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Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra

Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra

Alberto Magnaghi, da tempo malato di un male incurabile, è morto a Bra (in Piemonte) all’età di 82 anni. Ha continuato fino alla fine dei suoi giorni a ricercare soluzioni inedite (molto discusse nella comunità accademica degli urbanisti) per una pianificazione del territorio in senso ecologico.

Con la sua autorevolezza e con il suo infinito amore per il territorio ha avuto moltissimi allievi “territorialisti” che condividevano il suo approccio e la sua ricerca. Il suo ultimo libro, Ecoterritorialismo (scritto insieme a Ottavio Marzocca), sarebbe stato presentato il prossimo 6 ottobre a Spin Time, a Roma, da dove avrebbe illustrato il concetto, a lui carissimo, di Bioregione, quello che lui considerava lo strumento multidisciplinare per affrontare il progetto eco-territorialista.

Era stato designato professore Emerito di pianificazione territoriale presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove aveva fondato la Scuola Territorialista. Insieme ad Asor Rosa anni fa presentammo l’unico libro che parlava della sua esperienza carceraria, Un’idea di libertà (Derive Approdi, 2014). La libertà, per Alberto, non poteva che venire dalla cura del territorio, dal rapporto virtuoso tra le comunità insediata e i luoghi.

Da qui il concetto di autogoverno del territorio, un territorio abitato da tante comunità, l’opposto di quello metropolitano strombazzato in molte ricerche accademiche.
Questo giornale prese le sue difese quando, nel 1979, venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta 7 aprile come dirigente di Potere Operaio; fu condannato, poi definitivamente assolto 8 anni dopo. Rossana Rossanda parlò di lui su il manifesto, come un uomo giusto e di grande impegno nella sua opera di urbanista militante.

Aveva iniziato le sue ricerche con la pubblicazione de: La città fabbrica, contributi per un’analisi di classe del territorio, tracciando un percorso che si sarebbe sviluppato per 50 anni, da: Il territorio dell’abitare (con R. Paloscia) nel 1990, fino a Il progetto locale (Bollati Boringhieri, 2000), Verso la coscienza di luogo del 2014 e poi con Beccattini di nuovo: la Coscienza dei luoghi, il territorio come soggetto corale del 2015.

Questi ultimi libri pubblicati in diverse lingue. In Francia godeva della stima e dell’ammirazione di personaggi come Francois Choay, autorevole storica dell’architettura e dell’urbanistica francese.
Le facoltà di Architettura di tutta Italia ci tenevano ad averlo presso di loro per sentire i suoi seminari, la sua concezione di territorio che tanto si discostava dalla retorica accademica. Era circondato da tanti amici, compagni, allievi affascinati dalle sue teorie, che lo hanno seguito fino agli ultimi momenti della sua vita.

Difficile riassumere il suo lungo percorso di ricerca e di impegno civile, considerata la sua vastissima produzione tutta volta al rapporto territorio-comunità.
In tal senso si era anche occupato delle vicende di Adriano Olivetti, pubblicando: Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora , insieme a Marco Revelli e Aldo Bonomi (Dervive approdi, 2015).

Sapevamo da tempo che era malato, ma non per questo ci eravamo abituati a perderlo, prima o poi. Ci rimane di lui l’immagine sorridente e luminosa capace di trascinare alle sue idee anche coloro che la pensavano diversamente. Una mente originale e un grande amico. Riposa in pace, Alberto: hai lasciato un segno indelebile in tutti noi, ti ricorderemo sempre.

da “il Manifesto” del 22 settembre 2023

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

Non era mai successo. Come leggiamo su queste pagine, nessuno ha conoscenza o memoria alcuna di «bozze provvisorie» uscite dagli uffici della Camera o del Senato. Ma la voglia di innovazione della destra di governo produce l’impensabile. Che poi l’erronea pubblicazione di un testo non verificato sia credibile è tutt’altra faccenda.

Opportunamente Andrea Fabozzi precisa che il dossier è rimasto online per ben quattro giorni prima che si aprisse il caso. L’Ufficio bilancio del Senato non deve scuse ad alcuno. Piuttosto, deve scusarsi chi ha prevaricato su strutture che sono al servizio non della maggioranza ma della istituzione.

Quanto è accaduto conferma che Meloni ha commesso un errore lasciando in mani leghiste i ministeri chiave: Calderoli alle autonomie, Giorgetti all’economia, Salvini alle infrastrutture. Poi ha sbagliato lasciando Calderoli libero di scegliere tempi e modi delle sue mosse. Probabilmente ha perso l’ultima occasione di rallentare caterpillar Calderoli quando ha consentito il disco verde in Consiglio dei ministri senza uno straccio di discussione nel merito.

Forse la misura è stata colma quando Calderoli ha presentato il suo disegno di legge (AS 615) con la sola sua firma, e, ancor più, quando è emerso che aveva probabilmente già avviato contatti e trattative per la elaborazione delle future intese. Si è appreso, ad esempio, che il ministero dell’istruzione aveva stigmatizzato come inaccettabile l’ipotesi di ruoli regionali per i docenti.

Il punto è che la risposta del ministero comporta che qualcuno abbia posto sul punto una domanda. E chi può aver chiesto, se non il ministro delle autonomie? Sollecitato da chi? E quante altre domande ha posto a chi, di cui non sappiamo? È la nuova Italia, a firma Calderoli.

Ora Meloni deve aver capito che il suo partito di “patrioti” non può essere strumento decisivo nella costruzione di una patria nuova in salsa leghista. Ma fermare il treno in corsa è certo più difficile. Il dossier incriminato in fondo nulla dice che non sia stato già detto da esperti, studiosi, prestigiosi istituti di ricerca come la Svimez, soggetti istituzionali non sospetti di partigianeria come l’Ufficio parlamentare per il bilancio, la Corte dei conti, e persino la Banca d’Italia.

D’altra parte, quando si parla di una spesa regionalizzabile di circa 280 miliardi di euro, destinati ad andare in misura prevalente alle regioni più forti, è chiaro che alle altre non rimane che stringere la cinghia, con buona pace dell’eguaglianza dei diritti, del riequilibrio territoriale e della coesione sociale. L’Italia si frantuma, mettendo in discussione non solo la Costituzione del 1948, ma 160 anni di unità.

Che fare? Anzitutto, chiedere a Calderoli una piena informazione sull’operato del suo ministero. Inoltre, emendare l’AS 615 riportando nelle aule parlamentari ogni decisione nel merito delle intese e dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). In parallelo, far emergere nel dibattito parlamentare la necessità di rivedere in modo mirato il framework costituzionale dell’autonomia, oggi scritto in modo tale che il rischio per l’unità del paese e l’eguaglianza esiste anche senza autonomia differenziata.

Per questo può essere utile la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta alla modifica degli articoli 116.3 e 117, sostenuta dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. Abbiamo raccolto oltre 100000 firme, di cui solo poche migliaia andranno perse per le difficoltà incontrate nella certificazione.

Un grande risultato, ottenuto su un oggetto per larga parte misterioso per un’opinione pubblica tenuta per anni all’oscuro dal silenzio dei mezzi di comunicazione di massa, e dall’assenza di un vero dibattito in parlamento e nei partiti. Ma proprio le firme raccolte ci dicono di un paese diviso. In tutto il Nord, dal Friuli-Venezia Giulia alla Liguria aggiungendo anche l’Emilia-Romagna, le firme raccolte sono pochissime. Tante, invece, dal Sud. Ed è mai possibile che con i tradizionali banchetti il Molise raccolga più firme dell’Emilia-Romagna?

Bisogna spiegare e dimostrare che l’autonomia differenziata non è la via giusta. E che l’unità e la coesione convengono a tutti, e sono il solo vero modo di rafforzare la competitività del sistema-paese sul piano europeo e globale. Calderoli minaccia dimissioni, ma se ne faccia una ragione. E Meloni dimostri di saper fare il necessario su fronti di guerra che non sono in paesi lontani, ma dalle parti di Palazzo Chigi.

da “il Manifesto” del 18 maggio 2023

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

“Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica”. Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale.

Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento.

Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei lep senza che i lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione.

Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati SVIMEZ, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la SVIMEZ, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati SVIMEZ, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).
Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2023

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

Occorrerebbe parlare con cognizione di causa e conoscenza dei problemi. Soprattutto in materie delicate che riguardano ogni giorno la vita dei cittadini. Come la Sanità.- Non è per fare polemica pregiudiziale e “ideologica” ma davvero c’è da chiedersi perché da più parti viene detto che le prestazioni offerte dal settore privato accreditato (cioè senza oneri per il cittadino) o non accreditato (cioè a pagamento) sarebbero, così, tout court, viziate, inaccettabili, sporche, perché inquinate dal fatto che il proprietario/gestore della struttura privata ne trae un guadagno.-

Si badi, non si dice che la prestazione resa dal privato non risponde agli standard di qualità o che è il frutto di una truffa o di un accordo fraudolento. No. E’ solo che “se l’obiettivo è il rispetto del diritto le prestazioni saranno di un tipo, se invece lo scopo è il profitto, le stesse prestazioni saranno di altra specie” (Ivan Cavicchi Il Manifesto 2 febbraio 2023).-

Traduzione: se si vuol fare profitto non si può rispettare il diritto. Il che la dice lunga sul rispetto del lavoro e sul pregiudizio ottuso che semina una affermazione del genere.-

E ancora: “sulle strutture private accreditate: a loro più che offrire prestazioni con il servizio sanitario nazionale conviene offrire prestazioni a pagamento” (Milena Gabanelli, Corsera 6 febbraio 2023). Qui è chiaro che si ignora come e perché sono le Regioni che impongono tetti insuperabili (peraltro in violazione delle Leggi dello Stato) che inibiscono alle strutture private accreditate di rendere “prestazioni con il servizio sanitario nazionale”.-

Questa ostilità inspiegabile verso chi – lavorando onestamente – rende un servizio pubblico traendone un giusto e lecito profitto, non agevola affatto la discussione che dovrebbe – deve – agitarsi lucidamente intorno al tema della cosiddetta “autonomia differenziata”. Questione che in realtà ne nasconde una enormemente più importante e delicata, cioè la tutela della Costituzione e dei diritti basilari di ogni cittadino di questo Paese.-
I primi guasti enormi sono stati provocati dalla sgangherata riforma del titolo V della costituzione con la regionalizzazione – tra l’altro – del servizio sanitario.

L’esigenza, sbandierata come “politica” ,di avvicinare il modo di prestare cure ed assistenze alle concrete e peculiari necessità dei territori e dei cittadini che li abitano era uno sbaglio prima che una bugia che oggi però presenta il suo conto in termini di inadeguatezza ed insufficienza.

In realtà rispondeva alla volontà predatoria di creare nuovi e più penetranti centri di potere e di formazione/ imposizione di consenso elettorale e di formazione di enormi ed incontrollati flussi finanziari senza alcun riguardo agli interessi dei cittadini che avrebbero meritato (avendolo pagato con le tasse) un sistema sanitario – e connessi circuiti di ricerca e produzione- in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza. Ma la politica era più attenta alla nomina di direttori generali ed agli appalti truffa più che alla implementazione di un vero servizio universale e solidaristico per tutto il paese e per cittadini uguali indipendentemente dalla regione in cui si trovano.

La riflessione ci porta ancora più indietro a considerare che la tragica inadeguatezza strutturale che oggi constatiamo è figlia della subcultura politica della classe dirigente degli ultimi venti anni . Quella dei “ nominati” ,non più legati alla selezione dei partiti ed ai cittadini elettori ma alle agenzie di rating ed alla globalizzazione . E siccome tutte le matasse hanno un bandolo è quello che occorre cercare per poter capire. Il bandolo è la sciagurata revisione dell’art 81 della costituzione che nella nuova stesura impone il pareggio di bilancio .

Spacciata nel 2012 per una norma virtuosa era, in realtà, il mezzo per dichiarare recessivi rispetto ai mercati, alla logica iperliberista e “aziendalista”, i diritti fondamentali , quelli che i costituenti avevano previsti in Costituzione e dichiarati dovuti e pretendibili dai cittadini senza “ corrispettivo” – scuola ,ambiente e sanità per intenderci – perché assicurati a tutti ,indistintamente , mediante il prelievo fiscale proporzionale e progressivo (chi ha di più paga questi servizi anche per chi ha di meno).

Diritti “costosi”, ed infatti previsti a carico dello Stato, perché i “ricavi” da essi prodotti non sono iscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto, essendo fatti di cultura, senso della comunità, conoscenze, benessere, in un ideale ma ben percepibile, bilancio istituzionale e politico.

Ma la storia e’ che il parlamento totalmente impregnato degli interessi della grande finanza mondiale ed incapace di opporre ad essa la visione di un equo stato sociale, voto’ la modifica con una maggioranza tale da rendere impraticabile anche l’eventuale referendum confermativo.

Da quella revisione costituzionale discendono i tagli al fondo sanitario, i blocchi delle assunzioni , la politica dei budget e degli “ acquisti “ di prestazioni (terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello stato, cioè di un loro diritto. La salute come azienda,appunto).

Da qui vengono i commissariamenti delle regioni in particolare al sud , oberate da debiti derivanti in parte dal fisiologico costo del servizio sanitario (ovvio, crescono le conoscenze e la tecnologia, aumenta la vita media, si scoprono e si praticano nuove cure, e dunque si incrementano i costi) ed in altra parte, la maggiore, dagli sprechi.
Ma i commissari non hanno fatto la lotta agli sprechi, neanche un centesimo è stato risparmiato in questo campo, sono stati invece imposti nuovi tagli ,nuove riduzioni di servizi e di diritti, è stata indotta l’emigrazione sanitaria a tutto beneficio delle Regioni del nord così da presentare (senza neanche riuscirci), bilanci migliori e indirizzati verso il pareggio.

Nessuno, a meno di voler essere smentito dalla esperienza diretta di ciascuno di noi ,può dire che si sia pensato ad un progetto di sistema sanitario complessivo. Si sono chiusi ospedali a casaccio ,si sono bloccate le assunzioni , non un centesimo per la prevenzione, per la medicina del territorio, per la rete emergenza/urgenza. Non ne parliamo della ricerca rimasta affidata a nicchie di volenterosi .

Noi lo scriviamo, lo diciamo, lo urliamo da anni, inascoltati, ma ora il re è nudo: il servizio sanitario non può essere regionalizzato perché la tutela della salute e’ un diritto fondamentale cui ha diritto ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri. Neppur può soggiacere ai vincoli di spesa, quella giusta, necessaria, e per fortuna, sempre maggiore se si vuole, come si deve, assicurare sempre maggiore benessere e dunque efficienza, efficacia ai cittadini che così possono produrre merci, cultura, idee formazione e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita, giusta ed equilibrata, del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve è questa: sostenere la scuola, tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Gli sprechi, le truffe devono essere perseguiti con i dovuti mezzi specifici e non con i tagli lineari che falcidiano nella stessa misura spese improprie ( che vanno cancellate del tutto) ed eccellenze (che invece vanno sostenute con maggiori risorse). E men che meno con la spesa storica o con la storia dei Lep fissati dal Governo e non dal Parlamento e poi declinati in “intese” tra Regioni e Ministro. Non è così che si attua il ragionalismo costituzionale. Così si tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione. Ripristinare semplicemente la Costituzione italiana garantendo i diritti fondamentali a tutti ed in maniera piena, è questo ciò di cui gli italiani hanno bisogno.

Roba per la Politica con la P maiuscola.

P.S.: Per fare in maniera seria questo tipo di riforme occorre una nuova assemblea costituente eletta con metodo proporzionale puro.

da “il Quotidiano del Sus” del 17 febbraio 2023

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

Il ministro Calderoli ha tradotto il termine spacca-Italia – giudizio indiscutibilmente politico – in una offesa alla sua onorabilità. Minaccia addirittura le vie legali.

Per quanto ci riguarda, del suo onore non dubitiamo affatto. Ma nemmeno dubitiamo che il suo progetto di autonomia differenziata sia dannoso per il paese. Un danno che si produce su due versanti.

Il primo. Il ministro ha infilato nella legge di bilancio una decina di commi sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Sembrerebbe cosa buona e giusta, perché l’art. 117.2, lett. m), affida i Lep alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla pari con politica estera, difesa, sicurezza e altro ancora. Un presidio apparentemente fortissimo.

Ma nei commi in questione non troviamo quali sono le materie Lep, quali gli ambiti, quali le risorse, quali i tempi. C’è solo una via tecnico-burocratica per la definizione, per di più in una dichiarata assenza di risorse. Un percorso che vede l’adozione con decreti del presidente del consiglio dei ministri e la marginalità del parlamento, nonostante il presidio dell’art. 117.2. I Lep sono sottratti di conseguenza anche al controllo del capo dello Stato in sede di promulgazione della legge e della corte costituzionale nel giudizio di legittimità. Si aggiunga che mettendo i Lep nella legge di bilancio il ministro sottrae il relativo procedimento anche al referendum abrogativo ex art.75. Un “pacco”.

Il secondo è la legge di attuazione. Un altro “pacco”. È consegnata all’eternità della rete una dichiarazione di Calderoli di aver ritenuto inizialmente la legge (legge-quadro o di attuazione è lo stesso) non necessaria, potendosi stipulare le intese anche in mancanza. Poi ha cambiato idea. Peccato, perché era buona la prima.

La legge di attuazione è inutile, perché non è sovraordinata alla legge che concede maggiore autonomia. Ad esempio, se anche la legge di attuazione escludesse la regionalizzazione di scuola, infrastrutture strategiche, lavoro, energia, porti, aeroporti, autostrade, ferrovie o altro ancora, la legge sulla maggiore autonomia di una o più regioni potrebbe ugualmente concederla. Lo stesso vale per il caso di mancata determinazione dei livelli essenziali nelle materie Lep.

Un referendum abrogativo della legge di attuazione Calderoli sarebbe ammissibile, ma inutile, perché non precluderebbe la stipula di singole intese con singole regioni. Mentre la legge recante la maggiore autonomia per la singola regione ai sensi dell’art. 116.3 sarebbe – quella sì – sottratta a referendum abrogativo in quanto legge “rinforzata”, secondo una antica giurisprudenza della Corte costituzionale. Al tempo stesso, la maggiore autonomia acquisita attraverso l’art. 116.3 è potenzialmente irreversibile, perché la modifica successiva dovrà comunque essere fatta con lo stesso procedimento.

Quindi, in base a nuova intesa con la regione, che potrebbe ovviamente negarla. Né infine è credibile che una maggiore autonomia conseguita con trasferimento di risorse umane, organizzative, strumentali, finanziarie si cancelli o si riveda agevolmente, Un paese non si governa con apparati pubblici in fluttuazione costante.

La legge di attuazione è una cortina di fumo. Nel modello Calderoli la vera scommessa è sulla concertazione tra esecutivi, e cioè sulla trattativa con i ceti politici regionali e locali, potenzialmente interessati a frattaglie di potere. Là si cerca il consenso. Rimane invece necessario emarginare il parlamento, popolato di soggetti che nella gran parte nulla guadagnano personalmente dalla cannibalizzazione delle strutture statali.

Non se ne abbia a male Calderoli. Il paese non si mantiene ragionevolmente unito ed efficiente quando ogni componente territoriale definisce a trattativa privata il proprio regime economico e giuridico in modo potenzialmente irreversibile. Il danno c’è, e non si diffama nessuno evidenziandolo. Certo, non è tutto imputabile a lui. Ha ragione quando dubita del neurone che ha scritto l’art. 116.3. Non a caso, raccogliamo le firme su una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a una modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Intanto, Meloni farà bene a frenare la voglia leghista di spacchettare l’Italia in tante repubblichette. Ricordiamo il Nenni della stanza dei bottoni. Al suo capo eletto direttamente Meloni una stanza potrebbe anche darla. Ma con l’autonomia differenziata scomparirebbero i bottoni.

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Considerazioni sul voto del 25 settembre.-di Piero Bevilacqua

Considerazioni sul voto del 25 settembre.-di Piero Bevilacqua

Le note che seguono non sono un’analisi del risultato elettorale – per
la quale ci vorranno più dati e più tempo – ma un insieme di
considerazioni che spero utili in un momento di delusione e amarezza.
I dati sono al di sotto delle nostre aspettative e si inscrivono
peraltro in un contesto di grave arretramento del quadro politico
generale.Il successo elettorale di un esponente della destra
ex-fascista, candidata addirittura a diventare presidente del
Consiglio è l’ultimo segnale del grave processo di declino non solo
politico, ma anche culturale e direi di civiltà del nostro Paese.

Ma su questo torneremo. In questo momento l’errore che noi di Unione
Popolare non dobbiamo commettere è di andare a caccia dei nostri
errori. L’unica cosa che possiamo rimproverarci è che avremmo potuto
anticipare di qualche mese la nostra uscita pubblica e forse avremmo
avuto qualche punto in più.Ma per il resto , se siamo intelligenti e
realisti, dobbiamo interpretare la nostra campagna elettorale come un
episodio di eroismo civile, un impegno generoso e senza risparmio di
migliaia di compagne e compagni che hanno lottato contro il tempo, il
caldo, la burocrazia, la mancanza di soldi, la latitanza spudorata dei
media, la malafede di giornalisti e politici che hanno cercato di
cancellarci. La mia campagna elettorale, tra Roma e Catanzaro – ma
posso parlare anche a nome di altri candidati – è stata una delle più
belle esperienze politiche della mia vita , per il calore umano,
l’altruismo, la generosità da cui sono stato circondato in questi due
mesi.

Come spiegare il risultato deludente? Non pretendo di rispondere
esaurientemente, ma svolgo un paio di considerazioni. Siamo onesti.
Noi, Unione Popolare, presentandoci alle elezioni, non abbiamo fatto
altro che ripetere quello che la sinistra radicale non fa che tentare
da 20 anni. Sonnecchia per 4, 5 anni e si desta ogni volta al momento
delle elezioni con un nome sempre nuovo, Arcobaleno, Alba, ecc.
Bisogna averlo chiare in testa: nella situazione che si è determinata
nel nostro Paese non è possibile conseguire un risultato soddisfacente
se ci si fa vivi solo per chiedere il voto.In una parola per domandare
al cittadino elettore di darci la possibilità di entrare in Parlamento
in cambio delle nostre promesse elettorali. Vale a dire senza prima
aver conosciuto quel cittadino negli anni precedenti, aveva ascoltato
i suoi bisogni, averlo incontrato in quartiere o davanti al luogo di
lavoro.

Ai compagni che dicono: “non abbiamo saputo comunicare il nostro
messaggio”, dico che non è così. Questa volta avevamo un comunicatore
eccellente come Luigi De Magistris e non ha funzionato lo stesso. Non
si tratta di capacità comunicativa. L’elettore non si limita a
giudicare la qualità della proposta politica, valuta anche la forza e
la capacità di realizzarla effettivamente. Se chi formula il messaggio
è debole non viene creduto, pure nel caso che l’elettore apprezzi la
qualità intrinseca delle proposte. Bisogna che tutti capiamo una cosa
fondamentale: la sinistra radicale è intrappolata in un circolo
vizioso: si presenta alle elezioni sempre debole, piccola e
minoritaria e non viene creduta nonostante la nobiltà dei suoi
programmi, anche perché in Italia sulle elezioni domina sempre la
logica del voto utile.

Dunque, nessun errore di linea, di proposta, di progetto.Non
autoflagelliamoci, non è qui il punto. La nostra brevissima vita di
soggetto politico ha patito moltissimo la grave faziosità dei media e
soprattutto della TV. Un uomo come Calenda, un senza partito, senza
storia, con quattro idee in testa è stato tutti i giorni nelle nostre
case e ha avuto il risultato di un partito (insieme al suo degno
compare). Quello della TV e dell’informazione è una grave questione
nazionale.

Noi abbiamo assistito per giorni e giorni alle pompose
cerimonie dei funerali della regina Elisabetta, senza che si levasse
una sola voce che gridasse al carattere culturalmente e politicamente
oltraggioso di quella ossessionante esibizione. Chi era Elisabetta?
Era,forse, Einstein, Picasso, Fleming, Touring, Marcel Proust? Quale contributo
ha dato all’umanità? Era stata solo il simbolo sopravvissuto al
medioevo di un ex impero coloniale, che aveva sfruttato per quasi
quattro secoli gran parte del globo terraqueo. Quelle parate
televisive sono state un indegno inno al potere più assoluto, quello
ereditato, un relitto del passato che suona come un’onta alla
democrazia del ‘900.

E’ riflettendo sul ruolo della TV e dei grandi giornali che si
comprende anche il successo della Meloni. Questi media per anni hanno
accreditato il PD come La Sinistra e hanno finito così con lo
screditare perfino la parola, dal momento che quel partito e i suoi
satelliti hanno di fatto condotto una politica antipopolare, che ha
creato marginalità e povertà in tanti strati, finendo così col
mostrare nella destra estrema l’alternativa illusoria di un possibile
cambiamento.

Non so cosa possiamo fare contro questa TV. Ne parleremo. Ma è certo
che dovremo al più presto dotarci di uno strumento alternativo di
comunicazione. Dobbiamo screditare la TV come luogo di menzogne
pubblicitarie, creare un canale di informazione e di circolazione
delle nostre elaborazioni che giunga a centinaia di migliaia di
persone.

Care campagne e compagni, non scherzavamo quando dichiaravamo che le
elezioni erano solo un inizio. Plaudo all’incoraggiamento di Maurizio
Acerbo a nome di Rifondazione Comunista che ci esorta a continuare. Ci
aspetta un lavoro di lunga lena. Io personalmente sono pronto con
tanti altri studiosi ad avviare una Scuola di cultura politica e
ambientale on line per parlare alle migliaia di giovani che cercano
una parola di orientamento in una fase di gravissima quanto
sottovalutata crisi ambientale.Attendo che qualcuno realizzi una
piattaforma unitaria per tutta l’Unione.

Ma termino dicendo che tutti e tutte sentono l’esigenza di
confrontarsi, di scambiarsi le esperienze di questi due mesi, le
critiche, le proposte sul da farsi. Perciò inviterei Luigi de Magistris a prendere
al più presto l’iniziativa di una “Assemblea costituente”, come lui
l’immaginava prima che la situazione precipitasse con la caduta del
governo.

Cambiare la scuola.-di Piero Bevilacqua

Cambiare la scuola.-di Piero Bevilacqua

(Parte Prima )

La scuola non ha il compito di preparare al lavoro, che costituisce solo una delle dimensioni in cui si realizza la vita umana. Tra l’altro il lavoro è destinato a una rilevante riduzione nelle nostre società, sempre più dominate dall’informatica e dai processi di automatizzazione. Tecnologie che richiederanno sempre più intelligenza e immaginazione per il loro impiego creativo, che non mera capacità di strumentazione tecnica. La scuola non deve fornire “competenze” per un futuro mestiere, che configuri precocemente l’individuo lavoratore, ma deve formare la personalità dei ragazzi, arricchire la loro cultura, il pensiero critico, l’attitudine alla ricerca e alla soluzione dei problemi.

Cambiare la scuola
(Parte Seconda )

La scuola deve anche cercare di fare emergere negli allievi che ne sono dotati, anche il loro talento manuale, la loro inclinazione al pragmatismo dei mestieri. Pensiamo che in tante abilità della nostra tradizione artigianale si trasmettano saperi che non devono andare perduti. Al tempo stesso la scuola non deve deprimere lo sviluppo della libera creatività, dei sentimenti, della sfera complessa degli affetti. I nostri ragazzi, le nostre adolescenti non sono scatole da riempire di nozioni, sono esistenze, spesso emotivamente fragili, che l’utilitarismo sempre più spinto del pensiero unico può stritolare. Non è meno importante formare delle personalità positive e stabili che allievi colti e preparati. La scuola deve contribuire alla formazione di uomini e donne, non di soldatini di un esercito del lavoro.

Cambiare la scuola
(Parte Terza )

I ragazzi e le ragazze si possono avvicinare al mondo delle imprese, non per essere addestrati, ma per arricchire la loro conoscenza della vita reale, per scorgere da vicino le mirabilia della tecnologia produttiva del nostro tempo, e al tempo stesso la fatica degli uomini e delle donne che producono la ricchezza nazionale. Possono accostarsi al vasto mondo dell’artigianato per conoscere la genialità del lavoro manuale e dei mestieri e per scoprire anche proprie attitudini e vocazioni. Possono e debbono entrare nelle aziende agricole per comprendere come funziona la chimica del suolo, come il fiore degli alberi si trasforma in frutto, come il sole e l’acqua agiscono sulle piante, così da vedere ricomposti nell’unità vivente della natura i fenomeni che le discipline scolastiche dividono in chimica, botanica, fisica, ecc. E’ in questo modo che si può fare apprendimento multidisciplare fuori dalle aule scolastiche. Il paesaggio, le campagne, la natura, dunque, letti come libro vivente in cui saggiare una modalità diversa di accostarsi alle scienze, impadronendosi di un’etica nuova della conoscenza.

Cambiare la scuola
(Parte Quarta )

La scuola non deve diventare “adeguata alla società”, intendendo per società il mercato del lavoro e l’universo dei valori consumistici. La scuola deve diventare adeguata ai problemi del mondo complesso in cui viviamo, che non si esaurisce nella sfera della produzione, ma comprende i conflitti che lo agitano, i dilemmi di una natura gravemente vulnerata nei suoi equilibri, le disuguaglianze che lacerano le società umane. La scuola deve diventare adeguata ai saperi umanistici e scientifici che la ricerca più avanzata mette continuamente a disposizione delle istituzioni formative. Essa deve appropriarsi della visione olistica con cui i saperi scientifici, superando le tradizionali divisioni disciplinari, guardano oggi al nostro pianeta: come un tutto unificato da relazioni complesse e spesso invisibili. Occorre ridare unità al sapere e incoraggiamento all’insegnamento di tale sapere.

Cambiare la scuola
(Parte Quinta )

La scuola, come vuole la nostra Costituzione, costituisce un fondamento imprescindibile della mobilità sociale. Essa deve essere dunque pensata come strumento per fornire pari opportunità a tutti i ragazzi e ragazze, indipendentemente dalle loro provenienze familiari. Per questa ragione essa ha bisogno di risorse supplementari per intervenire sul proprio territorio, ridurre la dispersione scolastica, combattere la tendenza che la marginalità sociale ha di trasformarsi in marginalità culturale.
La scuola non può essere pensata fuori dal territorio in cui vive, anche perché dentro di essa precipitano i problemi sociali del nostro tempo. Le grandi migrazioni in atto sconvolgono tutto il nostro quadro sociale. Sempre più nuove culture e saperi e tradizioni di altri popoli si incontrano con la cultura occidentale.La scuola deve dunque essere messa in condizione di accettare le sfide inedite che le si presentano, aprendosi al dialogo interculturale, creando le basi di un nuovo cosmopolitismo, senza il quale il mondo diventerà una Babele ingovernabile, lacerata da guerre e conflitti.

Cambiare la scuola
(Parte Sesta)

Le riforme degli ultimi 20 anni, ispirate al compito di piegare gli istituti della formazione alle necessità immediate delle imprese, ha creato dentro la scuola, così come dentro l’università, un’ossessione normativa, un’ansia di controllo dei risultati, che sta soffocando la libertà dell’insegnamento, sta piegando il pensiero umano sotto il calco unidimensionale della prestazione efficiente. Occorre un’opera radicale di smantellamento e di delegificazione, che liberi la figura dell’insegnante dagli infiniti obblighi di rendicontazione che oggi l’opprimono, che gli restituiscano il tempo per lo studio, per l’insegnamento, per il dialogo con i ragazzi. Una scuola assillata dagli obblighi dei risultati si trasforma in una macchina burocratica che uccide ogni creatività. Creatività: la più rara materia prima per costruire un degno avvenire.Occorre infine comprendere che i dispositivi elettronici e gli apparati digitali che gli attuali legislatori spacciano quale frontiera dell’innovazione culturale e didattica, sono in realtà pura strumentazione tecnologica, che rimane vuota senza i contenuti, gli interrogativi fecondanti del sapere. Essa è un mezzo, per quanto utile e importante, non il fine e non può surrogare lo studio, la riflessione, il dialogo.

Cambiare la scuola
(Parte Settima)

Occorre una decisa politica d’investimento, indispensabile per mettere davvero al centro la scuola e la ricerca, per invertire la rotta di marginalizzazione del Paese e di esclusione di strati sociali e aree geografiche drammaticamente sempre più estese. Occorre liberare gli istituti scolastici da compiti impropri e gli studenti dall’attuale saturazione dei tempi, mettendoli nella condizione di sperimentare che il tempo dell’apprendere, del creare e dell’immaginare, della meditazione interiore, della consapevolezza di sé, è un tempo disteso, non quello soffocato delle mille cose mordi e fuggi, dei mille addestramenti, dei cento attestati. Tale restituzione alla scuola dei suoi compiti più propri deve ridare all’insegnante una dignità ormai compromessa: dignità nella costruzione di un sapere che docenti e studenti realizzano insieme, in una relazione umana reale, dialogica, con un impegnativo lavoro quotidiano. Perché lo studio è lavoro. La dignità dell’insegnante si realizza anche potenziando la sua cultura e la sua formazione, fornendo a questa figura l’opportunità di un aggiornamento continuo, grazie a un rapporto costante con le nostre università, alla possibilità di usufruire di periodi sabbatici di studio e di frequentazione di corsi, tirocini, lezioni.

Cambiare la scuola
(Parte Ottava)

Occorre bandire l’ideologia meritocratica, (che non significa disconoscere il merito), pensata per fabbricare l’individuo competitivo. La nostra società è già divorata da un agonismo economico sempre più spinto, oltre il quale c’è il conflitto armato. Noi dobbiamo realizzare nella scuola la cooperazione educativa, insegnare ai ragazzi la capacità di lavorare insieme, di riconoscere la cultura e la dignità dell’altro, di costruire già nella scuola la società solidale di cui l’umanità ha una drammatica esigenza. Noi non abbiamo bisogno di sempre più merci e sempre più a buon mercato, di beni che ormai saturano gli spazi quotidiani, non dobbiamo soddisfare bisogni sempre più indotti e superflui. La nostra necessità, oggi e per il prossimo futuro, è una società cooperativa e concorde, che si prenda cura delle risorse naturali minacciate da una predazione insensata e da una popolazione planetaria crescente. Senza un profondo mutamento dei paradigmi educativi, che guardino alla Natura come un bene comune da preservare, all’umanità come una sola famiglia con pari diritti, l’avvenire probabile sarà una guerra distruttiva di tutti contro tutti. “Può darsi – ha ammonito George Steiner – che tuttto finisca in un massacro”.

Cambiare la scuola
(Parte Nona)

La scuola va cambiata nei suoi contenuti, ma anche nelle sue strutture e nella sua organizzazione interna. E’ necessario un piano straordinario e immediato di messa in sicurezza e adeguamento degli edifici scolastici spesso vecchi, pericolanti, dotati di servizi inadeguati. E’ opportuna la stabilizzazione del personale precario della scuola con almeno 36 mesi di servizio con procedura speciale. Occorre eliminare le classi pollaio (non oltre 20 alunni per classe) con conseguente aumento del personale docente e tecnico-amministrativo, che preveda anche la presenza del medico e psicologo scolastico. Rivendichiamo una Scuola dell’infanzia comunale o statale garantita a tutti a partire da 3 anni, e la costruzione di asili nido pubblici in tutto il paese.Fine dell’alternanza scuola-lavoro obbligatoria.Abolizione della riforma della “Buona scuola”, cancellazione della riforma Bianchi per ill reclutamento del personale docente.Libri gratis alle medie e alle superiori. Mezzi pubblici gratis fino a 18 anni. Cinema e teatro gratis fino a 18 anni.

Foto di Wokandapix da Pixabay

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico.

Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone.

Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

da “Left” del 10 agosto 2022

Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna

Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna

La recente polemica, nata dalle esternazioni del sindaco Sala e del presidente della Lombardia Attilio Fontana nei riguardi del Sud, non va presa sottogamba, come un incidente di percorso. Invece va considerata come un segnale, preoccupante, per il futuro del nostro paese. Quello che Sala e Fontana sostengono lo pensano in tanti amministratori: visto che il Sud non è in grado di utilizzare il 40% delle risorse del Pnrr, tanto vale farle gestire alle regioni del Centro-Nord piuttosto che restituire queste risorse a Bruxelles. C’è una parte di verità in queste affermazioni e tanta parte di mistificazione e strumentalizzazione. Innanzitutto, dovremmo chiarire una questione di fondo. L’Italia ha ricevuto, in percentuale della popolazione e del reddito pro-capite, una quantità di risorse comunitarie come nessun altro paese della Ue proprio perché esiste un enorme divario interno tra Nord e Sud.

Per questa ragione, tra gli obiettivi prioritari del Pnrr c’è la riduzione del divario territoriale, e nessun altro paese Ue ne ha uno così marcato che coinvolge un terzo della sua popolazione, ovvero 20 milioni di abitanti con un reddito pro-capite del 40% inferiore a quello dei 40 milioni di abitanti del Centro-Nord. E se prendiamo gli estremi ci rendiamo meglio conto di che cosa parliamo: Il reddito pro-capite della Calabria è di 12.700 euro a fronte degli oltre 36.000 euro pro-capite della Lombardia, regione che ha un tenore medio di vita superiore alla media della Francia e del Regno Unito. E non è solo una questione di reddito o di consumi, ma della quantità e qualità dei servizi, dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), della qualità dell’istruzione, dei trasporti, ecc.

Senza la presenza di un divario così grande l’Italia non avrebbe ottenuto i 191,5 miliardi di euro, di cui 68,9 a fondo perduto, pari a circa il 27% di tutto il plafond messo a disposizione da Bruxelles per tutti i 27 paesi della Ue. Allo stesso tempo, non si può negare che esista un serio problema di progettazione e gestione di queste risorse da parte degli enti locali meridionali. Non che nel resto del paese la situazione sia brillante, ma è indubbio che negli ultimi dieci anni le regioni meridionali abbiano speso mediamente solo tra il 25 e il 30 % delle risorse comunitarie disponibili. Questo non significa che si debbano trasferire questi flussi finanziari nel Centro –Nord creando una ulteriore divisione, potenzialmente irreversibile e insostenibile. Fra l’altro, il contributo comunitario va a compensare la riduzione degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno che, tra il 2008 e il 2018, sono passati da 21 miliardi a poco più di 10.

Se non ci arrendiamo allo status quo possiamo immaginare una alternativa.

Gli enti locali meridionali, a partire dall’Anci, stanno chiedendo insistentemente al governo di dotare le amministrazioni locali di tecnici ed esperti in grado di utilizzare queste risorse del Pnrr. Richiesta sacrosanta che dovrebbe compensare il danno che hanno subito le amministrazioni locali, in tutta Italia, con il blocco del turn over e il taglio di oltre 12 miliardi di contributi statali. Ma non basta. Bisognerebbe mettere insieme i Comuni del Nord, Centro e Sud per una cooperazione fattiva sul piano della transizione ecologica, della digitalizzazione, dell’Istruzione e Ricerca, della Salute.

I Comuni delle aree più ricche avrebbero il vantaggio di trovare ulteriori occasioni di lavoro per le imprese del loro territorio, mentre i Comuni delle aree più povere avrebbero il vantaggio di vedere implementati le idee progettuali a cui hanno pensato, ma difficilmente riuscirebbero a realizzare. Sarebbero auspicabili dei gemellaggi tra territori con caratteristiche e problematiche simili. Per esempio, i Comuni collinari e montani dell’Etna con quelli del Trentino, oppure i Comuni della costa jonica calabrese con quelli liguri.

Ancora meglio, come ha suggerito Pino Ippolito in un recente convegno on line, servirebbe una piattaforma a livello nazionale dove ogni Comune immette i propri bisogni, necessità, e anche disponibilità di white list di tecnici e di imprese nel proprio territorio con esperienze virtuose. Il Pnrr potrebbe diventare la grande occasione, storica, per un incontro tra Nord e Sud, nel nome della trasparenza e della cooperazione, che rilancerebbe, al di là della retorica, l’Unità reale del nostro paese.

da “il Manifesto” del 16 febbraio 2022

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

L’autonomia differenziata sta ripartendo sotto copertura. Si colgono i segnali di trattative occulte tra il ministero delle autonomie e alcune regioni. Si leggono sulla stampa esternazioni della ministra Gelmini che annuncia a breve novità, per una legge-quadro erede di quella che fu già di Boccia, e per le intese con le regioni capofila (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna).

Ma tutto rimane segreto, come già ai tempi del Conte I e della ministra leghista Stefani. Mentre viene inserito tra i collegati alla legge di bilancio il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Meglio, si inserisce l’annuncio, visto che il testo ancora non esiste.

In questo quadro si è tenuta il 30 ottobre in una sede messa a disposizione dalla Cgil l’assemblea nazionale di Noad Comitati contro qualunque autonomia differenziata. La blindatura della città per il G20 non ha impedito un’ampia partecipazione di realtà associative attente alla tutela di eguaglianza e diritti. Decine di interventi hanno richiamato i valori costituzionali in vista del comune obiettivo dell’unità della Repubblica. È stato tra l’altro chiesto lo stralcio del ddl dall’elenco dei collegati.

L’inserimento tra i collegati di un ddl non è di per sé conclusivo. Inoltre, si potrebbe arrivare a implementare il dettato dell’art. 116, comma 3, anche senza un ddl attuativo. E si può giungere ad autonomie diversificate persino senza formale ricorso all’art. 116, comma 3. Il servizio sanitario nazionale è stato già distrutto – come la pandemia ha dimostrato – dal regionalismo oggi vigente. Lo afferma l’Anaao-Assomed in un recente documento. E allora di che parliamo?

Il punto è che il collegamento al bilancio dimostra che l’autonomia differenziata è prioritaria nell’indirizzo di governo. Anzi, sopravvive con ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi). Quattro governi, e ancor più quattro stagioni molto diverse: centrosinistra, gialloverde, giallorossa, e ora dei tecnici. È prova che forze potenti spingono per realizzarla, e che una corrente profonda passa nella politica, nelle istituzioni, nell’economia, nella società civile.

Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere. Ad esempio, si è avviato il 28 ottobre nell’Aula del Senato l’iter di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (AS 865) volto ad inserire nell’art. 119 della Costituzione il concetto di “insularità”. In sostanza, recupera in parte e attualizza il testo originario della Costituzione del 1948 – poi cancellato dalla riforma del 2001 – che richiamava il Mezzogiorno e le Isole. Quale che sia la sorte futura del ddl, persegue un obiettivo in principio apprezzabile di maggiore tutela di eguaglianza e diritti.

Vanno invece respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, in quanto capace di mettere più e meglio a frutto le risorse: Nord vs Sud, aree urbane e metropolitane vs aree interne. È la filosofia sulla quale si fonda la strategia della “locomotiva del Nord”. Una strategia che le classifiche territoriali europee dimostrano fallimentare. E rispetto alla quale l’autonomia differenziata è servente.

Molti interventi nell’assemblea hanno descritto un paese insopportabilmente diviso, in specie per sanità e scuola, ma non solo. Sono stati segnalati dubbi sulla idoneità del Pnrr a perseguire un disegno di coesione sociale e territoriale. Sono state richiamate le ambiguità nelle organizzazioni della sinistra. Spiccano – e sono da apprezzare – le iniziative in Lombardia ed Emilia-Romagna di petizioni popolari per il ritiro dei progetti di autonomia differenziata. Ma vediamo anche da ultimo il neo-sindaco dem di Torino che chiama i sindaci del Nord a una santa alleanza contro le burocrazie romane. Un nuovo iscritto al club Bonaccini?

Per chi vuole un paese più unito, più eguale, più giusto il percorso è lungo e impervio. Va anzitutto chiesta visibilità e trasparenza sui processo decisionali in atto. Va sostenuta ogni iniziativa volta a una alfabetizzazione di massa su temi non facili, come è anche il programma delineato nella mozione conclusiva dell’assemblea. Tutti dobbiamo scendere in campo. Personalmente, lavoro a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per una riforma mirata del titolo V. Dopo venti anni, è venuto il tempo di correggere gli errori fatti, rinsaldare la casa comune, ritrovare eguaglianza e pienezza di diritti.

da “il Manifesto” del 2 novembre 2021

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Giuseppe Smorto non ha mai lasciato nel cuore e nella mente la Calabria dove è nato in riva allo Stretto, mentre una nave affondava per una bomba sganciata dagli anglo-americani durante la seconda guerra mondiale. Ogni anno è tornato nella punta della penisola in tutte le feste comandate e durante le vacanze estive. Ma, soprattutto, ha sempre cercato di valorizzare il meglio della sua terra, contrastando una immagine stereotipata della Calabria che la riduce a questione criminale.

A CONCLUSIONE della sua lunga e brillante carriera a Repubblica ha scritto un libro A Sud del Sud (Zolfo, pp. 176, euro 16), un viaggio dentro la Calabria tra i «diavoli e i resistenti». Un viaggio che ha il respiro del «rap», un ritmo incalzante, che ti stordisce, che ti porta in giro dalla costa alle zone di montagna più impervie, che ti fa entrare in luoghi che mai avresti immaginato che esistessero. Un giornalismo di inchiesta come non si vedeva da tempo, soprattutto non si vedeva per quest’area dell’estremo Sud.

In ventuno capitoli, partendo dalla Locride, il viaggio di Smorto tra «la perduta gente» (come recitava un saggio di Umberto Zanotti Bianco) si imbatte nei nuovi partigiani di una Calabria che resiste, senza girarsi dall’altra parte, senza nascondere sotto il tappeto le violenze criminali agli umani e alla natura, lo scempio urbano e il degrado sociale e culturale.

È LA NOVITÀ di questo viaggio-inchiesta. Finora i libri sulla Calabria, ma anche sul Mezzogiorno, hanno seguito due filoni: quello della ’ndrangheta in tutte le sue sfaccettature compresa l’anti-ndrangheta, o quello dell’esaltazione di una natura selvaggia, di una Calabria esotica che sostituisce i viaggi nei paesi del Sud del mondo al tempo della pandemia. In questo libro si passa dal resoconto puntuale del processo al boss dei boss, Luigi Mancuso, «il Supremo», il «Comandante», all’esperienza di Riace, borgo rinato con una politica dell’accoglienza che ne ha fatto un caso internazionale (e oggi anche giudiziario).

DALLA DENUNCIA puntuale dei rifiuti tossici disseminati tra montagne, colline e mare, allo stupore di fronte al Centro di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, promosso dal dottore Lino Caserta, o al plauso per «Comunità competente» di Rubens Curia, il medico che ha messo insieme più di settanta associazioni/cooperative che si occupano della salute delle persone e con la loro pressione, costanza, determinazione, sono riusciti a ottenere grandi e piccoli successi nelle Asp, macchine burocratiche e spesso inquinate dal malaffare.

Dalle eccellenze dell’Università della Calabria, vero fiore all’occhiello che dimostra quanto si potrebbe fare anche in una terra marginale e isolata, alla violenza che subiscono tanti giornalisti coraggiosi e sconosciuti all’opinione pubblica nazionale.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2021

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Col garbo e la finezza argomentativa che lo contraddistinguono, Agazio Loiero polemizza con me su questo giornale( 26/9 ) perché io, in quanto intellettuale, e dunque dotato di ampie capacità di valutazione e di giudizio, sostengo la candidatura di Luigi de Magistris a presidente della Regione Calabria.

Cercherò perciò di esporre le ragioni per cui, proprio in virtù delle doti che lui mi attribuisce, io sostengo convintamente questa candidatura.Non senza aver espresso tuttavia, preliminarmente, il disagio di una discussione così impostata, che mi pone in una posizione di “avvocatura” nei confronti di una singola persona, quando noi, a pochi giorni dal voto, dovremmo parlare dei drammatici nodi che strangolano la regione, di programmi di riforma, di prospettive possibili per le nuove generazioni.

Ma questo è lo stato degenerato della democrazia e della vita politica in Italia. Si discute solo di uomini, di alleanze, di posizionamenti, di gruppi, cioé solo di potere, di ceto politico: i cittadini, le masse lavoratrici, le loro condizioni, sfuggono al radar di ogni considerazione.

Loiero muove critica a due apetti e momenti dell’eperienza pubblica di de Magistris: in quanto magistrato, che ha operato in Calabria per alcuni anni e in quanto sindaco di Napoli, dove non avrebbe combinato granché. Da magistrato avrebbe condotto “molte inchieste quasi tutte senza successo”; e soprattutto ha inviato avvisi di garanzia a personaggi pubblici – Prodi, Mastella, lo stello Loiero – che non avrebbero poi condotto ad alcuna condanna giudiziaria. Ma, osserva Loiero, mettere sotto accusa i potenti offre a un magistrato una visibilità mediatica enorme.

Una possibilità che de Magistris ha sfruttato a piene mani. Questo dimostrerebbe che l’attuale sindaco di Napoli sarebbe “l’archetipo di una Italia guappa e furba in cui la demagogia si coniuga con il diffuso populismo”.

Non è possibile, in un breve articolo, entrare nel merito di complicate vicende giudiziarie (ammesso di possedere le conoscenze necessarie per farlo) e io posso anche concedere ad Agazio, nel merito, qualche imprudenza, errore ed avventatezza del magistrato de Magistris, allora trentenne. Ma sotto il profilo politico io traggo conseguenze opposte. Un magistrato che punta a indagare sui potenti è un uomo coraggioso, che in un paese come l’Italia rischia di rompersi l’osso del collo, di compromettere per sempre la propria carriera.

Qui non si tratta di guapperia, caso mai di temerarietà e in una regione come la Calabria, segnata da tanta corruzione e malavita, un presidente intransigente sul piano della legalità è quanto mai necessario. A de Magistris non chiediamo di tornare a fare il magistrato, ma di governare la regione.

Su un punto devo dare ragione ad Agazio, là dove affermo che il sindaco di Napoli è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro l’autonomia differenziata. Intendevo una figura con carica istituzionale nel momento delle trattative del 2019. Loiero è stato in effetti uno dei pochissimi dirigenti italiani a schierarsi contro la Lega, in difesa del Sud, anche con pubblicazioni, già in anni precedenti. E veniamo al sindaco de Magistris.

Davvero non si comprende la taccia di populismo che gli viene inflitta. Perché non partecipa ai giochi dei gruppi e gruppetti annidati nei partiti politici? Napoli è stata l’unica grande città d’Italia che ha reso pubblica l’acqua, abbasandone anche il prezzo, rispettando il risultato del refenendum istituzionale del 2011, dunque ottemperando a un dettato della Costituzione. Gli altri partiti politici, a cominciare dal PD, hanno sistematicamente sabotato la volontà popolare.

A Napoli de Magistris ha risolto l’umiliante problema dei rifiuti, che in certe zone della città si innalzavano sino ai primi piani dei palazzi, e lo ha fatto con pochissimi mezzi finanziari e con un rafforzamento della macchina amministrativa pubblica, contro un andazzo neoliberista che faceva prosperare la criminalità. Ha tolto il servizio di raccolta e smaltimento alle società private che si spartivano la torta, e lo affidato all’azienda comunale Asìa.

Tramite la creazione di 10 isole ecologiche, una per ogni municipalità, e cinque itineranti (per raccogliere mobili ed elettrodomestici che prima finivano per la strada) l’acquisto di nuovi macchinari, la creazione di una polizia ecologica, che ha sanzionato migliaia di trasgressori, l’esportazione in Olanda, Napoli ha raggiunto il 40% della raccolta differenziata.Oggi in quasi tutti i quartieri è diffusa la raccolta porta a porta e le tariffe TARI sono fra le più basse d’Italia.
C’è stata una importante iniziativa del sindaco, che ha avuto esiti importanti per la città, ma anche effetti negativi sulla sua immagine di uomo politico. Si è trattato di una scelta politica di legalità e profondamente antineoliberista: de Magistris ha ricondotto all’interno della macchina comunale, cioé del potere pubblico, la gestione del patrimomio immobiliare di Napoli, prima affidato all’imperenditore Romeo, finito in alcune inchieste giudiziarie.

E’ stato un gesto che solo un politico di grande coraggio come de Magistris poteva compiere, gli altri sindaci non avevano osato.Perché Romeo, membro di un potentissimo gruppo finanziario, è da lunga data amico della famiglia Caltagirone, patron del Mattino di Napoli, il più diffuso e infuente quotidiano della città. Da allora quel giornale ha iniziato una vera e propria guerra diffamatoria contro De Magistris, a cui si è associata anche La Repubblica locale, che sostiene il PD, nemico giurato del sindaco, il quale fa politiche “populiste”, cioé non viene realisticamente a patti con i potenti. Gran parte dell’immagine pubblica che abbiamo del politico De Magistris viene costruita da questi giornali e dalla TV regionale, che ubbidisce agli stessi orientamenti.

E’ dunque naturale che si sappia poco di quel che egli ha realizzato a Napoli. Ad es. non si sa dei miglioramenti i apportati al sistema del traffico cittadino, con la trasformazione di quasi tutti gli incroci in rotonde, il rifacimento di centinaia di km di strade, la pedonalizzazione di gran parte del lungomare di via Caracciolo, l’incremento del trasporto pubblico con l’acquisto di 150 nuovi autobus (rinnovando una flotta risalente al più agli anni ’90), l’apertura di 5 nuove stazioni della Metro. Tutto accompagnato dal risanamento dell’azienda pubblica di trasporto, l’ANM, il cui bilancio è ritornato in attivo. Niente male per una amministrazione penalizzata da un debito accumulato dal terremoto dell’80.

Io potrei qui dilungarmi con un lungo elenco di realizzazioni che farebbero impallidire il bilancio di molti sindaci italiani. Potrei rammentare la rigenerazione del quartiere Sanità, la “riconquista” dei Quartieri Spagnoli, un tempo luoghi pericolosi, oggi pullulanti di osterie e bar, affrescati da murales giganteschi noti in tutto il mondo. Potrei ricordare gli investimenti in verde grazie all’apertura di tanti parchi, in centro come in periferia.

Potrei rammentare i tratti di spiaggia un tempo privatizzati e riconsegnati ai cittadini, i monumenti ristrutturati, i centri culturali aperti, in centro e nelle aree degradate.Ma vorrei ricordare, che il sindaco ha inaugurato una politica di ascolto dei cittadini e dei loro diritti. Napoli è stata la prima città d’Italia a dotarsi di un registro delle unioni civili, che ha permesso il riconoscimento legale a coppie dello stesso sesso e ai loro figli, anche adottivi, esempio poi seguito anche da altre città.

Almeno questo dovrebbe bastare per fare di de Magistris un candidato degno di governare la Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 settembre 2021

Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua

Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua

Una delle immagini più avvilenti degli ultimi tempi,un episodio da nulla, ma che mi ha mostrato in quale catastrofe culturale, prima ancora che politica, fosse caduta la Calabria, mi è caduta sotto gli occhi nel 2019.

Nel servizio di un telegiornale nazionale, dedicato agli impegni elettorali dei vari leader, ho visto Matteo Salvini passegiare per le strade di una città calabrese tra ali di folla, mentre una donna si chinava ai suoi piedi baciandogli la mano. Come è potuto verificarsi un gesto del genere? Tanto calore di folla e perfino l’umiliazione di un baciamano, che di solito si dispensa alla Madonna o ai capimafia? Dove vivevano quei calabresi almeno 5 o 10 anni prima? Avevano letto qualche giornale, o almeno seguito qualche programma televisivo in cui era di scena la Lega e i suoi dirigenti?

E’ davvero stupefacente constatare tanta smemoratezza, anche se so bene che in altre città della Calabria Salvini è stato vigorosamente osteggiato. Ma il punto clamoroso che rende inconcepibile l’accoglienza e il consenso a un dirigente leghista nelle nostre regioni è che la Lega è alla radice un partito antimeridionale, che nasce e continua a operare come avversario e denigratore della nostra gente. E non per gratuita cattiveria ma per strategia politica.

Debbo qui ricordare che sin dalle origini, questo partito, la Lega Nord di Umberto Bossi, fonda le sue fortune nei territori del Nord inventando fasulle identità etniche, ma soprattutto creando due nemici: “Roma ladrona” e il “Sud che vive a spese del Nord.” Questa narrazione intessuta di menzogne, ha avuto una grande fortuna – nulla funziona meglio in politica della creazione di un nemico e di un capro espiatorio cui addossare la responsabilità dei disagi e dei problemi – al punto da condizionare le politiche pubbliche a favore del Sud per i decenni successivi.

Ebbene, l’astuzia di Salvini è consistita nel trovare un nuovo nemico con cui sostituire i meridionali e Roma, che a Umberto Bossi era nel frattempo diventata simpatica, visti i lauti stipendi istituzionali di cui ha goduto e le possibilità che il suo potere di governo ha offerto alla sua famiglia.
I nuovi nemici, a partire dal nuovo millennio, sono diventati gli immigrati, i clandestini, i disperati della terra che scappavano da guerre e miseria, trasformati in criminali, violentatori delle nostre donne, venuti a rubare il lavoro agli italiani. Salvini ha continuato il lavoro di Bossi, promuovendo i meridionali a italiani così da estendere a tutto il territorio nazionale il bacino elettorale della Lega.

Ora non si tratta di rimproverare a Salvini il suo passato antimeridionale.Anche se dai meridionali si pretenderebbe una memoria critica sempre vigile, per rammentare i danni gravi che sono statti loro inflitti. Il fatto è che il partito della Lega continua con più accortezza la sua politica di sempre. Mentre infatti il suo capo viene a fare comizi nelle nostre regioni, i presidenti del Veneto e della Lombardia continuano in segreto a lavorare perl la secessione delle loro regioni dal resto d’Italia. Esse rivendicano la piena podestà su ben 23 materie (scuola, sanità, trasporti,energia, ambiente, ecc.) e soprattutto pretendono di incassare tutti gli introiti fiscali generati nel loro territorio.

In questo modo viene meno la solidarietà fiscale su cui si regge qualsiasi stato al mondo e l’Italia va letteralmente a pezzi. I meridionali possono solo immaginare quel che accadrebbe alla sanità pubblica, che nel giro di pochi anni verrebbe in gran parte privatizzata.I “viaggi della speranza” di tanti malati verso gli ospedali di Roma e del Nord avrebbero costi insostenibili. Ma è l’Italia, così com’è stata costruita a partire dal 1861, dopo 4 secoli di divisioni e di asservimento allo straniero, che verrebbe di nuovo riportata agli statarelli di antico regime.

Ne abbiamo avuto la prova nel 2019, quando si stava per realizzare in gran segreto, saltando il Parlamento,l’accordo tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e il governo nazionale. In quei mesi, anche Piemonte, Liguria, Umbria manifestarono la stessa volontà di secessione, anticipando quel che sarebbe accaduto se l’accordo fosse stato raggiunto.

Ebbene, non c’è dubbio che l’autonomia differenziata costituisca la più grave minaccia che grava ancora oggi sull’avvenire del nostro Paese:la frantumazione territoriale che ci ha reso irrilevanti in Europa per tutti secoli dell’età moderna. E e allora come è possibile che ci sia così tanto poco allarme e informazione su tale gravissimo pericolo? I motivi sono due.I grandi giornali nazionali sposano ormai la posizione di gran parte dell’industria e della finanza del Nord, secondo cui il Sud costituisce un freno all’economia nazionale.Quindi sono d’accordo sulla secessione e tacciono. L’altra ragione riguarda i partiti e soprattutto il PD, l’unica formazione con insediamento locale, che avrebbe interesse a contrastare la Lega, soprattutto al Sud, ricordando i suoi propositi secessionisti. Ma questo non accade, perché una delle regioni chiave di questo partito, l’Emilia Romagna di Bonaccini, rivendica anch’essa l’autonomia differenziata, sebbene su un numero minore di materie.

Debbo qui rivelare una esperienza personale.Nei mesi che precedettero la campagna elettorale amministrativa del 2019, insieme ad altri amici, avevamo tentato di organizzare una carovana di uomini e donne che partisse dal Sud e arrivasse al Nord, con un pulman, per spiegare al maggior numero possibile di cittadini qual’era la vera strategia della Lega: Salvini che faceva l’italiano al Sud e i presidenti di regioni che lavoravano per la secessione. Per tale iniziativa fui all’inizio sostenuto dalla CGIL nazionale.Ed ebbi vari incontri a Roma, nella sede centrale di Corso Italia. Ma a un certo punto tutto naufragò, la disponibilità del sindacato venne ritirata. Nessuno lo disse esplicitamente, ma il PD non voleva che si danneggiasse la campagna elettorale di Stefano Bonaccini e il tema secessione non andava sollevato.

Un’arma efficacissima per battere la destra nel Sud e in Calabria fu abbandonato. Ebbene, agli amici stupiti che tanti intellettuali si siano schierati a fianco di De Magistris, debbo ricordare che questo leader è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro la secessione leghista e la semisecessione di Bonaccini; che nella sua lista annovera figure di prim’ordine estranei ai giochi nazionali dei partiti, tra cui Mimmo Lucano, il quale, come sindaco di Riace, ha riscattato l’onore della Calabria agli occhi del mondo.A chi denigra la sua figura di sindaco di Napoli ha già risposto su questo giornale Pino Ippolito(6/9).

Io aggiungerei che chi vuol valutare con onestà quella esperienza, deve considerare il grave debito che egli ha ereditato dalle precedenti amministrazioni, lo strangolamento finanziario subito da tutti i comuni italiani in questi anni, il fatto di amministrare la più difficile città d’Italia avendo contro tutti i partiti, la grande stampa e la TV nazionale. Che un personaggio così isolato, privo di mezzi e osteggiato sia stato riconfermato sindaco, ai calabresi onesti dice che potrebbe essere un ottimo presidente di Regione . Che egli venga diffamato perché a Napoli non ha fatto “questo” e quello” è in tanti casi la prova che il personaggio non rientra negli schemi del conformismo politico dominante. Quel conformismo che occorre far saltare per l’avvenire della Calabria.

da il “Quotidiano del Sud” del 22 settembre 2021