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L’implosione del Mediterraneo ci riguarda.-di Tonino Perna

L’implosione del Mediterraneo ci riguarda.-di Tonino Perna

Come calabresi e meridionali assistiamo, angosciati e impotenti, a questo massacro della popolazione civile a Gaza che rischia di coinvolgere altri paesi del Medio Oriente e la stessa Nato, di cui, obtorto collo, facciamo parte. Appare sempre più evidente che Il governo Netanyahu sta portando al suicidio Israele, facendo crescere in tutto il mondo una ondata di sdegno e di proteste che spesso sfociano nel razzismo nei confronti degli ebrei, che in parte rilevante sono le vittime dell’attuale governo israeliano e ne subiscono le conseguenze.

Purtroppo, il conflitto israeliano-palestinese è solo la punta estrema di una propagazione dei conflitti in tutta l’area del Mediterraneo, dalla Libia alla Siria, passando per il Libano, che sta facendo implodere la sponda sud-est del mare nostrum. L’Ue è fuori gioco, come uno spettatore bollito davanti alla Tv. Il governo italiano non ha nemmeno votato la risoluzione Onu per un immediato cessate il fuoco, come hanno fatto Francia, Spagna e Portogallo, non a caso paesi dell’Europa mediterranea che ben capiscono che questa guerra li riguarda da vicino.

Per decenni ci siamo nutriti di retorica sulla nostra comune cultura mediterranea, sul nostro Sud al centro di questo meraviglioso mare, con centinaia di convegni, di associazioni e progetti tra la Ue e i paesi del Mediterraneo. Ma, una politica euro-mediterranea, da parte della Ue e dell’Italia, è scomparsa dalla fine del secolo scorso. L’ultimo atto politico significativo è stata la Conferenza di Barcellona nei giorni 27 e 28 novembre del 1995 in cui ci si è posti il fondamentale obiettivo del raggiungimento della pace e stabilità nell’area mediterranea operando su tre livelli: politico, economico-finanziario e socio-culturale.

Avendo personalmente partecipato con una delegazione del Centro regionale d’intervento per la cooperazione, all’epoca una delle più significative Ong italiane e l’unica che aveva una strategia di cooperazione Sud-Sud, ne ero rimasto entusiasta, per la quantità e qualità dei partecipanti, e perplesso per il prevalere di un approccio neoliberista che puntava ad un libero scambio delle merci e non delle persone, non tenendo conto delle disparità dei soggetti in campo, per cui il free trade favoriva i paesi più forti. Comunque ci aspettavamo che dalle nobili dichiarazioni di principio seguissero fatti concreti.

Come sappiamo le cose sono andate diversamente. L’Ue ha progressivamente spostato il suo asse e il suo sguardo verso est, abbandonando completamente ogni politica o attenzione a quello che avveniva nel Mediterraneo, un’area economica piccola rispetto al mercato mondiale che si formava con la caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina. In questo secolo la Ue ha fatto anche peggio. Francia e Inghilterra, con il supporto Usa, hanno avuto un ruolo importante e devastante nell’abbattimento del regime di Gheddafi, fomentando una guerra civile che ha portato al collasso un paese che viveva tranquillo anche se sotto una dittatura.

Pochi sanno che il caos e la guerra civile in Libia ha interrotto un rilevante flusso migratorio proveniente dai paesi del Sahel. Circa un milione e mezzo di africani vivevano come immigrati in Libia lavorando nell’edilizia, in agricoltura, nei servizi, nell’industria petrolifera. Questi giovani del Sahel mandavano a casa i loro risparmi, si costruivano la casa o compravano un pezzo di terra, senza dover pagare trafficanti e rischiare di morire nel deserto.
Anche la Siria, che era un paese a reddito medio, assorbiva una parte di manodopera migrante proveniente dal Sudan e altri paesi limitrofi, è entrata dal 2011 in una guerra civile in cui hanno giocato un ruolo diverse potenze straniere (Turchia, Usa, Gran Bretagna, ecc.) .

Infine, il Libano che era chiamato “la Svizzera del Medio Oriente” è oggi al collasso economico (ci vogliono 100mila lire libanesi per un dollaro quando cinque anni fa ce ne volevano due), e tende ad espellere un milione e trecento mila rifugiati siriani e duecento mila palestinesi, dal ‘1948 “ospitati” da questo paese, senza cittadinanza, in attesa del ritorno nella propria terra!

Presto, purtroppo, toccherà alla Tunisia e all’Egitto che stanno attraversando una crisi economica, sociale e politica molto pesante. Possiamo chiamarci fuori da un Mediterraneo che implode? Possiamo pensare che spostando le nostre frontiere nel Nord Africa potremo bloccare la fuga dei disperati, delle vittime di queste guerre fomentate dalle potenze straniere, dai nuovi imperi che sono ritornati sulla scena del mondo?

Come si fa a pensare che il Mezzogiorno possa avere un futuro in questo mare che è diventato un cimitero liquido in mezzo a terre insanguinate e distrutte dove non è più possibile vivere? Come è possibile che il nostro paese con abbia dagli anni ’80 un governo con un straccio di politica mediterranea, che dobbiamo rimpiangere personaggi controversi come Andreotti o Craxi?

da “il Quotidiano del Sud” dell’1 novembre 2023

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

C’era una volta il Mediterraneo, culla di grandi civiltà, delle tre religioni monoteiste, centro dell’attività economica e commerciale del mondo conosciuto, dal tempo dei fenici-greci-romani-arabi fino alla fine del XV secolo. Poi, con la conquista dell’America, si spostano progressivamente i flussi commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, e dal continente americano arrivano oro e argento che costituivano allora la base reale della ricchezza di un paese, e si riduce progressivamente il ruolo del Mediterraneo, ma non scompare.

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso i paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo facevano parte dei paesi a reddito medio-basso, nella sponda sud-est, e a reddito medio alto nella sponda nord. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura cinese al mercato globale, l’asse del commercio e della finanza europea si sposta nuovamente verso i paesi dell’ex Urss e verso la Cina, all’interno di una rivoluzione geopolitica ed economica che vede l’asse centrale dell’economia mondo localizzarsi in Asia. Un cambiamento epocale paragonabile solo a quello avvenuto con la conquista delle Americhe. Solo che allora ci vollero secoli per consolidare questo cambio di rotta del mercato mondiale, oggi sono bastati pochi decenni.

Il progressivo impoverimento delle popolazioni della sponda sud-est del Mediterraneo è avvenuto già negli anni ’70 del secolo scorso, con una divaricazione crescente tra la sponda Nord e Sud-es. L’Ue, nata nel cuore del Mediterraneo con il Trattato di Roma del 1957, e due anni prima con la Carta di Messina, ha lasciato da tempo il mare nostrum come area di interesse economico e politico, abbandonando nell’emarginazione e crescente povertà le popolazioni nordafricane ed arabe. Fino alla “primavera araba” media e governi occidentali avevano ignorato l’impoverimento di queste popolazioni. Improvvisamente nel 2010 si accendono i fari su masse giovanili in piazza per chiedere più libertà e giustizia sociale, contro le rapaci élite, militari e civili, che divorano le ricchezze unitamente ai rapporti di scambio ineguali con i paesi occidentali.

Sappiamo come è andata a finire anche grazie all’ingerenza di potenze straniere comprese quelle europee. Libia e Siria, paesi relativamente ricchi e dove milioni di migranti del Sahel lavoravano, sono implose e vivono tuttora in uno stato di guerra permanente. Il Libano, la famosa Svizzera del Mediterraneo, è stato ridotto alla fame e il milione e mezzo di siriani che aveva ospitato sono oggi invisi e perseguitati. La Palestina è stata fatta a brandelli, ridotta ad un bantustan, dalla crescente tracotanza del governo israeliano che a sua volta attraversa una crisi democratica inedita. E adesso è arrivato il turno della Tunisia, l’unico paese a mantenere aperta una piccola luce sulla “primavera araba”, ormai entrato in una spirale autodistruttiva. E’ l’ennesimo paese dell’area mediterranea che implode

L’Unione europea si preoccupa dei suoi vicini di casa caduti nell’inferno? Pensa a sostenere economicamente e finanziariamente questi paesi, o pensa piuttosto a investire, come ha fatto con la Turchia, solo per creare un grande lager? Il governo Meloni vede nell’implosione della Tunisia un pericolo per l’Italia, con i principali mass media che ormai hanno lanciato l’allarme: l’invasione di milioni di migranti è alla porte di casa nostra!

Dopo il meeting di Barcellona del 1995, che pure aveva i suoi limiti neoliberisti, il Mediterraneo è scomparso dall’agenda europea, lasciando campo libero agli Usa, alla Russia, alla Cina e all’emergente politica espansionistica della Turchia del sultano Erdogan. In Italia, dopo decenni di convegni sul Mediterraneo, di evocazioni retoriche sull’Italia e la Sicilia centro e cuore pulsante di questo mare, abbiamo ricoperto l’importanza di alcuni di questi paesi solo adesso come fornitori di gas e petrolio. E questo, naturalmente, in linea con la transizione ecologica in salsa napoletana.

da “il Manifesto” del 14 aprile 2023

Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua

Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua

A me è accaduto , alcuni anni fa di chiedere in più occasioni, in vari bar della città di
Catanzaro, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere con una
domanda:”Fanta?”. Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta.
Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto
industriale di una multinazionale.

E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo
di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza
“coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura. Noi non riusciamo a produrre
ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi
agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai
prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura
industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico,
culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni
provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il
nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in
loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per
la salute.

Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel
colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.
In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle
aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre
che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione. Per
ottenere tale risultato gli imprenditori, spruzzano sulle piante dei preparati con
ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.
Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti
collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per
la nostra salute?

Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro
Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale. Nel 2006 un
rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia
scriveva: “A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali,la nostra
antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo
sempre più esposti alle malattie degenerative”.

Un polo agricolo e scientifico.

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda tutte le nostre
campagne?Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la
biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che
anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di
appassionare i nostri giovani più intraprendenti. Occorre guardare al territorio non
più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case
e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati
altrove) ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

A Catanzaro, nella località di Giovino, potrebbe nascere un Parco delle Varietà
Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e
centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono
presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo
amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano
aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo
hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia
di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori
per la loro fioritura spettacolare. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini
di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia. Qui, un solitario
amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di
fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà
vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura
fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro,
dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel
resto del Sud. Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una
nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la
riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche
le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante. La nuova agricoltura
non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di
avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote
o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni
d’Europa, numerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i
volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee,
fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al
reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne. Ma
in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa
trasformazione dei prodotti ( vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc),
ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per
i portatori di handicap, ecc.

L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini,
protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione,
conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente
sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso
lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio. E questa è una battaglia in
corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per
far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico
straordinario. Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa
una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia,
soprattutto, l’alimentazione. Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non
industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non
chimici.

Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta
l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori
alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli
essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa,
sesamo, malva, melagrane, ecc. Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro
clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande
interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato
esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di
possibilità di occupazione e di reddito.

Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione
artigianale dei prodotti. Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni
cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.
Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un
tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto
mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione,
in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono
anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità
culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il
giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice di agrumi nel mondo, non
ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la
Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito
complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo
della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero
progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e
delle piante della regione mediterranea. Un centro di ricerca, che potrebbe
connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di
studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche
il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di
attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che
intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifica con i Paesi che si
affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.