Categoria: attività dall’osservatorio

Il trasporto ferroviario in Italia nel XXI secolo: un paese sempre più diseguale di Gianfranco Viesti

Il trasporto ferroviario in Italia nel XXI secolo: un paese sempre più diseguale di Gianfranco Viesti

Le politiche per il trasporto ferroviario degli ultimi due decenni – tanto per le reti quanto per i servizi – hanno determinato un incremento delle disparità esistenti in Italia, in particolare, anche se non solo, fra Nord e Sud (si veda la Figura 1, che si riferisce a tutti i mezzi di trasporto). Nell’insieme, le politiche per il trasporto ferroviario hanno accresciuto dotazioni di rete e fornitura di servizi principalmente laddove i redditi sono maggiori e il mercato già sviluppato e non li hanno incrementati, o li hanno ridotti, nelle aree più deboli; hanno accresciuto la capacità solo laddove la domanda era già più intensa. Data la grande rilevanza della mobilità delle persone nell’economia contemporanea, questa situazione continua ad avere un significativo impatto sulle diverse possibilità di sviluppo dei territori italiani.

Figura 1 Accessibilità delle province italiane (numeri indice, media = 100)

Fonte: Banca d’Italia (2019), pag. 219

Questo contributo presenta alcune evidenze in merito, in particolare per il trasporto passeggeri a media-lunga distanza, anche in connessione ai nuovi servizi ad “alta velocità” (AV).

L’alta velocità ferroviaria rappresenta l’unico grande progetto di modernizzazione del paese realizzato in questo secolo; le sue vicende sono analizzate, fra l’altro, in un recente, assai documentato, volume curato da Ennio Cascetta (2019). Si è trattato di una scelta storica: nel secondo dopoguerra l’Italia ha sostanzialmente abbandonato il trasporto pubblico su ferro, per concentrare investimenti e attenzioni su quello privato su gomma. Fra le città; e nelle città, come testimoniato ad esempio dal completamento dello smantellamento della enorme rete tramviaria di Roma, senza sostituirla con altre forme di trasporto pubblico collettivo. Con il volgere del secolo l’indirizzo è mutato: sia nelle città (il Passante a Milano, la Metro a Napoli), sia fra le città. L’alta velocità è stata avviata nel 1975 con la direttissima Roma-Firenze; poi rilanciata nel 1992. Ha accumulato notevolissimi ritardi, ma nel primi anni del nuovo secolo ha visto il completamento di gran parte della rete programmata; e ormai da circa dieci anni l’avvio di regolari servizi. Come noto, le reti realizzate coprono l’asse Nord-Sud da Milano a Salerno, e quello Ovest-Est da Torino a Brescia; è in corso il suo completamento fino a Venezia, così come è programmato un altro asse Ovest-Est, da Napoli a Bari (MIT 2018).

L’investimento italiano sul trasporto ad alta velocità ha avuto ombre e luci. Fra le prime, costi di realizzazione molto più alti che in Francia o Spagna, anche laddove la conformazione del territorio non giustificherebbe queste differenze. Fra le seconde, la circostanza che le risorse investite per le reti hanno alla fine determinato servizi molto migliori per i cittadini delle aree urbane interessate, cioè circa 20 milioni di italiani (Cascetta 2019, pag. 22). La disponibilità di servizi è cresciuta notevolmente, dalle 71 corse/giorno del 2009 alle 303 del 2019; da Milano e Roma  circolano oggi 78 treni al giorno, 62 fra Napoli e Roma, 54 fra Torino e Milano. Fra il 2009 e il 2017 i passeggeri sono aumentati da 15 a 45 milioni. L’offerta di questi servizi ha spostato domanda dall’auto e dall’aereo verso il treno (sia per il risparmio di tempo sia per il crescente comfort del viaggio), con notevoli affetti ambientali positivi. Ma ha anche determinato spostamenti aggiuntivi: 10 milioni di viaggiatori sono stati sottratti agli aerei, 9 alla strada, 7 alla ferrovia tradizionale ma vi sono stati anche 17 milioni di nuovi spostamenti (Cascetta 2019, pagg. 37-39). Dal 2012 opera sul trasporto ad alta velocità anche l’operatore privato NTV, che nel 2019 offre 90 corse al giorno in aggiunta alle 213 di Trenitalia. Stando alle analisi contenute in Cascetta (2019, pag. 59), la concorrenza ha determinato un notevole ampliamento delle soluzioni tariffarie e una sensibile riduzione dei costi medi: essi sono diminuiti del 41% fra il 2011 e il 2017. Ancora, vi sono evidenze che la disponibilità di servizi abbia favorito lo sviluppo del turismo nelle aree raggiungibili dall’alta velocità: circa 8 milioni di viaggi/anno con motivazione turistica, di cui 2 milioni effettuati da stranieri (Cascetta 2019, pag. 44). Non tutte le linee ad alta velocità hanno però avuto la stessa priorità. Nel disegno dell’AV c’è anche la tratta da Napoli a Bari: ma, pur programmata da molti anni, non ha sinora fatto grandi progressi. Nel 2012 l’allora Ministro Fabrizio Barca (governo Monti) siglò un contratto istituzionale di programma (CIS) con il gruppo FS, che prevedeva impegni dettagliati, e cadenzati anno per anno, su quella  tratta per accelerarne la realizzazione. Fino al 2015 l’allegato “Aree Sottoutilizzate” al Documento di Economia e finanza ne riportava l’attuazione. Si scopriva così che gli impegni non venivano rispettati: per il 2015 il gruppo FS aveva ad esempio realizzato solo il 27% degli investimenti per cui si era impegnato quell’anno. Dal 2016 il problema è stato risolto: i dati del CIS non vengono più pubblicati in quel documento. Se è certamente vero che tutti gli investimenti pubblici sono rallentati con la crisi, quelli per l’AV Napoli-Bari sembrano aver sofferto di particolari ritardi.

Naturalmente, non è possibile ipotizzare investimenti ad alta velocità – anche per il loro costo – su tutte le tratte nazionali. Ma ciò che rileva è che sia mentre veniva realizzata l’alta velocità sia successivamente vi sono stati investimenti assai modesti nelle altre aree del paese e soprattutto un peggioramento dei servizi.

Guardiamo in primo luogo ai dati sugli investimenti. La tabella 1 contiene i risultati di una originale elaborazione di dati dei Conti Pubblici Territoriali[1]. Da essa è possibile vedere che gli investimenti pubblici nelle ferrovie fra il 2000 e il 2017 sono ammontati a quasi 100 miliardi (euro costanti 2010).

Tabella 1 Investimenti pubblici nelle ferrovie 

Di essi, 57 miliardi nei primi nove anni (fra il 2000 e il 2008 compresi); a fini di una comparazione di larga massima si può tenere presente che la spesa per la realizzazione dell’alta velocità è stimabile sinora in 30-35 miliardi, per una quota rilevante effettuata in quegli anni. Non a caso, in quel periodo gli investimenti si sono massicciamente concentrati proprio nelle regioni toccate dalle linee AV. Circa 7 miliardi in Piemonte, Lombardia e Toscana, 6 nel Lazio, 5 in Emilia-Romagna. Queste cinque regioni hanno ricevuto il 57% del totale; a livello di circoscrizioni, il 53% è stato al Nord, il 28% al Centro e il 18% nel Mezzogiorno (Sud e Isole), in cui risiede il 34% della popolazione italiana. La differenza di intensità è leggibile attraverso i dati espressi in pro-capite; si va, per le maggiori regioni italiane presentate in tabella, dai 226 euro per abitante della Toscana ai 41 della Puglia.

Ma ciò che più rileva ancor più sono i dati dei nove anni successivi (dal 2009 al 2017 inclusi). Complessivamente, gli investimenti in ferrovie si riducono, anche a causa delle politiche restrittive di bilancio: si scende da 57 a 42 miliardi. Ma la loro concentrazione territoriale non muta; gli investimenti nel Mezzogiorno rimangono limitatissimi, per quanto il loro peso sul totale cresca marginalmente (dal 18% al 23%); gli investimenti 2009-17 nella sola Lombardia sono superiori a quelli in tutte le regioni del Sud continentale. Questi dati mostrano che anche dopo aver realizzato le linee ad alta velocità non vi è alcun indirizzo per accrescere gli interventi per il potenziamento e l’ammodernamento delle reti esistenti nelle altre aree del paese, in particolare nel Mezzogiorno.

Il quadro delle disparità territoriali non sembra destinato a mutare rapidamente. Per la rete ferroviaria italiana viene disegnata una interessante strategia dell’”alta velocità di rete” (Cascetta 2019, pp. 70 e seguenti), che merita attenzione. Nel Piano Industriale 2019-2013 delle FS è indicato l’obiettivo di 16 miliardi di investimenti nel Mezzogiorno (FS 2019). Tuttavia, stando ai dati d’insieme presentati nell’importante documento del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti (MIT 2018) “Connettere l’Italia”, i programmi prioritari invarianti per le Ferrovie, che impegneranno il paese per i prossimi lustri continuano a concentrarsi prevalentemente nelle aree del Nord del paese (tabella 2). Al Sud sono previsti, oltre alla Napoli-Bari (5,8 miliardi), velocizzazioni sulla Salerno-Reggio Calabria per circa 400 milioni e interventi sulle reti siciliane per 6 miliardi. Anche ipotizzando che essi saranno poi effettivamente realizzati, si tratterebbe di un intervento per un valore di circa un quarto del totale, largamente inferiore al peso del Mezzogiornosul totale della popolazione, non in grado di compensare il grande divario nelle dotazione e il mancato investimento degli ultimi decenni.

Tabella 2 Programmi prioritari invarianti

Mentre crescevano moltissimo i servizi sulle linee AV si riducevano sulle altre. In parte come effetto diretto proprio dei nuovi collegamenti: per Genova “la realizzazione della dorsale si è tradotta nella deviazione dei servizi provenienti da Torino e diretti a Roma, con riduzione netta delle frequenze di collegamento per la capitale” (Cascetta 2019, pag. 67). Ma lo stesso è avvenuto in altre parti del paese, a causa della forte riduzione delle risorse pubbliche nazionali per il trasporto ferroviario interregionale, con la  scomparsa, ad esempio, dei servizi fra Pescara e Roma, o sulla dorsale ionica. I collegamenti nel Mezzogiorno sono in particolare estremamente modesti: le due principali città del Sud continentale, Napoli e Bari non hanno neanche un collegamento ferroviario diretto.

Se ne ha contezza con i dati dell’assai ben documentato rapporto “Pendolaria” (Legambiente 2019): nel 2010-17, mentre i passeggeri dell’AV aumentavano del 114%, quelli degli intercity calavano del 42%. Nell’insieme, dal 2002 ad oggi il servizio Intercity si è ridotto in tutto il paese, ma mentre in larghe fasce del Centro-Nord è nato il servizio AV, nel Centro-Nord periferico e nell’intero Sud è rimasto ben poco (Legambiente 2019). La figura 2 mostra un quadro di lungo periodo; certo, in misura importante si è trattato di sostituzione con i nuovi servizi AV; in altri casi si è sviluppata l’offerta dei voli low-cost. Ma non per tutti.

Figura 2 Traffico ferroviario passeggeri in Italia, 1990-2015

Fonte: Cascetta (2019), pag. 63 su dati CNIT, Istat, NTV, Trenord

La politica si è “ritirata”, riducendo le risorse per finanziare la mobilità interregionale su ferro, ed ha lasciato spazio prevalentemente al mercato: si viaggia solo dove conviene a chi offre i servizi. La figura 3 rende bene il quadro.

Figura 3 L’offerta di treni sulla rete ferroviaria italiana (2018)

Fonte: Legambiente (2019)

Infine, dati gli effetti della concorrenza sui prezzi nei collegamenti AV di cui si è detto, “le città non servite dall’AV non solo hanno minori collegamenti (frequenze più basse) con prestazioni (velocità commerciale) inferiori, ma tariffe più alte” (Cascetta 2019, pag. 68). Si vedano i dati della tabella 3: la tariffa economy, per cento km fra Firenze e Napoli è di 5,5 euro, ma per 100 km fra Milano e Genova è di 12,1 euro e fra Napoli e Reggio Calabria è di 9,3 euro.

Tabella 3 Frequenze, velocità e tariffe medie di treni diretti fra alcune principali città italiane

Fonte: Cascetta (2019, pag. 69)

Per gli esclusi dall’alta velocità il mancato ammodernamento delle reti è stato accompagnato da un netto peggioramento del servizio offerto: meno collegamenti e relativamente più cari. Nell’insieme si ha l’impressione che le scelte pubbliche si siano limitate a lasciare che le esigenze aziendali del Gruppo FS guidassero l’evoluzione del paese; naturalmente, dato che esse producevano l’effetto desiderato. Ciò solleva un grande tema: quello di discutere pubblicamente i grandi indirizzi politici che devono guidare l’azione delle società a controllo pubblico; bene fa il Forum Disuguaglianze e diversità (2019) a porre il problema della missione che deve essere affidata alle imprese pubbliche.

A ciò dovrebbe essere aggiunta la situazione del trasporto ferroviario all’interno delle regioni (CDP 2017, Ambrosetti 2019, Legambiente 2019). In questa sede può solo essere ricordato che “al Sud storicamente circolano meno treni, ma in questi anni sono diminuiti ancora per i tagli ai regionali e agli intercity. Ogni giorno in tutto il Sud circolano meno treni regionali che nella sola Lombardia” (Legambiente 2019, pag. 12). Il servizio ferroviario è quasi inesistente nelle Isole: in Sicilia ci sono 428 corse (lentissime) di treni regionali contro 2396 in Lombardia. Infine, occorrerebbe considerare anche il trasporto urbano o peri-urbano: nel trasporto pubblico locale si sono consolidate e accentuate grandi disparità, con forti riduzioni dell’offerta di posti/km per abitante in quasi tutte le regioni e grandi città (con la rilevante eccezione di Milano), in particolare del Mezzogiorno: si vedano i dati Istat presentati in Balduzzi (2018). Trasporto regionale e offerta di trasporto pubblico locale dipendono dalle amministrazioni regionali e locali: sia dalle loro scelte politiche e capacità tecniche, sia dalle risorse che essi hanno a disposizione. Altra questione fondamentale, anche connessa ai più generali criteri di riparto territoriale delle risorse pubbliche.

In conclusione, la politica del trasporto ferroviario è intervenuta quasi esclusivamente con investimenti e servizi sulle tratte più redditizie. Si è trattato di una delle non poche politiche pubbliche di questo secolo che hanno coscientemente e intensamente accresciuto le disparità territoriali e creato le condizioni affinchè esse crescano ulteriormente in futuro.

*Università di Bari

**L’autore desidera ringraziare, per gli utili commenti ricevuti, la Redazione di economiaepolitica.it e il Prof. Andrea Boitani (Università Cattolica, Milano).

fonte: https://www.economiaepolitica.it/

L’uso del suolo e lo sviluppo insostenibile di Massimo Veltri di Massimo Veltri

L’uso del suolo e lo sviluppo insostenibile di Massimo Veltri di Massimo Veltri

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) è un ente pubblico di ricerca, istituito con legge dello Stato nel 2008 e operativo dal 2010. E’ sottoposto alla vigilanza del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e, fra le sue meritorie iniziative, produce periodicamente un rapporto sul consumo di suolo in Italia. Un rapporto che assume la forma di un volume di centinaia di pagine, ricco di dati, elaborazioni, cartine, grafici, raffronti, stime e valutazioni oltre che di suggerimenti e proposte. Articolato, dopo uno studio a scala nazionale, per regioni e province si avvale del contributo delle agenzie regionali del Ministero cui è sottoposto e, per come si va configurando negli anni, assume il significato oltre che il valore di un vero e proprio indispensabile vademecum per chi si occupa, a diverso titolo, di discipline, studi e interventi sul territorio.

Il terzultimo Rapporto, in ordine di tempo, sul consumo del suolo fu presentato nel 2015 a Cosenza alla presenza fra gli altri del presidente pro-tempore dell’Ispra, prof. Bernardo de Bernardinis. Ci fu una animata e partecipata discussione con gli interventi di tecnici, ricercatori, ambientalisti, operatori politici e amministrativi riassumibile, forse un po’ troppo drasticamente, nella constatazione di come fosse indispensabile intervenire al più presto in termini normativi con una legge sulla limitazione e\o regolazione dell’uso del suolo, sull’arresto di nuove edificazioni, sull’accentrare l’attenzione sul recupero e la riqualificazione dell’esistente.

In Parlamento giacevano all’epoca disegni di legge orientati in tal senso, così come pure in periferia e in Calabria era nettamente percepibile l’attenzione verso il recupero dei centri storici, il riequilibrio territoriale fra aree collinari e montane con quelle vallive, un allarme non solo declamatorio per le varie situazioni ambientali che via via andavano aggravandosi.

Oggi, a quattro anni di distanza, coglie in qualche modo di sorpresa il fatto che sia passata sostanzialmente sotto silenzio la presentazione del rapporto 2019 sul consumo del suolo nel nostro paese. Un rapporto ancora più ricco dei precedenti, più ‘informato’, più articolato e territorialmente dettagliato, illustrato e analiticamente descritto: sarebbe proprio il caso di adoperare l’espressione ‘strumento didascalicamente indispensabile’. Sotto silenzio, dicevamo, proprio quando il clamore dell’uragano Greta è arrivato fino alle Nazioni Unite, nelle nostre scuole si sciopera perché i ghiacciai si stanno sciogliendo, tutti i parlamenti di mezza Europa, e non solo, annunciano che l’emergenza ambientale è a tutti gli effetti una priorità.

C’è, oggettivamente, uno stridore nel non cogliere i nessi evidenti fra i due accadimenti e sarà perciò utile soffermarsi brevemente qui nel ricordare sostanzialmente due fatti. Il primo risale allo sviluppo e ai suoi limiti: senza andare al Club di Roma di Aurelio Peccei e ai suoi sodali degli anni sessanta del secolo scorso non si può non ribadire – ma non per fare il verso a coloro i quali predicano la decrescita felix (inattuale  e impraticabile) – che talune ma prevalenti ipotesi che si sorreggevano sullo sfruttamento  indiscriminato delle risorse naturali, quali che fossero, rinnovabili o meno, sono pesantemente da rivedere e senza indugi, pena il collasso del mondo che abbiamo costruito. Da più parti e in maniera irresponsabile si odono irrisioni per i toni definiti allegramente catastrofistici mentre le validazioni scientifiche inoppugnabili dei dati e delle situazioni che abbiamo vanno univocamente verso la progressiva insostenibilità del sistema. Il secondo: si ripropone in tutta la sua capacità di mettere un freno all’entropia nella quale siamo immersi la necessità di avvalersi di strumenti di pianificazione. Strumenti non mastodontici, rigidi e onnicomprensivi ma agili e duttili, rimodellabili e ricalibrabili, in grado però di prefigurare nel tempo usi, destinazione di comparti e allocazione di insediamenti fra loro armonizzati e, soprattutto sostenibili.

Non si rinvengono elementi più efficaci e paradigmi più idonei di quelli che seguono, per rendere impellente e ineludibile una serie di azioni concertate volte a prospettare un’azione per il nostro futuro. Da una parte le parole di Martin Heidegger che, com’è stato di recente ricordato, nel 1951 a Darmstadt ammoniva: «I mortali abitano in quanto salvano la terra. Ma salvare la terra è qualcosa di più che riutilizzarla o addirittura affaticarla. Salvare la terra non significa dominarla né sottometterla, dalla qualcosa manca solo un passo allo sfruttamento illimitato». Dall’altra il ribadire assenza e ritardi governativi di una legge nazionale del consumo di suolo, evidenziando nel contempo la ridotta capacità delle amministrazioni regionali di arrestare la tendenza dei fenomeni di consumo e depauperamento del suolo e del territorio.

I dati sono impietosi: nel biennio 2017- 2018 il consumo di suolo in Italia ha riguardato più di cinquanta chilometri quadrati al giorno, con gli stessi altissimi ritmi del biennio precedente. I cambiamenti maggiori si sono verificati “nelle aree di pianura del nord, della Toscana, nell’area metropolitana di Roma, lungo le coste romagnole, nella bassa Campania, nel Salento, e dov’è localizzata la maggiore presenza di superfici artificiali si registra un incremento di temperatura estiva pari a due gradi centigradi”.  Le aree del nord del paese a più alto gradiente di crescita mostrano i dati più allarmanti, a dimostrazione della fragilità di un modello di sviluppo tutto da rivisitare, ma anche quelle protette e vincolate, quelle ad alto rischio idraulico, da frana e sismico non evidenziano alcuna inversione di trend. ‘La velocità del consumo di suolo è in ogni caso molto lontana dagli obiettivi comunitari di azzeramento del consumo netto di suolo’.

Accanto a dati non confutabili e a impostazioni culturali e politiche scevre di ideologismi non si può che prendere atto della insostenibilità della situazione e promuovere rapide e consapevoli inversioni di tendenza. La parola ai responsabili: a partire dal Governo centrale, dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. I dati e le considerazioni che costituiscono l’ossatura di queste note provengono da un Istituto che è sotto la sua tutela.

Appello No alle elezioni anticipate *

Appello No alle elezioni anticipate *

Dello scenario aperto dalla crisi di governo ciò cha a noi colpisce di più, per la drammatica superficialità con cui finora ha esortato al voto, è la posizione del Partito Democratico, attraverso la voce del suo segretario. Due domande. E’ nell’interesse di questo partito entrare nell’agone elettorale? E per quali particolari meriti dovrebbe essere premiato dagli elettori?Per la capacità di mobilitazione che ha mostrato negli ultimi mesi? Per la forza incalzante dell’opposizione al governo espressa nel Parlamento e nel paese? Per il fascino suscitato dalle sue proposte programmatiche? Per la forza della sua unità interna? Per la larga popolarità dei suoi potenziali candidati?

Seconda domanda. E’ nell’interesse dell’Italia andare alle urne? In tal caso la consegna del paese a questa destra barbarica sarebbe cosa certa, accresciuta nelle proporzioni probabilmente dal fatto che Salvini conserverebbe la postazione strategica del ministero degli Interni.

E allora, che cosa aspettiamo ancora per capire che l’Italia sta già precipitando   in una deriva autoritaria ? Che cosa deve fare e dire di più Salvini per essere creduto capace di portare il nostro paese ad una forma di stato semidittatoriale? Deve continuare a dire che vuole pieni poteri, deve tornare a umiliare il Parlamento, evitando di dar conto dei suoi traffici con la Russia, deve reiterare altre leggi incostituzionali, deve continuare a irridere e minacciare i giornalisti sgraditi, deve violare i trattanti internazionali, deve usare la ferocia del potere contro gli individui più disperati della terra, i naufraghi? A proposito dello svuotamento autoritario della democrazia   consideriamo puri esorcismi filologici i distinguo degli storici, pur legittimi, tra l’esperienza del fascismo e la situazione presente. La storia genera sempre l’inatteso, ma nulla assicura che esso non somigli o non sia peggio del passato.

Dunque noi esortiamo a rinviare le elezioni e dar vita a un governo di transizione che dovrebbe avere almeno due scopi. Il primo l’hanno messo bene in evidenza Tomaso Montanari e Francesco Pallante su Il Fatto (11/8) : una nuova legge elettorale proporzionale. Sarebbe davvero la via maestra per ristabilire finalmente un rapporto di comunicazione tra governanti e governati, si ridurrebbero tante zone di astensionismo, la ricchezza della cultura politica italiana sarebbe finalmente rappresentata in tutte le sue varie componenti, salterebbe la camicia di forza del maggioritario che ha mostrato il suo inoccultabile fallimento. Una crescita inattesa di democrazia. Anche in caso di vittoria elettorale del centro destra la preminenza di Salvini e della Lega nelllo schieramento verrebbe ridimensionata.

L’altro compito che si dovrebbe urgentemente svolgere – approfittando del tempo a disposizione- a cui chiamare tutte le persone di buona volontà, qualunque sia il partito di appartenenza, è una lotta senza quartiere contro l’autonomia differenziata. Ricordiamolo. La Lega da partito del Nord è diventato partito nazionale con Salvini perché è riuscito a trovare consenso tra le popolazioni del Sud. Ma le popolazioni meridionali sono state tenute all’oscuro del disegno secessionista della Lega, sono state deliberatamente ingannate e questo apre oggi un fronte di lotta di grande potenzialità a chi vuole sconfiggere elettoralmente e culturalmente Salvini. Occorre un grande lavoro di informazione e di chiarimento tra i cittadini. Ma è necessario trovare il linguaggio giusto, semplice, pur senza cadere nel plebeismo e dire ai meridionali e agli italiani tutti che la Lega ha in progetto non solo di emarginare il Mezzogiorno, ma di dividere la compagine unitaria dell’Italia. Un paese autoritario, ingiusto e diviso, è questo il modello di società proposto da Salvini. Occorre riempire i muri delle città e dei paesi del Sud di un unico manifesto, con una sola frase:<< Chi vota per la Lega tradisce il Mezzogiorno, condanna l ‘Italia alla divisione e al declino.>>

Piero Bevilacqua, Enzo Scandurra, Battista Sangineto, Tomaso Montanari, Francesco Pallante P Francesco Trane, Rossano Pazzagli, Alberto Ziparo, Enzo Paolini, Lucinia Speciale, Ignazio Masulli, Giuseppe Saponaro, Andrea Ranieri, Vezio De Lucia, Aldo Carra, Alfonso Gianni, Stefano Fassina, Giulia Rodano, Elettra Deiana, Luisa Boccia, Alberto Olivetti, Piero Di Siena, Anna Maria Bianchi, Paolo Gelsomini, Elena Spinelli, Antonio Castronovi, Carmelo Caravella, Luigi Vavalà, Ivo Mattozzi, Giuseppe Aragno, Francesco Santopolo, Quinto Borghi, Piero Caprari, Franco Novelli, Margherita Palmieri, Anna Solimini, Adriana Vallone, Luisa Marchini, Massimo Baldacci, Anna Maria Bianchi, Tonino Perna, Maurizio Acerbo, Paolo Favilli, Rossella Latempa, Massimo Veltri, Giorgio Sganga, Franco Novelli.

Hanno sottoscritto anche: Angelo Broccolo, Paride Leporace, Andrea Ghilarducci, Sandrino Fullone, Franco Cambi, Edina Regoli, Vincenzo Franciosi, Roberto Corsi, Maria Sepe, Franca Cavagnoli, Angelo Gelmini, Rosa Menduni, Giovanni Orsi, Maurizio Sbrana, Caterina Strambio De Castillia, Graziella Bertani, Moreno Biagioni, Gabriella Reboa, Erica Sereno, Angela Bergonzi, Maria Ricciardi Giannoni, Stefano Guarguaglini, Erik Rosset, Toni Baldi, Angelo Alonzo, Federica Misturelli, Liborio Mingoia, Tommaso Zaccheo, Anna De Benedictis, Gianfranco Castiglia, Giuseppe Pontrelli, Rosi Lubes, Teresa Trocino, Valentino Pace, Angelo Petrella, Adriana Abbamonte, Nicola Andriola, Nella Ginatempo, Giuseppe Cip, Vera Masoero, Silvia Acquistapace, Alberto Frau, Clara Amato, Mauro Bidoni. Marcello Mariella, Antonio Vitolo, Maria de Falco, Stefania Di Donato, Paolo Chiarelli, Pina Casella, Giuseppe Natale, Adriana Ricci, Giovanni Turano, Rita Fiorani, Renato Sala, Marina Boscaino, Martino Melchionda, Elena Rampello, Daniele Zangrossi, Isabella Temperelli, Virginia Piazza, Maria Antonella Sanna, Aldo Carra, Nicla Nati, Mauro Zanella, Nadia Conti, Celeste Zaccaria, Paolo Lombardi, Cristina Quaglio, Paola Pasquini, Mauro Annoni, Cinzia Favalli, Eugenio Camerlengi, Giacomo Risso, Antonello Murgia, Germano Zanzi, Patrizia Rossetti, Irina Casali, Giuseppe Barnato, Lidia Gilberti, Francesco Ciraco, Loredana Zorzi, Salvatore Minisci, Maurizio Bernardini, Nadia Ronchini, Domenico Bonometti, Giovanni Cizza, Lorenzo Viceconte,Silvia Pagano, Carlo Aiello, Tommaso Tedesco, Nadia Ronchini, Domenico Cantore, Paola Massaro, Alberto Sabato, Alessandro Martelli,Mario Viola, Liliana Ruffa, Cristina Quintavalla, Giuseppe Gallelli, Maurizio Schiavo,Marina de Rogatis,Elio Rindone, Giuseppina Natale, Maurizio Laezza, Enzina Sirianni, Patrizia Zavataro, Maria Grazia Illuzzi,Antonio Marotta.

* Le adesioni devono essere inviate a osservatoriodelsud@gmail.com

Il Mezzogiono rialza la testa di Massimo Covello*

Il Mezzogiono rialza la testa di Massimo Covello*

Sotto lo slogan: “ Ripartiamo dal Sud per unire il Paese” migliaia di lavoratori e lavoratrici, di giovani , di anziani, hanno partecipato il 22 Giugno scorso alla manifestazione nazionale indetta da Cgil –Cisl e Uil. Una manifestazione, serena, determinata e consapevole che ha portato in piazza tutta la condizione drammatica di un Paese che ha smarrito il futuro, che è sottoposto a continue sollecitazioni che una volta si sarebbero definite “sovversivismo delle classi dirigenti”, tese a dividere territori, a scatenare guerre tra poveri a rompere legami sociali ed umani. Come altro definire la nefasta volontà del governo giallo-verde a trazione leghista di perseguire con accanimento la cosiddetta “autonomia differenziata” che altro non è che la certificazione della rottura del patto fondamentale su cui è poggiata l’Unità del nostro Paese. Per citare solo l’ art 3 Costituzione “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge….E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza….” E poi l’art 4 :” la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Ecco, rivendicando che un’altra strada è possibile, Cgil –Cisl e Uil tramite la voce dei segretari generali Landini, Furlan e Barbagallo hanno chiesto al Governo di fermarsi, di ascoltare le ragioni e le proposte del sindacato. E’ il lavoro che unisce il Paese, sono gli investimenti pubblici che possono cambiare le prospettive economiche e sociali , è il rispetto della funzione della rappresentanza sociale che può ridare linfa alla democrazia, è la coesione che può garantire credibilità e forza nel confronto con l’UE e le altre nazioni. Mentre sfilavamo riecheggiavano i richiami ed i ricordi della precedente manifestazione unitaria nazionale a Reggio Calabria: quella del 1972. Erano i tempi dei “ boia chi molla”, del tentativo neofascista di strumentalizzare disagio e protesta alimentando il clima della guerra fredda per costringere ad una torsione autoritaria la prospettiva politica del Paese. Erano forme di contrasto, reazionarie, terroristiche, alla grande stagione dei diritti aperte con le lotte e le conquiste culturali, sociali, del biennio 1968/69. La forza del sindacato, l’unità dei lavoratori e delle lavoratrici con in primo luogo i metalmeccanici, sotto il grido di “ Nord e Sud uniti nella lotta”, seppe contrastare quel disegno, difendere la democrazia, garantire, nonostante tutto, opportunità di crescita e cambiamento. Molta di quella lezione è andata dispersa. Oggi, l’individualismo, il conformismo, l’affermazione di pensieri ed idee xenofobe se non del tutto razziste hanno attecchito anche per gravi responsabilità del pensiero democratico e progressista, arreso al neoliberismo e rappresentato da classi dirigenti spesso ascare e corrotte. Nel mezzogiorno si sono perse battaglie storiche come quella del regionalismo e della legalità. Temi nuovi con cui confrontarsi, ma problematiche antiche come il lavoro, la dignità e l’accesso ai diritti di cittadinanza, la legalità declinata come giustizia sociale sono aperti e la manifestazione del 22 Giugno ha dimostrato che esistono le forse sociali, il protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici, la parte migliore del paese, che non rinuncia a lottare, che continueranno a farlo, per cambiare di segno il futuro dell’intero Paese e del Mezzogiorno in primo luogo.

 

* segretario regionale Fiom –Cgil Calabria

Proposta di costruire insieme una Conferenza Nazionale per il ritiro dell’Autonomia differenziata in qualunque settore A tutte le associazioni di difesa dei diritti democratici, della scuola pubblica, della sanità, dei servizi pubblici

Proposta di costruire insieme una Conferenza Nazionale per il ritiro dell’Autonomia differenziata in qualunque settore A tutte le associazioni di difesa dei diritti democratici, della scuola pubblica, della sanità, dei servizi pubblici

A tutte le associazioni di difesa dei diritti democratici, della scuola pubblica, della sanità, dei servizi pubblici Proposta di costruire insieme una Conferenza Nazionale per il ritiro dell’Autonomia differenziata in qualunque settore Il 26 maggio, appena conosciuti gli esiti delle elezioni europee, Salvini, senza perdere un solo momento, ha annunciato che il governo procederà ora velocemente con i suoi programmi, a partire dalla realizzazione dell’Autonomia differenziata. E’ necessario essere chiari: dietro il nome “autonoma differenziata” si nasconde né più né meno la divisione del Paese. Le bozze di Intese Stato-Regioni circolate e pubblicate nei mesi scorsi prevedono infatti che tutta una serie di materie che vanno dall’istruzione alla sanità, dall’ambiente alle infrastrutture, dal lavoro ai contratti, dalla ricerca scientifica ai beni culturali, dai servizi fino a giungere addirittura ai rapporti internazionali e con l’UE passino alle Regioni. Il pericolo è imminente, anche perché nelle settimane scorse l’autonomia differenziata è già stata inserita nel DPEF. Noi che nei mesi scorsi ci siamo mobilitati a partire dalla scuola, considerando che essa costituisca un elemento essenziale per la difesa dell’unità della Repubblica, rilanciamo oggi l’appello ai lavoratori di tutte le categorie, ai cittadini, alle associazioni, ai comitati, ai coordinamenti territoriali le cui battaglie verrebbero definitivamente vanificate dal provvedimento: non c’è un minuto da perdere, è necessario unirsi per smascherare l’operazione, trovarci, confrontarci, prendere iniziative concrete per mobilitare la popolazione e fermare il pericolo. L’autonomia differenziata liquida definitivamente – attraverso le 23 materie che saranno devolute alle regioni, materie nevralgiche per la nostra vita quotidiana – tutto ciò che è “pubblico”, cioè finalizzato all’interesse generale, destinato a diminuire le differenze tra ricchi e poveri: istruzione, sanità, ambiente, infrastrutture. Principi e diritti sociali previsti nella I^ parte della Costituzione di fatto vengono annullati. Ogni Regione farebbe da sé, con i propri fondi, trattenendo la maggior parte del proprio gettito fiscale. Ma se questo porterà subito a far sprofondare le Regioni del sud (alienate dalla perequazione e colpite dalla clausola che l’operazione dovrà essere portata avanti “senza oneri aggiuntivi” per lo Stato: a costo 0 si abbatteranno uguaglianza, solidarietà, democrazia e l’unità stessa della Repubblica), nondimeno colpirà i cittadini del nord. Negli incontri e nelle assemblee che abbiamo organizzato in questi mesi un dato è infatti emerso in modo chiaro: tutti sarebbero colpiti attraverso la rimessa in causa dei contratti nazionali, dei servizi, dell’accesso agli stessi diritti. L’esempio di ciò che è avvenuto con la scuola in Trentino è emblematico: privatizzazioni, aumento dei carichi di lavoro, diminuzione dei posti, standardizzazione delle procedure, ingerenza nella didattica, a fronte di compensi aggiuntivi irrisori per i lavoratori. Per questo dalla scuola, attaccata potenzialmente dal provvedimento in ogni sua articolazione e prerogativa (dall’uguaglianza delle opportunità educative alla libertà d’insegnamento, dall’orario di lavoro al contratto nazionale) arriva questo appello: solo la mobilitazione unita potrà fermare i progetti del governo e delle Regioni che hanno presentato la richiesta di autonomia. Siamo certi che la coscienza dell’importanza dell’unità della Repubblica sia viva in tutta la popolazione, in tutte le città e i comuni, fino ai più piccoli paesi o villaggi. Per questo oggi lanciamo a tutti una proposta precisa: mettiamoci in contatto per organizzare insieme, i tempi necessariamente rapidi, una Conferenza Nazionale per il ritiro di qualunque progetto di regionalizzazione nella scuola e in tutti gli altri settori, per il ritiro delle Intese già presentate dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna, per il ritiro dell’autonomia differenziata dal DPEF.

 

Autoconvocati della scuola

Comitato 22 marzo per la difesa della scuola pubblica

Lip Scuola

Manifesto dei 500

Osservatorio del Sud

Officina dei Saperi

 

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Se condividete questo appello, vi invitiamo a sottoscriverlo, a diffonderlo e a mettevi in contatto con i promotori Adesioni e contatti: info@lipscuola.it – manifestodei500@gmail.com

«Non c’è bisogno di sperare per intraprendere, né di riuscire per perseverare» di Piero Bevilacqua

«Non c’è bisogno di sperare per intraprendere, né di riuscire per perseverare» di Piero Bevilacqua

Care e cari,
 benché con l’animo colmo di delusione ( per i risultati generali che riguardano il Paese e in particolare il nostro Sud) so che debbo delle informazioni  e dei ringraziamenti personali. Ringrazio tutti voi, siete centinaia e non posso farlo nominalmente, ma alcuni debbo nominarli, perché in questa campagna elettorale. fatta alla buona e tra amici, hanno messo a disposizione molte delle loro energie personali .  Fra questi fatemi almeno ricordare Battista Sangineto ed Enzo Paolini a Cosenza,Pasquale Alcaro a Soverato, Bonaventura Zumpano a Catanzaro, Tonino Perna a Reggio,Giuseppe Giuliano a Termoli, Laura Travaglini a Napoli.
 Nel disastro generale, per la verità, neppure la mia candidatura ha brillato. Complessivamente, in tutta la circoscrizione meridionale, ho preso 3691 voti. Un risultato francamente magro, che si spiega innanzitutto con la mia limitatissima campagna a livello territoriale.Non solo ho dovuto onorare impegni presi in precedenza  andando in giro per l’Italia( la candidatura è arrivata all’ultimo momento), ma mi sono trascinato nei pochi posti dove sono riuscito ad andare, zoppo e dolorante. Posso dire senza alcuna esagerazione che per i dolori articolari che mi hanno tormentato, sul piano fisico questi ultimi due mesi sono stati  i peggiori che abbia mai patito nella mia vita.
Quindi ho girato poco, non sono neppure riuscito ad andare da Tonino a Reggio, oltre che presso altri amici.
Ma ci sono altri motivi che spiegano il mio risultato, relativi al funzionamento della campagna elettorale all’interno de La Sinistra, su cui non voglio dir nulla, per non aggiungere altre croci a quelle che già portiamo.
E tuttavia una osservazione la voglio avanzare, che  mi  viene suggerita da tante testimonianze degli amici. Non poche persone, miei vecchi estimatori, anche calabresi, non mi hanno votato per paura di indebolire il fronte antisalvini. Questa è veramente il suicidio più clamoroso con cui quel che resta della sinistra si sta  togliendo di mezzo  da sola. Salvini con la paura si prende l’Italia, mentre il Pd (non da oggi) per paura del peggio mantiene il suo potere di forza moderata e di difensore dello status quo.Basti dire che durante la campagna elettorale ( come del resto quei poveretti dei 5S), i suoi dirigenti non hanno detto una parola, sull’autonomia differenziata, uno dei pochi grandi temi antisalvini. Una secessione camuffata che i meridionali pagheranno molto cara. Questo ennesimo “voto utile”, che consacra il nulla programmatico di Zingaretti, alleato del neoliberista Calenda ( il quale non a caso guadagna centinaia di migliaia di voti nel Nord-Est, guarda un pò! )
ancora una volta dimostra quanto ho affermato a Napoli tra gli applausi:
“il PD rappresenta il più serio ostacolo alla nascita di un partito di sinistra in Italia.” Costituisce un ostacolo non solo perché trattiene al suo interno, inerti e paralizzati tanti politici bravi e preparati, amministratori di valore, ecc, ma perché con la politica del meno peggio congela anche la geografia tradizionale della sinistra.
Quanto alla Sinistra, e ai suoi grandissimi limiti e responsabilità, rimando al mio articolo ,che vi ho già mandato e che è uscito ieri sul Manifesto.
Naturalmente la battaglia continua.Negli ultimi tempi, nei quali la storia sembra ritornare indietro, mi tiene compagnia un motto con cui ho concluso la mia lezione di commiato dall’Università della Sapienza. E’ di Guglielmo il Taciturno :<< Non c’è bisogno di sperare per intraprendere, né di  di riuscire per perseverare.>>.
Una abbraccio a tutti voi, 
Piero
Tutti a Verona il 6 aprile per dire NO alla regionalizzazione dell’istruzione di Anna Angelucci

Tutti a Verona il 6 aprile per dire NO alla regionalizzazione dell’istruzione di Anna Angelucci

Comincia a Verona, il 6 aprile prossimo, con una conferenza nazionale del Manifesto dei 500 alla quale siamo tutti invitati la staffetta delle associazioni e dei movimenti che, in attesa dello sciopero nazionale unitario di tutte le organizzazioni sindacali previsto entro maggio, alimenteranno il dibattito e la mobilitazione contro la regionalizzazione dell’istruzione.

In molte città d’Italia, infatti, oltre alle assemblee informative organizzate dai sindacati nelle scuole, si svolgeranno nelle prossime settimane incontri pomeridiani promossi dagli insegnanti, dai partiti, dai movimenti, per sensibilizzare la cittadinanza intorno a un tema su cui si gioca il futuro del nostro Paese.

La posta in gioco, infatti, è l’unità del Paese, niente di meno. Perché l’unità del Paese passa attraverso la sua scuola. Ed è per questo che, già da tempo, associazioni e sindacati hanno lanciato un ‘Appello contro la regionalizzazione del sistema di istruzione’ che siamo tutti chiamati a firmare.

Sull’autonomia differenziata e sulla necessità di fermare questo progetto di disarticolazione del sistema di governo nazionale, reso noto solo nel mese di febbraio grazie alla pubblicazione delle bozze delle intese della Regione Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna dal blog ROARS, è stato già detto e scritto moltissimo, sia sotto il profilo politico, sia sotto quello economico. Basti ricordare l’instant book di Gianfranco Viesti Verso la secessione dei ricchi? e i numerosi interventi e appelli di illustri costituzionalisti sulle pagine dei giornali. Ma forse dalle scuole e da molti insegnanti – alle prese con gli adempimenti sempre più cogenti imposti dalla ‘buona scuola’ e dalle sue più recenti leggi delega, non ultima la riforma degli esami di Stato – questo problema è sentito ancora come piuttosto estraneo e lontano. Eppure si tratta di un intervento destinato a cambiare il volto della scuola e dell’università pubbliche (per un’analisi, leggere qui).

Tuttavia la politica incalza ed è recentissimo l’intervento del governatore del Veneto, Luca Zaia, che ha dichiarato che “c’è un dato oggettivo, anche se forse qualcuno non se n’è accorto: l’autonomia non riguarda più soltanto alcune regioni del Nord. Riguarda quasi tutte. Che io sappia, soltanto Puglia, Basilicata e Calabria sono fuori da questo grande percorso. Dunque io non so chi possa andare in giro per l’Italia a fare campagna elettorale ignorando questo tema”. Infatti, accanto al Veneto e alla Lombardia che hanno presentato al Governo una proposta di autonomia differenziata su tutti i 23 punti previsti dall’art. 116 dell’attuale titolo V della Costituzione, ci sono molte regioni che hanno presentato proposte a geometria variabile, avocando a sé il diritto di legiferare e di gestire i propri residui fiscali in molti ambiti, in piena autonomia politica ed economica rispetto allo Stato e all’amministrazione centrale.

Per questo dunque appare ancor più necessario e urgente che si apra un dibattito pubblico e che si avvii una mobilitazione generale. Perché il tema non può restare confinato nel perimetro di una campagna elettorale.

Ben venga allora l’iniziativa del preside Lorenzo Varaldo del Manifesto dei 500 e di Rossella Latempa, insegnante di Matematica e Fisica, promotori dell’incontro del 6 aprile, che ci invitano a Verona, nel cuore delle più forti istanze autonomistiche, a scandagliarne tutte le implicazioni insieme a Floriana Cerniglia, docente ordinario di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica di Milano, e Marco Esposito, giornalista de Il Mattino di Napoli, autore di numerose inchieste sull’autonomia regionale e del libro “Zero al sud”. E non solo: in questo prezioso sforzo di informazione condivisa, condizione ineludibile per qualunque scelta responsabile, individuale e collettiva, il Manifesto dei 500 di Torino ha elaborato un fascicolo significativamente intitolatoDivide et impera’ con 20 domande e 20 risposte che, sinteticamente ma in modo efficace, ci permettono di entrare subito nel merito della questione.

Siamo di fronte a una possibile riforma del sistema d’istruzione nazionale che potrebbe stravolgerlo completamente, mettendo un’ipoteca sul futuro del nostro Paese e delle giovani generazioni.

Mi rivolgo a tutti gli insegnanti: la nostra consapevolezza e il nostro contributo alla discussione e alla mobilitazione questa volta davvero non sono opzionabili.

fonte: orizzontescuola.it

Santi, bronzi, rom e rifugiati: l’incredibile storia di Riace di Tonino Perna

Santi, bronzi, rom e rifugiati: l’incredibile storia di Riace di Tonino Perna

 L’accanimento terapeutico del Ministro degli interni nei confronti di Domenico Lucano e del piccolo Comune di Riace non ha solo il sapore dello squadrismo. C’è qualcosa di più che fa impazzire il cuore leghista del leader della destra italiana: come è possibile che un piccolo, banale, marginale Comune della Terronia possa acquistare tanta fama e consensi a livello internazionale? possa presentare una immagine dell’Italia accogliente, umana, con i colori del Sud, contrapposta alla sua visione tetra e razzista del nostro paese. Non è accettabile per chi vuole gareggiare con Orban e l’estrema destra europea sul piano di “chi ce l’ha più duro”, di chi butta fuori, massacra, tutti gli stranieri senza portafoglio. Malgrado i suoi sforzi, il suo cinismo, non ce la farà a distruggere questa storia, a seppellirla negli scantinati della storia.

Riace, infatti, ha una storia di lunga durata alle sue spalle, una storia millenaria che parte dai coloni greci e arriva ai giorni nostri passando per eventi speciali che ne hanno segnato il cammino. E Riace è pericolosa perché indica alla sinistra smarrita che abbiamo una strada in comune, dei valori fondamentali e basilari, che è possibile riscoprire le nostre radici e costruire una nuova identità. E’ quello che ha fatto Domenico Lucano rintracciando storicamente un filo conduttore nella storia di Riace che parte dalla resistenza al consumismo tipico delle aree urbane, al valore del legame sociale, di una storia dell’accoglienza che ha radici antiche e sfida la modernità neoliberista.

Questo messaggio emerge con forza nel saggio di Pietro D. Zavaglia, (Bronzi, Santi e Rifugiati: il caso di Riace, Castelvecchi, 2018). Dei tanti libri che sono usciti su Riace e Mimmo Lucano il lavoro di Zavaglia ha il merito di aver guardato a questo piccolo paese dell’estremo sud attraverso le “onde lunghe “ della storia di braudeliana memoria. Ne emerge un quadro affascinante che partendo dalla prestigiosa e ricca Kaulon, fondata dai coloni greci nel VIII secolo d.C., che aveva con molte probabilità come protettori i Dioscuri Castore e Polluce, che nel tempo si sono trasformati nei due santi medici che venivano dall’Oriente e che, narra la leggenda, furono visti uscire dal mare di Riace: i Santi Cosma e Damiano.   Santi che vengono festeggiati due volte l’anno, nel mese di maggio e di settembre, e proprio tra il 26 e il 27 settembre la festa dei santi medici si trasforma in una straordinaria festa del popolo Rom proveniente da diverse parti d’Italia, e non solo. Sempre nello stesso tratto di mare, nello stesso scoglio semisommerso, vengono nell’agosto del 1972 “pescati” e portati a riva i famosi Bronzi di Riace, le più belle statue bronzee che esistano al mondo e che sono state realizzate nel V secolo a.C. Infine, nell’estate del 1998 lo sbarco nella stessa spiaggia di Riace di un barcone con centinaia di curdi inaugurò la storia dell’accoglienza che ha reso famoso in tutto il mondo questo villaggio e il suo sindaco.

Leggere questo libro permette di andare al di là della cronaca di questi giorni e, al contempo, capire le radici profonde di quello che è stato giustamente chiamato “modello Riace”, ovvero di una comunità che ha messo al primo posto la solidarietà umana, la festa, la gioia della condivisione, la convivenza pacifica di persone provenienti da tutti i sud del mondo.

Sbaraccopoli di Tonino Perna di Tonino Perna

Sbaraccopoli di Tonino Perna di Tonino Perna

Sbaraccopoli : colpe e omissioni della Sinistra

 

Lo spettacolo dell’abbattimento della baraccopoli di San Ferdinando ha fatto aumentare il consenso degli italiani verso il ministro/presidente Supermacho. Per chi non conosce la situazione e vede solo le immagini in Tv o sui social non può che essere d’accordo con questa operazione che da vent’anni si trascina senza una soluzione. Che poi i migranti siano stati spediti in Sprar o Cas dove difficilmente trovano un lavoro e ritorneranno in massa nella piana di Gioia Tauro-Rosarno è un dato che non interessa a nessuno, perché non si conosce e non si vedrà quando accadrà inesorabilmente ed altre baraccopoli saranno edificate.  La questione di fondo è molto semplice: gli abitanti dell’area non sono disponibili ad affittare le case ai “niri”. Gli enti locali, la Prefettura, hanno trovato nel tempo come soluzione una tendopoli che può ospitare fino a quattro-cinquecento braccianti mentre nei momenti clou si arriva a oltre 2000.

Dalla fine del secolo scorso, da quando sono state scoperte le truffe alla Ue e i produttori locali sono stati costretti a raccogliere le arance, sono migliaia i braccianti prima comunitari (albanesi, rumeni, bulgari) e poi sempre più extracomunitari (in prevalenza dell’Africa sub-sahariana) che si stabiliscono ogni anno in questa pianura rigogliosa, dove l’arancio vive all’ombra di ulivi giganteschi, dove si producono metà delle clementine italiane e quasi un terzo dei kiwi. E ogni anno sono passati leader politici e sindacali che di fronte alle baraccopoli (perché ce n’è più d’una) hanno gridato allo scandalo. Ma, niente è accaduto. Rosarno e San Ferdinando hanno avuto in passato famosi sindaci comunisti, qualche sindacalista coraggioso, ma non si è andati al di là della denunzia. Certo, la soluzione non è facile, la popolazione è diventata ostile, e la Sinistra è abituata a discutere, fare analisi, organizzare comitati, mentre la Destra trova facilmente le soluzioni immediate e conquista consensi crescenti.   E’ la scorciatoia l’arma politica della Destra che governa nel nuovo secolo. Per esempio, di fronte agli effetti della globalizzazione, criticata per tanto tempo dalla sinistra radicale senza indicare una alternativa concreta e facilmente raggiungibile, Trump e C. hanno trovato la scorciatoia dei dazi alle importazioni e del blocco dei flussi migratori, e l’operaio nordamericano si è sentito protetto, anche se nel medio periodo ne pagherà le conseguenze.   Così, di fronte ad una condizione disumana, come quella che si è vissuta per troppo tempo nella baraccopoli di San Ferdinando, usare le ruspe per distruggerla rassicura l’opinione pubblica italiana, dato che l’operazione è stata fatta in nome della legalità e dell’igiene pubblica.   Ma, già nel prossimo autunno, in coincidenza con la stagione agrumaria, si formeranno nuove baraccopoli perché le cause di questo fenomeno non sono state intaccate. Per fortuna, c’è chi lavora nell’ombra per trovare delle strade alternative che trasformino le filiere dello sfruttamento nella piana di Gioia-Rosarno, per inserire con dignità queste persone all’interno di una rete di imprese responsabilizzate sul piano ambientale quanto su quello dei diritti dei lavoratori. E’ un progetto che si sta realizzando grazie ad una nuova alleanza Sud/Nord che ha già dato in passato buoni frutti. Ne riparleremo alla prossima occasione.

 

La Calabria, il lavoro, il pericolo di rottura dell’Unità nazionale di Massimo Covello di Massimo Covello*

La Calabria, il lavoro, il pericolo di rottura dell’Unità nazionale di Massimo Covello di Massimo Covello*

 In questo primo scorcio di 2019 due grandi questioni concrete, che condizionano e condizioneranno la vita in primo luogo dei calabresi , sono state occultate o messe in ombra dalla propaganda politica: il perdurare della crisi economica e il rischio secessione del Nord per effetto della cosiddetta “autonomia differenziata”, richiesta da alcune regioni. Nonostante ciò ad occhi attenti ed interessati al bene comune non è potuto sfuggire che le politiche economiche agite in questi mesi dal governo vanno in una direzione sbagliata. Nessuno dei nodi strutturali che da anni sono la vera causa del declino dell’intero paese è stato aggredito. Invece di politiche per il lavoro, di investimenti pubblici mirati e qualificati si sono definite misure estemporanee e sgravi fiscali alle imprese che non creano lavoro stabile e con diritti. Invece del contrasto alle disuguaglianze, si è pensato alla flat tax che favorisce le classi più ricche. Invece di politiche industriali si persiste nella fiducia cieca al mercato . Invece di sviluppo sostenibile, si eludono i più importanti obiettivi di una riconversione ecologica dell’economia. L’unica misura nuova nella forma, sia pur piena di contraddizioni ed equivoci messa in campo, è il cosiddetto “reddito di cittadinanza” di cui vedremo gli sviluppi e gli impatti, non si può dire altrettanto di “quota 100” che lascia inalterata la Fornero rispondendo solo ad una nicchia di aspettative. La legge di bilancio, il principale provvedimento economico per il 2019- si presenta quindi come un’occasione mancata, un testo contraddittorio. Tra poche luci e molte ombre si è persa un’occasione per cambiare pagina e determinare scelte coerenti con un nuovo modello di sviluppo fondato sul lavoro, la lotta alle diseguaglianze, i diritti sociali. Come suggerivano inascoltati, non solo la CGIL ma economisti accorti e non asserviti al neoliberismo imperante, sarebbero serviti investimenti pubblici per le tecnologie e le produzioni di beni e servizi “verdi”, in grado di aumentare la sostenibilità dell’economia, di ridurre il consumo di energia e materie prime non rinnovabili così come l’impatto sul cambiamento climatico e il consumo di suolo, di favorire lo sviluppo di energie rinnovabili e di sistemi di trasporto sostenibili; la diffusione e applicazione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione; l’espansione delle conoscenze e della produzione di beni e servizi legati alla salute e al welfare pubblico. A queste scelte sbagliate si aggiunge il dato che è una legge di bilancio dove tra l’altro i conti non tornano, tanto da prospettarsi, senza voler essere cassandre, una manovra correttiva nei prossimi mesi, magari dopo l’elezioni europee. Intanto si registrano pesanti battute d’arresto sui consumi e la produzione industriale. In questo scenario il Mezzogiorno e la Calabria in particolare continuano a perdere pezzi come dimostrano la crisi del porto di GioiaT. con conseguenze drammatiche sull’occupazione e gli annunciati 833 licenziamenti della SIRTI con un impatto di circa 100 unità tra la Calabria e la Sicilia, solo per stare alle ultime vertenze aperte. Su questo quadro drammatico di crisi economica ed occupazionale potrebbe abbattersi come una mannaia, qualora non venisse fermata, la cosiddetta “ secessione dei ricchi” per come l’ha giustamente definita il Prof. G.Viesti. Per troppo tempo, tanti governi hanno compiuto scelte nefaste a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione.

Oggi siamo al fatto , molto pericoloso, che tre Regioni come il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno definito, senza nessun dibattito pubblico ne parlamentare, col governo un accordo di “autonomia rafforzata” apparentemente nell’alveo del dettato costituzionale. Si tratta di un inganno evidente per come è stato più volte scritto dall’ on. Loiero e da tanti insigni studiosi: una devoluzione che spaccherebbe l’Italia. Le questioni centrali sono due: La prima riguarda le risorse finanziarie. L’obbiettivo è di trattenere sul territorio i 9/10 del gettito fiscale. La seconda e che si richiedono le attribuzioni di 23 aree di competenze su 23 ,cioè su tutte quelle previste dall’art 117 della Costituzione. Una devoluzione totale di potestà quindi, compreso fisco, demanio e istruzione e che si pone tra l’altro di introdurre la contrattazione regionalizzata, o per meglio dire regolamentare le “gabbie salariali”. La mobilitazione di tante forze, politiche, sociali, culturali, ecclesiastiche, anche Istituzionali , finalmente più attente ed accorte, ha rallentato questo disegno, ma non l’ha scongiurato. Serve continuare con l’azione di informazione, acquisizione di conoscenza e mobilitazione anche di piazza se necessario. E’ quello che CGIL-CISL UIL hanno fatto con la straordinaria manifestazione del 9 Febbraio scorso a Roma. In essa la CGIL tramite il suo neosegretario generale compagno Maurizio Landini ha manifestato tutta la sua contrarietà a questo disegno, sostenendo che :” i cittadini devono avere tutti gli stessi diritti fondamentali, sanità, istruzione, lavoro, mobilità a prescindere da dove nascono, altrimenti è messo in discussione il concetto stesso di unità del Paese. Tenere unito il Paese significa ridurre le diseguaglianze e le ingiustizie sociali”. Non sarà una Primavera tranquilla, ma è chiara la “ Via Maestra” .

 

Casali del Manco 21 Febbraio 2019

*segretario regionale Fiom Cgil

 

 

Autonomia, i conti non tornano e lo Stato si dissolve di Massimo Villone di Massimo Villone

Autonomia, i conti non tornano e lo Stato si dissolve di Massimo Villone di Massimo Villone

 Per il regionalismo differenziato diamo il benvenuto al capitano Salvini sulla “nave ‘e Francischiello” della regia marina borbonica. I testi ci sono ma non ci sono, i nodi sono sciolti ma rimangono aggrovigliati, il parlamento è centrale e stiamo pensando come ma alla fine non potrà modificare nulla, in ogni caso avanti tutta, anzi mezza, a pensarci meglio pianissimo e ci si vede dopo le europee.

Se non fosse una vicenda che in prospettiva rivolta il paese come un calzino e fa strame della Costituzione, e in specie dei diritti degli italiani e dell’unità della Repubblica, ci sarebbe da ridere. Soprattutto due sono i punti che turbano.

Il primo è nelle cifre, che secondo gli attori in campo dimostrano tutto e il contrario di tutto. Nel suo ultimo proclama/diffida/appello/lettera ai meridionali il governatore Zaia vorrebbe addirittura argomentare che al Sud vanno più soldi e risorse pubbliche che al Nord. Non volendo qui sprecare spazio e tempo, rinviamo alla lettera di risposta di un cittadino che il 22 febbraio su Basilicata24.it con fatti e cifre gli consiglia di tornare alle scuole serali. Per noi, la secessione dei ricchi non è affatto fake news.

Comunque, dalla confusione si esce non con i dati di Zaia, ma con un confronto serio su dati scientificamente solidi, elaborati e discussi in una sede autorevole e non sospetta.

Inoltre, è indispensabile che non si riduca tutto a un problema di spesa pubblica. Tanto meno in chiave di presunta inefficienza e predisposizione al malaffare degli amministratori del Sud, come suggerisce Zaia. Anzitutto, gli ricordiamo Formigoni e Galan. E di sicuro i cittadini del Sud non hanno alcun interesse a difendere carrozzoni maleodoranti. Probabilmente, avrebbero poco o nulla in contrario alla soppressione delle regioni come tali, se mai fosse possibile.

Ma qui c’è un dissolvimento dello Stato attraverso il ritaglio di quote della potestà legislativa statale di dettare principi fondamentali in settori cruciali.

È un ruolo che va difeso, a tutela dell’eguaglianza dei diritti e dell’efficienza del sistema paese, che nel mondo di oggi non si perseguono con le piccole patrie. Questo è evidente in settori chiave come scuola, sanità, ambiente, beni culturali, infrastrutture. Ad esempio, leggiamo su queste pagine che le tre regioni richiedenti hanno il primato del consumo di suolo e della cementificazione. Regioni virtuose?

Per questo, il secondo punto che molto preoccupa è il perdurante tentativo di comprimere il ruolo del parlamento, di sicuro il luogo appropriato per affrontare i temi anzidetti. Invece, pare che si discuta per definire il percorso parlamentare. Ma non c’è proprio niente da definire. Vanno applicati integralmente l’art. 72 della Costituzione e i regolamenti. Si richiama ancora la prassi seguita per i culti acattolici per l’inemendabilità del ddl governativo recante le intese. Come ho già scritto su queste pagine, è inapplicabile.

Anzi, a voler essere precisi, nella specie non c’è alcuna prassi, trattandosi di una prima assoluta, senza precedenti. Il percorso va disegnato ex novo. E allora qualunque limitazione si voglia introdurre nel lavoro parlamentare si mostra arbitraria, e contraria al chiaro dettato della Costituzione e dei regolamenti. Quale motivazione può mai essere idonea a comprimere il ruolo del parlamento, quando innegabilmente si tocca tutto il paese, tutte le persone che in esso vivono, la capacità dello stato di provvedere ai loro bisogni, la stessa unità della Repubblica? Dunque, o pieno ruolo dei parlamentari, o – come ho già scritto – conflitto in Corte costituzionale per quelli che ne fossero impediti.

Non interessa la generica rassicurazione offerta nei talk show o sulla stampa da questo o quell’autorevole personaggio. Basta alla trattativa privata tra leghisti e governatori. Vogliamo le carte, tutte e non solo le parti generali e concordate delle intese da ultimo disponibili sui siti del governo.

È sempre nei dettagli che si trova il peggio.

È bene che dopo l’Abruzzo a M5S venga il segnale che le iniziative di immagine – come ora in Sardegna il taglio dei vitalizi agli ex consiglieri – non risollevano le sorti elettorali. Si deve tenere il campo nelle partite cruciali, e tale è il regionalismo differenziato. Quindi, si parli chiaro. E soprattutto basta con gli spot della serie “facimm’ ammuina”.

Federalismo differenziato Qualche riflessione a supporto di un dibattito solido e informato di Mariella Volpe

Federalismo differenziato Qualche riflessione a supporto di un dibattito solido e informato di Mariella Volpe

 

  1. Condizioni particolari di autonomia

L’articolo 116, comma 3, della Costituzione prevede che la legge ordinaria possa attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali e nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119.

I recenti referendum di Veneto e Lombardia sono stati seguiti da ulteriori iniziative e valutazioni da parte di altre regioni ordinarie, anche del Mezzogiorno, e si inseriscono nel quadro di un rilancio dei temi dell’autonomia e della sussidiarietà, al fine di conseguire nuovi equilibri tra le varietà e le specificità territoriali.

Importante sottolineare, tuttavia, la necessità di mantenere una adeguata coerenza tra l’articolo 116 e l’articolo 119 che, come noto, fissa i principî generali delle modalità di finanziamento delle Autonomie territoriali, ma soprattutto di far si che il percorso di attuazione dell’art. 116 continui ad essere guidato, in un‘ ottica di sistema, dalla tutela dell’ unità giuridica ed economica del Paese, dalla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, dal principio di leale collaborazione.

  1. I residui falso problema

Tutto il dibattito politico attuale si fonda sulla tesi del diritto alla restituzione del gettito fiscale generato nelle aree forti del Paese, altrimenti destinato a finanziare un flusso eccessivo di spesa pubblica a favore del Mezzogiorno e adotta, a supporto di tale assioma, i risultati del calcolo del cosiddetto residuo fiscale.

Ora, al di là dell’esistenza di problemi metodologici – che sconsigliano la realizzazioni di saldi, (soprattutto utilizzando la banca dati CPT[1]) o che ne propongono una serie di revisioni[2] per tener conto, ad esempio, della distribuzione territoriale degli interessi – riteniamo che il saldo tra individui (entrate pro capite – spese pro capite) sia un indicatore troppo opaco in quanto prescinde dai fabbisogni e dalla situazione economica. All’interno delle varie componenti della redistribuzione tale indicatore coglie essenzialmente la redistribuzione tra individui, configurandosi soprattutto come una misura della diversa distribuzione della ricchezza sul territorio. Se si rimane nel mondo degli individui appare più utile mantenere i due indicatori separati, analizzando separatamente e in tutta la loro complessità entrate e spese.

Più in dettaglio:

  • Il prelievo fiscale è commisurato alla capacità contributiva, mentre la spesa pubblica dovrebbe realizzarsi in modo che i cittadini ricevano da essa benefici tendenzialmente uguali, indipendentemente dalla loro capacità contributiva e dalla loro residenza.
  • Di conseguenza, i residui fiscali dei contribuenti con basi imponibili più elevate sono naturalmente positivi e la loro ampiezza fornisce una misura dell’entità della redistribuzione interpersonale (tra ricchi e poveri) operata dal settore pubblico.
  • In altri termini, il segno negativo dei residui del Mezzogiorno null’altro è che il rovescio della medaglia del dualismo italiano, che porta la redistribuzione interpersonale a tradursi, meccanicamente, in redistribuzione interregionale.

Posto in questi termini il problema dei residui, il tema della autonomia differenziata si pone quindi non come una questione amministrativa o di calcolo tecnico, ma come un chiaro problema politico. Le modalità della sua realizzazione andranno ad influenzare e modificare tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, poiché:

  1. a) Il prelievo riguarda gli individui, non i territori e i residui fiscali per una regione sono semplicemente la somma dei residui fiscali degli individui che risiedono in quell’area.
  2. b) I diritti di cittadinanza non possono variare in base alla residenza. Proposte di modifiche costituzionali che conducano ad offerte differenziate dei diritti civili e sociali e dei beni di merito, istituzionalizzerebbero le disuguaglianze interregionali: lo Stato, in tal caso, perderebbe la sua funzione costituzionale di bilanciamento degli interessi che vale in uno Stato unitario e, ancor più, in uno Stato che si avvia ad essere federale.
  3. c) E’ necessario mantenere la coerenza tra art. 116 e art.119, cioè un contesto di organica e solidale valorizzazione dell’intero sistema delle autonomie, oltre che di salvaguardia dei fondamentali valori costituzionali di unità giuridica ed economica del Paese.

Tale assunto ha evidenti implicazioni sul piano fiscale e finanziario. L’articolo 116, comma 3, stabilisce che le forme e le condizioni particolari di autonomia devono essere coerenti con l’articolo 119 che, come noto, fissa i principî generali delle modalità di finanziamento delle Autonomie territoriali. Esiste quindi un esplicito richiamo alle esigenze perequativo-solidaristiche dell’intero sistema di finanza pubblica multilivello, incluse anche le eventuali forme di federalismo differenziato: anche le Regioni che assumono competenze rafforzate devono partecipare al sistema di redistribuzione interregionale delle risorse attivato dal governo centrale.

  1. Cosa dicono i dati 

Ai fini di un dibattito informato e consapevole su tutte le tematiche citate, e al fine di misurare gli effetti potenziali della autonomia differenziata su ciascuna regione, è fondamentale eliminare luoghi comuni e dare alla riforma federale basi più solide, soprattutto facendo buon uso di buoni dati. Solo basi informative molto disaggregate e finalizzate consentono il necessario lavoro di approfondimento, ancor più in una realtà complessa come quella italiana (più complessa di quella che l’analisi dei residui fiscali consente di ricostruire).

CPT e i suoi dati, fanno storicamente da baluardo soprattutto all’art. 119 della Costituzione, ponendo il problema della sperequazione territoriale, della sostituzione tra risorse ordinarie e risorse aggiuntive, della necessità di una corretta perequazione; ma, al tempo stesso, possono contribuire al percorso dell’art. 116, il cui presupposto è che al trasferimento di competenze dal centro alla periferia segua sia una maggiore efficienza relativa nella gestione dei servizi che un trasferimento di risorse proporzionale[3].

I modelli di comportamento tra macroaree rimangono profondamente sperequati non solo nella spesa ma nella erogazione dei più rilevanti servizi collettivi.

Il 70.7 per cento della totalità della spesa del Settore Pubblico Allargato in Italia continua ad essere concentrato nel 2016 nelle regioni del Centro-Nord, il 29,3 per cento per cento nel Mezzogiorno, a fronte di una popolazione pari rispettivamente al 65,7 per cento e al 34,3 per cento.

Si confermano sostanzialmente gli storici modelli di comportamento per macro area: quello del Mezzogiorno che dispone di una quota di spesa pubblica totale superiore rispetto alla quota di PIL ma inferiore rispetto alla quota della relativa popolazione; quello del Centro-Nord che registra invece una percentuale di spesa pubblica totale inferiore a quella del PIL, ma superiore a quella della popolazione.

Non a caso il raggiungimento di una quota di spesa in conto capitale nel Mezzogiorno superiore o almeno pari alla rispettiva quota di popolazione rappresenta da molti anni uno degli obiettivi espliciti di politica economica, a parziale correttivo di una spesa pubblica complessiva squilibrata (ora art. 7bis L. 18/2017).

Se si aggiungono le entrate si vedrà che solo all’inizio del periodo il confronto tra entrate e PIL è a favore del Nord; si riallinea a metà periodo; si inverte nel 2016. Lo sforzo fiscale del Mezzogiorno cresce e il contributo del Mezzogiorno nel 2016 risulta essere superiore rispetto al relativo PIL.

 

INDICATORI DELLA DISTRIBUZIONE TERRITORIALE DI POPOLAZIONE, PIL, SPESA TOTALE NETTA ED ENTRATE TOTALI

(anni 2000, 2008 e 2016; percentuale su totale Italia)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

In termini monetari, ogni cittadino del Centro-Nord si è avvalso mediamente, a prezzi costanti 2010, di circa 15.408 euro pro capite rispetto ai 11.948 euro del cittadino del Mezzogiorno. Nelle due aree l’andamento della spesa totale pro capite appare simmetrico in tutto l’arco temporale considerato, con un tasso di crescita omogeneo e un divario medio di 3.460 euro pro capite tra Centro-Nord e Mezzogiorno.

Anche tenendo conto di una più ridotta capacità di spesa delle amministrazioni meridionali nell’influenzare tale divario, l’ampiezza dello stesso si traduce in un circolo cumulativo che aggrava la persistenza di condizioni di offerta meno vantaggiose per il cittadino del Mezzogiorno, sia con riferimento ai servizi alla persona che con riferimento ai servizi destinati a creare condizioni favorevoli allo sviluppo.

 

SPA- SPESA PRIMARIA AL NETTO DELLE PARTITE FINANZIARIE (anni 2000-2016; valori in euro pro capite costanti)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

Anche la spesa in conto capitale, che prima degli anni 2000 aveva mantenuto un andamento favorevole alle regioni meno sviluppate, in linea con gli obiettivi di riequilibrio, si è andata man mano riducendo, risultando inoltre la componente che si è deteriorata maggiormente durante gli anni della crisi. Il suo rapporto sul PIL passa dal 5,8 per cento del 2009 al 4,3 del 2016; gli investimenti in particolare si riducono nel 2016 del 35 per cento rispetto al 2009, passando, in termini percentuali, dal 4,3 al 2,7 per cento del PIL.

 

SPA – SPESA PUBBLICA IN CONTO CAPITALE AL NETTO DELLE PARTITE FINANZIARIE (anni 2000-2016; euro pro capite costanti 2010)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

Anche per la spesa in conto capitale il divario medio tra il cittadino meridionale e quello del Centro Nord è di 148 euro pro capite.

La leggera ricomposizione dei livelli di spesa a favore del Mezzogiorno nel 2015 non ha modificato la distribuzione delle risorse verso alcuni settori rilevanti per l’erogazione di servizi collettivi. I livelli di spesa destinati all’investimento in settori fondamentali risultano nel Centro-Nord sempre nettamente superiori a quelli del Mezzogiorno e, nella maggior parte dei casi, in forte riduzione, evidenziando con forza il divario tra individui. Significativo notare che le differenze più rilevanti tra le due macro aree riguardano i servizi essenziali: Politiche sociali, Sanità, Reti infrastrutturali, Mobilità.

La strutturalità del divario in termini di spesa è confermata dalla disparità in termini di dotazioni effettive e di servizi offerti: i treni sono più vecchi, più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5,6 per cento della rete complessiva; il numero di presenze turistiche per abitante è pari nel 2015 a 3,7 nel Mezzogiorno contro i 7,9 del Centro-Nord; l’irregolarità nella distribuzione dell’acqua riguarda ancora il 18,3 per cento delle famiglie del Mezzogiorno a fronte del 4,9 per cento del Centro-Nord; i Comuni del Mezzogiorno che dispongono di strutture per l’infanzia (asilo nido, micronidi o servizi integrativi e innovativi) sono meno della metà di quelli del Centro-Nord (67,5 per cento nel Centro-Nord a fronte del 32,7 per cento del Mezzogiorno); la percentuale di Anziani trattati in assistenza domiciliare integrata (ADI) rispetto al totale della popolazione anziana è pari al 4,7 per cento nelle regioni centrosettentrionali, contro il 3,3 per cento delle regioni meridionali.

 

SPA – TOTALE SPESA NETTA PER MACRO SETTORE E PER MACRO AREA

(anno 2016; euro pro capite costante 2010)

 

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

 

La leggera ricomposizione dei livelli di spesa a favore del Mezzogiorno nel 2015 non ha modificato la distribuzione delle risorse verso alcuni settori rilevanti per l’erogazione di servizi collettivi. I livelli di spesa destinati all’investimento in settori fondamentali risultano nel Centro-Nord sempre nettamente superiori a quelli del Mezzogiorno e, nella maggior parte dei casi, in forte riduzione, evidenziando con forza il divario tra individui. Significativo notare che le differenze più rilevanti tra le due macro aree riguardano i servizi essenziali: Politiche sociali, Sanità, Reti infrastrutturali, Mobilità.

Questo scenario, se enfatizza il ruolo delle risorse aggiuntive che nel Mezzogiorno sostengono pesantemente la spesa in conto capitale, rende tuttavia irrilevante la politica ordinaria, che giunge a rappresentare, in termini pro capite nel 2015, meno di un terzo del totale delle risorse in conto capitale e circa la metà di quelle aggiuntive.

Ciò vuol dire che, in assenza delle risorse aggiuntive, i 759 euro pro capite, di cui ha usufruito il cittadino del Mezzogiorno nel 2015, si ridurrebbero a 213, pari a meno di un terzo, mentre i 551 del cittadino del Centro-Nord rimarrebbero sostanzialmente invariati.

La consapevolezza del pesante effetto sostitutivo della politica aggiuntiva e della sostanziale irrilevanza della politica ordinaria nel Mezzogiorno hanno fatto ritenere necessaria la reintroduzione nella L. n. 18/2017[4], di principi per il riequilibrio territoriale (art. 7bis).

La norma dispone che le Amministrazioni Centrali si conformino all’obiettivo di destinare agli interventi nel territorio meridionale (Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna) un volume complessivo annuale di stanziamenti ordinari in conto capitale proporzionale alla popolazione di riferimento a decorrere dalla Legge di bilancio per il 2018.

Le risorse ordinarie vengono quindi orientate al rispetto del principio di equità, finalizzato a far sì che il cittadino, a qualunque area del Paese appartenga, possa potenzialmente disporre di un ammontare di risorse equivalente, mentre le risorse della politica aggiuntiva, prevalentemente destinate al Sud, hanno la funzione di garantire la copertura del divario ancora esistente, dando attuazione al co. 5 dell’art. 119 della Costituzione.

  PA – SPESA IN CONTO CAPITALE E RISORSE AGGIUNTIVE

(anni 2013-2015; euro pro capite costanti 2010)

Fonte: Sistema Conti Pubblici Territoriali

 

  1. Fabbisogni e costi standard: molteplici tentativi ma senza risultati

Per consentire a tutti gli italiani di godere degli stessi diritti di cittadinanza, ed in particolare dello stesso livello essenziale delle prestazioni pubbliche più importanti, la Costituzione prevede all’articolo 117.II.m che lo Stato abbia l’onere della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, i cosiddetti LEP. L’articolo 120. II della Costituzione, richiede poi che sia mantenuta “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. L’importanza dei LEP e dei conseguenti costi standard è ribadita con forza anche nella legge 42/2009 attuativa del federalismo fiscale.

Tale determinazione non è però mai avvenuta, dal 2001 ad oggi, nonostante la costituzione di numerose Commissioni e Gruppi di Lavoro[5]. Infatti il passaggio da un sistema di finanziamento basato sulla spesa storica ad uno basato su parametri oggettivi di fabbisogno e di costo è tuttora assai complesso, soprattutto tecnicamente, ma anche perché esso richiede un’azione politica di mediazione degli interessi delle diverse comunità e parti coinvolte. L’uso di diversi indicatori tecnici può infatti produrre esiti assai differenti.

La scelta di fondo dei vari Gruppi di lavoro istituiti è stata quella di orientarsi verso la determinazione di livelli minimi, intesi come quelli che il sistema pubblico riesce a garantire in presenza di una dotazione di risorse limitata, piuttosto che verso la determinazione di livelli essenziali, intesi come quelli che soddisfano obiettivi di benessere e di equità sociale.

L’approccio – sostenuto soprattutto dalla RGS – sembra essere pertanto un approccio top down che, partendo dai vincoli finanziari e utilizzando parametri di “realismo e fattibilità”, arriva ad un riparto basato su parametri proxy del fabbisogno (età, genere, indicatori demografici,…) moltiplicati per la popolazione residente in ciascun territorio; ad un riparto quindi non dissimile da quello attuali.

In tali condizioni il costo standard non potrà che essere approssimato dal costo medio, avendo come benchmark la media della spesa delle regioni più efficienti in termini finanziari e di equilibrio di bilancio.

La determinazione invece dei livelli essenziali implicherebbe, anche alla luce di altre esperienze internazionali, un approccio bottom up, finalizzato a ricostruire non tanto le prestazioni che l’ente territoriale può offrire, quanto piuttosto quelle idonee al soddisfacimento di specifici bisogni, in grado di garantire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e, al tempo stesso, la loro erogazione in condizioni di efficienza e appropriatezza uniformi su tutto il territorio nazionale.

La questione è certamente annosa e complessa, anche alla luce del fatto che la dottrina e la normativa in materia non sono particolarmente avanzate e che la costruzione statistica di indicatori su livelli essenziali e costi standard richiede tempi molto lunghi, oltre ad una adeguata condivisione tra tutti i soggetti coinvolti.

Se però la determinazione delle risorse diviene un vincolo esogeno, allora non si tratta più di risolvere un problema di determinazione di un fabbisogno standard, ma più propriamente si ricade nell’ambito di un problema di riparto tra le regioni di un ammontare complessivo di risorse predeterminato per via esterna.

In tal modo, di fatto, verrebbero determinati dei Livelli essenziali di assistenza (LEA) che esprimono solo quello che si può fare con le risorse disponibili al fine di evitare l’insorgere di disavanzi di gestione.

Non a caso i vari GdL sono giunti alla determinazione che nel breve periodo la base sulla quale consolidare un ragionamento per definire i LEP e i costi standard sia la spesa storica che “certamente non può rappresentare un target, ma che è comunque indice dell’ esistenza di un grado di servizio seppur non definito con appropriatezza ed efficienza”.

Anche per le Regioni si è ritenuto opportuno valutare la spesa media ipotizzando un percorso dinamico di avvicinamento ad un costo standard determinato inizialmente dalla media della spesa delle Regioni e/o gradualmente dalla media della spesa delle regioni più efficienti ed efficaci (cfr. Corte dei Conti, Audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali, Bilancio, Finanze e Tesoro).

 

  1. Se si usasse il costo medio…

In assenza del costo standard, la spesa pro capite di lungo periodo può allora costituire una buona proxy a supporto di alcune valutazioni e forse anche al lancio di qualche provocazione.

Le informazioni disponibili da CPT consentono di ricostruire una proxy del costo medio e dei suoi differenziali fra aree e livelli di governo. È evidente che, trattandosi di un valore di spesa effettivamente erogata, si è lontani dal concetto costo minimo, inglobando potenzialmente tale valore le inefficienze locali o molteplici altre determinanti della variabilità (fattori strutturali, fattori istituzionali,…), ma si tratta di serie talmente lunghe e con un grado di dettaglio talmente spinto da rappresentare una proxy adeguata.

Il par. 3 (Cosa dicono i dati) racconta in dettaglio le varie sfaccettature della sperequazione territoriale; il dato principale, certo e incontrovertibile, è che la spesa pro capite nel Mezzogiorno, sia totale che in conto capitale, per i principali servizi pubblici e per tutti i livelli di governo, è storicamente più bassa che nel Centro Nord, certamente anche a causa di inefficienze locali, ma anche a causa dei minori finanziamenti, come costantemente rilevato nei Rapporti annuali CPT e come finalmente anche il dibattito giornalistico ormai assume.

 

Estratto da M. Esposito “Zaia: Nord mai favorito. Ma i numeri dicono altro”, Il Mattino, 22.1 2019

Allora, laddove l’art. 116 venisse applicato anche alle regioni del Mezzogiorno potrebbe rappresentare un contributo al riequilibrio della spesa?

Certamente se il principio di autonomia venisse integralmente applicato così come definito dalla Costituzione (art. 116. art. 119. ma anche art. 120 II e 117 II.m) e secondo i principi ribaditi nella L.42/2009, risulterebbe garantito il rispetto del principio di equità, cioè dell’indifferenza del luogo di residenza rispetto al diritto a pari prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, così come al dovere di contribuire al prelievo in base alla diversa posizione economica.

Se in attesa della definizione di LEP e costi standard si adottasse come proxy di spesa equa pro capite il costo medio, si genererebbe probabilmente un incremento della spesa a favore del Mezzogiorno, riequilibrandola di fatto al di là di ogni ipotesi di riserva (vedi 34 per cento).

A maggior ragione, sterilizzando la politica di coesione, potrebbe generarsi un auspicabile aumento della spesa ordinaria, riportando le risorse aggiuntive al ruolo ad esse attribuito dall’art. 119 della Costituzione.

 

****

[1] Per approfondimenti sui problemi metodologici cfr. Guida ai Conti Pubblici Territoriali (CPT), UVAL – DPS, e quanto riportato sul sito http://old2018.agenziacoesione.gov.it/it/cpt/index.html

[2] Cfr. Giannola Stornaiuolo, Un’analisi delle proposte avanzate sul “federalismo differenziato”, Rivista Economica della Svimez, n.1-2 2018

[3] Tutti i temi che costituiscono aspetti fondamentali di qualsiasi modello di federalismo fiscale e che incidono sul conferimento delle funzioni conseguente alla riforma del Titolo V della Costituzione e sull’attuazione dei principi contenuti negli articoli 119 e 116 dello stesso Titolo V in materia di finanza degli enti territoriali, sono indagabili attraverso CPT.

Già da qualche anno è stata infatti ricostruita e costantemente monitorata (oltre che utilizzata da tutte le istituzioni: UPB Senato, Commissione Bilancio Camera, …) una batteria di indicatori relativi a :

  • livello di decentramento della spesa pubblica consolidata;
  • livello di decentramento del gettito tributario;
  • ruolo delle entrate tributarie nel finanziamento corrente degli enti territoriali;
  • autonomia di entrata degli enti territoriali ;
  • equalizzazione della capacità fiscale;
  • ruolo delle regioni nel finanziamento degli enti locali.

[5] – Alta Commissione di Studio per la definizione dei meccanismi strutturali del Federalismo Fiscale (ACoFF) – 2002;

– Ministero per la semplificazione Normativa . Gruppo di lavoro per l’attuazione del disegno di legge sul federalismo fiscale – 2008

– Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (COPAFF). – Gruppo di Lavoro COPAFF “Fabbisogni/costi standard, LEP e funzioni fondamentali” – 2010

– Spending review (Cottarelli) – Gruppo di lavoro “Fabbisogni e costi standard” – 2014

 

 

 

Un centralismo regionale con il vestito di Arlecchino di Massimo Villone  di Massimo Villone 

Un centralismo regionale con il vestito di Arlecchino di Massimo Villone  di Massimo Villone 

 Silenzi e menzogne: così nasce l’Italia di domani. A partire dal famigerato accordo, che per colpa o dolo, fu stipulato con i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, a pochi giorni dal voto, dal governo Gentiloni, benché limitato agli affari correnti. A seguire con la trattativa privata e segreta tra la ministra – leghista e veneta – Stefani e i governatori. A seguire, ancora, con la sostanziale accettazione di tutte le richieste. Per finire con la pretesa che l’accordo sia solo ratificato in consiglio dei ministri, e poi tradotto in ddl governativo da approvare in parlamento senza modifiche. Dopo il voto in Abruzzo la Lega ha spinto gli accordi finalmente svelati in consiglio dei ministri a gran velocità.
In senso contrario ora un documento M5S antepone a ogni scelta i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e si pronuncia contro l’inemendabilità. Meglio tardi che mai. Vedremo. Gli accordi si mostrano anche peggiori di quel che si temeva. Sono nella sostanza confermate le ormai diffuse analisi di una “secessione dei ricchi”. Ma non è solo questione di soldi. C’è di più.
Siamo allo Stato che si dissolve. Non è solo un trasferimento alle regioni di qualche funzione amministrativa, in chiave di efficienza. Come è scritto negli accordi, si trasferiscono potestà legislative. Ciò avviene in materie di potestà legislativa concorrente – le 23 materie elencate dall’art. 117 Cost., co. 3 – in cui allo Stato competono le leggi di principio mentre le regioni già hanno la titolarità per quelle di dettaglio. Quindi, rimane possibile solo il trasferimento di una quota della potestà legislativa statale di principio.
Sulle censure giuridiche e politiche abbiamo già scritto, e torneremo. Qui conta segnalare un effetto inevitabile: per il numero e l’ampiezza delle materie coinvolte lo Stato si priva della capacità di formulare obiettivi e politiche nazionali in settori cruciali. Un prezzo inaccettabile non solo per l’eguaglianza e i diritti fondamentali, ma anche per il sistema-paese, così ridotto a miraggio irraggiungibile. Ancor più perché, se il disegno lombardo-veneto-emiliano non viene fermato o almeno radicalmente corretto, la rincorsa di altre regioni verso un modello analogo diventerà nei fatti politicamente necessitata e irresistibile. Un paese frantumato in un vestito di Arlecchino.
Si pensi, poi, alla regionalizzazione richiesta in più o meno ampia misura per strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie (al centro anche della richiesta da ultimo avanzata dalla giunta ligure). Con l’ovvio scenario futuro di potenziare un sistema di accordi tra le regioni del Nord e tra queste e le regioni limitrofe di stati esteri che agganci tutto il Nord all’Europa, lasciando il resto come appendice dell’Africa.
Cosa sarebbe accaduto nell’Italia di ieri se la novità gialloverde fosse stata già applicabile al paese? Nel 1978 il servizio sanitario nazionale non sarebbe nato, come anche l’autostrada del sole tra Nord e Sud, e l’alta velocità da Milano a Napoli. Mentre nell’Italia di domani vedremo la morte del Ssn e del sistema nazionale dell’istruzione. Non vedremo asili nido, refezione scolastica, cure mediche comparabili tra Nord e Sud. E nemmeno l’alta velocità fino a Reggio Calabria, o un decente sistema stradale e ferroviario in Sicilia.
Da altro punto di vista, la regionalizzazione di larga parte del pubblico impiego, e di materie come la tutela e sicurezza del lavoro, la retribuzione aggiuntiva, la previdenza integrativa, gli incentivi alle imprese, darà un colpo mortale al sindacato nazionale che oggi conosciamo. E l’iper-centralismo regionale soffocherà il governo locale molto di più di qualsiasi centralismo statalista. Lo ha capito Sala, lo capisce ora De Magistris.
In compenso, con la regionalizzazione dei beni culturali magari potremo ammirare meglio l’Ultima Cena di Leonardo, purché rigorosamente in fila dopo i cittadini lombardi. E almeno finirà il tormentone su quota 100. Con la previdenza integrativa regionale nei territori più fortunati si potrà anche andare in pensione prima. Poco male se al Sud si andrà dopo, e in aggiunta, si morirà anche prima per la minore aspettativa di vita. Anzi. Siamo o non siamo per l’uso efficiente delle risorse e contro ogni spreco di denaro pubblico?
Questa è l’Italia che alcuni vorrebbero per domani. È un’Italia in cui non ci riconosciamo. Non è quella che ci hanno consegnato i nostri padri, dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituente, passando per guerre, lutti e infiniti sacrifici.
«Si vuole dissolvere l’unità nazionale», De Magistris all’attacco del governo
Autonomia differenziata. La protesta del sindaco di Napoli in piazza Montecitorio: «Bisogna concedere forme di opportuna autonomia alle città. Invece quella attuale sembra la secessione dei ricchi»
Il Manifesto
15.2.2019
Una grande manifestazione contro la secessione del Nord

Una grande manifestazione contro la secessione del Nord

L’Osservatorio del Sud – constatata la grande e positiva partecipazione e condivisione suscitate dagli articoli sul sito, dalle iniziative, dagli articoli a stampa e online, dai dibattiti, dagli interventi e dagli appelli promossi dalla Associazione- ha in animo di proporre una grande manifestazione di tutti i meridionali che si oppongono alla secessione del Nord.
Una manifestazione, da tenersi in una delle città del Sud, che coinvolga tutti i cittadini, le associazioni, i partiti, i sindacati ed i movimenti che vogliono opporsi allo smembramento dell’unità del paese e che sono pronti, invece, ad essere parte attiva nella ricostruzione della classe dirigente del Mezzogiorno, delle sue città e dei suoi paesaggi.
Appello per un Coordinamento nazionale in difesa della Repubblica

Appello per un Coordinamento nazionale in difesa della Repubblica

Rivolgiamo un appello a donne e uomini liberi, alle soggettività politiche e sindacali, al mondo dell’associazionismo, ai movimenti che si riconoscono nei principi di uguaglianza e nell’universalità dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione.

Un appello per incontrarci e costituirci in un Coordinamento nazionale in difesa della Repubblica, dell’universalità dei diritti e della solidarietà nazionale contro il federalismo differenziale.

Va avanti l’approvazione “dell’autonomia regionale differenziata”, nel silenzio generale mentre l’opinione pubblica viene distratta dall’assordante propaganda razzista e xenofoba. Senza discussione politica diffusa e all’insaputa di milioni di cittadine/i si sta per determinare nel giro di poche settimane la mutazione definitiva della nostra architettura istituzionale, la destrutturazione della nostra Repubblica.

La vicenda è partita con i referendum svolti in Veneto e Lombardia nel 2017,cui ora si vuole dare seguito senza tenere alcun conto dei principi di tutela dell’eguaglianza, dei diritti e dell’unità della Repubblica affermati dalla Corte Costituzionale

La Lega che ha voluto i referendum in Lombardia e Veneto oggi è al Governo e pretende che il governo dia risposte interpretando le norme costituzionali sull’autonomia in modo eversivo per l’unità nazionale e l’universalità dei diritti. La maggioranza politica giallo verde non può consegnarsi alle istanze secessionistiche della Lega. Il Pd farebbe bene ad opporsi non solo a questa richiesta targata Lega ma anche all’autonomia differenziata posta dalla maggioranza PD dell’Emilia Romagna, in forme solo in parte dissimili. Dal 2017, durante il governo Gentiloni, ad oggi sulla scia di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna anche altre Regioni si stanno attivando per ottenere maggiori poteri e risorse grazie alla sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione del 2001.

Di fronte al rischio di una “secessione dei ricchi” è necessario un coordinamento delle forze che si oppongono a questo processo per dare vita a una mobilitazione efficace per bloccarla.

Un coordinamento che chieda anche una commissione di inchiesta parlamentare, ai sensi dell’art. 82 della Costituzione, sull’attuale stato delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali in ciascuna Regione Italiana, in modo da fotografare la situazione attuale già fortemente compromessa. Da una seria inchiesta parlamentare, tenuta anche a informare adeguatamente i cittadini, risulterebbero infatti gravi disparità fra Regione e Regione (soprattutto fra regioni a statuto speciale e regioni a statuto ordinario, fra regioni del nord e del sud del Paese).

La gestione e l’attribuzione delle risorse deve restare in un ambito nazionale condiviso da tutte le regioni e dai comuni

Questa verifica aprirebbe finalmente un dibattito consapevole, basato su dati oggettivi, sullo stato dei diritti in Italia e non favorirebbe ulteriori fughe in avanti, destinate ad aggravare ancora di più le disparità fra i cittadini residenti nelle diverse regioni italiane, che nel caso della sanità sono già al limite per il SSN.

Non sono stati nemmeno definiti e garantiti in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali di prestazione (LEP) nei diversi campi, rispetto ai quali dal 2001, a seguito della riforma del titolo V° della Costituzione, esiste un vuoto normativo, come denunciato più volte dalla Corte Costituzionale. Ogni scelta deve inoltre essere definita con il consenso di tutte le regioni e i Comuni, perché non è accettabile che diritti fondamentali vengano riservati ad alcune regioni e ad altre no, che le risorse vengano differenziate a danno delle aree più deboli e in difficoltà del nostro paese.

Per il sistema d’ istruzione, non si tratta di prevedere i livelli essenziali di prestazione, essendo una funzione dello Stato che deve garantire il diritto allo studio fino ai massimi livelli ed è equiparabile ad altre istituzioni della Repubblica.

Riteniamo necessario che non vi debbano essere ulteriori trasferimenti di poteri e risorse alle regioni su base bilaterale e che i trasferimenti sulle materie a loro assegnate debbano essere ancorati esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza.

L’Autonomia regionale differenziata non può avvenire a scapito anche delle autonomie locali, le istituzioni più vicine alla cittadinanza, in quanto le esproprierebbe di alcuni poteri a favore di nuovi carrozzoni centralizzati e inefficienti a livello regionale.

In questo contesto di grandi egoismi verrebbe soppressa l’universalità dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre a seconda del reddito dei loro residenti; per poterne usufruire nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca, in aperta violazione dei principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione.

In questo quadro vi sarebbe una ricaduta negativa prioritariamente sulle regioni del Sud e sugli abitanti non ricchi di tutt’ Italia con la progressiva privatizzazione dei servizi. Il Mezzogiorno viene condannato a essere privo di pari riconoscimento della cittadinanza, con ancor maggiore desertificazione degli investimenti e sempre più debole economia. L’autonomia regionale differenziata negherebbe così la solidarietà nazionale, la coesione e i diritti uguali per tutte/i che garantiscono l’unità giuridica ed economica del paese.

Di fronte a tutto questo, vi sono le nostre ragioni, l’esigenza di un’opposizione e di una lotta politica e sociale in difesa dell’universalità dei diritti e della solidarietà nazionale.

Promotrici/ori:

Paolo Berdini, Piero Bernocchi, Piero Bevilacqua, Marina Boscaino

Loredana De Petris, Gianni Ferrara, Eleonora Forenza, Loredana Fraleone

Domenico Gallo, Alfiero Grandi, Silvia Manderino, Loredana Irene Marino

Roberto Musacchio, Rosa Rinaldi, Giovanni Russo Spena, Guido Viale

Massimo Villone, Vincenzo Vita

hanno già aderito:

Mauro Beschi, Gaetano Rivezzi, Giulia Venia, Antonio Pileggi, Antonio Di Stasi
Fiorenzo Fasoli, Giulia Rodano, Maurizio Acerbo, Francesco Di Matteo, 

Moreno Biagini, Maria Paola Patuelli, Mari Agostina Cabiddu, Maria Ricciardi, Fabrizio Bellamoli, Luigi Pandolfi, Antonio Caputo, Alfonso Gianni, Daniela Caramel, Raffaele Tecce, Claudia Berton, Miria Pericolosi, Beppe Corioni, Cristina Stevanoni, Francesco Baicchi, Dino Greco, Silvia Chiarizia, Enzo Camporesi, Maria Longo, Battista Sangineto

Per aderire inviare a:

adesioni.coord.noautonomiadiff@gmail.com

Autonomia differenziata: un pericolo per l’unità nazionale? Recensione a G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi, Laterza, Roma-Bari, 2018 di Francesco Pallante

Autonomia differenziata: un pericolo per l’unità nazionale? Recensione a G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi, Laterza, Roma-Bari, 2018 di Francesco Pallante

1. Il larghissimo consenso politico che sta accompagnando la realizzazione del regionalismo differenziato[2] non esime gli studiosi dall’interrogarsi su giustificazioni, metodologie e conseguenze del procedimento in discussione. È quel che fa, in modo tanto polemico quanto stimolante, l’economista Gianfranco Viesti, in un librino, distribuito gratuitamente on-line dall’editore Laterza, intitolato Verso la secessione dei ricchi?[3].

Dopo aver presentato rapidamente il tema dell’autonomia regionale, sotto il profilo dei vantaggi e degli svantaggi che essa determinerebbe rispetto all’organizzazione accentrata dello Stato[4], e dopo aver, altrettanto rapidamente, ricostruito l’evoluzione più recente del regionalismo italiano, l’Autore entra nel vivo della questione, concentrandosi, in particolare, sulle iniziative poste in essere dall’Emilia-Romagna, a partire dalla risoluzione consiliare del 3 ottobre 2017, e dal Veneto e dalla Lombardia,a partire dai referendum regionali consultivi del 22 ottobre 2017.

Tali iniziative si inseriscono – com’è noto – nel solco tracciato dall’art. 116, co. 3, Cost., ai sensi del quale, su richiesta formulata dalla regione interessata, il Parlamento approva, a maggioranza assoluta, una legge che disciplina le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» da riconoscersi alla regione, nei limiti di determinate materie[5], sulla base di una previa intesa raggiunta tra lo Stato e la regione stessa. La Costituzione non specifica i dettagli della procedura, rinviando evidentemente a un successivo intervento legislativo la definizione della disciplina di attuazione. In maniera del tutto inusuale, è stato invece il governo, in accordo con le regioni che per prime hanno richiesto di avviare la procedura, a dare attuazione al dettato costituzionale, producendo un atto normativo sinora sconosciuto al nostro ordinamento: la pre-intesa, vale a dire l’accordo raggiunto tra il governo Gentiloni e le giunte regionali interessate il 28 febbraio 2018[6].

Molto ci sarebbe da dire in argomento, tanto sul piano delle fonti del diritto, la cui tenuta sistematica sempre più viene erosa dal proliferare inarrestabile della soft law, quanto sul piano della forma di governo, con particolare riguardo all’abdicazione, da parte del governo, del ruolo di tutela e promozione dell’interesse generale che, proprio nei rapporti legislativi tra lo Stato e le regioni, l’art. 127 Cost. inequivocabilmente gli affida. Non è questa, tuttavia, la sede in cui affrontare tali questioni di carattere generale. Qui ci si può limitare a mettere in luce le peculiarità procedurali che segneranno i procedimenti in atto:in primo luogo, la rimessione della negoziazione dell’intesa a una Commissione paritetica Stato-Regione;in secondo luogo, l’inemendabilità dell’intesa così raggiunta dal Parlamento, che dovrà quindi limitarsi ad approvarla o respingerla;in terzo luogo, la durata decennale dell’intesa e la sua rinegoziabilità, salvo accordo tra lo Stato e la regione, solo al termine di tale periodo. Di fatto, una volta approvata l’intesa da parte del Parlamento, per dieci anni sarà impossibile tornare indietro senza il consenso della regione destinataria delle nuove competenze.

 

2. Ciò premesso, il profilo su cui principalmente si concentrano le osservazioni di Viesti è di carattere economico.

A suo dire, scopo essenziale delle iniziative messe in atto da Lombardia e Veneto è quello di «ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi che vengono trattenute, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo Stato a loro favore»[7].Lo dimostrerebbe l’originaria iniziativa referendaria veneta, che, prima di essere ridimensionata dalla Corte costituzionale attraverso la sentenza n. 118 del 2015[8], prevedeva espressamente l’attribuzione all’amministrazione regionale di almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi sul territorio veneto[9]. Alla medesima conclusione condurrebbe,altresì, l’insistenza della precedente presidenza lombarda sul tema dei c.d. residui fiscali – vale a dire della differenza tra quanto sul territorio regionale viene pagato in tasse e imposte e quanto sul medesimo territorio viene speso in politiche pubbliche –,calcolati in 54 miliardi di euro annui e destinati, nelle intenzioni dei promotori,a rimanere per almeno la metà alla Lombardia per far fronte alle nuove competenze[10]. Sul punto, il libro avanza due rilievi, di carattere l’uno concreto, l’altro concettuale.

 

3. Dal punto di vista concreto, attribuire maggiori risorse a Lombardia e Veneto (ed Emilia-Romagna) significa – essendo il complesso delle risorse nazionali disponibili dato – ridurre i finanziamenti alle altre regioni, a prescindere da ogni considerazione circa il divario che già separa, a loro favore, tali territori dal resto d’Italia. Si tratterebbe, dunque, di attribuire un ulteriore vantaggio economico ad aree che, nonostante la crisi, rimangono economicamente tra le più solide del Paese, privilegiando il loro rilancio rispetto a quello dell’economia nazionale nel suo complesso.

Particolarmente rilevanti, sotto tale profilo, sarebbero le modalità attraverso cui il trasferimento di risorse dovrebbe realizzarsi. L’idea, contenuta nelle pre-intese del febbraio 2018, è che, a regime, «le risorse nazionali da trasferire per le nuove competenze siano parametrate […] a fabbisogni standard calcolati tenendo conto [oltre che della popolazione residente] anche del gettito fiscale regionale» e «fatto comunque salvo l’attuale livello dei servizi»[11](vale a dire potendo avere, come esito, solo il mantenimento o il miglioramento della situazione esistente).

 

Viesti – pur favorevole alla sostituzione del criterio della spesa storica con quello del fabbisogno standard nel finanziamento degli enti territoriali[12] – sottolinea la discrezionalità cui è tecnicamente soggetto il calcolo dei fabbisogni standard. La scelta di determinati indicatori, anziché di altri, condiziona il risultato finale, sicché la quantificazione dei fabbisogni (attraverso la previa definizione dei costi standard) implica l’effettuazione di scelte necessariamente politiche. Il meccanismo previsto dalle pre-intese rimette, invece, ogni decisione alle Commissioni paritetiche che dovranno essere istituite tra lo Stato e le regioni interessate, con il risultato di escludere dall’aspetto più rilevante del processo decisionale il Parlamento. Poiché, inoltre, ogni Commissione potrà adottare criteri differenti, questioni suscettibili di avere incidenza generale risulteranno riservate a sedi decisionali particolari.

Quel che l’Autore specialmente stigmatizza è, tuttavia,un altro elemento,vale a dire la previsione del gettito fiscale regionale quale criterio da tenere in considerazione nella definizione dei fabbisogni standard. Viesti precisa che «il gettito fiscale non è stato sinora mai considerato nei complessi calcoli per i fabbisogni standard» previsti dalla legislazione sul c.d. federalismo fiscale, i quali sono risultati «collegati sempre e solo alle caratteristiche territoriali e agli aspetti socio-demografici della popolazione»[13]. A fare altrimenti si attribuirebbe, infatti, alla condizione economica dei cittadini la capacità di influire – in senso inverso rispetto a quello voluto dall’eguaglianza sostanziale – sui loro diritti e in particolare sui più costosi, quali sono l’istruzione e la salute.

A ciò si deve poi aggiungere l’ulteriore criticità derivante dalla circostanza che – come già era avvenuto per il c.d. federalismo fiscale – il processo di definizione dei costi standard avverrebbe nella persistente inattuazione della disposizione costituzionale che impone alla legislazione statale la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.). Ed è appena il caso di rilevare che, dal punto di vista logico, tale determinazione dovrebbe precedere, non seguire, la definizione dei costi standard[14].

 

4. Dal punto di vista concettuale, è la stessa nozione di residui fiscali a venire messa in discussione dall’argomentazione di Viesti. Come già accennato, con l’espressione «residuo fiscale» si fa riferimento al risultato ottenuto «sottraendo dalla spesa pubblica che ha luogo in un territorio l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti sullo stesso territorio». Se il risultato è negativo, allora la popolazione di quel territorio riceve in spesa pubblica meno di quanto versa in imposte: «ciò significa che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore»[15].

Al di là delle difficoltà tecniche connesse alla realizzazione del calcolo (la spesa va conteggiata tenendo conto solo delle amministrazioni pubbliche? O vanno considerate anche le imprese pubbliche? E, nel calcolo del gettito fiscale, a quale territorio attribuire le imposte di imprese che svolgono la propria attività in una regione ma hanno sede in un’altra?)[16], i diversi studi sono concordi nell’individuare Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana come le regioni che esprimono un residuo fiscale negativo. A seconda dei criteri di calcolo utilizzati, a esse possono essere aggiunte Lazio, Marche, Liguria e, tra le regioni a Statuto speciale, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Tutte le altre regioni hanno residui fiscali positivi, sia pure in misura ultimamente meno marcata causa del maggiore impatto che le misure di austerità adottate in questi anni hanno avuto sul Mezzogiorno.

Il ragionamento sui residui fiscali – argomenta Viesti – è tuttavia viziato da un errore concettuale che lo mina alla radice. A beneficiare della spesa pubblica e a pagare le imposte non sono infatti i territori regionali, ma i singoli cittadini, sulla base della loro condizione di benessere o di bisogno, che è tale a prescindere dal luogo in cui risiedono. Aggregare i cittadini sulla base della loro appartenenza territoriale è, oltre che giuridicamente sbagliato, ideologicamente arbitrario. È giuridicamente sbagliato, perché nel nostro ordinamento costituzionale la cittadinanza è nazionale, non regionale, dunque gli inderogabili doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. valgono nei confronti di tutti i cittadini italiani, non nei confronti dei soli corregionali. Ed è ideologicamente arbitrario perché – anche a voler far proprio il discorso sui residui fiscali – non si capisce per quale ragione lo si dovrebbe limitare alle regioni evitando di spingerlo alle province, ai comuni, ai quartieri, alle strade, ai condomini, ai pianerottoli. Perché, per esempio, nessuno sostiene che il comune di Pino torinese mantiene quello di Castelnuovo don Bosco, mentre si legge che la Lombardia “mantiene” la Sicilia? Evidentemente, perché mentre l’ideologia regionalista esiste, non altrettanto può dirsi per l’ideologia “comunalista”.

Come spiega efficacemente il Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ampiamente citato da Viesti[17], «gran parte della redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato dell’interazione tra programmi di spesa di cui i beneficiari ultimi sono gli individui sulla base di caratteristiche che prescindono dall’area di residenza – quali l’età, lo stato di salute, il reddito – e delle modalità di finanziamento di tali programmi»[18]. Detto altrimenti, nell’ambito della Repubblica, operano meccanismi di redistribuzione della ricchezza, in forza dei quali vi sono cittadini che beneficiano di interventi di spesa pubblica finanziati con il gettito derivante dalle imposte pagate, in misura maggiore, da altri cittadini. Esattamente quel che prevede il combinato disposto degli artt. 3, co. 2, e 53 Cost., per i quali la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che, in concreto, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ed è tenuta a farlo raccogliendo le risorse necessarie tramite un sistema tributario ispirato a criteri di progressività. Stiamo parlando del cuore stesso del dettato costituzionale, rivolto alla realizzazione di quel principio personalistico che per molti studiosi è il vero tratto distintivo della nostra Carta fondamentale[19]. Sostituire la solidarietà nazionale tra tutti i cittadini italiani con una pluralità di solidarietà regionali tra di loro contrapposte significherebbe trasformare le autonomie regionali in fattori di potenziale disgregazione dell’unità della Repubblica, in violazione dell’equilibrio tra autonomia e unità sancito nell’art. 5 Cost.

Se proprio si vuole parlare di residui fiscali,occorre farlo, in definitiva,con riguardo agli individui, assumendo a riferimento il principio di eguaglianza «che implica che il residuo fiscale (il saldo tra i benefici ricevuti dalla spesa pubblica e il contributo al finanziamento della spesa) sia lo stesso per individui che si trovano nella stessa posizione»personale socio-economica, a prescindere da quale sia la loro regione di residenza[20].

 

5. La conclusione del pamphlet di Viesti è meno radicale di quanto ci si potrebbe forse aspettare dato lo svilupparsi dell’argomentazione. Lungi dal proporre di interrompere i percorsi di differenziazione regionale in atto – percorsi che interessano, oramai, quasi tutte le regioni ordinarie italiane, essendo al momento rimaste inerti solo Abruzzo e Molise –, l’Autore suggerisce l’adozione di una serie correttivi, sia di carattere procedurale, sia di carattere sostanziale[21].

Quanto ai primi, la sua convinzione è che il finanziamento delle nuove competenze debba muovere dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, co. 2, lett. m), Cost., e solo successivamente passare a individuare i fabbisogni standard. Questi ultimi andrebbero, poi, definiti per l’intero territorio nazionale ed escludendo ogni riferimento al gettito fiscale. Riguardo al processo decisionale, si dovrebbe prevedere la più ampia partecipazione dei soggetti istituzionali interessati e una valutazione finale in sede parlamentare, di modo che l’intesa tra lo Stato e la regione sia stipulata solo dopo che il Parlamento si sia espresso. Potrebbe, inoltre, risultare utile l’inserimento nelle intese di un clausola di salvaguardia che consenta al governo, previa valutazione degli effetti delle nuove forme di autonomia, di intervenire per sospenderne o correggerne alcuni profili anche senza l’assenso della regione interessata.

Quanto ai secondi, la preoccupazione di Viesti è che l’estensione dell’attribuzione di nuove competenze – relative a ben ventitré materie nel caso della Lombardia; leggermente inferiore in quelli del Veneto e dell’Emilia-Romagna – sia eccessiva. Occorrerebbe, anzitutto, verificare se alcune esigenze di autonomia non potrebbero essere comunque soddisfatte attraverso forme di decentramento o di devoluzione meno incisive. Inoltre, sarebbe preferibile muoversi con grande prudenza in ambiti quali le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la tutela della salute, l’istruzione. Con riguardo a quest’ultima, di fronte al rischio di una vera propria «regionalizzazione» della scuola (assunzione del personale, rapporto di lavoro, organizzazione del servizio, programmi, ecc.), sarebbe preferibile arrestarsi completamente: l’istruzione scolastica uguale per tutti è, probabilmente,la principale precondizione alla realizzazione della cittadinanza e solo il suo mantenimento in capo allo Stato può davvero garantire il raggiungimento di tale obiettivo.

 



[1] Professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino.

[2] E. Grosso e A. Poggi, Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in «Il Piemonte delle Autonomie, n. 2, 2018.

[3] G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Roma-Bari 2018 (pp. 53).

[4] In sintesi (G. Viesti, op. cit., pp. 8-10): a favore rileverebbero (a) l’avvicinamento delle istituzioni di governo ai cittadini (con conseguente maggiore responsabilizzazione delle prime e maggiori poteri di controllo in capo ai secondi), (b) la maggiore coincidenza tra raccolta delle risorse tramite il prelievo fiscale e le decisioni di spesa, (c) la differenziazione delle politiche pubbliche secondo le esigenze e le peculiarità locali, (d) l’introduzione di forme di competizione virtuosa tra i territori; a sfavore verrebbero invece in evidenza (a) la perdita dei vantaggi economici derivanti dalle economie di scala garantite da una gestione centralizzata dei servizi pubblici, (b) la maggiore eguaglianza negli standard delle prestazioni pubbliche (specie per sanità e istruzione), (c) la minore esposizione ai rischi derivanti da eventi avversi che possono colpire le economie regionali, (d) la riduzione delle esternalità, indesiderate dalle altre regioni, derivanti da scelte politiche regionali, (e) la riduzione della concorrenza fiscale al ribasso tra i territori, (f) la minore permeabilità degli amministratori a forme di corruzione dovute all’eccessiva vicinanza ai cittadini.

[5] Si tratta oltre che di tutte le materie elencate all’art. 117, co. 3, Cost., dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione e della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

[6] Cfr., in argomento, A. Ferrara, Regionalismo asimmetrico: pre-intesa delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto con il governo Gentiloni, in «Issirfa», 21 marzo 2018 (http://www.issirfa.cnr.it/regionalismo-asimmetrico-pre-intesa-delle-regioni-emilia-romagna-lombardia-e-veneto-con-il-governo-gentiloni-antonio-ferrara.html), dove sono anche consultabili le pre-intese relative alle tre regioni interessante.

[7] G. Viesti, op. cit., p. 24.

[8] Cfr. S. Bartole, Pretese venete di secessione e storica questione catalana, convergenze e divergenze fra Corte costituzionale italiana e Tribunale costituzionale spagnolo, anche con ripensamenti della giurisprudenza della prima, in «Giurisprudenza costituzionale», n. 3, 2015, pp. 939 ss.; F. Conte, La Corte costituzionale sui referendum per l’autonomia e l’indipendenza del Veneto. Non c’è due senza tre. Anche se…, in «Quaderni costituzionali», n. 3, 2015, pp. 759 ss.; G. Ferraiulo, La Corte costituzionale in tema di referendum consultivi regionali e processo politico: una esile linea argomentativa per un esito (in parte) prevedibile, in «www.federalismi.it», n. 20, 2015; R. Romboli, Nota a Corte cost., sent. 118/2015, in «Il Foro italiano», parte I, 2015, pp. 3024 ss.; D. Tega, Venezia non è Barcellona. Una via italiana per le rivendicazioni di autonomia?, in «Le Regioni», nn. 5-6, 2015, pp. 1141 ss.

[9] G. Viesti, op. cit., p. 18.

[10] G. Viesti, op. cit., p. 20, là dove si fa riferimento all’audizione del Presidente Roberto Maroni innanzi alla Commissione parlamentare per le questioni regionali (cfr. Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, con particolare riferimento alle recenti iniziative delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emila-Romagna, 6 febbraio 2018 (file:///Users/francescopallante/Downloads/News%202018-02-07%20Attuazione_art_116_terzo_comma_Cost_iniziative_Reg_Lombardia_Veneto_Emilia_Romagna_DOCUMENTO_CONCLUSIVO_APPROVATO_06_02_18.pdf), p. 32).

[11] G. Viesti, op. cit., p. 27.

[12] G. Viesti, op. cit., p. 28.

[13] G. Viesti, op. cit., p. 27.

[14] G. Viesti, op. cit., pp. 29-30. Sul punto, sia consentito rinviare a F. Pallante, I diritti sociali tra federalismo e principio di eguaglianza sostanziale, in «Diritto pubblico», n. 1, 2011, pp. 249 ss.

[15] G. Viesti, op. cit., p. 32.

[16] Più diffusamente, G. Viesti, op. cit., pp. 32-33.

[17] G. Viesti, op. cit., pp. 34-35.

[18]Audizione del Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio Giuseppe Pisauro nella V Commissione della Camera dei Deputati, in merito alla distribuzione territoriale delle risorse pubbliche per aree regionali, 22 novembre 2017 (http://en.upbilancio.it/wp-content/uploads/2017/11/Audizione_22_11_2017.pdf), p. 3

[19]Di recente, A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in «Federalismi.it», 28 agosto 2013.

[20] G. Viesti, op. cit., pp. 35 ss.

[21] G. Viesti, op. cit., pp. 49-52.