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Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Autonomia come autogoverno e autodeterminazione delle persone, della classe, dei popoli. Autonomia operaia e dei consigli di fabbrica. Autonomia come democrazia diretta, sociale e politica. Queste, e altre declinazioni, del concetto – quello di «autonomia», appunto – sono state fatte nella lunga e travagliata storia della sinistra sindacale, comunista, socialista e liberale.

QUESTA STORIA si è sviluppata sempre nel fuoco delle lotte in Italia. Ha dato esiti stupefacenti molti fallimenti, riprese insperate. Fu rielaborata dall’Ordine Nuovo con Antonio Gramsci nel primo «biennio rosso» (1919-1920). Il grande politico e filosofo, fondatore del Pci, allora parlava di una delle istituzioni dell’autonomia: i «consigli operai». Erano «cellule prime» della democrazia rivoluzionaria. L’idea dell’«autonomia» tornò trasformata nel secondo «biennio rosso»: tra il 1968 e l’«autunno caldo» del 1969. Nacquero le organizzazioni autonome: il Consiglio Unitario di base (Cub) alla Pirelli di Milano. Altri consigli di fabbrica si erano strutturati prima.

UNA STORIA POTENTE. Ha attraversato prospettive leniniste, luxemburghiane, proudhoniane, gramsciane, socialiste e comuniste, liberalismi originali opposti a quelli classisti ed economicisti. C’è stata l’epica, la tragedia e il martirio. Quello di Piero Gobetti ucciso dai fascisti. Ci sono le traiettorie di socialisti come Vittorio Foa, oppure quelle di fondatori dell’operaismo: un gigante come Raniero Panzieri, per esempio. La riflessione sull’autonomia si ritrova, in altre posizioni, quelle di un segretario della Fiom e della Cgil, oltre che pensatore di prim’ordine: Bruno Trentin.

CI SONO STORIE di formidabili dibattiti pratici e teorici che hanno coinvolto le riviste più belle, i convegni più combattuti, gli intellettuali, gli operai, i militanti culturali e di base. Ci fu il dibattito sulle «sette tesi sul controllo operaio» del 1958 di Raniero Panzieri e Lucio Libertini sulla rivista del Psi «Mondo operaio». Molti ricordano e praticano l’operaismo dei «Quaderni Rossi». Su un altro versante possiamo trovare, per esempio, la storia della «nuova sinistra», quella de Il Manifesto. E ancora i movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. In tutta evidenza, non stiamo parlando di una prospettiva unica, ma irriducibilmente plurale, spesso conflittuale, comunque problematica. Com’è la storia delle sinistre. Mille fili che però oggi potrebbero essere intrecciati in una genealogia eretica. Per creare nuove idee e cortocircuiti nel presente.

QUESTA È STATA l’intuizione che ha ispirato un bel convegno organizzato ieri all’università Roma Tre dalla Fondazione Di Vittorio (Cgil). I densissimi interventi, senza una pausa, possono essere ora rivisti sul sito Collettiva.it. In tale contesto è stata avanzata un’ipotesi di lotta culturale, dunque politica.

OGGI, È STATO DETTO, il concetto di «autonomia» è stato sequestrato dalle destre leghiste e postfasciste che compongono il governo Meloni. Quest’ultimo si regge su uno scambio osceno che rompe l’unità nazionale e rafforza l’autoritarismo dilagante. I leghisti Salvini e Calderoli vogliono imporre l’«autonomia differenziata», una «secessione» delle regioni «ricche» (Veneto e Lombardia, per cominciare) che aspirano a costituirsi in micro-staterelli. Meloni e i suoi «Fratelli d’Italia» vogliono il «premierato» che metterà in discussione sia il parlamento che le funzioni dello stesso presidente della Repubblica.

«LA STORIA DELL’AUTONOMIA come autogoverno e come pratica democratica non ha nulla a che vedere con l’autonomia differenziata di Calderoli ed è l’antidoto allo scambio osceno con il presidenzialismo di Meloni -ha detto Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio – Si tratta di un doppio autoritarismo. Per contrastare questa deriva possiamo ispirarci a queste tradizioni. Bisogna tornare a lavorare dal basso, cambiare profondamente il sistema sociale. La sinistra di governo ha gravissime responsabilità. Senza la riattivazione della partecipazione democratica nella società e nel lavoro non sarà possibile rispondere alla crisi della partecipazione sulla quale cresce anche la regressione in atto».

«IL DIBATTITO SUI CONSIGLI di fabbrica oggi è prezioso – ha detto Luciana Castellina, co-fondatrice de Il Manifesto – Anche oggi è possibile immaginare forme di democrazie diretta non solo nei luoghi di lavoro ma nella società. Da qui possiamo ripartire nel momento in cui prevale la frammentazione e l’astensionismo. Possiamo reimpadronirci della gestione di pezzi della società costruendo poteri sul territorio. la gestione diretta dei beni comuni serve anche a cambiare la cultura diffusa attraverso le pratiche della democrazia diretta. Oggi non c’è solo la fabbrica, che è decentrata al suo interno da appalti e subappalti. Il nostro problema è creare poteri collettivi, decentrati e diffusi, anche fuori da essa, cioè nuove istituzioni nella società».

«CON LA PROPOSTA del “sindacato dei diritti” Bruno Trentin ha indicato come il sindacato deve aprirsi alla partecipazione dei cittadini e unirla a quella sui luoghi di lavoro. Questa idea pone la necessità di una maggiore radicalità della nostra azione – ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini – Il governo ha un progetto organico, corporativo, autoritario. Meloni ha chiesto il referendum sulla riforma costituzionale per affermare la propria leadership. Noi dobbiamo usare il referendum per obiettivi opposti e affermare la democrazia in nome della Costituzione. Dobbiamo portarci all’altezza dello scontro o rischiamo che il conflitto prenda un’altra strada».

da “il Manifesto” del 30 gennaio 2024

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

Ho aspettato un po’, forse troppo, per scrivere di una cosa che avevo
ascoltato in diretta sin dai primi d’agosto e che poi ho, più o meno
ritrovato identica ma su pagina scritta alcune settimane dopo: parlo
della pensata di Mimmo Cersosimo, docente dell’Unical (e non solo)
sulla Calabria.

Ho atteso perché mi sembrava (ed ancora oggi in parte mi sembra)
un quadro dipinto a tinte fosche, forse troppo fosche, con le tante
maglie nere collezionate dalla Calabria ma che poi alla fine disegna
uno sviluppo possibile.

I guai della sanità, il tasso di disoccupazione, i giovani che scelgono
di vivere e lavorare lontano dalla loro terra, la pressione della
criminalità organizzata. Una societa’ definita da
Cersosimo «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una
modernizzazione passiva». In una parola «estrema».

Andiamo a rileggere il saggio scritto per il Mulino “Calabria, l’Italia
estrema“: Cersosimo si sofferma sui mali di una regione «dove la
somma delle patologie nazionali si raccolgono». E poi ci sono i soliti
stereotipi. La ‘ndrangheta genera altra ‘ndrangheta? «C’è una
narrazione negativa sulla Calabria: terra degli ultimi, maledetta, di
‘ndrangheta, di scansa fatiche, di illegalità, di evasione fiscale. Siamo
entrati in un meccanismo perverso dove se evadi quasi quasi ti
seguo, se tendi a sopraffare le idee altrui lo fanno anche gli altri,
quindi lo stereotipo alimenta lo stereotipo e alcune volte quando
succede la realtà si avvicina molto allo stereotipo».
Chi è, o chi sono, i colpevoli di questo inesorabile declino? «Le colpe
sono tante, soprattutto di alcune politiche. 

Il liberismo ha mortificato
e marginalizzato le aree più lontane dal centro», dice Cersosimo che
poi ammette: «anche i calabresi hanno le loro colpe, in qualche modo
si sono assuefatti adattandosi a questo status quo, c’è una sorta di
convenienza al non sviluppo, una convenienza sociale diffusa». Cosa
si può fare? «Si potrebbe fare molto, è difficile che le forze interne
riescano a risolvere e superare il problema. C’è bisogno di un
destabilizzatore esterno.Qualcuno che ha interesse a rompere questo
equilibrio, ad interrompere il sottosviluppo ma non siamo noi, deve
essere qualcuno esterno».

Ad esempio? Forse lo Stato o l’Europa, sicuramente noi non ce la
facciamo da soli». Magari gli studenti dell’Unical e delle altre
Università calabresi. «Da soli non ce la fanno, molti vanno via. I
migliori spesso tendono ad andare via, quindi c’è una sorta di exit, c’è
l’abbandono e molte energie sane – quelle che potrebbero contribuire
al cambiamento – mollano la Calabria e svanisce qualsiasi possibilità
di cambiare le cose».

La Calabria è dunque perduta? È destinata a
svuotarsi come indicano le proiezioni statistiche? Resterà lontana e
impenetrabile, nonostante la sua bellezza variopinta, che Leonida
Repaci descrisse a futura memoria? Continueremo, noi che ci
abitiamo, a ignorarne i dati e fatti crudi, a esorcizzarli, per esempio,
con il ricordo stucchevole e inattuale dell’antica scuola
pitagorica? Per quanto tempo potremo ancora sottovalutare le
storture e le risorse in ombra di questa regione? A chi gioverà
nascondere le nostre colpe, in perpetua malafede, dietro al mostro, al
mito della ’ndrangheta? Sono domande in cerca di risposte.

Alcune settimane fa di tutto ciò se ne è poi parlato all’Unical,
all’interno di un seminario proprio sul saggio di Cersosimo e
l’economista è andato ancora più giù: la Calabria ha un disperato
bisogno di «liberarsi dalle edulcorazioni retoriche: la tipicità senza
tipico, i borghi senza comunità, i paesi appesi sul mare senza acqua
nei rubinetti delle case, l’accoglienza senza ospedali umanizzati».
Conclusione: Cersosimo ha ragione nel quadro d’assieme.

Pessimista? Semplicemente realista? Ma il punto é ragionare su
come fare: dove può andare la Calabria con tali limitazioni? Non è
giunto il momento di dirci la verità, di svecchiare ad esempio – tanto
per dirne una – i reparti amministrativi, di reclutare risorse giovani, che
sono il leitmotiv di tanta retorica politica? Non c’è bisogno, nel settore
amministrativo pubblico della Calabria, nei Comuni e altrove, di
formazione adeguata ai tempi e di una capillare verifica dei risultati?
Cambierebbero le cose? Forse ma e’ l’unica strada.

Il resto sta nei calabresi stessi, se sapranno mettere in rete le cose
buone e respingere quelle cattive. Una botta di vitalita’ in un mare di
guai e’ quello che ci vorrebbe.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2023.
Foto: Salvatore Piermarini.

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023
Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Ma come siamo arrivati sin qui?- di Piero Bevilacqua

Ma come siamo arrivati sin qui?- di Piero Bevilacqua

Come è stato possibile arrivare all’attuale grado di impotenza della politica, disugaglianza tra i cittadini nei poteri e nel godimento dei diritti , dissolvimento individualistico della società, torsione autoritaria delle istituzioni democratiche?

Io credo che le risposte forniteci dalla ricostruzione storica posseggano un elevato grado di chiarezza e di orientamento prospettico. Pur nei limti di una breve nota, si puo sostenere che il punto di partenza costitutivo, da cui prende avvio l’attuale stagione storica, sia da ricercare nella formidabile controffensiva della politica capitalistica partita nel Regno Unito e in USA sin dai primi anni ’80.

Una iniziativa, com’è noto, che si è materializzata nella lotta aperta alle conquiste sindacali del dopoguerra, nel disfacimento delle strutture del welfare rooseveltiano e di Beveridge, nella deregolamentazione del mercato del lavoro, nella liberalizzazione dei capitali, ecc.Tale iniziativa politica che consentiva al capitale di riprendere il processo di accumulazione frenato dai conflitti operai degli anni precedenti, ha goduto di un particolare successo di congiuntura storica, grazie al convergere astrale di vari e fortunatissimi fenomeni.

Il crollo dell’URSS – interpretato anche dai dirigenti dei partiti comunisti e socialdemocratici quale prova dell’impossibilità di una alternativa al capitalismo – ha permesso al vasto patrimonio analitico dell’economia neoliberistica, dei von Hayek e dei Friedman, di dilagare nella cultura mondiale e diventare il pensiero unico per i decenni successivi. (D.De Masi ne ha appena fatto un’agile e densa ricostruzione, in ‘La felicità negata’, Einaudi 2022)

La rivoluzione informatica ha permesso una ristrutturazione senza precedenti del capitalismo industriale, tramite svariatissime forme di frammentazione, esternalizzazione, delocalizzazione dei processi produttivi, che hanno destrutturato la fabbrica fordista, ghettizzato e resa impotente la classe operaia. Ma sempre grazie ai nuovi dispositivi informatici il capitale, non solo quello finanziario, ha acquistato una mobilità mondiale, che lo ha sottratto al conflitto operaio rimasto chiuso nel recinto dello stato nazionale.

E’ evidente a tutti oggi lo squilibrio tra la dimensione ancora nazionale, territoriale, della lotta popolare e di classe e la natura transnazionale del capitale. La politica moderna nasce, per i ceti popolari, come conflitto contro il modo di produzione capitalistico, che ha, nei suoi caratteri originari, la dimensione mondiale. Ricordano Marx ed Engels, nel Manifesto,che il capitale domina <> (die ganze Erdkugel). Perciò la scala della lotta contro di esso deve essere mondiale:<>.

Se nel conflitto tra capitale e lavoro, nelle vertenze dentro la fabbrica, il capitale gode del vantaggio di poter fuggire, di trasferirsi altrove, per gli operai, che in questo altrove non hanno alcuna rappresenza, la possibilità del conflitto è mutilata in partenza. Perciò l’impotenza che si è creata nel cuore originario dell’antagonismo anticapitalistico si riverbera su tutto il resto della società.

Se l’avversario scompare, la lotta non ha più direzione, la politica che dovrebbe rappresentarlo ( quella forma di soggettività organizzata intesa a cambiare il mondo) si spegne, resta solo amministrazione, scade in propaganda. E’ una ricostruzione storica necessariamente ridotta all’osso.Ma in essa non può mancare un secondo capitolo, che ci porta all’oggi. Negli anni ’90 sono stati i partiti ex comunisti e socialdemocratici i più formidabili agenti propagatori e realizzatori dell’agenda neoliberista. I più adatti, presentandosi col volto amico, a vincere le resistenze popolari e sindacali.

Sono Clinton in USA (che abolisce la Glass-Steagall Act nel 1999), Mitterand in Francia, Blair in UK, Schroeder in Germania, Prodi, D’Alema e Amato in Italia, ad avviare o continuare con varia incisività le politiche di privatizzazione di imprese e beni pubblici, deregolamentazione del mercato del lavoro, sostegno alle imprese, abolizione della progressività fiscale, emarginazione dei sindacati. Non conosco ricostruzione più ricca e circostanziata di questa fase di quella di S.Halimi, ‘Il grande balzo all’indietro.Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale’, Fazi 2006).

Dunque, da allora i grandi partiti popolari hanno compiuto un’opera mirabile di autoemarginazione: hanno privato lo Stato di buona parte dei poteri sull’economia che deteneva dal dopoguerra, e, lasciando piena libertà d’azione al mercato, hanno rinunciato – soprattutto in Italia – ad avere una politica economica, a impegnarsi nel governo della produzione della ricchezza e della sua distribuzione. Tale scelta coincideva con il distacco politico ed organizzativo dai ceti popolari, ai quali ormai si poteva elargire solo il “gocciolamento” della ricchezza prodotta dal processo di accumulazione, secondo la teoria neoliberista del trickle down economics.

Una scelta che ha lasciato sconfitti i ceti subalterni, ma ha salvato le élites dirigenti come ceto politico. Il quale, tuttavia, si è trovato doppiamente deprivato di potere. Per essere vincolato al territorio nazionale nei confronti del dominio capitalistico a scala mondiale ( la costituzione dell’UE neoliberistica non ha limitato, ma contribuito a tale processo) e per aver tagliato le radici col mondo operaio e popolare, privandosi della forza del conflitto di massa. La trasformazione dei partiti in agenzie di marketing elettorale è diventata dunque un passaggio naturale.

Il Partito Democratico incarna perfettamente questa deriva, non ha più bisogno di Gramsci per <>, gli bastano i sondaggi di Sandro Pagnoncelli. La cultura come strumento di lettura di un’epoca è scomparsa dall’orizzonte delle forze che erano state di sinistra. Da 15 anni sulla scena, gran parte dei quali in posizione di governo, il PD non ha neppure scalfito le disuguaglianze del Paese, che sono cresciute.Nessun “gocciolamento” verso gli ultimi.

Ma l’aspetto più grave del posizionamento di questo (come di gran parte degli altri partiti) è di non scorgere che il mercato è diventato lo scatenamento dei “poteri selvaggi”, come li chiama Luigi Ferrajoli. Forze che hanno messo a soqquadro il mondo del lavoro e saccheggiano a piene mani le risorse del pianeta. Poteri che spingeranno gli stati alla guerra per conservare gli spazi sempre più ristretti della sopravvivenza.

Non cè dunque alcuna prospettiva e via d’uscita a muoversi sulla scia di tali partiti, oggi impegnati nella campagna elettorale, l’unica forma di mobilitazione di cui sono capaci. Ma trovare altre strade di impegno politico, civile, ambientale è ancora possibile per chi non deve difendere piccoli interessi personali.

immagine tratta dalla diretta Tv della Camera dei Deputati.

L’ecobonus, dalla transizione ecologica a regalo alla rendita.-di Gaetano Lamanna

L’ecobonus, dalla transizione ecologica a regalo alla rendita.-di Gaetano Lamanna

I provvedimenti del governo Draghi sulla casa spiegano bene il collegamento tra aumento delle diseguaglianze sociali e inefficienza e iniquità fiscale. La casa è una questione sociale irrisolta e, al tempo stesso, si delinea come uno snodo importante delle politiche ambientali. Grazie all’ecobonus del 110 per cento sugli interventi di riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio residenziale, il comparto dell’edilizia è in forte ripresa.

Detto questo, è pur vero che un provvedimento, di per sé positivo perché per la prima volta antepone la manutenzione al consumo e alla cementificazione del suolo, presenta due gravi difetti. Il primo è che le maglie dei possibili beneficiari si sono troppo allargate, arrivando a comprendere seconde case, collegi, ospizi, conventi, seminari, case di cura, e via dicendo. Sarebbe stato quanto meno opportuno affidare alle amministrazioni locali un ruolo di coordinamento e di programmazione degli interventi, anche per stabilire criteri di priorità.

Invece l’ecobonus, lasciato alla mercé della libera iniziativa privata, sta diventando appannaggio quasi esclusivo di fasce sociali ed entità giuridiche più informate e più pronte a coglierne i vantaggi. Il risultato è che le impalcature si vedono dappertutto, fuori e dentro le mura urbane, soprattutto davanti ai palazzi condominiali dei quartieri di media e ricca borghesia o intorno alle ville unifamiliari, meno nelle nostre periferie, nei centri storici degradati, nelle borgate e nelle zone ex Iacp (case popolari), dove gli impianti di riscaldamento sono inefficienti e costosi. L’ecobonus, scansando nella sua attuazione pratica i ceti a basso reddito, si configura come l’ennesimo fattore di disparità sociale.

In secondo luogo, al netto di frodi e truffe (già venute a galla) migliaia di immobili, ritrovando efficienza e qualità, aumentano sia il valore d’uso che quello di scambio. La ratio della legge è il recupero di valore d’uso, anche in chiave di contrasto al cambiamento climatico. Ma a prevalere, ancora una volta, è il valore di scambio. I lavori di ristrutturazione contribuiscono in modo considerevole a determinare il prezzo di mercato dell’immobile, che negli anni si rivaluta anche grazie ai processi di riqualificazione urbana ad opera della mano pubblica: verde, infrastrutture, servizi.

Ciò potrebbe spingere il proprietario a incassare il capital gain (il guadagno di capitale) maturato nel tempo e quello acquisito con l’ecobonus. Assistiamo così al paradosso che case, ville, fabbricati con varia destinazione d’uso, ristrutturati con i soldi dei contribuenti, possano essere rivenduti con tanti saluti e ringraziamenti da parte di chi fa l’affare. Il provvedimento non prevede nulla che impedisca operazioni speculative subito dopo la fine dei lavori.

Com’è noto, nel nostro paese, a differenza del resto d’Europa, manca un’imposta sulle plusvalenze realizzate con le transazioni immobiliari. Le poche imposte che si pagano, quelle catastali, sono solo a carico degli acquirenti. Siamo di fronte a un caso di scuola. Un esempio eclatante di legislazione per la “transizione ecologica” piegata a vantaggio dei ceti benestanti e dei rentiers (beneficiari di rendite).

Ma non finisce qui. Tra le misure di sostegno, varate in piena pandemia dal governo Draghi, c’è la possibilità per i giovani sotto i 36 anni di comprare casa con mutui agevolati e garantiti dallo Stato. Una grande banca si spinge a offrire mutui al 100 per cento fino a quarant’anni!

I proprietari di decine di migliaia di edifici, rimasti invenduti nelle periferie urbane, applaudono. Dietro la parvenza di una politica per i giovani si cela in realtà un grosso regalo alla rendita. A che serve concedere incentivi per comprare casa quando, con insistenza, viene chiesto ai giovani di essere disponibili alla mobilità territoriale per trovare lavoro? Sarebbe molto più coerente investire nella ricomposizione e nell’allargamento di uno stock di alloggi sociali in affitto.

Si continua, insomma, a privilegiare la proprietà quando sarebbe di gran lunga preferibile un riequilibrio del rapporto proprietà-locazione. Siamo dunque di fronte a un provvedimento sbagliato, che favorisce i figli di papà e, comunque, famiglie agiate che possono investire nel mattone, intestando la proprietà ai figli.

In Italia abbiamo un surplus di abitazioni – solo a Roma se ne contano 200 mila inutilizzate -, ma senza un uso adeguato della leva fiscale il mercato dell’affitto non riparte. Il punto è che la rendita non è tassata ed è favorita in tutti i modi. Le imposte sul patrimonio contribuiscono con un misero 7 per cento al gettito fiscale complessivo.

Quelli che quotidianamente criticano il reddito di cittadinanza come fonte di sprechi non spendono mai una parola sui proprietari che non pagano l’Imu sui palazzi invenduti o la pagano solo al 50 per cento. Un vero scandalo. Solo una tassazione efficace può evitare che grandi ricchezze continuino ancora a nascondersi e che la rendita si ponga come motore di sprechi e di nuove ingiustizie, senza essere chiamata in alcun modo a contribuire al benessere collettivo.

da “il Manifesto” dell’11 dicembre 2021

La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune.-di Piero Bevilacqua

La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune.-di Piero Bevilacqua

In un Paese nel quale due uomini come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi son potuti assurgere al ruolo di presidenti del Consiglio, e il primo ambisce alla Presidenza della Repubblica, con ogni evidenza è accaduto qualcosa di grave nei fondamenti della sua vita civile. Quanto è avvenuto segnala un guasto profondo nell’etica pubblica, un decadimento di vasta portata della moralità collettiva.

Occorre ricordare che i processi di degrado dell’etica pubblica, in atto in Italia, ingigantiscono in virtù dei singolari caratteri originali del nostro Paese, un fenomeno di per sé universale: lo svuotamento ideale e il decadimento della politica quale arte moderna del governo delle società, pratica della sua trasformazione progressiva o rivoluzionaria. Si tratta di questioni note: il tracollo delle ideologie del ‘900, la dissoluzione dei partiti popolari e la loro riduzione a comitati elettorali, la corruzione dilagante, ecc. Questa analisi coglie però una parte della realtà.

La scomparsa dell’antagonista storico del capitalismo (comunismo e in parte socialdemocrazia) ha favorito, insieme ai processi materiali della globalizzazione, la marginalizzazione dei ceti medi e della classe operaia avanzata, che avevano costituito per decenni la base più estesa di consenso e partecipazione pubblica nelle società industriali. Erano questi ceti che garantivano la moralità progressista della politica. La loro regressione sociale, anche per effetto della riduzione del welfare, ha allontanato masse estese dalla militanza politica, dalla partecipazione elettorale, da ogni interesse per la cosa pubblica.

Al loro posto è emersa una nebulosa indistinta di gruppi e individui priva di connotazioni politiche coerenti, che sostituisce rivendicazioni e prospettive di riforma dell’esistente con espressioni rancorose di risentimento, confuse pretese risarcitorie, ostilità contro l’”altro”. Mancando la direzione dell’intelletuale collettivo che erano i partiti, la scena pubblica viene occupata così da un magma sociale a cui politologi e commentatori, in mancanza di meglio, hanno dato il nome di popolo. Un lemma vecchio per una realtà del tutto inedita.

Se un dato distingue le società industriali questa è la loro ricchissima stratificazione sociale. Il popolo è un concetto dell’800 per l’800. Ma l’analisi politologica non ha ancora colto l’essenziale. Dietro la decadenza della politica si erge gigantesco un fantasma che rimane nascosto agli sguardi superficiali: il nichilismo. Quanto profetizzato da Nietzsche, la morte di Dio e la perdita di fondamenti di ogni morale, è ormai senso comune e investe la politica alle radici. Col dissolvimento della religione, la scomparsa, per lo meno in Occidente, delle fedi delle varie confessioni, veicolo pur sempre di valori morali, anche la politica tracolla.

Se la scienza politica, a partire da Machiavelli, fa a meno della religione, la politica corrente muore se nessuna “religione” la sostiene, neppure la fede laica nel bene comune e nella possibilità di cambiare il mondo. E non è senza significato che ad anticipare questi anni sia stato il nostro Leopardi, il quale diversi decenni prima di Nietzsche aveva intravisto «questa universale dissoluzione dei principi sociali, questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in grande forse circa il futuro destino delle società civili». Si rilegge oggi con brividi di emozione e stupore il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani(1824), per la potenza disvelatrice di uno sguardo che non lascia ombre alla situazione desolante del nostro tempo.

Dunque, il quadro generale è quello di una grave involuzione antropologica delle società umane, ma entro il quale, l’Italia è, per ragioni che Leopardi esamina in maniera impeccabile, il Paese in più gravi condizioni: «L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun altra nazione europea e civile». Sembra scritto in questi giorni: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». L’egoismo, il narcisismo, l’invidia, l’odio per l’altro erano allora la norma, prima che gli ideali del risorgimento investissero lo spirito pubblico.

Naturalmente all’analisi di Leopardi manca il ruolo dei media, i quali amplificano, rendono popolare, materia di spettacolo l’immoralità crescente del ceto politico e della cosiddetta società civile.

So per certo, per parafrasare Leopardi, che se le leggi l’avessero consentito, non pochi giornalisti avrebbero invitato Totò Riina ai loro programmi televisivi. Costoro sono incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana. Ebbene, è dalla profondità di tale catastrofe culturale e spirituale che la sinistra e le forze democratiche dovrebbero oggi prendere le mosse, perché la dissoluzione della società non abbia quale rimedio al caos un governo autoritario.

da “il Manifesto” del 20 novembre 2021
Di Sconosciuta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1128950

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Nel libro XII dell’Odissea, Circe mette in guardia Ulisse sui pericoli che dovrà affrontare nell’attraversare lo Stretto, non solo dalle sirene, ma anche dai due mostri Scilla e Cariddi.

“… E poi i due Scogli: uno l’ampio cielo raggiunge con la cima puntuta: e l’avviluppa una nube livida; e questa mai cede, mai lume sereno la sua vetta circonda, né autunno, né estate; né potrebbe mortale scalarlo, né in vetta salire… A metà dello Scoglio c’è una buia spelonca… Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando… L’altro Scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini l’uno all’altro. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie: e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe!“.

Per molto tempo il tratto di mare fra Scilla e Cariddi è stato teatro di eventi magici, funesti e misteriosi, ma il mito ha raccontato e spiegato agli uomini antichi i furori, le grandezze e le tragedie della natura.

Il racconto mitico, trasformandosi, è durato per secoli, come testimoniano le leggende nate sulle due sponde, siciliane e calabresi, secondo le quali l’unico uomo in grado di attraversare senza subire danni e di scendere nelle profondità dello Stretto era stato Colapesce o Nicolau o Pescecola. Un’altra persistenza mitica delle sirene omeriche è la leggenda, forse di epoca normanna, della fata Morgana che, secondo la tradizione popolare ancora viva a tutt’oggi, viveva in un castello nelle profondità del mare e traeva in inganno i naviganti con un miraggio facendoli naufragare.

Il ponte che, di nuovo, si vuole costruire decreterebbe la fine del mito perché unirebbe ciò che gli dèi, in questo caso Poseidone, avevano diviso, distinto, separato per sempre. Contravvenire al volere divino oltre che un sacrilegio, sarebbe stato considerato, nell’antichità, un atto di hýbris, di superbia dell’uomo che non vuole piegarsi all’inconoscibile e smisurata potenza degli dèi e della natura.

La ragione e la tecnica ci hanno allontanati dal mito e resi capaci di vincere la natura, ma in questo caso, oltre alle fondate perplessità tecniche sulla fattibilità, sulla tenuta e sulla durata di una simile opera umana in un’area sismica per antonomasia (come ha da poco scritto Tonino Perna su questo giornale https://ilmanifesto.it/il-famigerato-ponte-della-retrocessione-ecologica/), è necessario dire anche quanto sia, banalmente, brutto e vecchio questo ponte.

Deturpare irreversibilmente lo scenario di un mito del quale si sono nutrite generazioni di calabresi, siciliani ed europei avrebbe dovuto consigliare, perlomeno, la progettazione e la costruzione di un manufatto che imprimesse, in quei luoghi, un segno architettonico di mirabile bellezza.

È così difficile capire che per la costruzione di un ponte così poco utile e di così vecchio e disarmonico disegno sarà necessario sfigurare orribilmente il paesaggio dell’estremo lembo della penisola con le ciclopiche opere di fondazioni necessarie per la stabilità strutturale di un tale mostro di cemento e acciaio?

Se si aggiungono le vaste servitù territoriali come le rampe per l’accesso ed il deflusso, su entrambe le sponde, del traffico su ruote e su rotaie – alcune delle quali insisterebbero, peraltro, su aree archeologiche- si capisce facilmente quanto sia devastante costruirlo.

Questa ulteriore cementificazione del territorio non farebbe che accelerare l’eclissi dei paesaggi in regioni, come la Calabria e la Sicilia, già sfigurate dall’insensato e vorace consumo del suolo e dall’abusivismo. I meridionali vivono già nella bruttezza, non ci fanno più caso, vivono in un paesaggio nel quale la natura è stata brutalmente violentata, cancellata e sostituita con colate di asfalto, di cemento armato e di case non-finite.

L’abitudine alla bruttezza genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. La bruttezza produce assuefazione all’assenza di regole estetiche ed etiche, producendo un’immoralità diffusa che genera ‘ndrangheta e mafia.

Se si vuole investire in opere pubbliche in Italia e, specialmente, nel Mezzogiorno, si faccia quel che fece F.D. Roosevelt che, nel momento di maggiore crisi economica, diede mano ad un’enorme e capillare restauro del paesaggio degli Stati Uniti impiegando tre milioni di giovani dal 1933 al 1942.

Il governo, se fosse davvero interessato alla rinascita del Sud, dovrebbe destinare i circa 10 miliardi di euro che costerebbe questo obsoleto ponte, ad un poderoso e capillare progetto strutturale di “Restauro dei paesaggi storici e naturali” che provi, con l’aggiunta di altri 10 miliardi del Pnrr, a restituire integrità, sicurezza idrogeologica, senso ed armonia ai paesaggi rurali ed urbani del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 12 maggio 2021

Il famigerato Ponte della retrocessione ecologica. -di Tonino Perna

Il famigerato Ponte della retrocessione ecologica. -di Tonino Perna

Ancora una volta, per l’ennesima volta, si ritorna a parlare del Ponte sullo Stretto di Messina, dopo l’approvazione di un progetto, uscito dal cilindro della commissione istituita ad hoc dal governo Conte-bis. Si tratta di un’ossessione, di un accanimento terapeutico, nei confronti di un territorio fragile che nel corso del tempo, dalla Magna Grecia ad oggi, ha dovuto subire più di venti terremoti devastanti, fenomeni di bradisismo (così si è inabissato a metà del XVI secolo il porto naturale di Reggio), smottamenti e frane delle colline di sabbia che si affacciano su uno degli spettacoli naturali più affascinanti del pianeta.

Dalla Lega a Forza Italia, da Fratelli d’Italia al Pd (soprattutto i deputati calabresi e siciliani) tutti uniti a chiedere che si proceda con il progetto esecutivo e poi si appalti questa “grande” opera.

Sulla stampa locale si leggono dichiarazioni fantasmagoriche: «la più grande attrazione del mondo»…«milioni di turisti …», «180mila nuovi posti di lavoro…». Persino il presidente della Svimez, stimato e rispettabile economista mainstream, si è innamorato di questa idea, senza tenere conto di studi indipendenti sulla fattibilità.

Basti solo pensare al distacco di un centimetro ogni cinque anni delle due sponde(rilevato dai satelliti), oltre alla grande faglia tettonica che attraversa lo Stretto e potrebbe risvegliarsi (gli scongiuri non bastano! ). Ma, quello che più preoccupa, è l’aver messo da parte, ignorato, cancellato, qualunque discorso sull’impatto ambientale, mentre tutti straparlano di “transizione ecologica”.

Chi è in buona fede non conosce il territorio, non sa che la ferrovia a Messina per essere collegata al Ponte dovrebbe attraversare la città per venti chilometri e essere portata a novanta metri di altezza. Ugualmente sulla costa calabrese bisognerebbe partire da Gioia Tauro per rifare un tratto ferroviario nuovo, bucando montagne e colline della costa viola, tra Bagnara e Cannitello, passando da Scilla, un luogo incantevole già penalizzato da colate di cemento.

C’è in tutto questo anche la responsabilità della grande stampa che da decenni mostra un fotomontaggio del Ponte come una protesi che unisce le due sponde, neanche fosse una frattura scomposta che va operata. Non fa vedere gli ottovolanti, le enormi rampe di cemento armato, lo sconquasso del territorio per arrivare al Ponte. Vista dal Nord, questa immagine leggera e armoniosa, come si fa ad essere contro?

Se ci fosse un ministro dell’Ambiente si sarebbe strappato le vesti di fronte a questa folle corsa a buttare risorse pubbliche, come è già avvenuto in questi decenni dove la Società per il Ponte sullo Stretto è stata lautamente finanziata per un opera tecnicamente improbabile, se non impossibile, e disastrosa sul piano ambientale.

Lo stesso ipotetico ministro per l’Ambiente avrebbe avuto qualcosa da dire anche per l’Alta Velocità ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria, mentre tutte le tratte interne, in tutto il Mezzogiorno, sono senza collegamenti o addirittura vanno a gasolio: il 100% in Sardegna, il 77% in Molise, il 43 per cento in Calabria, il 42% in Sicilia, il 40% in Basilicata, ecc.

Ed anche nel resto del nostro paese dalla Valle d’Aosta al Veneto, dalla Toscana al Friuli Venezia Giulia, pur se con minori percentuali. Insomma, se ci fosse un governo che prendesse sul serio la “transizione ecologica”, sui trasporti ci sarebbe un gran bel lavoro da fare, sia sul piano ambientale (nei prossimi anni i treni che usano l’idrogeno saranno una realtà e non eccezione), sia su quello sociale, unendo territori oggi abbandonati, favorendo le economie locali, le relazioni umane e la vivibilità di una parte importante del nostro paese oggi emarginata.

Aspettando che arrivi un vero ministro per l’Ambiente, diciamo chiaro e forte: NO Ponte.
Questa classe politica è vecchia, priva di fantasia, incapace a prendere coscienza della gravità del disastro ambientale che questo capitalismo di rapina ci ha regalato.

da “il Manifesto” del 4 maggio 2021

Gli appuntamenti con la storia che la sinistra rischia di perdere.-di Piero Bevilacqua

Gli appuntamenti con la storia che la sinistra rischia di perdere.-di Piero Bevilacqua

Ha scritto Norma Rangeri a proposito delle possibilità che si aprono alla sinistra in Italia: “Perchè in teoria si tratterebbe di coltivare una vasta prateria, grande quanto l’arcipelago sociale che in questi anni ha conosciuto il protagonismo di movimenti giovanili, ambientalisti,femministi insieme a nuove soggettività cresciute nel lavoro intermittente, manuale e intellettuale” (il manifesto,16.3.2021.

Aggiungerei una considerazione d’insieme. Siamo in presenza della chiusura di un ciclo storico. Una fase che potremmo definire di rivoluzione conservatrice, di globalizzazione sregolata, di dominio capitalistico senza antagonisti. Iniziata 40 anni fa con la riscossa dei partiti conservatori nel Regno Unito e negli Usa, che offrono ai gruppi imprenditoriali vistose riduzioni fiscali, la lotta aperta contro i sindacati, la riduzione del welfare conquistato nel dopoguerra.

Questa rimonta conservatrice si accompagna all’evento straordinario della rivoluzione informatica. Non solo si aprono nuove praterie di profitto per il capitale nella fase storica in cui declinano le fortune dell’industria automobilistica (vero motore del capitalismo novecentesco), ma si offrono alle imprese vantaggi insperati nei rapporti di forza con la classe operaia.

La delocalizzazione delle aziende, la mobilità mondiale dell’impresa di fronte alla fissità locale della forza lavoro, spezza drammaticamente il motore rivoluzionario del modo di produzione capitalistico: il conflitto di classe. E qui trascuriamo tutti gli aspetti di riorganizzazione del lavoro che frantumano il fronte operaio. Non è tutto: l’antagonista storico, pure imbalsamato in burocrazie autoritarie, ma in piedi su un fronte internazionale, il comunismo, tracolla.

E poiché la fortuna dei fortunati non ha confine, il capitalismo internazionale riceve bello e pronto un corpus di dottrine economiche, il neoliberismo – peraltro pluripremiato dai Nobel per l’economia – con cui dare dignità teorica e culturale al suo dominio assoluto sul mondo.

Ora dopo 40 anni guardiamo ai risultati. Le più vertiginose disuguaglianze sociali lacerano le società, la classe media è drammaticamente regredita, per ampi strati sociali il lavoro non è più sufficiente per emancipare gli individui dalla povertà, mentre avanzano disoccupazione e impieghi precari e le protezioni si riducono di anno in anno. In quelle che erano state le società del benessere i legami sociali vanno in frantumi, la vita pubblica viene mercificata, il nichilismo preconizzato da Nietzsche è ormai la stoffa del vivere quotidiano. Si crede che tutto questo non abbia effetti sulla vita politica?

Dismessi i grandi ideali, nei partiti d’un tempo si persegue la carriera personale, il cinico tran tran quotidiano che ha fatto rinascere i relitti del sovranismo e della xenofibia. Nel frattempo le crisi cicliche si sono sempre più ravvicinate nel tempo e con caratteri dirompenti, i conflitti locali, frutto di un assetto mondiale fondato sulla competizione intercapitalistica, costituiscono ormai una guerra mondiale permanente a bassa intensità. A causa delle guerre e per i mutamenti climatici, moltitudini di migranti vagano per il globo varcando mari, muri e fili spinati.

Dopo una serie ravvicinata di pandemie, ne è giunta una che da un anno semina morte e devastazione. Mentre si altera il clima e le risorse collassano, il pianeta Terra è sempre più minacciato. Mai era capitato nella storia che l’umanità potesse intravedere come suo possibile prossimo avvenire la fine della propria specie.

Ebbene, c’è qualcuno che può qualificare questa breve rassegna di trofei con un termine diverso da disfatta, fallimento, tracollo, sconfitta? Non ci interessa la risposta. Non abbiamo in mente il vaste programme di redimere gli imbecilli. La storia ha sempre proceduto a loro insaputa. La domanda è rivolta agli amici, alle donne e agli uomini che hanno davanti questa prateria.
Ebbene, nessuno si illuda che qualche risposta possa venire dal Pd. Giustamente lo hanno ricordato qui anche Alfonso Gianni e Paolo Favilli. Solo perché ora è arrivato Enrico Letta?

Con tutto il rispetto, mi avessero detto Vladimir Ilic Lenin redivivo avrei nutrito qualche speranza. Il Pd è stato un errore strategico, così lo definii alla sua nascita e non ho qui lo spazio per ripetere analiticamente tutte le ragioni di quel giudizio. Ma la storia reale dei sui 13 anni è più eloquente di me.

Allora? Approfitto dell’ospitalità del manifesto per un gesto improprio, un invito a Elly Schlein. perché senza cambiare la sua attuale collocazione politica, non prova a promuovere quel che lei stessa ha auspicato? Perché non prova a mettere insieme gli esponenti più rappresentativi dei vari gruppi e formazioni per una campagna che duri qualche tempo su temi che accomunano tutti? Sulla riforma elettorale mi sono già espresso. Ma anche su obiettivi più limitati, come l’abrogazione della Bossi Fini e lo Ius soli, il reddito per meriti ambientali per tutti i coltivatori che stanno sulla terra, ecc.

Ma importante sarebbe sperimentare in queste occasioni forme di aggregazione che si stabilizzano, che danno vita a organismi più durevoli, per sfidare la frontiera di una nuova forma di politica di sinistra organizzata. Schlein, è una leader, ma di tipo nuovo, non solo perché è donna, ma perché è persuasiva, netta nei contenuti e misurata nei toni. Deve farsi coraggio.
da “il Manifesto” del 18 marzo 2021

Il governo Draghi non definisce il perimetro della sinistra.- di Felice Besostri e Enzo Paolini

Il governo Draghi non definisce il perimetro della sinistra.- di Felice Besostri e Enzo Paolini

Giuramento, previsto dall’art. 93 Cost., del Governo Draghi nelle mani del Presidente della Repubblica, 12 febbraio 2021. La formula del giuramento (art. 1 c. 3 l.n. 400/1988) è solenne “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.
Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021, fiducia al Governo Draghi con 262 senatori favorevoli, 40 voti contrari, 2 astenuti e 17 non partecipanti al voto. Camera dei Deputati, 18 febbraio 2021 con 535 favorevoli, 56 contrari, 5 astenuti e 33 assenti.
Questi sono i fatti, tutto nella norma, a parte la curiosità della data in cifre 12.02.2021, che è palindroma, fatto di un certo interesse per numerologi pitagorici, schiera, cui siamo estranei.

*
La discussione
Nella sinistra, cui le gatte da pelare non mancano, stiamo assistendo a una discussione, che se volesse mettere in luce la sua irrilevanza politica, non si potrebbe inventare niente di meglio: il giudizio negativo, senza appello, su chi si appresta a votare in Parlamento la fiducia al Senato e alla Camera, in quanto insensibili ai suoi valori tradizionali e corrotta dal potere e dalle lusinghe dei poteri forti, fino al punto di accettare la Lega ex Nord nella maggioranza e sdoganare il suo leader Salvini.

Fossimo ai tempi dei processi staliniani, che qualcuno ancora rimpiange, ci si spingerebbe fino a qualificarli come servi del nemico di classe o agenti della CIA e/o del sionismo internazionale.
Stiamo parlando di una sinistra, che alle elezioni del 2018 per la Camera dei Deputati ha avuto, nel suo complesso di 5 liste, di cui solo LeU sopra la soglia del 3%, il 4,97%, cioè meno del 5.9% del PSU, (il più votato delle tre liste di sinistra (PSU-PSI-PCdI,) del 5,03% del PSI e appena lo 1,2% in più del PCdI), ai primi vagiti alle elezioni del 6 aprile 1924, mentre i suoi eredi hanno avuto da allora 97 anni di pratica politica.

E non bisogna, dimenticare che si trattava di elezioni svolte, – in un clima di brogli e violenze squadriste denunciate da Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso del 30 maggio 1924 – con la legge Acerbo, la prima con premio di maggioranza, seguita dalla legge 31 marzo 1953, n. 148, meglio nota come legge-truffa, per le elezioni politiche del 7 giugno di quell’anno, dalla legge n. 270/2005 (Porcellum) berlusconian-leghista e, annullata la renziana legge n. 52/2015 (Italicum) prima che fosse applicata, infine la gentiloniana legge n. 165/2017 (Rosatellum), approvata, grazie al precedente Boldrini del 2015, di sconfessione del “Lodo Lotti” del 1981, con ben 8 voti di fiducia: una legge peggiorata con la legge n. 51/2019 del Conte I, giallo-verdebruno, e non modificata, malgrado il taglio del Parlamento ad opera della maggioranza giallo-rossa del Conte bis.

*

La costituzione
Se il perimetro della sinistra fosse determinato dalla fedeltà alla Costituzione, nata dalla Resistenza e dalla Liberazione dal nazi-fascismo, avremmo già dovuto amputarla prima delle elezioni del 2018, ma giustamente non è stato fatto, anche se la violazione dei principi costituzionali con le leggi elettorali del centro-sinistra e con le revisioni costituzionali, fallita quella Renzi-Boschi nel 2016 e approvata nel 2020 quella voluta sotto i due governi Conte, sia, in termini valoriali, molto più grave di un voto di fiducia a Draghi, che non ha nominato la Costituzione nel suo primo discorso parlamentare. Tuttavia, a meno di accusarlo a priori di essere uno spergiuro, ricordo che altri, che pure avevano giurato nelle mani del Presidente della Repubblica e nominato la Costituzione, hanno tentato di manometterla e approvato leggi elettorali incostituzionali.

Il governo Draghi è privo di una qualificazione politica fin dall’investitura presidenziale e non l’ha acquisita, fortunatamente, nemmeno dopo, come maggioranza Ursula. La maggioranza URSULA era inaccettabile perché comprende un PPE, con dentro FORZA ITALIA di Berlusconi e la FIDESZ di Orban, e i 26 voti decisivi (è passata per appena 9 voti sopra la maggioranza assoluta) dei clerical-conservatori polacchi di Diritto e Giustizia (PiS) del gruppo politico, ora presieduto dalla Meloni ed esclude la Sinistra europea e i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi. La Lega dopo la sua conversione europeista, per quanto improvvisa e improvvisata, oltre che strumentale, ora potrebbe farvi tranquillamente parte.

Nessuno a sinistra è in grado di dare lezioni. I ricorsi contro le leggi elettorali incostituzionali sono state o iniziative individuali di avvocati elettori, il Porcellum, o di giuristi democratici organizzati nel gruppo avvocati antitalikum, collegati al CDC (Coordinamento per la Democrazia Costituzionale). Tra i ricorrenti solo tre deputati di Sinistra, una della lista Monti e 15 M5S. Contro il Rosatellum i ricorsi diretti alla Corte costituzionale sono stati solo di parlamentari di M5S e di una deputata centrista. Nei ricorsi giudiziali, invece, è rimasto solo un parlamentare di Sinistra Italiana.

Contro Draghi? Ma per cosa in positivo, con quali programmi credibili e realistici per ridurre le diseguaglianze cresciute negli ultimi 25 anni, anche con governi di centro-sinistra? Il collante è stato di volta in volta l’antiberlusconismo, per di più avallando il suo schema bipolare e maggioritario, perché alla sera delle elezioni si deve sapere chi governerà, anche se lontano dalla maggioranza del corpo elettorale. Un impegno, peraltro mai rispettato tra ribaltoni e compravendite vincolo, invece, rispettato dal centro-sinistra, con democristiani e socialisti già investiti dalle inchieste giudiziarie di massa, nelle elezioni 1992. (53,24% e 358 seggi su 630 il pentapartito del governo Andreotti VI (1989-1991) ed anche il quadripartito dell’Andreotti VII(1991-1992) si conquistò 331 seggi, la maggioranza assoluta, con il proporzionale).

Poi il pericolo della rivincita della destra, favorito dalle leggi elettorali maggioritarie e bipolari, fatte saltare dal tripolarismo delle elezioni comparso nel 2013 ed esploso a danno della sinistra nel 2018 grazie ad una legge demenziale, come il Rosatellum, che avvantaggia coalizioni senza programma comune e capo politico unico, con liste bloccate e voto congiunto obbligatorio a pena di nullità e multi-candidature: il diritto ad un voto diretto, uguale, libero e personale è stato rubato agli italiani nel 2005 e mai più restituito, altro che dare la voce al popolo, che in democrazia se la prende da solo.

*

Le elezioni
La verità è che non si può votare per queste ragioni, non per la pandemia, visto che nel settembre 2020 è stata creata un’illegittima concentrazione elettorale accorpando il referendum costituzionale e 7 elezioni regionali, ma né la ex maggioranza giallo-verdebruna, né l’uscente giallo-rossa lo possono dire perché la legge elettorale vigente l’hanno voluta loro e l’assenza di tempestivi efficaci controlli preventivi di costituzionalità ha consentito l’entrata in vigore di un taglio del Parlamento, che al Senato viola l’uguaglianza degli elettori e che nel complesso del Parlamento amplifica le distorsioni tra voti in entrata e seggi in uscita e facilita il controllo della maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune da parte di coalizioni con consenso compreso tra il 30 e il 35% dei votanti, in costante diminuzione.

Quella vigente è, quindi, una legge, che rende il vincitore delle elezioni il dominus della nomina del Presidente della Repubblica, in scadenza nel gennaio 2022, e delle nomine di un terzo della Corte costituzionale e del CSM e del rinvio a giudizio del Capo dello Stato, se non si piegasse ai suoi voleri: lo stesso obiettivo dell’Italicum e della deforma costituzionale Renzi-Boschi.

Con questi problemi da affrontare e risolvere, insieme con la pandemia, il risanamento finanziario, la ripresa economica, la disoccupazione di massa e la tutela ambientale, il voto di fiducia è inevitabile ma il suo significato dobbiamo considerarlo uno stato di necessità, derivante dall’assenza di alternative: non c’è un’altra maggioranza e non si può votare con questa legge e se si vota prima della fine del mandato del Presidente Mattarella, la destra deciderà da sola il nome del Presidente della Repubblica, cui spetterà di nominare altri 4 giudici costituzionali.
Il governo Draghi andrà giudicato sui singoli provvedimenti, questo è l’unico metro di giudizio di una sinistra, che voglia dare un segno di esistenza e non di testimonianza di un passato altrimenti glorioso.

*
Il Presidente
Approfittiamo della tregua elettorale, che il Governo Draghi impone e del semestre bianco per preparare sia una maggioranza presidenziale, che metta in sicurezza la Costituzione repubblicana e la forma di governo parlamentare, sia una sinistra alternativa. Il governo o di opposizione, lo potrebbe decidere finalmente il popolo nella sua maggioranza reale solo con una legge a impianto proporzionale, che garantisca alle minoranze politiche la presenza e la rilevanza parlamentare prevista dai principi costituzionali.

Con la Costituzione messa in sicurezza, con l’elezione di un suo garante affidabile, l’altro compito del nuovo soggetto politico della sinistra ampia sarà finalmente l’attuazione della Costituzione e dei suoi diritti fondamentali di estensione delle libertà, di eliminazione delle diseguaglianze, del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione, con gli strumenti previsti dal suo titolo III della Parte Prima, a cominciare dalla tassazione progressiva.

Nel 2022, 130° anniversario della fondazione del primo partito di massa dei lavoratori italiani, dovranno essere poste le fondamenta del nuovo soggetto politico dei lavoratori, che faccia la sua prova alle elezioni del 2023, scadenza naturale della legislatura, con salde radici nei movimenti sociali e la cui collocazione all’opposizione o al governo sarà deciso finalmente da un voto libero e uguale del popolo.

Allora e solo allora, quando sapremo chi siamo e dove vogliamo andare con un’idea forte di futuro, e non più soltanto da dove veniamo con nostalgia del passato, si stabilirà il perimetro della sinistra, senza mosche cocchiere o grilli parlanti che dettino la linea.
Chi non vota la fiducia, merita rispetto, per la scelta che fa responsabilmente. Non sarà per questo un avventuriero o un settario, e neppure, l’unico depositario della verità.

Per concludere, se il governo Draghi definisse, in un senso o nell’altro il perimetro della sinistra: NON CI STIAMO!
Ormai in politica il contingente, addirittura l’effimero, diventa determinante: purtroppo, dopo il voto di fiducia del Parlamento al governo Draghi i buoni e i cattivi saranno-reciprocamente-chi ha votato a favore o contro: una divisione deprimente.
Se la sinistra deve dividersi allora meglio tornare indietro al passato all’uso, denunciato da Alain Touraine, delle parole “socialdemocratico” e “stalinista”, semplici qualificazioni, che come fossero insulti.

Allora, sarebbe, su un altro piano più nobilmente ideologico, contrapporre LENIN a KAUTSKY, la LUXEMBURG a BERNSTEIN o, in casa nostra, in tempi commemorativi del centenario del 1921 TURATI a BORDIGA o MENOTTI SERRATI, o più recentemente NENNI a TOGLIATTI o BERLINGUER a CRAXI, almeno avremmo a che fare con grandi personaggi, per quanto tragica possa essere la divisione, che hanno comportato.
Diversamente, meglio stare a casa, in quarantena, fino all’elezione del Presidente della Repubblica: la maggioranza presidenziale, chi elegge il Presidente e chi è eletto è più importante della maggioranza di governo. Su Gramsci e Matteotti torneremo più avanti.

Dalla politica all’economia come scienza esatta.-di Tonino Perna

Dalla politica all’economia come scienza esatta.-di Tonino Perna

Non ci è bastato il governo Monti. In ogni fase difficile sembra che in questo paese si possa venirne fuori solo con tecnici prestigiosi, perché i politici sono parolai incapaci. L’idea che passa è che la buona politica coincida con una buona tecnica. La politica non è più l’arte del possibile, secondo una antica definizione, ma un mestiere come quello dell’ingegnere informatico o del dentista. Dietro questo pensiero, sempre più diffuso, c’è l’ideologia della scienza economica come scienza esatta, come la scienza che trova la soluzione migliore per collocare risorse scarse. Per questo sono gli economisti i tecnici più idonei a guidare un paese durante una crisi economica pesante come quella che stiamo attraversando (e non abbiamo visto ancora niente), così come sono i generali a guidare un paese in guerra. Questa è l’ideologia prevalente e, finora, vincente.

E cosa farà il premier Draghi, sempre che riesca a formare un governo stabile, quando si troverà di fronte a scelte difficili? Per esempio: continuerà a bloccare i licenziamenti, come ha fatto finora Conte, o li permetterà indiscriminatamente come vorrebbe Confindustria? E il reddito di cittadinanza, così odiato dalla gran parte delle forze politiche, ma sostenuto strenuamente dal M5S, che fine farà? E rispetto alle diseguaglianze sociali crescenti, rispetto ad un debito pubblico che è arrivato al 160% del Pil quale formula di politica economica potrà adottare per non farlo pagare ai ceti popolari e medi? E la famosa svolta green sarà ancora una volta una riverniciata o una vera conversione ecologica che mette in discussione questo modello di accumulazione capitalistica?

Molte di queste domande contengono le risposte che conosciamo. Purtroppo, quella che si preannuncia è una svolta di segno autoritario per spegnere il fuoco sotto la cenere: la rabbia sociale non avendo più una mediazione partitica esploderà e verrà repressa duramente in nome della salvezza dell’Italia dal caos. In nome della stabilità e della governance dopo aver perso l’articolo 18 i lavoratori dovranno rinunciare ad altri diritti, sempre in nome della salvezza della nazione.

Certo Draghi è molto stimato a Bruxelles e negli ambienti della finanza. Gli va riconosciuto il merito di aver salvato l’Euro e sicuramente il nostro paese dalla speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato. Ci potete scommettere che il giorno che lui dovesse diventare premier la Borsa di Milano, e non solo, avrà un sussulto di gioia, come già i primi segnali dicono. Ci potete anche scommettere che le istanze dei sindacati saranno ascoltate e poi probabilmente bypassate.

Da Bruxelles arriverà il mitico flusso di denaro che momentaneamente potrà dare una boccata di ossigeno. Ma tutte le contraddizioni sociali, territoriali, e istituzionali (rapporto Stato-Regioni) che la pandemia ha fatto esplodere non si risolvono con un semplice aumento del Pil, sia pure rilevante. Dovranno essere prese delle decisioni «politiche», che avvantaggeranno territori e classi sociali diverse, che rafforzeranno il settore pubblico o continueranno a perseguire quei processi di privatizzazione che ci hanno portato tanti danni.

È quasi un anno che serpeggiava il nome del Prof. Draghi, corteggiato dai poteri della finanza e dell’industria, e alla fine è arrivato sulla scena della politica italiana ridotta a tecnica della gestione dell’esistente. Una politica «dragata» potrà avere inizialmente una fase euforica per poi farci cadere nella depressione come fanno tutte le droghe. Con tutti i rischi che conosciamo forse andare a votare sarebbe stato democraticamente più giusto che affidarci all’ennesimo Uomo della Provvidenza.

Vogliamo concludere con una nota di ottimismo: l’essere stato allievo dell’indimenticabile Federico Caffè e avere fatto la specializzazione al Mit con Modigliani, vale a dire con due prestigiosi keynesiani, può aver lasciato una traccia nell’approccio di Mario Draghi alla politica economica. Lo vedremo dal programma e dai fatti.

PS. Ritorna di grande attualità «Per la critica dell’economia politica».

da “il Manifesto” del 5 febbraio 2021

Fratelli nessuno, nel mondo come gabbia di produzione.- di Piero Bevilacqua

Fratelli nessuno, nel mondo come gabbia di produzione.- di Piero Bevilacqua

“Ma la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro”, scrive papa Francesco ad avvio della sua enciclica ‘Fratelli tutti’, esprimendo un’impressione che domina oggi l’immaginario collettivo. Negli ultimi tre decenni si è aperto il vaso di Pandora da cui sono usciti odi e fanatismi dimenticati, l’individualismo sfrenato ha disfatto il tessuto delle relazioni umane, la competizione è diventata la regola di ogni rapporto fra le persone come fra i gruppi e gli stati, i conflitti politici e le dispute territoriali si trasformano in guerre sanguinose.

Ma come poteva essere diversamente? Sono trent’anni che le classi dirigenti, gli uomini politici, gli intellettuali, i media assediano giorno dopo giorno la nostra mente con un unico e ossessivo messaggio: occorre crescere, incrementare la produttività, rendere il sistema competitivo, il lavoro flessibile, accettare la sfida della globalizzazione, ecc. Poteva un dominio così esteso e durevole del pensiero unico sulle nostre società restare senza effetti sul fondo antropologico delle culture collettive, delle psicologie, dell’etica e del comportamento dei singoli come degli stati?

Ho sempre osservato con stupore la suprema indifferenza per gli esiti sociali, umani, morali (di quelli ambientali sarebbe pretendere troppo) con cui gli economisti di tutte le tendenze, anche progressisti, dettano le loro prescrizioni a sostegno della crescita. Ricordo qui per brevità il caso degli economisti agrari.

Non c’è un loro manuale che non prescriva oggi la formazione di aziende di grandi dimensioni, le monoculture, la crescita della produttività del lavoro attraverso le macchine, la proiezione verso i grandi mercati, l’abbassamento costante dei costi e quindi la competitività del prezzo dei prodotti.

Ma queste prescrizioni hanno come effetto la scomparsa degli uomini dalle campagne, e dunque la perdita di tanti territori che rimangono senza presidi, una agricoltura inquinante che produce in eccesso e impoverisce la fertilità dei suoli, la grande massa dei produttori strangolati dalla grande distribuzione, la rinascita in grande stile di un fenomeno scomparso: la schiavitù bracciantile nelle grandi aziende.

E tuttavia sarebbe fuorviante pensare che il ritorno indietro della storia sia un rinculo generale. Per il capitalismo in questi decenni non si è verificato alcun regresso. Forse che sono diminuite le ricchezze di tanti singoli magnati, e delle imprese? Non abbiamo continue notizie dell’ abnorme concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi? Non sappiamo che si sono formati colossi multinazionali che hanno un bilancio paragonabile a quello di uno stato?

In realtà il mondo a totale dominio capitalistico è andato avanti, e indietro sono tornate le classi lavoratrici, gli ultimi della Terra. Regredite sono le coperture del welfare, le sicurezze e stabilità di un tempo, e dunque anche i rapporti umani, avvelenati dalla precarietà, da una ideologia della corsa continua, della guerra economica tra stati.

La violenza diffusa e la conclamata decadenza morale che segna oggi la condizione umana, descritta con tanto coraggio da papa Francesco, sono l’esito di questo radicale dominio capitalistico, del venire meno di un efficace contrasto politico su scala globale, dell affermarsi della sua intima logica predatoria.

Si è consumato infatti un mutamento storico che è stato percepito in vario modo ma che segna un passaggio d’epoca: le società sono diventate un modo di produzione. Il modo di produzione capitalistico, sempre più privo di freni e mediazioni. La crisalide del capitale, motore segreto della società, ha rotto l’involucro e si è fatta suo corpo.
E’ questa indispensabile lettura che consente di afferrare alla radice i fenomeni in atto e di poter almeno immaginare le strategie di contrasto. Il capitalismo sta abbattendo tutte le mediazioni, quelle statuali e politiche, come quelle culturali.

Si è creduto a lungo che Silvio Berlusconi fosse un’anomalia “mediterranea”, ma oggi Trump ci mostra che il nostro ex presidente del Consiglio era un fenomeno d’avanguardia del capitalismo, non un suo residuo di arretratezza. Oggi è nello stato più potente del mondo che questo modo di produzione, in alcune sue espressioni più aggressive, ha piegato le mediazioni politiche dell’ordinamento liberale agli interessi di un magnate. Anche lo svuotamento dei partiti politici, il loro divenire semplici agenti del mercato elettorale si inscrive in questo processo di fagocitamento di tutte le espressioni della società civile dentro le logiche di un modo di produzione.

E oggi appaiono in tutta la loro nefasta erroneità le politiche europee e italiane di adattamento della scuola e dell’Università ai bisogni della crescita, il loro asservimento a criteri aziendali, la mortificazione del processo formativo ridotto ad apprendistato di mestieri e professioni. I nostri governanti devono sapere che queste politiche concorrono al declino morale, all’indifferenza, all’egoismo, all’odio per gli altri che compone oggi l’informe impasto della società rappresentata da ‘Fratelli tutti’.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2020
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Le regressive sorti di un capitalismo disastroso.- di Piero Bevilacqua

Le regressive sorti di un capitalismo disastroso.- di Piero Bevilacqua

I disastri in Veneto e in Lombardia con le improvvise tempeste dei giorni scorsi e i violenti incendi che hanno distrutto interi boschi della Sicilia occidentale, rientrano solo in parte nel quadro consueto dei dissesti italiani. Li comprendono certamente, ma entro una dinamica nuova e più grave.

Alluvioni, incendi, frane hanno legami invisibili. Il cosiddetto riscaldamento globale non si esaurisce nell’innalzamento medio della temperatura, ma si esprime anche nel caos climatico.

Nella ricorrenza accentuata dei fenomeni estremi, caterratte d’acqua in poche ore e perfino trombe d’aria, accanto a prolungate siccità, che offrono ai criminali, la possibilità di appiccare incendi alle foreste con sicuro successo.

Un mutamento nella storia della natura, dovuto all’azione umana, che si inscrive, in questo caso, nella vecchia storia d’Italia, lo stato nel quale il territorio acquista valore quando viene ricoperto da edifici, se si trasforma nello scenario della propria distruzione attraverso le cosiddette grandi opere.

In Italia, il paese più franoso e fragile d’Europa, le campagne necessiterebbero di una manutenzione costante, di una presenza operosa di figure umane, di lavori di controllo e sistemazione continua delle frane, dei corsi d’acqua, di pulizia e vigilanza sui boschi – come ricordava Tonino Perna su queste pagine a proposito degli incendi – di monitoraggio insomma del suolo, la base delle nostre vite e delle nostre economie, ormai sempre più esposta a drammatiche rotture.

Ma l’indifferenza inveterata del ceto politico e della cultura italiana nei confronti dei fenomeni naturali e della sorte del territorio oggi valica una soglia di gravità che potremmo definire storica. Il riscaldamento globale non comporta solo caos climatico con i disastri dell’oggi, ma, in una prospettiva non lontana, l’innalzamento dei mari. Lo scioglimento dei ghiacciai, che ha sorpreso anche gli scienziati per la sua recente accelerazione, comporterà l’invasione delle acque marine di vaste aree costiere e vallive, in tempi che nessuno può prevedere, ma che non saranno tempi geologici.

E qui mi torna in mente una definizione fisica dell’Italia da parte da un grande commis d’état del primo ‘900, Meuccio Ruini, il quale, volendo rilevare il carattere prevalentemente montuoso-collinare della Penisola, disegnava un quadro che oggi ha colori inquietanti: «Se il mare, alzandosi di pochi metri, ricoprisse quel golfo di terra che è la Valle Padana, l’Italia sarebbe una sola e grande montagna». Quei pochi metri, come ognuno può comprendere, sarebbero sufficienti a cancellare l’Italia dal novero dei paesi industrializzati, con perdite immense di beni e ricchezza.

Non voglio indulgere in prospettive catastrofiche, ma se i fenomeni presenti e quelli futuri prossimi minacciano in maniera così rilevante e rovinosa il nostro habitat, non dovrebbe mutare radicalmente la nostra attenzione e la nostra cura per il territorio, già oggi e sempre più bene scarssissimo e prezioso?

E allora, com’è possibile che ancora si cementifichino le periferie urbane – Lombardia e Milano, capitale morale, in testa – anziché ristrutturare edifici abbandonati, restaurare quartieri, valorizzare il già costruito? Perché si insiste con le cosiddette grandi opere che mangiano ettari ed ettari di suolo verde? Perché si abbandonano alle frane chilometri di terre incolte, si lascia deperire l’immenso patrimonio immobiliare dei paesi e villaggi, che si vanno spopolando nelle cosiddette aree interne?

Quando è evidente a tutti che questi territori diventeranno la nostra salvezza nei prossimi decenni, allorché il disordine climatico si aggraverà, tante aree costiere diventeranno inabitabili, come appare inevitabile di fronte alla colpevole inanità delle classi dirigenti dei paesi ricchi.

Eppure, sul piano politico si può ancora agire per avviare una svolta, non solo coi vincoli al cemento, ma già, ad esempio, con un salto culturale della Politica Agricola Comunitaria. Con l’assegnazione di un reddito di base ad ogni piccolo contadino europeo, che non solo produce, ma fa manutenzione del territorio.

La questione territoriale italiana oggi mostra un fenomeno inedito nella storia del capitalismo. Da quando esiste questo modo di produzione la realizzazione del profitto da parte del capitalista ha coinciso anche con la creazione generale di beni e ricchezza. Tale coincidenza, per via della produzione di beni sempre più imposti e superflui, si è da tempo indebolita.

Ma oggi, specie in Italia, la creazione del profitto, religione dell’imprenditoria occidentale, ha perso i suoi fondamenti metafisici, come le religioni rivelate, e in vasti ambiti dell’economia, con crescente evidenza, non produce più vantaggi e benessere, ma danni, per il presente e per l’avvenire.

da “il Manifesto” del 3 settembre 2020

Foto di Tumisu da Pixabay