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La questione italiana.-di Piero Bevilacqua L'Italia in frantumi.

La questione italiana.-di Piero Bevilacqua L'Italia in frantumi.

Chi di solito osserva le condizioni presenti dell’Italia e le confronta con quelle degli altri Paesi avanzati osserva ormai da anni che esse sono di gran lunga peggiori in molti ambiti della vita nazionale: arretramento del livello medio delle retribuzioni, disuguaglianze sociali e territoriali, disoccupazione, precarietà del lavoro, condizioni della scuola, numero dei laureati, risorse per la ricerca, perfino regresso demografico, il segnale meno controvertibile – per lo meno nella società della crescita – della decadenza di un Paese. Tale evidente disparità dello stato della nostra vita sociale ci impone uno sforzo di analisi che vada oltre le cause generali che da 30 anni fanno arretrare le condizioni dei ceti popolari in gran parte dei Paesi europei e del mondo.

Le pratiche neoliberiste, vale a dire i programmi del capitalismo scatenato, messi in atto da un servizievole ceto politico, sono stati applicati in Germania come in Francia, in Spagna o nel Regno Unito, ma è in Italia che esse sembrano avere effetti così marcatamente disgregatori. Perfino sul piano politico e di governo: due esecutivi tecnici, adesso uno di destra destra, con a capo un’erede del neofascismo del dopoguerra. Io credo che se non si vuole restare sulla superficie della questioni bisogna cercare spiegazioni all’ anomalia italiana nelle strutture profonde della nostra storia nazionale. Occorre gettare uno sguardo ai caratteri originali della nostra vicenda civile, alla cultura antropologica degli italiani. Può apparire azzardato nel 2023 tentare di spiegare la grave involuzione dell’economia e della società di oggi interrogando contesti troppo lontani nel tempo. Ma occorre considerare innanzitutto che alcuni caratteri di un popolo durano nei secoli anche se si trasformano con il mutare complessivo della società.

«La mentalità – scriveva Fernand Braudel – è la più tenace delle strutture», uno strato di roccia culturale che il trascorrere dei processi e degli eventi intaccano solo in parte. D’altronde, in tutte le epoche di involuzione e regresso i fondi più oscuri del passato sembrano riemergere e farsi vivi, sia pure in nuove forme. E oggi viviamo non un rinculo, ma un clamoroso collasso di civiltà.

Naturalmente, non è certo il caso di rammentare che la teorizzazione del “particulare” di Francesco Guicciardini della realtà umana, vista come un aggregato incomponibile di egoismi, sia fiorita sintomatologicamente in Italia, per giunta nel cuore del Rinascimento, la fase più alta della nostra storia. Nè tanto meno rammentare che tre secoli più tardi, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani Giacomo Leopardi poteva osservare «che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea». Basti considerare che la sua secolare frantumazione civile, la lacerazione politica dei suoi ceti, anche all’interno delle città, vanto e splendore della nostra storia, ma agenti permanenti di disunione, hanno imposto all’Italia quasi quattro secoli di servaggio a potenze straniere. Il Paese che nel tardo medioevo aveva conseguito il primato economico e finanziario in Europa e nel Mediterraneo era rimasto un nano politico e aveva dovuto attendere il 1860 per avviare il processo di unificazione delle sue sparsa membra e conseguire l’indipendenza nazionale. Uno Stato-Nazione, tuttavia, che non riuscirà mai a conseguire un assetto egemonico.

Ma occorre cogliere l’essenziale della tragica originalità della nostra storia lunga: genio individuale delle élites, creatività e inventiva, spirito di intraprendenza dei ceti popolari, vivissimo senso artistico, intrecciati inestricabilmente a individualismo anarcoide, indisciplina civile, inclinazione a costituire fazioni e logge, assenza di classi dirigenti dotate di visione unitaria. E il filo rosso che giunge oggi fino a noi è rintracciabile in due aspetti che carsicamente riaffiorano nella vita nazionale. Uno è il carattere elitario e separato dei gruppi di potere, l’altro è la frantumazione dei ceti popolari, divisi dai dialetti, dalle forme della vita religiosa, dalle culture gastronomiche, dalle tradizioni politiche, ecc. Vale a dire da quella straordinaria varietà e diversità di caratteri che sono anche una straordinaria risorsa, la ricchezza della nostra storia.

Fino a metà Novecento il carattere separato delle élite si è manifestato plasticamente nel mezzo della comunicazione collettiva: la lingua nazionale. Finché non è arrivata la Tv, come ricordava Tullio De Mauro, l’italiano era appannaggio dei ceti borghesi colti, mentre gran parte delle masse popolari comunicava con la ricca costellazione dei nostri dialetti. Evidentemente non era bastato quasi un secolo di unità perché tra il nostro popolo si realizzasse una piena comunità linguistica.

Ma il distacco elitario delle forze dominanti, della nostra borghesia, per lo meno di sezioni più o meno ampie di essa, si è manifestato in maniera molto più grave e cruenta sotto il profilo politico. Esso ha preso le forma della infedeltà al “contratto” della Stato-nazione, tramite una serie di varianti di rottura delle regole, di eversione, di secessione, di violenza anche terroristica. Se ne può fare un rapidissimo elenco. Un riepilogo anche sommario di fatti salienti del nostro passato consente infatti di comprendere in quale storia siamo immersi. Chi ricorda più oggi la parola d’ordine, a fine ‘800, del “ritorno allo Statuto” lanciata da alti esponenti del mondo politico nazionale? Vale a dire la richiesta di un assoggettamento del governo ai poteri del re, che svuotasse la funzione del Parlamento? E l’imposizione, in quegli stessi anni, dello stato d’assedio contro i lavoratori di Milano che tumultavano per il pane? E le sparatorie contro la folla dei manifestanti ordinate dal generale Bava Beccaris che lasciò 80 morti in strada? E chi ricorda che il nostro ingresso nel macello della Prima guerra mondiale fu deciso da un colpo di mano del re e di pochi politici, che siglarono il Patto di Londra a insaputa del Parlamento e contro la volontà della maggioranza del popolo italiano?

Certo, la ferita più grave è il fascismo, il “colpo di Stato” che liquidò gli ordinamenti liberali, la risposta di quasi tutta la borghesia italiana all’irrompere delle masse popolari nella vita politica nazionale, dopo l’esperienza della guerra. Ma la volontà di sottrarsi al patto degli ordinamenti nazionali si è manifestata anche in forme localizzate. Ad esempio, sul finire della Seconda guerra. Pochi giovani oggi ricordano i moti del separatismo siciliano, il tentativo di gruppi di borghesia isolana, favorito dai servizi segreti americani e inglesi, di costruirsi un potere separato, uno Stato siciliano autonomo. E forse che i 75 anni dell’Italia repubblicana sono meno ricchi di tentativi e di pratiche di eversione? Chi ha dimenticato i tentativi di colpi di Stato nel 1964 e nel 1970?

Chi non ricorda la risposta sanguinaria con cui oscuri settori degli apparati statali hanno cercato di intaccare i rapporti di forza e le conquiste sociali guadagnati dalla classe operaia con le lotte del biennio 68-69? Un pagina infame della nostra storia che ha sparso il sangue di centinaia di vittime innocenti, a partire dalla bomba alla Banca dell’agricoltura a Milano, nel 1969, sino all’attentato alla Stazione di Bologna nel 1980, con in mezzo la strage di Piazza della Loggia a Brescia, l’attentato al treno Italicus e tanti altri oscuri episodi di violenza terroristica. E chissà quale ruolo hanno giocato i servizi segreti di Paesi di cui siamo fedeli e servizievoli alleati.

Ma l’infedeltà, la fellonia di parti estese di borghesia nazionale si manifestano ancora oggi in forme diversissime, normalmente senza il ricorso alla violenza. Come dimenticare, tanto per restare al lungo periodo, la longevità secolare di almeno due criminalità organizzate, la mafia siciliana e la camorra? E potevano durare e prosperare così tanto queste organizzazioni senza legami segreti con pezzi dello Stato e della borghesia imprenditoriale e dei colletti bianchi? Basti dire che il più potente uomo di Stato della cosiddetta prima Repubblica, Giulio Andreotti, è risultato legato alla mafia da una sentenza della Cassazione.

Oggi, inoltre, lo spirito di diserzione e di rottura dell’unità del Paese si manifesta in maniera incruenta ma gravissima attraverso l’iniziativa della Lega, seguita da altri presidenti di regione, mirata a realizzare la cosiddetta autonomia differenziata. E non si creda che si tratti di una mera trovata elettoralistica di alcuni dirigenti politici. Dietro di essa c’è la profonda pulsione separatista di vaste aree della borghesia imprenditoriale del Centro-Nord, che guarda al Mezzogiorno come a un intralcio alla sua espansione in Europa. È la stessa pulsione che da decenni spinge vasti settori della nostra borghesia a evadere le tasse, a trasferire ingenti fortune nei paradisi fiscali, a rompere il patto di mutua cooperazione tra le classi, che è il fondamento stesso dello Stato moderno: la contribuzione fiscale.

Voglio terminare questa rapida rassegna ricordando che il tradimento degli interessi nazionali si viene realizzando anche nel pieno rispetto delle forme istituzionali. Non mi riferisco qui al presidente della Repubblica, che accetta di buon grado la violazione della nostra Costituzione approvando la continuazione dell’invio di armi in Ucraina, ma all’ex presidente del Consiglio. Ricordo che Mario Draghi si è insediato a capo del governo in un momento grave della vita nazionale. L’opinione pubblica era tramortita dalla pandemia del Covid-19, sotto lo shock collettivo più grave della storia repubblicana. Allora l’ex presidente della Bce godeva di un prestigio indiscusso, di un’autorevolezza che forse così totalitaria non era mai arrisa ad alcun altro presidente del Consiglio.

Ebbene, Mario Draghi aveva il potere di porre mano alla più importante riforma legislativa possibile per arrestare il declino dell’Italia, la riforma fiscale. Nessuna patrimoniale, solo un fisco progressivo che nel giro di qualche anno avrebbe in parte riequilibrato le laceranti disuguaglianze dei redditi in Italia, ridare slancio e fiducia alla nostra vita e collettiva. Com’è noto, la sua riforma ha tolto uno scaglione e favorito i ceti medio-alti. Nessuna iniziativa di contrasto all’evasione fiscale. Il filo rosso della sedizione non si è spezzato: un rappresentante della finanza internazionale ha giocato a favore della sua classe di appartenenza, contro gli interessi del suo Paese.

Questa storia di secessioni, com’è noto, ha subito un arresto e una controffensiva popolare con la nascita della Repubblica, la Costituzione, l’avvento dei partiti di massa, la costituzione di solide strutture sindacali. Senza questa nuova pagina di storia, nata dalla Resistenza antifascista, il nostro Paese difficilmente avrebbe retto a tutti i tentativi di abbattere lo Stato democratico, alle trame della P2, ai vari terrorismi, compreso quello delle Brigate rosse.

Ma c’è una parte di questa nuova storia che inizia col dopoguerra che ci interessa per riafferare il nodo della seconda originalità negativa del carattere degli italiani, a cui abbiamo fatto cenno: la disunione anarcoide dei ceti popolari. Tra la fine degli anni 40 e gli anni 70 i partiti di massa sono stati il collante che ha sottratto i lavoratori e le masse proletarie alla loro dispersione e irrilevanza politica e li ha trasformati in società civile consapevole. Non si apprezzerà mai abbastanza l’opera gigantesca del Partito comunista italiano che in tre decenni ha trasformato la massa disgregata di braccianti, operai, impiegati, piccoli imprenditori, intellettuali, in una comunità politica, culturale, spirituale. In tre decenni questo partito ha realizzato un’opera di nation building, di costruzione della nazione, di plasmazione e disciplinamento civile di una parte estesa di società, sconosciuta in tutta la nostra storia precedente. Quasi un “Paese parallelo” a quello reale.

È per tale ragione che oggi la dissoluzione dei partiti di massa fa regredire e disgrega più gravemente che in altri Paesi il tessuto della società civile in Italia. È in questo carattere originario anarcoide di ritorno che occorre cercare la speciale debolezza della sinistra italiana. Da noi l’egocentrismo individualistico dell’antropologia neoliberista ha riportato indietro, in un certo senso, le lancette della storia, che certo rielabora il passato in forme sempre nuove, ma pur lo conserva e ripropone. La sinistra in frantumi andrebbe inquadrata in questo drammatico percorso. Per tale ragione l’opera più rivoluzionaria che le forze politiche possono intraprendere in Italia non consiste tanto nell’elaborare un programma di riforme radicali.

Questa è la premessa. Il compito gigantesco cui metter mano è lo sforzo costante, tenace e irriducibile, questo si altamente politico e dotato di respiro strategico, di ricucire con tutti i mezzi la soggettività polverizzata delle forze in campo, lasciate sul terreno da una lunga serie di errori, settarismi, sconfitte, egolatrie narcisistiche dei capi. La creazione di un nuovo tipo di partito politico, una nuova aggregazione collettiva in grado di governare il pluralismo pur creativo delle menti disseminate e attive sui territori, è la grande sfida da affrontare. È qui la chiave di volta.

L’egemonia del neoliberismo è in frantumi e il capitalismo non sta tanto bene, ma sopravvivono e ci trascinano nella loro rovina, perché non riusciamo ad offrire alla grandi masse, che chiedono di essere protette e rappresentate, se non la nostra impotente frantumazione.

da “Left” del 31 gennaio 2023

Un nuovo fisco. Relazione introduttiva di Piero Bevilacqua. Per un'alternativa politica e sociale.

Un nuovo fisco. Relazione introduttiva di Piero Bevilacqua. Per un'alternativa politica e sociale.

Provo a chiarire nel più breve tempo possibile il senso di questa iniziativa. Intanto due parole sul metodo.Ci mettiamo insieme, studiosi, dirigenti politici e sindacali, soggetti provenienti da mondi diversi, non per creare una lista elettorale, ma per esaminare un rilevante problemi della vita nazionale, per tentare di eleborare proposte e soluzioni. Al tempo stesso proviamo a ricostruire esperienze di unità, intesa, empatia umana tra tutti noi. La politica si fa anche coi sentimenti. E la sinistra è stata storicamente portatrice di sentimento generosi, alla base della sua ragion d’essere: la solidarietà, li spirito di fratellanza. D’altra parte la nostra iniziativa ha senso se l’urgenza che pur ci muove non guarda semplicemente alle prossime elezioni, ma si iscrive in un processo di lunga lena.

Perché il fisco? Ricordo brevemente che la rivoluzione conservatrice, quella che è poi universalmente conosciuta come politica neoliberista, parte nel Regno Unito e in USA con due iniziative convergenti: la lotta aperta contro i sindacati e la demolizione del sistema fiscale progressivo fondato dopo la Seconda guerra mondiale. La sociolga americana Monica Prasard ha definito l’ Economic Recovery Tax Act varato da Reagan nel 1981<> (The politics of free markets.The rise of neoliberal economic policies in Britaim, France, Germany & the United States, Chicago University Press, Chicago 2006, p. 45) Negli ultimi 40 anni l’emarginazione della classe operaia e la riduzione del carico trubutario ai ceti ricchi e alle imprese sono andati di pari passo. Hanno costituito la leva (insieme alla ristrutturazione delle imprese e altri processi che qui non possono essere neppure accennati) per lo smantellamento dello stato sociale, per realizzare vasti processi di privatizzazione, ridurre il potere e il valore lavoro, in fabbrica e nella società. La storia economica e sociale degli ultimi 40 anni in gran parte dei paesi del mondo si svolge lungo quest’asse.

La vicenda del fisco italiano non si discosta da tale traiettoria. Non entrerò nel merito della questione. Lo faranno con più competenza di me i tanti studiosi che parleranno fra poco. Mi limito a rammentare che dal 1974, da quando entrò in funzione l’Irpef, gli scaglioni che allora erano ben 32, con un impronta progressiva, oggi sono diventati 5. È progressivamente aumentato il carico sugli scaglioni più bassi e diminuito quello sui redditi più alti. La flat tax è già operante. Ma tutto il sistema è squilibrato e costruito in danno dei ceti popolari. Ricordo che le imposte indirette che colpiscono indiscriminatamente tutti i cittadini sono passati dall’8,4% del 1982 al 14,4% del 2016.E come diceva Don Milani <>
Oggi quasi l’intero gettito dell’Irpef grava sui ceti proletari: il 54% proviene dal lavoro dipendente, il 5% da lavoro autonomo, il 30,5 % dalle pensioni.

Il contributo dei patrimoni – la grande ricchezza nascosta degli italiani – nel 2016 contribuiva col 7,2%. (Per questi dati ho utilizzato il ricco dossier, Fisco & debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, consultabile in rete, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi)

E a questo proposito, di fronte alla razionalizzazione recente operata della “riforma Draghi”, che non ha cambiato nulla dell’assetto classista e antipoplare del sistema fiscale italiano,vi ricordo i dati aggiornati della concentrazione abnorme della ricchezza privata nel nostro Paese. La Relazione della Banca d’Italia per il 2020 mostra un forte incremento della ricchezza finanziaria delle famiglie, che passa da 4.445 miliardi di fine 2019 a 4.777 del 2020. Con un incremento della quota destinata ai risparmi di oltre il 15%, il doppio del 2019. Sono dati di una ingiustizia drammatica. Mentre nel paese infuriava la pandemia da Covid 19, una delle pagine più buie della nostra storia, mentre migliaia di persone cadevano in povertà, pativano la morte e lunghe malattie dei loro cari, tante famiglie già ricche continuavano a gonfiare il loro conti correnti in banca. E ricordo che sfuggono a questo quadro i soldi volati nei paradisi fiscali.

Permettetemi un’ultima considerazione sul tema fisco. Com’è universalmente noto tra elusione ed evasione fiscale vengono sottratti al bilancio statale tra i 120 e i 150 miliardi all’anno. Ora non indulgerò nella solita retorica recriminatoria. Svolgo una considerazione di natura storica e politica. Il sistema fiscale è un accordo tra governanti e governati, e costituisce, per eccellenza il patto fondativo degli stati moderni. Le rivoluzioni borghesi del XVIII secolo partono da qui. Che cosa si deve allora pensare di un paese nel quale da decenni si pratica e si tollera una gigantesca evasione fiscale, tanto da essere diventata un elemento sistemico dell’assetto finanziario dello stato ?

È evidente che il patto solidale fra cittadini è gravemente incrinato. L’evasione ormai si configura come un accordo omertoso tra i ceti dominanti e le istituzioni, tra gruppi delinquenziali e potere pubblico. Il rapporto di fiducia tra la maggioranza degli italiani che paga le tasse e le istituzioni si porta dietro da anni questa profonda ferita. E’ come se l’intera Repubblica si reggesse su questa violazione, la violazione dell’art. 53 della Costituzione, su una illegalità fondativa che getta un’ombra di sospetto e sfiducia su tutto il ceto politico. Nel momento in cui le condizioni di vita di milioni di famiglie peggiorano per la mancanza di lavoro, la pandemia, e oggi l’inflazione dilagante, che getterà nella disperazione chi è già povero, questo segreto patto scellerato deve essere messo al primo posto delle nostre denunce.

Ma la critica che noi muoviamo ai partiti, quasi tutti i partiti, ha motivazioni più ampie e di carattere storico. Sono critiche che servono a illuminare e spiegare i problemi presenti della vita italiana. Tutti siamo consapevoli della grave decadenza che ha investito la politica, questa antica arte del governo degli uomini.

In Italia, come al solito, i fenomeni sono più esasperati che altrove, con qualche elemento di folklore in più, ma la degradazione della politica investe tutti i paesi avanzati. E una delle ragioni di questo declino, che costituisce la perdita rilevante di una conquista della modernità, quando la politica è nata e si è presentata per la prima volta nella storia come progetto di mutamento e miglioramento della condizione umana – sottratta alla sua immodificabile naturalità – proviene da una scelta suicida dei partiti occidentali. I partiti di Mitterand, di Schroeder, di Clinton, di Blair, di D’Alema.

Sono stati i gruppi dirigenti di questi partiti che hanno completato l’opera, già avviata dalle destre neoliberiste, con un lavoro di riduzione sistematica del potere pubblico e hanno permesso, con la retorica di liberare l’economia da lacci e lacciuoli, lo scatenamento su scala mondiale degli interessi economici e finanziari privati. (Esiste ormai una ricca letteratura sul tema, mi limito a ricordare i testi di S.Halimi, Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi Editore, Roma 2006; e D.Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore Milano 2005)
Negli ultimi decenni la rivoluzione informatica, i processi di concentrazione oligopolistica della ricchezza, i fenomeni della cosiddetta globalizzazione, hanno portato alla nascita di colossi transnazionali, nuove Compagnie delle Indie, di età medievale, che hanno la forza di veri e propri stati.

Il potere politico, detentore per tutti i secoli della storia umana del monopolio della violenza, è oggi subordinato al mercato e ai suoi imperativi. E oggi la logica unilaterale e preminente dello scambio di merci ha plasmato l’intelaiatura sociale, dissolto l’etica della politica, è penetrata in ogni ambito del vivente, si è imposta come l’unica razionalità del mondo. Al punto che siamo giunti al supremo paradosso. Le politiche neoliberistiche che in tutti questi anni hanno assegnato al potere pubblico il limitato compito di regolare la competizione tra i soggetti privati ci hanno condotto a questo stadio: ora è il mercato che mette in competizione gli stati fra loro. L’Europa fornisce uno spettacolo edificante in proposito.I governi gareggiano a chi offre maggiori condizioni fiscali, lavoro più flessibile e a buon mercato alle grandi imprese che investono nel loro territorio. Sgomitano per favorire gli interessi privati in danno dei lavoratori e dei cittadini.

Per decenni la Germania, il paese leader del Continente, ha fatto concorrenza a tutti gli altri stati accrescendo i suoi mercati d’esportazione grazie la riduzione salariale, la flessibilità del lavoro e altre forme di dumping.

Ma non basta questo. La piena libertà di cui gode il capitale, non solo quello finanziario, anche quello d’impresa, di delocalizzare i propri impianti, ha creato una asimmetria rovinosa nel rapporto tra capitale e lavoro, e nel meccanismo dinamico della vita sociale. Se il capitale si muove su uno spazio planetario e la classe operaia rimane inchiodata al suo territorio, il conflitto operaio viene depotenziato sul nascere. E il conflitto, ricordo, è stato il meccanismo dinamico che ha trasformato la società industriale, l’ha portata dagli esordi schiavili della prima industrializzazione settecentesca all’assetto avanzato dello stato sociale contemporaneo. Ma se il sindacato viene indebolito in questo punto nodale, anche i partiti, tutti i partiti non possono rappresentare e difendere più di tanto la grande massa della popolazione. Possono solo operare piccole mediazioni al ribasso. Se il potere pubblico non riacquista una nuova centralità sulla vita economica e i domini privato, a livello nazionale e soprattutto sovranazionale, la politica non uscirà dalla propria condizione ancillare.

Da quanto abbiamo detto non stupisce se in tutti questi anni i partiti, di qualunque schieramento, non hanno fatto altro che accrescere la flessibilità, quindi la precarietà del lavoro. E’ anche in ragione di tale debolezza fondativa in cui sono precipitati, che anche le forze di sinistra si sono progressivamente allontanate dai ceti subalterni, per cercare sempre più consenso nei ceti medio alti.E’ esattamente per tale subalternità strutturale al mercato – ormai poggiante su un meccanismo che si autoalimenta – che tutti i partiti, qualunque sia il loro linguaggio pubblicitario, corrono verso il centro, si orientano cioé verso una politica moderata, che non modifica in nulla l’assetto mostruosamente disuguale della società italiana, tentando di conservare il consenso su quella porzione sempre più minoritaria di cittadini che ancora si reca alle urne.

Tutti corrono al centro, perché in quel luogo sociale c’è l’impresa, c’è il ceto medio abbiente, ci sono i grandi media, c’è il potere. Ma non ci sono gli operai poveri – miracolo del capitalismo del nostro tempo – non ci sono le donne perennemente disoccupate del Sud, e quelle del Nord pagate meno degli uomini per la stessa fatica, non ci sono i rider, i braccianti semischiavi delle campagne, non ci sono i nostri giovani.

E’ questo il meccanismo che presiede e alimenta il declino italiano. I partititi ormai da decenni condannano il paese all’immobilità, alla permanenza degli squilibri economici e delle disuguaglianze che lo lacerano, facendo scarseggiare le risorse alla scuola, alla sanità, alla ricerca, ai comuni, alla gestione delle città, alla soluzione dei nostri problemi ambientali.

Non voglio indulgere nelle denuncia, non c’è n’è bisogno. Ricordo semplicemente che l’Italia vede diminuire di anno in anno la propria popolazione. Da quando esiste la scienza economica non c’è stato indice più significativo per valutare la decadenza di un paese del suo declino demografico. Alla fine della pandemia, che ci auguriamo definitiva, noi avremo di fronte un paese con un debito pubblico accresciuto, 2 milioni di famiglie povere censiti nel 2020 che non avranno cambiato stato, la disoccupazione dei giovani intatta, quelle delle donne ulteriormente aumentata, la condizione del nostro Sud peggiorata, interi settori della nostra economia, piccole imprese e piccolo commercio messi fuori gioco. Chi rappresenterà realmente questa vastissima area di sofferenza sociale? L’affideremo al plebeismo criptofascista della Meloni, agli slogan a buon mercato di Salvini, ai moderati italiani i quali gridano “al ladro al ladro” appena si pronuncia la parola patrimoniale?

Ma questo quadro necessariamente rozzo e schematico non tiene conto di ciò che è del tutto assente dalla cultura del ceto politico italiano. La questione ambientale. Non è un problema del futuro, ma di oggi. Lasciatemi fare due considerazioni. Guardiamo a un problema drammatico fuori d’Italia. In alcune regioni dell’Africa non piove da anni. Quel continente è oltre il Mediterraneo, certo e appare come un mondo lontano. Ma la prolungata siccità di quelle terre è un evento che ci riguarda da vicino e immediatamente, perché il pianeta è diventato piccolo e tutti ci accumuna e ci riavvicina coi suoi problemi. Che faremo dei milioni di africani che stanno scappando da terre rese inabitabili dal calore e dalla siccità?
Ma guardiamo in casa nostra. Lo spettacolo televisivo dei ghiacciai che collassano ci impressiona. Ma il fenomeno è destinato a colpirci in maniera devastante. Se scompaiono i ghiacciai delle Alpi, già gravemente compromessi, verrà sconvolto il più complesso sistema idrografico d’Europa, quello mirabilmente tratteggiato da Carlo Cattaneo nell’800. Il Po e i suoi affluenti e tutte le acque alpine non saranno più alimentate, e nella Pianura padana verrà a mancare l’acqua, la risorsa fondamentale su cui si è fondata la sua ricchezza. L’intera economia, non solo quella agricola, della parte più ricca del Paese sarà colpita con esiti che non possiamo prevedere.

Quale partito si sofferma in Italia su questi problemi, accenna a progetti di adattamento al mutamento climatico? Noi siamo impegnati nel PNRR-Next generation, che richiede risorse ingenti per la transazione ambientale. Eppure nel 2021 il nostro governo ha autorizzato una spesa in armamenti, richiesti dalla Nato, per 12 miliardi di euro. Sono anni che sottraiamo risorse fondamentali ai nostri bisogni per produrre e comprare armi, cioé per uccidere essere animali, distruggere territori, habitat selvaggi, città, opere dell’uomo. Noi che siamo riuniti qui abbiamo una logica infantile. Riteniamo tutto questo incompatibile con i bisogni della vita, con le sfide del futuro. Gli armamenti non si combinano con la transizione ambientale.

La Nato è una macchina da guerra, come ha dimostrato coi fatti negli ultimi 30 anni, e noi abbiamo bisogno della pace, di un assetto multilaterale del mondo, di una Costituzione della Terra, come ci indica Luigi Ferrajoli (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli Milano ,2022) se vogliamo davvero assicurare la sopravvivenza degli uomini sul pianeta. Condanniamo senza se e senza ma l’aggressione della Russia all’Ucraina, ed esprimiamo totale solidarietà alla sua popolazione gravemente colpita. Ma senza lo smantellamento della Nato, di questa centrale del disordine internazionale, sorgente di spese militari sempre più insostenibili, il pianeta – quanto meno l’umanità su questo pianeta – non avrà futuro.

Allora che possiamo fare noi piccola e volenterosa aggregazione di fronte a problemi così giganteschi? Intanto possiamo cominciare a mostrare, con una analisi seria e tecnicamente fondata, che una una riforma generale del fisco potrebbe rimettere in moto in Italia la macchina economica, accrescendo i redditi bassi e incrementando la domanda, fornire risorse per il welfare, per i comuni, che possono rafforzare i propri servizi, migliorare complessivamente la qualità della vita, ricostituire un rapporto di fiducia tra cittadini e stato. Dobbiamo dire con forza che la sinsitra non è il partito delle tasse, ma dell’equità fiscale, che le tasse vengono prelevate dove c’è ricchezza, ma diminuite ai ceti medio-bassi, l’ambito il cui una forza di sinistra degna di questo nome deve radicare il proprio consenso. Abbiamo bisogno di una posizione classista, apertamente schierata dalla parte degli ultimi, se vogliamo fondare una nuova forza politica, senza strizzare l’occhio di qua e dlà.
Ma noi non solo vogliamo alimentare posizioni politiche radicali – radicali, non estremiste, come pensano le menti semplici -necessarie in un paese in cui i partiti non rappresentano più quasi metà della popolazione.

Vogliamo cambiare la cultura della politica. Questa iniziativa sul fisco sarà proseguita da forum consimili in cui si affrontano i temi dell’autonomia differenziata, della sanità, della scuola, dell’agricoltura. Lo vogliamo fare coinvolgendo i saperi esperti che in Italia, a sinistra, si mobilitano ancora senza fini di lucro, per affrontare in maniera non ideologica i problemi. E voglio sottolineare un aspetto che fa onore ai nostri amici che sono qui ospiti, ma anche al nostro paese, alla sinistra. Chi legge la locandina del convegno può osservare quanti studiosi vi prendono parte. Eppure, tutti, non solo lo fanno senza compenso, ma alcuni sono venuti anche da lontano a proprie spese. Dobbiamo dunque cambiare la cultura politica dell’Italia perché quella attuale è chiusa dentro i paradigmi del secolo scorso, o si è ridotta a mera tecnica comunicativa che sguazza nel pantano mediatico. I dirigenti politici in genere non leggono più libri, non hanno bisogno di Bauman, o di Piketty, o di Edgar Morin. Non avvertono alcuna necessità di intercettare le correnti profonde che attraversano il nostro tempo. Vivono alla giornata. Gli basta Sandro Pagnoncelli e le sue rilevazioni aggiornate sul gradimento elettorale degli italiani.
Ebbene, malgrado un panorama così degradato, ci è lecito nutrire più che una vaga speranza. Noi possiamo cambiare la cultura del nostro paese, perché possediamo in Italia una grande ricchezza quasi invisibile o non calcolata.

È il general intellect di Marx, quell’insieme dei saperi generati dallo stesso sviluppo capitalistico, che alimenta la cultura diffusa, ma non riesce a trovare la via per far valere la sua potenza politica. Noi possiamo ricorrere all’immenso e disperso patrimonio dei gruppi intellettuali, delle associazioni, circoli, fondazioni, riviste, siti che operano su vari temi e in disparati ambiti territoriali. È caduto infatti qualcosa di imprevisto. È decaduta la cultura dei partiti politici, diventati agenzie di marketing elettorale, ma è fiorità al di fuori di essi un’altra cultura politica. E qui concedetemi questa citazione di André Gorz, (che aveva già anticipato il mio pensiero) e che illumina come meglio non si potrebbe la situazione presente:

<>. (Introduzione all’edizione italiana di Ecologia e politica, Cappelli Bologna, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi 1978, pp 8-9)

Ora noi non possiamo far rientrare questa politica nei partiti. Non solo perché non ne avremmo la forza. Siamo consapevoli che gran parte di queste aggregazioni non entreranno mai in una
formazione politica strutturata. Nessuno o quasi vuole rinunciare alle proprie identità e autonomie.

E va bene anche così. Si trasforma il mondo molecolarmente in molti modi. Ma la scommessa che noi vorremmo giocare nel proseguo di questo processo che stiamo avviando è di creare un canale comunicativo permanente, sistematico, con quante più realtà organizzate possibili, per sostenre battaglie comuni, campagne di difesa o di attacco, per conseguire finalità condivise. Anche una piccola formazione come la nostra, se bene organizzata, se è capace di creare una vasta rete, un canale informativo parallelo e alternativo a quello dei grandi media , potrebbe mantenere contatti costanti di collaborazione con questo vasto arcipelago che contribuisce a fare dell’Italia un paese ancora abitabile. Ho detto piccola formazione per rispetto della realtà e per ovvia modestia, non per svalutazione della dimensione partito.

Il partito politico è stato una delle grandi creazioni della storia contemporanea, insieme al sindacato la leva per l’emancipazione di diverse generazioni di subalterni. Ma io concludo ricordando con Gramsci che il partito moderno non si limita alla rappresentanza, esso ambisce ad organizzare la volontà collettiva, a fare degli individui dispersi una forza ispirata da un progetto generale di cambiamento. Perciò anche un piccolo partito, sia pure con una ridotta rappresentanza in Parlamento, se riesce a dialogare con questa moltitudine di associazioni, a fornire ad esse, di volta in volta, l’orizzonte generale e l’intelaiatura per le singole battaglie comuni, non solo è destinato a crescere, a diventare il nuovo soggetto politico cui aspiriamo da anni, ma sarà anche a capace di incidere fin da subito nella vita italiana.

Le elezioni sono lontane, si può fare politica.-di Piero Bevilacqua

Le elezioni sono lontane, si può fare politica.-di Piero Bevilacqua

Le reazioni bellicose di gran parte del ceto politico italiano di fronte all’aggressione subita dall’Ucraina- che seguono a decenni di indifferenza nei confronti del quadro politico mondiale – ci spinge con ancora più urgenza a occuparci della scena nazionale. In primissimo luogo osserviamo come l’appiattimento del Partito democratico sulle più triviali posizioni atlantiste rende ormai l’inesistenza di una forza di sinistra una condizione drammatica della vita italiana .

Mentre in varie regioni del pianeta si assiste al collasso degli equilibri ambientali, le pandemie sono diventate un elemento sistemico della condizione sanitaria del nuovo millennio,la nostra popolazione diminuisce di anno in anno, noi ereditiamo un ceto politico legato ancora ai paradigmi del ‘900, che continua la corsa agli armamenti, vive alla giornata, elabora discorsi di pura e scadente pubblicità elettorale. Com’è noto, non si tratta di una situazione solo italiana, ma da noi essa assume le forme più gravi e degradate.

Eppure, c’è un paradosso in tutto questo.Certo, la cultura del ceto politico riflette sempre quella della società civile. E noi abbiamo assistito in questi anni a un immiserimento generale dello spirito pubblico nazionale.Ma non siamo ancora caduti nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Esiste una vasta platea di cittadini la cui cultura non è rappresentata dalla politica, anzi è spinta fuori dal recinto sempre più separato della vita dei partiti.

Possiamo forse dire che in nessun altro paese d’Europa si fa cultura e si pratica politica non partitica quanto in Italia. Se proviamo solo ad accennare alle organizazioni, circoli, associazioni, istituti, fondazioni che operano nei più vari ambiti della vita civile, ispirati da un medisimo orizzonte progressista, abbiamo difficoltà a nominarli. Giusto per non restare nel generico penso a quella popolosa ed eterogenea galassia che va da Slow Food di Carlo Petrini, a Libera diretta da Don Ciotti, a consolidate istituzioni come la Fondazione Basso o al Centro per la riforma dello stato, alle varie ONG attive nel volontariato ,da Medici Senza frontiere a Emergency, ai vari movimenti femministi, ultimo Me Too, alle centinaia di associazioni ambientaliste, ad aggregazioni con forte insediamento territoriale come i No Tav in Val di Susa, ad iniziative più inclinate verso l’impegno politico, come l’Associazione per la riforma della sinistra, fondata da Aldo Tortorella, al recente Forum disuguaglianze diversità ispirato da Fabrizio Barca, al recentissimo raggruppamento della Società della cura.

Solo per ricordarne alcuni. E non c’è bisogno di rammentare il ruolo che svolgono i sindacati o un giornale come il Manifesto. Restano ancora fuori i piccoli partiti di sinistra, con o senza presenza in Parlamento, le migliaia di associazioni locali, anche nel nostro Mezzogiorno, il pulviscolo incalcolabile di aggregazioni intorno a riviste, siti, blog.

Ora non ci sono dubbi che tale costellazione di presidi progressisti sono il frutto di due dinamiche diverse. In parte sono il risultato di una deflagrazione avvenuta nel nostro campo politico, ma rappresentano anche il bisogno diffuso e multiforme di presenza civile e culturale di milioni di italiani, che non hanno più alcun punto di riferimento generale né un centro di aggregazione e orientamento. Ed è certo vana fatica cercare di mettere insieme i frantumi di una deflagrazione.Neppure pensabile è tentare di federare raggruppamenti così diversi fra loro, ciascuno impegnato del resto a fare la sua parte nel proprio ambito di attività. Essi fanno tutti politica, che evidentemente non si esaurisce nell’attività dei partiti. Senza di loro l’Italia sarebbe immensamente più povera.

Eppure questa vasta congerie di attività, di intelligenze, di culture potrebbe avere un peso assai più grande nell’influenzare le scelte che decidono della nostra sorte collettiva, se essa venisse anche solo episodicamente federata e mobilitata per singole battaglie di larga e generale condivisione. Una aggregazione momentatanea che rispetti le multiple identità dei protagonisti e che ne metta in campo la forza comune quando è in corso una rivendicazione in cui in tanti possono riconoscersi. Nessuno può negare che questo sia un obiettivo realistico.Le difficoltà sono solo di natura organizzativa e di capacità di direzione politica.

A tal fine un gruppo di studiosi, militanti politici, cittadini senza partito sta tentando una operazione umile e ambiziosa che tenga conto di questa realtà ricca e frantumata e perciò privata della sua grande forza potenziale. L’avvio di un processo costituente, animato da un gruppo pluralista, che fondi il proprio percorso sui grandi problemi del paese- e non sulle alleanze da stabilire o meno con il PD – potrebbe essere la forza in grado di coinvolgere in vario modo l’universo delle associazioni.

Il 9 marzo cominceremo a Roma con un convegno sulla riforma fiscale, cui parteciperanno studiosi, dirigenti politici e sindacali, da Ernesto Longobardi a Luigi De Magistris, da Domenico De masi a Laura Marchetti, solo per ricordarne alcuni. Seguiranno iniziative analoghe contro l’autonomia differenziata, per la sanità pubblica, l’agricoltura biologica,ecc. Le elezioni sono lontane si può dunque fare politica.

da “il Manifesto” dell’8 marzo 2022

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Su questo giornale Gaetano Lamanna (3.3.2021) ha sottolineato il rilievo strategico che può assumere la riforma fiscale e l’impegno politico della sinistra a suo sostegno. Il tema merita di essere ripreso su entrambi i versanti. Intanto occorre ricordare che l’odierno sistema costituisce il pilastro portante del dominio del capitale sulla classe operaia degli ultimi 40 anni. Testimonia ancora oggi la controffensiva vittoriosa dell’imprenditoria industriale sulla classe operaia dopo i conflitti e le conquiste degli ani ’70. Fu avviata nel 1981 da Reagan con L’Economic Recovery Tax Act regalando una gigantesca esenzione fiscale ai ceti ricchi, e definita “il più grande taglio di tasse nella storia americana” (M.Prasad, The politics of free market, Chicago University Press, 2006).

La fine della fiscalità progressiva, messa in atto da quasi tutti gli stati, ha significato la riduzione di risorse per scuole, sanità, servizi pubblici, insomma la semi demolizione del welfare che aveva reso prospere e stabili le società avanzate del dopoguerra. La teoria economica del cosiddetto trickle down, di lasciare più soldi ai ricchi perché li avrebbero accresciuti reinvestendoli, con vantaggio di tutti, si è rivelato un grave errore di fatto e un inganno politico.

La ricchezza è aumentata per pochi e la povertà per molti e perfino la solida middle class degli Usa (quella del “sogno americano”) è stata investita da una ondata senza precedenti di immiserimento e di regressione sociale. Il nuovo sistema fiscale dell’età neoliberista è dunque all’origine delle gravi disuguaglianze attuali, dell’aumento del debito pubblico e privato e – nel declino generale dei sindacati e dei partiti popolari – dell’esplosione del populismo che minaccia le democrazie in tante regioni del mondo.

Ora che l’esecutivo Draghi, riprendendo il proposito del governo Conte, promette di mettere mano a una riforma del fisco credo che la sinistra debba, in anticipo, battere un colpo. Nicola Fratoianni, pur se segretario di una piccola formazione politica, Sinistra Italiana, può prendere qualche iniziativa nel Paese. Senza attendere che la riforma venga discussa in Parlamento, sarebbe invece utile e necessario da subito prendere contatti con Maurizio Acerbo, anche lui segretario di un’altra piccola formazione politica, il Partito della Rifondazione Comunista, e concordare con il suo gruppo dirigente un’azione comune di discussione, mobilitazione e confronto.

Così come occorre coinvolgere Fabrizio Barca e i dirigenti del Forum Disuguaglianze, ricco di intelligenze e competenze che costituiscono parte dell’élite della sinistra reale italiana, oggi resa invisibile dall’inerzia dei micro partiti e dai media, che parlano eternamente con le stesse facce e gli stessi stanchi linguaggi.

Il raggio deve essere più ampio. Non solo devono essere coinvolte, con varie modalità, vecchie istituzioni come Il Centro per la Riforma dello Stato, ma anche i movimenti delle donne, i gruppi organizzati come il Gruppo Abele di Don Ciotti o la Costituente Terra di Raniero La Valle e di Luigi Ferrajoli, e tante altre formazioni. Senza dimenticare il più grande movimento di resistenza del nostro Paese, che per ampiezza e durata non ha confronti in Europa, la comunità dei No Tav, in lotta da 30 anni contro lo sperpero di denaro pubblico per un’opera insensata.

Aprire nel paese, prima che in Parlamento, un ampio approfondimento sulle strutture del bilancio pubblico, mostrare con settimane di incontri, in presenza e da remoto, con comunicati, volantini, messaggi via social, interventi in televisione, giornali amici, come vengono spesi dai governi i soldi di tutti gli italiani costituirebbe un grande evento di democrazia, una vasta agorà che ricomporrebbe almeno temporaneamente il vasto e disperso popolo della sinistra reale.

Gli italiani saprebbero quanti miliardi mancano per le scuole, la ricerca scientifica, le borse di studio, la manutenzione delle strade comunali, i mezzi pubblici, e quanti sono spesi per armi destinate a distruggere paesi, a uccidere la popolazione civile in questa o in quella regione dell’Africa e del Medioriente, o per rifornire gli eserciti di paesi che torturano e uccidono i nostri ragazzi, come accade in Egitto.

Le donne del Sud che non possono lavorare perché mancano gli asili nido, verrebbero così informate che ciò accade anche perché i soldi vengono spesi in raccordi autostradali inutili, in stipendi favolosi ai manager pubblici, in sostegno privilegiato a questo o a quell’ente importante per i consensi elettorali che può fornire. Potrebbero finalmente cogliere il nesso tra il comportamento del deputato che hanno eletto e i disagi e la marginalità della propria vita.

L’iniziativa potrebbe costituire anche un contributo propositivo importante: l’ideazione di un sistema fiscale reso più semplice e comprensibile: colpire le grandi fortune, soprattutto immobiliari, e premiare gli investimenti, soprattutto in ricerca e formazione, scoraggiando e punendo le attività inquinanti, incentivando la formazione di giovani ispettori contro gli evasori in ogni angolo del paese e del mondo, prefigurando una fiscalità europea omogenea, che non dia scampo ai colossi multinazionali, nuovi padroni del pianeta.

da “il Manifesto” del 9 marzo 2021
Foto di 👀 Mabel Amber 👀, Messianic Mystery Guest da Pixabay

La distruzione del sistema fiscale alla base delle diseguaglianze sociali.-di Piero Bevilacqua

La distruzione del sistema fiscale alla base delle diseguaglianze sociali.-di Piero Bevilacqua

Tra gli effetti indesiderati della pandemia che continua a sconvolgere la vita quotidiana di miliardi di persone c’è il drammatico restringimento del nostro immaginario. Gran parte dei nostri pensieri è assorbita dall’andamento della malattia e dal corredo di conseguenze che trascina con sé. Problemi economici e sociali di rilevante urgenza scompaiono dalla vista generale e dal pubblico dibattito.

In Italia è il caso di tantissime questioni fra le quali spicca la ventilata riforma fiscale, che solo in questi giorni il presidente del Consiglio Conte ha opportunamente ripescato dall’oblio generale, ponendola come uno degli obiettivi dell’agenda governativa per il 2021.

Torno sul tema perché va richiamata l’attenzione di tutte le forze democratiche. Se vogliamo che la riforma annunciata non si esaurisca in un semplice aggiustamento dell’ordine esistente, è necessaria un’ampia mobilitazione dell’opinione pubblica e soprattutto una spinta sociale nel paese che faccia sentire il suo peso sul Parlamento e sul Governo.

Solo realizzando un ordinamento fiscale coraggiosamente progressivo si abbatte il caposaldo che ha retto le politiche neoliberiste degli ultimi 40 anni: la bassa pressione impositiva sui ceti ricchi e le grandi fortune.
Questa scelta, inaugurata da Thatcher e da Reagan, era sostenuta da una teoria economica che l’aveva nobilitata, quella dell’offerta, la cosiddetta supply side economics.

Secondo questa scuola di pensiero diminuire il carico fiscale ai ceti ricchi avrebbe portato più investimenti, posti di lavoro, maggiore ricchezza generale. Già nel 1998, molto prima della grande crisi del 2008, il premio Nobel Paul Krugman l’aveva definito un “errore economico” di cui “gli eventi hanno dimostrato la falsità”. Mentre il suo connazionale, James Galbraith, che ribattezzò la teoria in supply side failure, cioé fallimento, ha ricordato nel 2009 che i ceti ricchi favoriti dall’allentamento fiscale “hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili”.

La distruzione del sistema fiscale su cui nel Dopoguerra aveva poggiato lo stato sociale è alla base delle inaudite disuguaglianze che lacerano le nostre società, in Italia hanno accresciuto in forme abnormi la ricchezza privata e la povertà pubblica, contribuendo non poco alla crescita del suo debito. Alberto Banti ha appena fornito un quadro ricco di dati su tutto questo che illustra in maniera schiacciante l’andamento delle ricchezze negli ultimi 40 anni connesso ai sistemi fiscali neoliberisti (“La democrazia del followers”, Laterza)

Se vogliamo comprendere le ragioni ultime dell’emarginazione della sanità pubblica, del definanziamento di scuola e università, dell’impoverimento generale dei comuni, della decadenza delle nostre città, dell’assenza di investimenti statali strategici, le dobbiamo cercare in gran parte nel del nostro sistema fiscale.

È davvero avvilente assistere in questi giorni drammatici della vita nazionale allo spettacolo di infermieri e addetti alle pulizie degli ospedali costretti a urlare per le strade la miseria dei loro salari a fronte di lavori massacranti. Mentre sappiamo quante fortune sono ammassate e si vanno ammassando presso tanti settori e ceti, anche in questi mesi che per tanti italiani sono stati di lutti e di angoscia.

Non si capisce, dal momento che nessuna solidarietà viene al paese da tali ambiti, perché il Governo non intervenga con un prelievo d’emergenza finalizzato ai problemi urgenti che incombono. Se non si opera in questi momenti allarmanti della vita nazionale, quando la necessità del sacrificio comune è così evidente, allora quando? Tanti nel Parlamento e forse nel governo non vogliono guastarsela con i potenti che sostengono con discrezione le loro campagne elettorali. Guardano ai personali interessi, fine ultimo del loro agire politico. Sarebbe meglio non dimenticare che quando usciremo dalla pandemia ci attende un debito pubblico gigantesco e senza un sistema fiscale di incisiva progressività il paese tracolla.

Per questo credo che la sinistra e soprattutto le forze sindacali – le uniche organizzazioni che oggi hanno una capacità di mobilitazione popolare – devono guardare a questo passaggio strategico nella vita italiana. La riforma fiscale decide una svolta strutturale nell’assetto economico e sociale del paese. Perciò i sindacati devono muoversi con tutta la loro forza su questo aspetto che non riguarda vertenze e salari.

Mentre noialtri cani sciolti della sinistra, con tutti i mezzi di cui disponiamo, dai giornali alle riviste, dai social alle campagne on line, non dobbiamo dare tregua ai sabotatori nascosti in Parlamento, e mostrare quanto l’ingiustizia fiscale sia alla base del declino recente dell’Italia.

da “il Manifesto” del 18 novembre 2020
Foto di b0red da Pixabay