana).

Appare evidente che, in linea generale, l’intensità di investimento è stata maggiore nelle regioni che avevano già una maggiore dotazione. Vi è tuttavia l’eccezione rappresentata da Umbria e Lazio, con alte dotazioni e bassi investimenti, e quindi con un deterioramento della posizione relativa: una sorta di “scivolamento verso Sud” di due regioni centrali. Colpiscono i dati particolarmente negativi di Calabria e Campania, e l’andamento leggermente migliore, nel quadro meridionale, di Basilicata e Sardegna.
Agli specialisti del settore e agli esperti dei complessi meccanismi di finanziamento della sanità, spetta dire quanto ciò dipenda dai criteri di riparto delle risorse e quanto da scelte delle amministrazioni regionali, o dalla difficoltà di realizzare investimenti pur avendo disponibili le relative risorse. Vale naturalmente ricordare che diverse regioni italiane, prevalentemente nel Mezzogiorno, sono state sottoposte negli ultimi anni ai meccanismi finanziari determinati dai “Piani di rientro”, con conseguenze molto serie sulle capacità complessive di spesa (Aimone Gigio et al., 2018).
L’obsolescenza delle strutture, il sottodimensionamento e l’invecchiamento delle apparecchiature di diagnosi e trattamento ha ricadute sull’attività e sulla spesa corrente: erogare gli stessi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) con una minore dotazione strutturale costa di più a qualità inferiore. Non a caso nella legge 42/2009 sul federalismo fiscale, la perequazione infrastrutturale (poi non attuata, neanche nella misurazione delle dotazioni) era strettamente legata alla capacità di erogare servizi con fabbisogni standard. Appare verosimile poi che queste tendenze, avendo aggravato le disparità di dotazioni fra le regioni, abbiano concorso a ridurre l’efficacia dei sistemi sanitari di alcune grandi regioni del Sud, contribuendo alla mobilità in uscita dei pazienti; mobilità che, rappresentando un costo per le regioni di provenienza, può a sua volta renderne più stringenti i vincoli finanziari.
Vale ricordare che la Corte dei Conti (2019) segnala che “diverse iniziative sono state assunte nell’ultimo biennio per procedere ad un potenziamento delle dotazioni tecnologiche ed infrastrutturali del sistema sanitario”, di cui il Rapporto dà conto. Tuttavia sono emersi con chiarezza notevoli fabbisogni di investimento ancora senza copertura. Una analisi del 2018 del fabbisogno di edilizia sanitaria lo quantifica in 32 miliardi di euro nell’arco temporale 2019-2045; il fabbisogno di investimenti in tecnologie sanitarie per il solo triennio 2018-20 ammontava a 1,5 miliardi, principalmente per sostituzioni di macchinari. Le necessità di investimenti in tecnologie appaiono (Corte dei Conti 2019, pag. 250) non a caso molto maggiori della media nazionale in Basilicata, Calabria e nelle Isole, oltre che in Friuli Venezia Giulia e Umbria.
Appare naturalmente auspicabile, anche – ma non solo – alla luce della drammatica diffusione epidemica che stiamo vivendo in questi giorni, che nei prossimi anni vengano dedicate risorse molto maggiori per gli investimenti nel SSN; e che essi mirino a potenziare le strutture in tutte le regioni ma con una attenzione particolare per quelle meno dotate: che come si è visto, sono state particolarmente penalizzate quantomeno nell’ultima decade.

Rathenau e Keynes, due grandi voci sull’economia di guerra Economia di guerra . – di Tonino Perna

Rathenau e Keynes, due grandi voci sull’economia di guerra Economia di guerra . – di Tonino Perna

Le analisi dei due studiosi sui cambiamenti prodotti dalle guerre mondiali, che in pochi anni facevano maturare ciò che avrebbe dovuto accadere in qualche secolo di storia.

Sentiamo dire che «siamo in guerra» contro un nemico invisibile e terribile. Anche la Confindustria parla esplicitamente di «economia di guerra» e prevede una perdita di 100 miliardi di euro al mese. Ma, possiamo definire «economia di guerra» questa stretta alle attività produttive?

Si tratta, in effetti, di una strana guerra che non vede esseri umani schierati gli uni contro gli altri, ma tutti i paesi del mondo lottare, spesso da soli, contro un nemico comune. E il patrimonio nazionale non viene distrutto dalle bombe, ma può essere distrutto dalla chiusura dei mercati, a causa della la pandemia.

La letteratura sull’economia di guerra è piuttosto avara e per addetti ai lavori. Spiccano due nomi prestigiosi che se ne occuparono, analizzandone le conseguenze e le opportunità nel periodo post-bellico: Walter Rathenau e John Maynard Keynes.

Walter Rathenau, grande intellettuale tedesco, fu il primo economista nel ‘900 ad occuparsene. Prestigioso manager della grande industria tedesca e ministro della ricostruzione e poi degli esteri nella Germania di Joseph Wirth nel 1921-22, Rathenau ci ha lasciato alcune importanti analisi sulla sua esperienza diretta durante la prima guerra mondiale. Due gli insegnamenti fondamentali, e le indicazioni che ne derivano («L’economia nuova», Einaudi, 1976).

Il primo è il crollo della globalizzazione dei mercati: «…le esperienze di guerra ci hanno insegnato a produrre dentro il nostro paese un gran numero di prodotti importanti; ma d’altra parte noi, che eravamo abituati a distribuire il lavoro degli operai salariati in vista del mercato mondiale, avremo bisogno nuovamente di un grandioso rivolgimento».

Oggi assistiamo ad uno scenario simile e dovremmo dedurne che lo spazio del mercato comune europeo diventa ormai essenziale e strategico, e che l’Unione europea deve fare un salto di qualità nella sua integrazione istituzionale, economica e sociale. Altrimenti non scomparirà solo la Ue, ma imploderanno i singoli paesi.

Il secondo contributo riguarda il ruolo dello Stato: « …la nostra economia di guerra… offre appunto la dimostrazione, se la si osserva rettamente, che i sistemi apparentemente più immutabili possono essere trasformati non in una sola, ma in molte maniere, e che lo Stato, in quanto esso sia opportunamente diretto, può coi suoi organi e le sue istituzioni adattarsi e muoversi efficacemente in ogni campo del lavoro». (pag. 61). In breve, quello che coglie Rathenau nell’analisi dell’economia di guerra è che essa fa emergere l’opportunità di costruire una «Economia Nuova», fondata su un allargamento del mercato locale, una minore dipendenza dall’export, e un ruolo di pianificazione e di regista da parte dello Stato. Concludendo che «la guerra ha fatto maturare in pochi anni ciò che avrebbe dovuto maturare in qualche secolo» (pag. 68).

Nella famosa Teoria Generale di John Maynard Keynes troviamo, nella parte finale, un saggio dal titolo “How to Pay for the war” (1940), in cui il grande economista si pone il problema cruciale di chi e come finanziare l’enorme sforzo bellico. Anzi, il Capitolo IV ha un titolo provocatorio «Si può fare pagare la guerra ai ricchi?». La risposta di Keynes è chiara: non è sufficiente far pagare solo le classi medie e alte, occorre uno sforzo anche da parte dei redditi inferiori ai 250 sterline l’anno, che era il reddito percepito allora dal 88% della popolazione.

Solo che per non colpire la classe lavoratrice, già con un basso livello di consumi, Keynes suggerisce che venga introdotto il salario differito, ovvero che una parte di salario sottratto dalle nuove imposte venga restituito dopo la guerra.

Partendo dal problema di fondo «come finanziare lo sforzo bellico», Keynes, nell’anno in cui la Gran Bretagna entrava nella seconda guerra mondiale, cerca di trovare una soluzione che concili la ripartenza dell’economia post-bellica con la giustizia sociale concludendo sulla stessa scia di Rathenau: «Riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo» (pag.563).

Ed è questo il messaggio che oggi sta arrivando da varie parti, e che su questo giornale hanno espresso, tra gli altri, Guido Viale e Piero Bevilacqua, sul piano soprattutto della grande occasione per una conversione ecologica della nostra economia. Ma senza una redistribuzione dei redditi, senza giustizia sociale, la guerra contro il Corona-virus la vinceranno ancora una volta gli speculatori di Borsa, i rentier, i privilegiati da questo modo di produzione.

Il Manifesto
(Immagine riportata da Il Manifesto)

Ambiente e pandemia il drammatico connubio della pianura padana Covid-19. – di Piero Bevilacqua

Ambiente e pandemia il drammatico connubio della pianura padana Covid-19. – di Piero Bevilacqua

Sono numerosi e attendibili gli studi che dimostrano il dramma dell’avvelenamento del territorio oggi più colpito dal contagio virale che attacca i polmoni.

Ma perché presocché nessuno, né i medici, né il ministro della Sanità, né i soliti commentatori televisivi, esperti su tutti i temi emergenti, né i giornalisti, tentano di abbozzare una risposta alla domanda, che ormai tutti si pongono: perché tanta mortalità in Lombardia?

Un interrogativo al quale per la verità qualcuno, nei siti in rete, comincia a dare risposte nell’unico senso plausibile: le condizioni ambientali della Pianura padana.

E’ solo per il cronico analfabetismo ecologico degli intellettuali italiani, per la cultura tutta politica o politico-economica dei giornalisti, per la ghettizzazione storica degli specialismi medici, che dai tempi di Cartesio hanno separato, per tutti i secoli della modernità (salvo parentesi italiane degli studiosi della malaria), il corpo dell’uomo e le sue malattie dagli habitat in cui vivono? O è per non mettere in discussione l’assetto economico su cui è stato edificato il benessere sociale di quelle regioni?

Eppure un po’ di attenzione ai problemi del nostro ambiente avrebbe dovuto subito indirizzare le osservazioni nel verso giusto.

Chi segue anche da dilettante questi fenomeni sa che da anni una nube tossica sosta sul cielo della pianura padana. Oggi le cose sono migliorate, grazie alla riduzione dei grandi inquinanti negli scarichi delle auto. E tuttavia non abbastanza, al punto che oggi la grande nuvola di smog staziona ancora su quell’area.

Come informa Jacopo Giliberto, su un sito in rete, col report Inquinamento, foto shock (pianura padana con smog) vista dal satellite. La foto riportata è stata scattata dai satelliti europei della missione Copernicus Sentinel, impegnati a misurare, nel periodo tra gennaio e aprile di quest’anno gli ossidi di azoto nell’atmosfera.

L’articolo ricorda correttamente che la nostra più grande pianura ha condizioni meteo-climatiche e geofisiche uniche in Europa, e che gli inquinamenti dominanti sono dovuti agli allevamenti intensivi, alla concimazione chimica dei campi, ai fumi della fabbriche, alle emissioni dei motori diesel.

Mancano per la verità, in questo sintetico quadro, gli inquinanti atmosferici che non sono affatto scomparsi nelle città con la riduzione dello smog e che sono in aumento: l’ozono e il particolato M5 ed M10, le minute particelle che si depositano nei polmoni dei cittadini europei.(A.Ballarin Denti,

L’aria che respiriamo, una questione politica, «Vita e pensiero» 2008, n.1) E allora, cosa ci dicono queste informazioni sull’alta mortalità della Lombardia? Un contributo prezioso lo da il sito InfoData Il Sole24ore, nel quale si osservano i grafici relativi alle malattie influenzali dello scorso anno, sui Casi gravi e decessi per regioni.

Ebbene, emerge con nettezza che in cima ai casi con decessi sta l’Emilia-Romagna, seguita dal Piemonte, dalla Lombardia e dal Veneto. Agli ultimi posti in ordine decrescente, (a parte Trento e Bolzano, con pochi casi, e l’Umbria e l’Abruzzo senza morti) stanno la Calabria, la Puglia, la Sicilia e la Sardegna. Il commento ai grafici riporta una indicazione che convalida la nostra tesi: “La Lombardia è stata la regione in assoluto più colpita, con 138 casi gravi, anche se la porzione dei decessi è fra le più basse d’Italia”.

In questa regione, dove esiste il più avanzato sistema sanitario del Paese – e personale medico e paramedico di primissimo ordine, come possiamo ammirare con gratitudine in questi giorni – sono stati salvati più pazienti, ma su una popolazione che tende ad ammalarsi in misura incomparabilmente più estesa degli altri italiani.

Oggi il Covd19 colpisce cittadini dai polmoni compromessi da decenni di smog. Drammaticamente significativo il caso opposto della Calabria, dove a prendere l’influenza virale sono in pochi, ma i morti sono addirittura la metà degli ammalati.

Documento doloroso di una disparità intollerabile, che accusa le classi dirigenti nazionali e regionali.
Ebbene, questi dati non ci consolano e oggi servono a poco. Ma sono indispensabili per l’immediato futuro, per ripensare con radicale severità lo sviluppo capitalistico dominante.

E cade qui a proposito un po’ di cronaca. Il 17 sera, dopo aver assistito al vano tentativo di Giovanni Flores, nella trasmissione Tv Di martedì, di avere dai suoi ospiti qualche risposta sulle ragioni dell’alta mortalità lombarda, sono passato al dibattito che si svolgeva con Bianca Berlinguer, alla trasmissione Carta Bianca. Pochi minuti per raccogliere una vera perla del mio vecchio amico Massimo Cacciari

Un intellettuale, al netto delle cantonate politiche, sempre al di sopra di una spanna dalla media, per ampiezza di visione. Ebbene, nel lasciarsi andare a un programma di massima per il futuro dell’Italia, tra tante cose sagge, si è lasciato scappare il punto programmatico di una organizzazione della società secondo stretti “criteri aziendali”. Ma se è proprio questo criterio che sta conducendo non l’Italia, ma il mondo intero, nel cul de sac di una crisi ambientale forse irreversibile, che ci renderà sempre più esposti alla serie di pandemie prossime venture?

Il Manifesto
(Immagine riportata da Il Manifesto)

Titolo V e pareggio di bilancio, bestie nere del welfare. – di Enzo Paolini

Titolo V e pareggio di bilancio, bestie nere del welfare. – di Enzo Paolini

Abbiamo già detto dei guasti enormi provocati dalla sgangherata riforma del titolo V della costituzione con la regionalizzazione – tra l’altro – del servizio sanitario.
Noi lo dicemmo già in quel tempo : l’esigenza sbandierata come “politica” di avvicinare il modo di prestare cure ed assistenze alle concrete e peculiari necessità dei territori e dei cittadini che li abitano era uno sbaglio prima che una bugia (da tempo smascherata e tollerata ) che oggi però presenta il suo conto in termini di inadeguatezza ed insufficienza.
In realtà rispondeva alla volontà predatoria di creare nuovi e più penetranti centri di potere e di formazione/ imposizione di consenso elettorale e di formazione di enormi ed incontrollati flussi finanziari senza alcun riguardo agli interessi dei cittadini che avrebbero meritato ( avendolo pagato con le tasse) un sistema sanitario – e connessi circuiti di ricerca e produzione- in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza. Ma la politica era più attenta alla nomina di direttori generali ed agli appalti truffa più che alla implementazione di un vero servizio universale e solidaristico per tutto il paese e per cittadini uguali indipendentemente dalla regione in cui si trovano.
La realtà si è incaricata di dimostrare questa solare verità .
La riflessione ci porta ancora più indietro a considerare che la tragica inadeguatezza strutturale che oggi constatiamo e’ figlia della subcultura politica della classe dirigente degli ultimi venti anni . Quella dei “ nominati” ,non più legati ai cittadini elettori ma alle agenzie di rating ed alla globalizzazione . E siccome tutte le matasse hanno un bandolo e’ quello che occorre cercare per poter capire . Il bandolo e’ la sciagurata revisione dell’art 81 della costituzione che nella nuova stesura impone il pareggio di bilancio .
Spacciata nel 2012 – non importa chi era al governo, l’hanno votata quasi tutti- per una norma virtuosa era ,in realtà , il mezzo per dichiarare recessivi rispetto ai mercati ,alla logica iperliberista e “aziendalista”, i diritti fondamentali , quelli che i costituenti avevano previsti in costituzione e dichiarati dovuti e pretendibili dai cittadini senza “ corrispettivo” – scuola ,ambiente e sanità per intenderci- perché assicurati a tutti ,indistintamente , mediante il prelievo fiscale proporzionale e progressivo ( chi ha di più paga questi servizi anche per chi ha di meno) .
Diritti “costosi”, ed infatti previsti a carico dello Stato , perché i “ricavi” da essi prodotti non sono inscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto ,essendo fatti di cultura senso della comunità , conoscenze,benessere, in un ideale ma ben percepibile ,bilancio istituzionale e politico.
Ma la storia e’ che il parlamento del 2012 totalmente impregnato degli interessi della grande finanza mondiale ed incapace di opporre ad essa la visione di un equo stato sociale, voto’ la modifica con una maggioranza tale da rendere impraticabile anche l’eventuale referendum confermativo.
Il cote’ politico e’ quello del tentativo renziano di completamento dell’opera sventato da venti milioni di italiani con il referendum del 2016 .
Da quella revisione costituzionale discendono i tagli al fondo sanitario, i blocchi delle assunzioni , la politica dei budget e degli “ acquisti “ di prestazioni ( terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello stato , cioè di un loro diritto . La salute come azienda,appunto.)
Da qui (e’purtroppo drammaticamente evidente ora)vengono i commissariamenti delle regioni in particolare al sud , oberate da debiti derivanti in parte dal fisiologico costo del servizio sanitario ( ovvio,crescono le conoscenze e la tecnologia ,aumenta la vita media,si implementano nuove cure,e dunque si incrementano i costi ; solo un cretino non lo capisce e solo un politico corrotto o da quattro soldi se ne frega) ed in altra parte ,la maggiore ,dagli sprechi .
Ma i commissari ( ma anche gli assessori in altre regioni )non hanno fatto la lotta agli sprechi , neanche un centesimo e’ stato risparmiato in questo campo , sono stati invece imposti nuovi tagli ,nuove riduzioni di servizi e di diritti così da presentare( senza neanche riuscirci,) bilanci migliori e indirizzati verso il pareggio.
Nessuno, a meno di voler essere smentito dalla esperienza diretta di ciascuno di noi ,può dire che si sia pensato ad un progetto di sistema sanitario complessivo. Si sono chiusi ospedali a casaccio ,si sono bloccate le assunzioni , non un centesimo per la prevenzione, per la medicina del territorio ,per la rete emergenza/urgenza. Non ne parliamo della ricerca rimasta affidata a nicchie di volenterosi .
Noi lo scriviamo ,lo diciamo ,lo urliamo da anni , inascoltati, ma ora il re e’ nudo : il servizio sanitario non può essere regionalizzato perché la tutela della salute e’ un diritto fondamentale cui ha diritto ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri. Neppur può soggiacere ai vincoli di spesa quella giusta necessaria -,e per fortuna, sempre maggiore -se si vuole , come si deve ,assicurare sempre maggiore benessere e dunque efficienza ,efficacia ai cittadini che così possono produrre merci, cultura ,idee formazione e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita ,giusta ed equilibrata, del sistema paese. La vera grande opera pubblica che ci serve e’ questa: sostenere la scuola ,tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale ,assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.
Gli sprechi, le truffe devono essere perseguiti con i dovuti mezzi specifici e non con i tagli lineari che falcidiano nella stessa misura spese improprie ( che vanno cancellate del tutto) ed eccellenze ( che invece vanno sostenute con maggiori risorse) .
Ecco,ciò che bisogna fare quando saremo fuori dal tunnel. Ripristinare semplicemente la Costituzione italiana garantendo i diritti fondamentali a tutti ed in maniera piena .
Roba per la Politica con la P maiuscola . Quindi non per il parlamento in carica o per un altro eletto ( autonominatosi) nello stesso modo. Occorre una nuova assemblea costituente eletta con metodo proporzionale puro.

Il Manifesto