Tag: beni culturali

Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto

Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di disegno di legge del ministro Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione di 23 materie alcune delle quali, per prima la Sanità, riguardano aspetti fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione, la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il patrimonio della cultura ed il paesaggio. Il sentirsi italiani, il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese si basa sulla consapevolezza di essere i custodi di un patrimonio culturale unitario che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano e che non ha eguali al mondo.

Perché, come scrive Salvatore Settis: “…La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela non sono due storie parallele che si sono intrecciate per caso. Al contrario, sono due aspetti della stessa storia: se il nostro patrimonio è tanto abbondante e diffuso, è perché abbiamo fino a ieri saputo conservarlo; e abbiamo saputo conservarlo perché vi abbiamo riconosciuto il nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima.”

Il Dl leghista è dotato di un “Elenco delle materie che possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene (art. 117, secondo comma, lettera s) modifiche sostanziali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico, ora in capo alla Repubblica, affidandole alle 20 Regioni che diventerebbero veri e propri staterelli. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione – voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001 – la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono sciaguratamente diventate oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia-Romagna di Bonaccini. Le tre Regioni avevano chiesto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già con il Governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.

Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato comunista costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché sapeva bene che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

Se dovessero passare le modifiche anticostituzionali ed antiunitarie proposte, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, verrebbero polverizzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine organico alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto il tessuto storico e sentimentale che tiene insieme il Paese, quel “nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima”, quel nostro sentirsi ed essere italiani.

da “il Manifesto” del 4 aprile 2023

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di D.L. di Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione, oltre che della Sanità (concordo con quanto detto a tal proposito da Enzo Paolini sul Quotidiano del Sud) , di molte materie che riguardano settori fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione (sono d’accordo con le argomentazioni di Filippo Veltri sulla scuola espresse sul Quotidiano del Sud), la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il Patrimonio della cultura ed il paesaggio

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente collegati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli: “L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità”.

Il sunnominato D.L. leghista è dotato di un “Elenco delle materie che, ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene modifiche anticostituzionali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico affidandole alle 20 Regioni-staterelli. La potestà legislativa sul paesaggio e sul patrimonio -messa in discussione dal nuovo D.L. art. 117, secondo comma, lettera s – è, ad oggi, prerogativa della Repubblica, del Ministero dei Beni Culturali, non delle Regioni. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del Ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, a partire dal governo Gentiloni, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, in particolar modo la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna di Bonaccini.

Già Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché aveva ben presente che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

In preda ad un delirio secessionista, la Lega e il governo di destra vogliono mettere sotto il controllo politico regionale organi dello Stato che dovrebbero essere terzi. Un delirio assecondato dalla precedente riforma Franceschini (Renzi, del resto, aveva scritto che: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”) che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali dando la stura alla privatizzazione ed alla regionalizzazione del Patrimonio.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, non sarebbero più prerogative dello Stato, ma verrebbero sminuzzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine unitario alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto, per sempre, quello storico tessuto connettivo che tiene insieme il Paese, quel “particolare modo di essere che è l’essenza stessa della nostra personalità”, del nostro essere italiani.

L’eclisse dei valori della Costituzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 marzo 2023
La foto ritrae un gioco ideato dalle Scuole Montessori

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023

La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto

La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto

I giudici della Corte costituzionale hanno dato seguito, con una sentenza del 23 novembre scorso, alle parole di Piero Calamandrei che agli studenti milanesi, nel gennaio del 1955, diceva: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.

La Corte costituzionale non ha lasciato la Carta in terra, ma ha mantenuto quelle promesse e quella responsabilità muovendosi per bocciare la legge del 2 luglio del 2020, n. 10, recante “Modifiche e integrazioni al Piano Casa (l. r. 11 agosto 2010, n. 21)”, varata dalla giunta regionale della Calabria. Secondo la sentenza di pochi giorni fa la Regione Calabria avrebbe voluto, con questa legge, sostituirsi “alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente venendo meno al principio di leale collaborazione e dando vita ad un intervento regionale autonomo al posto della pianificazione concertata e condivisa (con la Soprintendenza, n.d.r.), prescindendo da questa e superandola, peraltro smentendo l’impegno assunto nei confronti dello Stato di proseguire un percorso di collaborazione”.

Così facendo si sarebbe vanificato il potere dello Stato nella tutela dell’ambiente, rispetto al quale il paesaggio assume valore primario e assoluto, in linea con l’art. 9 della Costituzione. Secondo la relatrice della sentenza, Silvana Sciarra, le previsioni della quantità di cemento versato avrebbero finito per danneggiare il territorio in tutte le sue componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9.

Secondo la Corte tale lesione era resa più grave dalla circostanza che, in questo lungo lasso di tempo (il protocollo d’intesa fra Mibact e Regione Calabria è del 23 dicembre 2009, n.d.r.), non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale, ma solo al temporaneo Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (Q.T.R.P.) che la giunta Oliverio non è stata capace di trasformare, come prescriveva il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel definitivo “Piano paesistico”.

Tutto ha inizio con la legge regionale della giunta Scopelliti dell’11 agosto 2010 che, in virtù del “Piano Casa” voluto nel 2009 dal governo Berlusconi, permetteva il condono degli abusi edilizi e dava la possibilità di ricostruire edifici esistenti aumentandone la volumetria del 15%. Il 16 luglio 2020 il secondo governo Conte ha emanato il “Decreto Semplificazioni” che ha, di fatto, annullato questo premio volumetrico berlusconiano, ma la giunta regionale calabrese, presidente il leghista Spirlì, senza alcuna opposizione in Consiglio regionale ha cercato di eludere, prevenendolo, questo problema.

Pochi giorni prima del “Decreto”, il 2 luglio 2020, ha varato una legge regionale che non solo elargiva questo premio, ma lo aumentava di altri 5 punti in percentuale, arrivando fino ad uno spropositato regalo di volumetria pari al 20% in più per ogni edificio da ricostruire.

Quanto fosse sciagurata una simile legge lo dimostrano i numeri: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% (più di 3 milioni e mezzo di ettari) della Superficie agricola utilizzata, la Sau, è stata cementificata o degradata e la Calabria è in cima a questa classifica negativa con ben il 27% del suolo consumato, subito dopo la Liguria (ISTAT 2005). Un’altra statistica (Rapporto Ispra Snpa, 2015) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti e che le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat 2005).

Il consumo del nostro suolo ha galoppato, nel 2020, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo, 57 chilometri quadrati in un anno, tanto che ognuno degli italiani avrebbe oggi a “disposizione” 355 metri quadrati di superfici costruite (Rapporto Ispra Snpa, 2021). La Calabria vanta anche il record negativo di avere il 65% dei suoi paesaggi costieri stravolti per sempre dal cemento: su un totale di 798 chilometri di costa (il 19% dell’intera penisola), meno di un quarto sono rimasti intatti, mentre ben 523 chilometri sono stati deturpati da interventi edilizi, spesso illegali.

In Italia ed in Calabria si continua, nonostante il declino demografico e socioeconomico, a cementificare così tanto perché è il modo più facile per creare rendite fondiarie e immobiliari che diventano comode rendite finanziarie, anche per la ‘ndrangheta. Le scellerate politiche urbanistiche degli ultimi decenni hanno favorito l’accelerazione della cementificazione senza alcuna tutela del paesaggio come dimostrano non solo le deroghe per le Grandi Opere, ma anche i provvedimenti come lo “Sblocca Italia” e come quest’ultimo tentativo di rimessa in vigore del berlusconiano “Piano casa” da parte della giunta Spirlì.

da “il Manifesto” del 18 dicembre 2021
foto di Marco Benincasa da Pramana

Un argine al dilagare delle falsità veicolate dal senso comune.-di Lelio La Porta

Un argine al dilagare delle falsità veicolate dal senso comune.-di Lelio La Porta

«Gli immigrati ci rubano il lavoro»: è una delle affermazioni più ricorrenti dei sovranisti nostrani che insinuano fra gli italiani una forma particolarissima di odio fondata sul fatto che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri operai: questa narrazione, oltre a essere infondata, serve, invece, «a rendere ancora più deboli i braccianti» sfruttati dai caporali e dai padroni e favorisce la lievitazione smisurata dei profitti. Altro che esaltazione del popolo italiano («Prima gli italiani»); si tratta di uno schierarsi esplicito dalla parte del grande capitale nell’ottica della prosecuzione e dell’estensione del dominio delle classi dominanti sui lavoratori italiani.

QUESTA APPENA RIASSUNTA è una delle contronarrazioni presenti nella raccolta “Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche” (a cura di Tiziana Drago, Enzo Scandurra, con Prefazione di Piero Bevilacqua, Castelvecchi, pp. 148, euro 17,50).

Il volume, dedicato a Franco Cassano, è il frutto di un lavoro collettaneo di intellettuali, provenienti da discipline diverse, raccolti intorno al sito dell’Officina dei saperi con l’obiettivo di proporre voci in grado di erigere un argine al dilagante senso comune delle narrazioni false e pericolose (come quella esposta all’inizio), che sono in grado, però, di diventare egemoniche poiché, di fatto, ripropongono quanto scriveva Manzoni nel suo romanzo storico a proposito del rapporto fra buon senso e senso comune: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Per sconfiggere la paura del senso comune diffuso, sostenuto da narrazioni che diventano tossiche in quanto producono consenso antidemocratico e conformista, cioè conforme al pensiero neoliberista, e provare a costruirne uno nuovo, sono raccolti testi di Abati, Agostini, Angelucci, Aragno, Bevilacqua, Budini Gattai, Cingari, Drago, Ferri, Fiorentini, Lorenzoni, Marchetti, Masulli, Novelli, Pazzagli, Sangineto, Scandurra, Toscani, Vacchelli, Vavalà, Vitale, Ziparo.

Questi scritti, come fa presente il sottotitolo del libro, si propongono nell’ottica di una critica sociale delle narrazioni, come quella riportata all’inizio. Dalla loro lettura emerge come e quanto il concetto di critica sia usato nell’accezione kantiana del termine, cioè come espressione di giudizi che si contrappongono, in quanto contronarrazioni, alle narrazioni correnti, ricettacolo di falsità e bugie.

«Tutti al centro»: lo spopolamento delle aree interne italiane (60% del territorio) è un fenomeno che non può essere ricondotto a una prosecuzione nel secolo presente di un processo di urbanizzazione iniziato molto prima; è molto di più e ha come prima conseguenza la frattura tra città e campagna.

L’estate appena trascorsa ha visto la realizzazione di alcune lodevoli iniziative in zone interne del nostro paese, nella fattispecie in Abruzzo, con l’obiettivo di «riabilitare i paesi, coltivare le campagne, ricostruire un rapporto equilibrato con la natura». Quindi una contronarrazione operativa che ha messo in discussione, decostruendola, la «metafora sbiadita della stanca modernità del nostro tempo» costituita dal «Tutti al centro».

L’INSIEME delle contronarrazioni costituisce un nucleo di controtendenza nei confronti di una forma egemonica nella quale il capitale, e il suo dominio, ha un ruolo di primo piano. E il capitale, vero convitato di pietra nell’elaborazione dei vari contributi, non è un quid astratto in quanto si concretizza in figure il cui potere, la cui filocrazia determinano l’infuturarsi del rapporto fra gli sfruttati e gli sfruttatori, fra gli oppressi e gli oppressori in forme di ineguaglianza non meno feroci di quelle a cui sono stati sottoposti i subalterni di altre epoche storiche.

Per avvicinarsi all’obiettivo e creare una coscienza collettiva, ossia un «nuovo senso comune» che sappia cogliere nell’urgenza della soluzione dei problemi immediati la prospettiva di una nuova dimensione del vivere in comune, quello che Marx definiva «Das Kommunistische Wesen» e Gramsci «vita d’insieme», c’è bisogno di operare nella realizzazione di una nuova volontà collettiva che, una volta, era veicolata dall’opera dei partiti politici (la cui assenza è sottolineata nel volume), ma ora è carente a causa di mancanza di discussione e di confronto e di incapacità di prendere decisioni e assumersi responsabilità.

ANCHE IN QUESTO GLI SCRITTI che compongono il volume si presentano come pars construens rispondendo all’affermazione di Seneca, nella lettera 104 a Lucilio, secondo la quale «Non è perché le cose sono difficili che non le affrontiamo, è perché non le affrontiamo che sono difficili».

Le autrici e gli autori delle varie contronarrazioni affrontano le cose difficili, con l’onestà intellettuale di chi è gramscianamente partigiano, ossia schierato da e con una parte. L’indicazione sembra essere quella di procedere alla ricerca delle strade che più possano avvicinare la democrazia, intesa come pedagogia della solidarietà e nel rispetto del dettato costituzionale, al socialismo come sistema economico-politico in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna si pongano soltanto come elemento di riflessione e di studio su una storia passata.

La fatica del concetto, di cui scriveva il vecchio filosofo, si concretizza nei testi della raccolta laicamente, al di fuori della politica intesa come potere, bensì come discussione libera ed aperta nella polis, alla ricerca di un’alternativa: l’alternativa come contronarrazione rispetto al «non c’è alternativa su cui il capitalismo fonda il suo potere e il suo linguaggio».

da “il Manifesto” del 4 settembre 2021

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Qualcuno si stupirà, forse, nell’apprendere che, nel caso dei 90 milioni di euro per il Centro storico di Cosenza, sono d’accordo con il Sindaco Mario Occhiuto. Sono d’accordo, sia ben chiaro, con quel che afferma l’architetto solo da un paio d’anni a questa parte, perché negli otto anni precedenti -nonostante i miei, i nostri, pressanti suggerimenti- era convinto, come testimoniano le sue innumerevoli dichiarazioni per ‘verba’ e per ‘scripta’, che le abitazioni private del Centro storico di Cosenza non solo non potessero essere comprate e/o espropriate dall’Amministrazione comunale per farne un “bene comune”, ma era convinto che l’unica possibilità che avesse l’Amministrazione comunale per evitare il peggio, fosse quella di abbattere i palazzi pericolanti, come fece con quelli compresi fra Corso Telesio, via Bombini e via Gaeta.

Per convincersi della liceità dell’acquisto e dell’esproprio sarebbe bastato ricordare, invece, un caso celeberrimo: quello del Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965.

La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini. Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.

Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a meno di 14 milioni di euro, 6 milioni meno del solo Ponte di Calatrava.

Pur sapendo che ogni finanziamento statale è prezioso, non possiamo non essere sconcertati nell’apprendere che i 90 milioni di euro (più di 6 volte il costo dell’intera operazione di ristrutturazione di Bologna!) destinati al Centro storico di Cosenza da parte dell’allora, ma ora di nuovo, ministro Franceschini nel 2017, saranno utilizzati, tutti e soltanto, per il recupero di 20 (venti!) immobili pubblici a valenza culturale (alcuni di essi sono stati più e più volte già finanziati), per il miglioramento dell’accessibilità, per la costruzione di nuove reti idriche e fognarie, per l’adeguamento di linee elettriche e della pubblica illuminazione e per la riqualificazione di spazi pubblici degradati.

Niente, neanche un centesimo, per tutto il resto, per il grosso del tessuto edilizio privato della città perlopiù degradato o, addirittura, in rovina. Niente per il Centro storico che, nella sua articolata complessità, Antonio Cederna, già nel 1982, riteneva dovesse essere “…considerato come un monumento unitario da salvaguardare e risanare a fini residenziali e culturali, e che, invece, ridiventa terra di conquista, affinché i nostri bravi architetti possano lasciare in esso lo loro “impronta” ovvero affermare lo loro “creatività progettuale”.

Niente per i cittadini che vogliono o vorrebbero continuare ad abitare le case in quelle strade ed in quelle piazze e piazzette, niente per i magazzini degli ultimi commercianti, ristoratori e artigiani, niente per il popolo che ha abitato ed abita la città, che ha conservato e trasformato nel corso dei millenni quei muri di pietre e mattoni che, inesorabilmente, si ridurranno in rovine e macerie.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, proceduto all’elaborazione di un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, può darsi che questi 90 milioni sarebbero stati spesi come a Bologna, ma un finanziamento di questa portata destinato esclusivamente ai fini sopradetti è del tutto pleonastico e spropositato.

Si potrebbe chiosare la natura dell’intero provvedimento finanziatore considerato come salvifico: lampioni a led per illuminare rovine deserte.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 settembte 2020
foto di Ercole Scorza

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

È in corso da anni, anche nel settore dei Beni culturali, una violentissima battaglia ideologica per sopprimere le strutture e le prerogative dello Stato, conforme all’ideologia dello Stato leggero posto al servizio del mercato che, secondo il pensiero unico neoliberista, si autoregolamenterebbe. Abbiamo avuto modo di vedere, come nel caso della pandemia in corso, quanto ingannatrici e portatrici di sventure fossero le sirene liberiste nelle privatizzazioni, nella precarizzazione del lavoro, nelle liberalizzazioni e nella globalizzazione.

Si vuole convincere, con ogni mezzo di comunicazione di massa, la pubblica opinione dell’insufficienza e dell’incapacità da parte dello Stato di custodire e, soprattutto, di valorizzare il Patrimonio storico e artistico lasciatoci dai nostri progenitori. Quel Patrimonio così strettamente legato al nostro sentirsi italiani da essere protetto, caso quasi unico nel mondo, da un articolo della Costituzione della Repubblica: l’articolo 9. Perché dovremmo pensare che il legato storico e ambientale dei nostri progenitori sarebbe meglio custodito e valorizzato se fosse affidato alle mani dei privati?

Un paio di settimane fa, Pierluigi Battista ha scritto un articolo sul Corriere della Sera per sollecitare un “piano di salvezza culturale nazionale” derivante dalla difesa settoriale resasi necessaria per l’epidemia causata dal coronavirus e che ha, tra l’altro, fatto precipitare la relativa domanda. Battista ha fatto bene a richiamare l’attenzione sul Patrimonio culturale italiano, perché non v’è settore, sociale ed economico, che non debba e non possa essere salvato.

L’epidemia ha messo in crisi tutti i settori e sul piano normativo si è concesso di continuare a operare nei propri “mercati”, con riferimento ai circuiti completi, sostanzialmente solo alla sanità e ai negozi di generi alimentari. Tuttavia, non meravigliano i richiami di attenzione settoriale perché tutti i settori sono negativamente influenzati dalla crisi economica generale derivante dalla pandemia. D’altro canto, il riferimento ai “teatri, musei, librerie, siti archeologici, orchestre” non ci sorprende, sia per il generale sentito richiamo che proviene da tutti i settori, sia per la nota rilevanza anche economica che questo settore ha nel nostro Paese.

Tuttavia, gli aspetti citati dal giornalista, nel suo generico articolo, ci lasciano perplessi. Molto in sintesi, l’articolista, per la salvezza dei musei, dei teatri, dei cinema e di altro ancora, non considera che il declino della domanda settoriale e della mancanza di “consumo” non riguarda solo l’Italia, ma pure il resto del mondo. L’articolo citato, così come anche gli immediati favorevoli commentatori (FAI, Federculture, Teatro dell’Opera di Roma, due deputati, Biennale di Venezia e la Fondazione MAXXI), sembra resti legato a una antica quanto erronea convinzione teorica dell’economica.

Un noto economista francese, nei primi anni del XIX secolo riteneva che fosse l’offerta a determinare la domanda. Se ciò si ritenesse vero, allora sarebbe sufficiente la ripresa delle manifestazioni citate, curando, sostenendo, l’offerta che da sé determina una eguale domanda. Come? Anche in questo caso si adopera, da parte dei propositori, un linguaggio confusionario ed improprio, lasciando che siano, poi, gli esperti a meglio definire gli strumenti.

L’indicazione di massima proposta nell’articolo citato è un non meglio definito ‘Fondo Nazionale per la Cultura’, oppure un ‘Prestito Nazionale’, ma, ancora, anche ‘Cultura Bonds’. ‘Prestito Nazionale’, fu termine molto adoperato nell’epoca dell’obbligo degli italiani a finanziare la prima guerra mondiale, i Bonds il più delle volte risultano strumenti del debito pubblico. Quindi, quali caratteristiche avrebbe un ‘Fondo Nazionale’? Neanche questo ci è chiaro, non solo perché nell’articolo si rinvia alla conoscenza tecnica degli economisti, ma anche per la inquietante presenza nel ‘Fondo’ di istituzioni private.

Insieme al ‘Fondo’ vengono sollecitate, inoltre, generiche politiche governative, defiscalizzazioni, diretta assistenza, “polmoni finanziari”. Insomma, si diano soldi al ‘Fondo’ e se poi non si riesce “a tenere in vita quel polmone”, come del resto già non si riesce con ‘Art Bonus’, pazienza. Occorrerà, comunque, compensare coloro che han fatto prestito, magari con una cessione di parte o, addirittura, di tutto il Patrimonio culturale.

La sola possibilità di una apertura ad un qualsivoglia genere di privatizzazione -non esplicitata, ma sottilmente sottintesa- non solo ci vede del tutto contrari, ma sarebbe in netto contrasto con il dettato dell’art. 9 della Costituzione che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 aprile 2020

Foto di Kent DuFault da Pixabay