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Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

L’autonomia differenziata sta ripartendo sotto copertura. Si colgono i segnali di trattative occulte tra il ministero delle autonomie e alcune regioni. Si leggono sulla stampa esternazioni della ministra Gelmini che annuncia a breve novità, per una legge-quadro erede di quella che fu già di Boccia, e per le intese con le regioni capofila (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna).

Ma tutto rimane segreto, come già ai tempi del Conte I e della ministra leghista Stefani. Mentre viene inserito tra i collegati alla legge di bilancio il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Meglio, si inserisce l’annuncio, visto che il testo ancora non esiste.

In questo quadro si è tenuta il 30 ottobre in una sede messa a disposizione dalla Cgil l’assemblea nazionale di Noad Comitati contro qualunque autonomia differenziata. La blindatura della città per il G20 non ha impedito un’ampia partecipazione di realtà associative attente alla tutela di eguaglianza e diritti. Decine di interventi hanno richiamato i valori costituzionali in vista del comune obiettivo dell’unità della Repubblica. È stato tra l’altro chiesto lo stralcio del ddl dall’elenco dei collegati.

L’inserimento tra i collegati di un ddl non è di per sé conclusivo. Inoltre, si potrebbe arrivare a implementare il dettato dell’art. 116, comma 3, anche senza un ddl attuativo. E si può giungere ad autonomie diversificate persino senza formale ricorso all’art. 116, comma 3. Il servizio sanitario nazionale è stato già distrutto – come la pandemia ha dimostrato – dal regionalismo oggi vigente. Lo afferma l’Anaao-Assomed in un recente documento. E allora di che parliamo?

Il punto è che il collegamento al bilancio dimostra che l’autonomia differenziata è prioritaria nell’indirizzo di governo. Anzi, sopravvive con ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi). Quattro governi, e ancor più quattro stagioni molto diverse: centrosinistra, gialloverde, giallorossa, e ora dei tecnici. È prova che forze potenti spingono per realizzarla, e che una corrente profonda passa nella politica, nelle istituzioni, nell’economia, nella società civile.

Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere. Ad esempio, si è avviato il 28 ottobre nell’Aula del Senato l’iter di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (AS 865) volto ad inserire nell’art. 119 della Costituzione il concetto di “insularità”. In sostanza, recupera in parte e attualizza il testo originario della Costituzione del 1948 – poi cancellato dalla riforma del 2001 – che richiamava il Mezzogiorno e le Isole. Quale che sia la sorte futura del ddl, persegue un obiettivo in principio apprezzabile di maggiore tutela di eguaglianza e diritti.

Vanno invece respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, in quanto capace di mettere più e meglio a frutto le risorse: Nord vs Sud, aree urbane e metropolitane vs aree interne. È la filosofia sulla quale si fonda la strategia della “locomotiva del Nord”. Una strategia che le classifiche territoriali europee dimostrano fallimentare. E rispetto alla quale l’autonomia differenziata è servente.

Molti interventi nell’assemblea hanno descritto un paese insopportabilmente diviso, in specie per sanità e scuola, ma non solo. Sono stati segnalati dubbi sulla idoneità del Pnrr a perseguire un disegno di coesione sociale e territoriale. Sono state richiamate le ambiguità nelle organizzazioni della sinistra. Spiccano – e sono da apprezzare – le iniziative in Lombardia ed Emilia-Romagna di petizioni popolari per il ritiro dei progetti di autonomia differenziata. Ma vediamo anche da ultimo il neo-sindaco dem di Torino che chiama i sindaci del Nord a una santa alleanza contro le burocrazie romane. Un nuovo iscritto al club Bonaccini?

Per chi vuole un paese più unito, più eguale, più giusto il percorso è lungo e impervio. Va anzitutto chiesta visibilità e trasparenza sui processo decisionali in atto. Va sostenuta ogni iniziativa volta a una alfabetizzazione di massa su temi non facili, come è anche il programma delineato nella mozione conclusiva dell’assemblea. Tutti dobbiamo scendere in campo. Personalmente, lavoro a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per una riforma mirata del titolo V. Dopo venti anni, è venuto il tempo di correggere gli errori fatti, rinsaldare la casa comune, ritrovare eguaglianza e pienezza di diritti.

da “il Manifesto” del 2 novembre 2021

Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna

Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna

Tra i fattori che hanno provocato l’aumento della temperatura media del nostro pianeta spesso ci si dimentica del ruolo che gioca l’agricoltura/zootecnia industriale nella produzione dei gas serra. Per molto, troppo tempo siamo vissuti con la convinzione che la terra fosse un corpo inerte dove con la chimica si poteva ottenere quello che si voleva, che gli animali da allevamento fossero delle macchine che si potevano perfezionare a volontà per aumentarne l’efficienza.

Tutto il sapere dell’agricoltura contadina è stato scartato come un residuo di un passato pretecnologico. Così gli allevamenti intensivi di migliaia di animali, chiusi in spazi sempre più ristretti, riempiti di ormoni e antibiotici, erano visti come un progresso per l’umanità, perché aumentavano la produzione per unità e ridotto i costi unitari.

Per decenni solo pochi profeti, spesso ignorati, hanno denunciato i danni alla salute dell’uomo e dell’ambiente di questo modo di produzione. Jeremy Rifkin, prestigioso economista statunitense, aveva denunciato in un suo saggio del 1998 i danni all’ambiente causati dall’industrializzazione della produzione zootecnica, e spinta in avanti dal nostro eccessivo consumo di carne.

Unitamente alla denuncia che da tempo molti studiosi hanno formulato nei confronti dell’agricoltura industriale, per l’uso eccessivo di fertilizzanti che rendono sterili i terreni, per l’inquinamento delle falde acquifere e, last but not least, per i danni alla nostra salute. Questo non significa ritornare alla zappa e alla falce, ma significa fare tesoro di tecniche agricole che rispettino i cicli vitali, che considerano la terra un corpo vivo, con le sue esigenze e i suoi tempi.

La transizione ecologica rivaluta l’agricoltura contadina e gli allevamenti a piccola scala in cui gli animali non vengono rinchiusi in un lager e non si usano sostanze artificiali per aumentarne la produttività. Naturalmente questo significa pagare di più i beni alimentari alla fonte e ridurre i costi dell’intermediazione e distribuzione che oggi assorbe mediamente l’80 per cento del valore.

Vale a dire: è necessario rivedere tutta la filiera agroalimentare con l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori, difendere la biodiversità, ridurre le emissioni di gas serra, dare un “giusto prezzo” ai prodotti delle aziende agricole e condizioni di lavoro e salario dignitosi ai lavoratori. Non si tratta di utopie o di sogni romantici perché esistono tante esperienze sul campo che potremmo raccontare, diverse reti che uniscono braccianti-imprenditori- consumatori in forme diverse e con beneficio di tutti gli attori.

In questa visione la transizione ecologica offre una straordinaria opportunità alla agricoltura calabrese, a quelle piccole aziende agricole e zootecniche che sembravano un residuo del passato, un segno di arretratezza, e invece rappresentano il futuro.

In particolare, la gran parte delle zone interne che non sono state inquinate, che hanno vissuto solo marginalmente l’impatto della chimica sui terreni agricoli, potrebbero uscire dall’abbandono ed essere valorizzate, offrendo prodotti agricoli di prima qualità, con l’utilizzo anche di semi antichi e piante da frutto autoctone, uscendo dalla omologazione attuale dell’offerta di ortaggi e frutta standardizzata.

In questa direzione sarebbe opportuno varare una seconda Riforma Agraria in chiave ecologica, che consenta di mettere a frutto i terreni abbandonati che rappresentano una parte rilevante delle aree collinari, con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero anche sul piano idrogeologico. Siamo di fronte ad un bivio. Se non prendiamo adesso la strada giusta non avremo un’altra opportunità.

da “il Quotidiano del Sud” del 27 ottobre 2021
Foto di Fabio Grandis da Pixabay

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Giuseppe Smorto non ha mai lasciato nel cuore e nella mente la Calabria dove è nato in riva allo Stretto, mentre una nave affondava per una bomba sganciata dagli anglo-americani durante la seconda guerra mondiale. Ogni anno è tornato nella punta della penisola in tutte le feste comandate e durante le vacanze estive. Ma, soprattutto, ha sempre cercato di valorizzare il meglio della sua terra, contrastando una immagine stereotipata della Calabria che la riduce a questione criminale.

A CONCLUSIONE della sua lunga e brillante carriera a Repubblica ha scritto un libro A Sud del Sud (Zolfo, pp. 176, euro 16), un viaggio dentro la Calabria tra i «diavoli e i resistenti». Un viaggio che ha il respiro del «rap», un ritmo incalzante, che ti stordisce, che ti porta in giro dalla costa alle zone di montagna più impervie, che ti fa entrare in luoghi che mai avresti immaginato che esistessero. Un giornalismo di inchiesta come non si vedeva da tempo, soprattutto non si vedeva per quest’area dell’estremo Sud.

In ventuno capitoli, partendo dalla Locride, il viaggio di Smorto tra «la perduta gente» (come recitava un saggio di Umberto Zanotti Bianco) si imbatte nei nuovi partigiani di una Calabria che resiste, senza girarsi dall’altra parte, senza nascondere sotto il tappeto le violenze criminali agli umani e alla natura, lo scempio urbano e il degrado sociale e culturale.

È LA NOVITÀ di questo viaggio-inchiesta. Finora i libri sulla Calabria, ma anche sul Mezzogiorno, hanno seguito due filoni: quello della ’ndrangheta in tutte le sue sfaccettature compresa l’anti-ndrangheta, o quello dell’esaltazione di una natura selvaggia, di una Calabria esotica che sostituisce i viaggi nei paesi del Sud del mondo al tempo della pandemia. In questo libro si passa dal resoconto puntuale del processo al boss dei boss, Luigi Mancuso, «il Supremo», il «Comandante», all’esperienza di Riace, borgo rinato con una politica dell’accoglienza che ne ha fatto un caso internazionale (e oggi anche giudiziario).

DALLA DENUNCIA puntuale dei rifiuti tossici disseminati tra montagne, colline e mare, allo stupore di fronte al Centro di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, promosso dal dottore Lino Caserta, o al plauso per «Comunità competente» di Rubens Curia, il medico che ha messo insieme più di settanta associazioni/cooperative che si occupano della salute delle persone e con la loro pressione, costanza, determinazione, sono riusciti a ottenere grandi e piccoli successi nelle Asp, macchine burocratiche e spesso inquinate dal malaffare.

Dalle eccellenze dell’Università della Calabria, vero fiore all’occhiello che dimostra quanto si potrebbe fare anche in una terra marginale e isolata, alla violenza che subiscono tanti giornalisti coraggiosi e sconosciuti all’opinione pubblica nazionale.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2021

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

«Fear of the walking dead» recita il titolo di una nota serie televisiva. Bene si adatta all’autonomia differenziata, che dovrebbe a buona ragione essere defunta, e invece cammina ancora tra noi. Lo testimonia l’inserimento tra i collegati al bilancio del disegno di legge attuativo dell’art. 116.3 della Costituzione, fatto con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF).

Con il danno collaterale di una probabile sottrazione al referendum abrogativo, per il limite delle leggi di bilancio di cui all’art. 75 della Costituzione. Intendiamoci. L’inserimento di per sé non dà certezze quanto ai tempi o all’approvazione. Molti collegati non hanno poi visto la luce. Ma qui abbiamo due dati significativi.

Il primo, è che in una originaria stesura dell’elenco dei collegati il ddl sull’autonomia differenziata non era presente, ed è poi comparso nella versione definitiva, al primo posto. Questo ci dice di una pressione politica per l’inserimento che non ha trovato opposizioni significative.

Il secondo, che il ddl si inserisce nella dialettica interna alla maggioranza, e specificamente nel tormentone del dualismo Lega di lotta e di governo. Per cui il ddl può essere visto o come offa per la Lega di governo vicina a Draghi (i Fedriga, Zaia, Giorgetti) o come ciambella di salvataggio per Salvini mentre affonda – come indica il voto amministrativo – il suo disegno nazional-sovranista. O entrambe le cose. Ci stupirebbe se l’autonomia non entrasse nell’agenda degli annunciati appuntamenti settimanali di Salvini con il premier Draghi.

Ma era giusto ritenere l’autonomia differenziata defunta, o almeno caduta in catalessi? Ragionevolmente, sì. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli. Per il diritto alla salute, il regionalismo ha nei fatti distrutto il sistema sanitario nazionale, come bene afferma da ultimo l’Anaao-Assomed.

Per l’istruzione, la pressione della pandemia ha aggravato il ritardo già pesante che lede i diritti degli studenti di tutte le età in un terzo del paese. In molteplici settori si è evidenziata la necessità di forti politiche pubbliche nazionali e di regole volte a ridurre il divario Nord-Sud secondo le indicazioni dell’Europa. Mentre i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non sono nemmeno giunti alla pista di lancio.

Invece, vengono segnali negativi sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Le polemiche sulle risorse “territorializzabili”, l’aggiunta ai fondi europei di quelli per la coesione già destinati al Sud, il “repackaging” di vecchi progetti, i bandi che aprono alle zone forti del paese come quello sugli asili nido, la comparativa debolezza delle amministrazioni meridionali, la mancanza di una chiara strategia su punti nodali come i porti, la logistica e la manifattura, prefigurano una mera riparazione dei danni da Covid e un ripristino delle preesistenze.

L’intento di costruire un paese nuovo e diverso rischia di dissolversi. Capiamo che il momento favorisce ciò che fa ripartire subito il PIL. Ma se solo questa è la logica, l’esito è concentrare le risorse sulle aree forti del paese, dove il rendimento a breve termine degli investimenti può essere presentato come maggiore, più agevole e certo. E dove, non a caso, il lobbying su chi decide è più efficace.

È bene che i governatori del Sud protestino perché mancano 7 miliardi, ed è scontata la difesa di ufficio di Giovannini sul 40% per il Sud. La questione del quantum, però, è più complessa, e si aggiunge ad altre. In specie, l’autonomia differenziata si scontra con gli obiettivi di rilancio del paese tutto assegnati a parole al PNRR. I governatori dovrebbero pretendere di vedere le carte tuttora nascoste, farle valutare da studiosi ed esperti indipendenti, e cercare sinergie da far valere nelle sedi di concertazione. Proprio in quelle il Sud negli anni è stato colpito e affondato, per colpa dei suoi ignavi governanti e per dolo degli altri.

Lasciamo perdere la favola menzognera che l’autonomia differenziata conviene al Sud come al Nord. Mettiamo la questione almeno in standby per il tempo del PNRR, e vediamo quale paese viene dall’attuazione del Piano. Diversamente, il rischio è una collisione che spinge il Sud tra i walking dead. Per essere poi seguito dal paese tutto, che rimane nella stagnazione.

da “il Manifesto” del 9 ottobre 2021

Perché siamo solidali con Mimmo Lucano, il fuorilegge.-di Gaetano Lamanna

Perché siamo solidali con Mimmo Lucano, il fuorilegge.-di Gaetano Lamanna

Trattato come un delinquente. Prima del processo aveva subito un provvedimento di allontanamento da Riace. Non poteva rientrare nel suo paese nemmeno per fare visita al padre vecchio e malato. Considerato peggio di un mafioso. Si dà il caso, però, che Mimmo Lucano non sia un mafioso, ma un cittadino onesto, buono e generoso. Una testa dura, come tante in Calabria. Ci troviamo di fronte ad una contraddizione clamorosa tra legge e giustizia. Non sempre la legge va d’accordo con la giustizia. Spesso per fare o avere giustizia si deve cambiare una legge. È stato fatto tante volte. Ma è un processo lungo e laborioso. Richiede a volte battaglie, movimenti, petizioni popolari, referendum, prima che il parlamento si decida a cambiare una legge ingiusta o a promuovere dei diritti.

È stato così per lo Statuto dei lavoratori. È così per lo ius soli. È stato così per il delitto d’onore, per l’aborto, per il divorzio, e tanti altri esempi si potrebbero fare. Il diritto, che sta alla base della legge, si evolve, segue la storia, si aggiorna in base ai mutamenti storici e politici. Al tempo dei greci e dei romani, la schiavitù non era illegale. Nel medioevo i privilegi feudali e la servitù della gleba erano legali. Il diritto non è neutro.

Il più delle volte si limita a codificare norme, convenzioni, costumi, già in uso. Trasforma in legge lo status quo. In genere prende atto dei rapporti di potere. Con la rivoluzione francese la borghesia nascente rovescia il vecchio mondo feudale, plasmato a misura dell’aristocrazia, stretto da vincoli, privilegi e regole che impedivano l’accumulazione del capitale, il libero mercato e lo sviluppo industriale. Per andare a tempi più recenti, durante i governi a guida Berlusconi abbiamo visto anche leggi ad personam, reati declassati o spariti dal codice da un giorno all’altro.

Il diritto, dunque, è stato sempre modellato sulla base degli interessi della/e classe/i al potere. È la storia. Fuori della storia e del buon senso sono i giudici di Locri. Per fare funzionare il modello Riace, un modello di accoglienza e di inclusione studiato in tutto il mondo, Mimmo Lucano ha dovuto infrangere leggi vecchie e inadeguate. Come quella, ad esempio, che non dà diritto ai bimbi che nascono e studiano in Italia di avere la cittadinanza. O come quella che nega la casa popolare, il diritto ad un alloggio agli immigrati regolari che sono residenti in Italia da meno di 10 anni. Mimmo Lucano si è inventato il lavoro, ha messo in movimento un’economia asfittica.

E per fare questo ha dovuto inventarsi perfino una moneta alternativa. Un modo che permettesse ai nuovi arrivati di vestirsi e di mangiare, fino a quando il ministero dell’Interno, guidato allora da Marco Minniti ( e poi da Salvini), non si fosse degnato di trasferire un po’ di soldi per pagare i fornitori. A Riace case, botteghe artigiane, negozi, avevano riaperto i battenti. Il paese si era ripopolato, ritornando a nuova vita, al contrario di tanti paesi morti della Calabria.
Ai coccodrilli che piangono per i borghi abbandonati, il sindaco di Riace aveva mostrato una via concreta per la rinascita.

Un’alternativa allo spopolamento e all’abbandono dei villaggi. Dopo la rottura del latifondo e la riforma agraria, la Calabria è entrata nella modernità pagando un prezzo altissimo in termini di emigrazione. Ha fornito braccia a buon mercato allo sviluppo industriale del Nord e dell’Europa. Ha distrutto un artigianato fiorente che non ha retto l’urto del mercato dei prodotti industriali. Anche molti che avevano beneficiato della riforma agraria hanno abbandonato le campagne per lo scarso sostegno pubblico, indirizzato soprattutto ad agevolare l’attività edilizia e commerciale, oltre che posti di lavoro nella pubblica amministrazione.

La Calabria diventa terra di consumo. Si sviluppa un’economia dipendente e funzionale alla crescita economica delle regioni centro-settentrionali. Con un ceto politico attento solo ad intercettare i flussi di spesa pubblica e a gestire affari e malaffari. In questo contesto non c’è posto per la Calabria dei villaggi, per le comunità rurali, collinari e montane.

Mimmo Lucano ci ha fatto intravedere (in una piccola realtà) un’alternativa possibile, un modo innovativo e solidale per far rinascere i nostri borghi. Scontrandosi con l’ottusità della burocrazia e con politici attenti al loro tornaconto personale. Nel frattempo, Marco Minniti, dopo avere avuto tutto (e di più) dal suo partito, si è seduto sul comodo treno della Fondazione Leonardo. Mimmo, invece, se l’è dovuta vedere con magistrati che invece di perseguire l’illegalità mafiosa hanno acceso i riflettori sui suoi reati. Commessi con la convinzione di fare del bene. Era l’unico modo per salvare vite, per fare andare avanti una vera integrazione, per sbloccare situazioni impigliate nei meandri della burocrazia e o ritardate da leggi inadeguate.

Mimmo Lucano è un «fuorilegge», ha agito in difformità di leggi ingiuste o sbagliate che non gli permettevano di agire a favore degli immigrati e degli abitanti di Riace. Non è certo un ladro o un criminale, come ce ne sono tanti anche in doppio petto. Questa condanna è una vergogna. Una grave ingiustizia. Chi non accetta le ingiustizie e si batte per il cambiamento non ha che schierarsi con lui, mostrando che non è solo e isolato, ma un punto di riferimento. Il voto del 3-4 ottobre è l’occasione. È il modo per esprimergli, non solo a parole, solidarietà.

da “il Manifesto” del 3 ottobre 2021

Mimmo Lucano colpevole di reato di umanità.-di Tonino Perna

Mimmo Lucano colpevole di reato di umanità.-di Tonino Perna

La sentenza del tribunale di Locri, che condanna Mimmo Lucano alla pena di 13 anni e due mesi, lascia esterrefatti, indignati, increduli. Quella parte del nostro paese che ancora crede nella democrazia e nell’amministrazione della giustizia ne resta sconcertata.

Se la richiesta del Pubblico ministero, di una pena di 7 anni, già sembrava una mostruosità, con questa sentenza il giudice ha giocato al raddoppio andando al di là di ogni possibile appiglio giuridico.

Conosco Mimmo Lucano dall’autunno del ’98 quando venne a Badolato, dove il Cric (una Ong molto attiva in quel periodo) aveva realizzato il primo progetto di accoglienza degli immigrati, con la finalità di far rinascere un borgo antico abbandonato.

Mimmo con la semplicità e spontaneità che lo ha sempre contraddistinto ci disse che voleva fare la stessa cosa nella sua Riace: «Mi date una mano?». Così nacque il progetto-Riace, grazie ad un prestito importante di Banca Etica e, soprattutto, alla solidarietà di decine di associazioni, italiane e straniere, a partire dalla comunità anarchica di Longo mai che oltre all’aiuto in denaro organizzò un flusso di centinaia di turisti solidali.

Per non parlare di Recosol, la rete del Comuni Solidali che per quasi vent’anni ha sostenuto in tanti modi questa esperienza, diventata un progetto collettivo.

Mimmo Lucano ne rappresenta l’icona, avendogli dedicato tutta la sua vita da adulto, fino a rinunciare alla propria famiglia per occuparsi dell’accoglienza dei migranti. Colpirlo in questo modo significa colpire il modello Riace, conosciuto in tutto il mondo come simbolo concreto e veicolo formidabile di un’altra immagine della Calabria e dell’Italia, capace di dimostrare l’esistenza di una alternativa reale alle baraccopoli, ai ghetti, alle politiche di respingimento di esseri umani che chiedono solo di poter vivere con dignità.

Non solo. Il modello Riace, per fortuna ripreso da diversi comuni calabresi e di altre regioni, è stata e resta la strada maestra per il recupero delle aree interne abbandonate e degradate, offrendo una risposta efficace ai rischi ambientali di smottamenti, frane, alluvioni, in gran parte dovuti proprio a questo drammatico, progressivo abbandono di territori vasti e preziosi per il futuro sostenibile del paese.

Ma, cosa ha fatto di così grave Lucano per meritare una pena che viene comminata ad assassini incalliti, a mafiosi, a trafficanti internazionali di droghe, a stupratori seriali, a terroristi? L’ex sindaco di Riace viene accusato di favoreggiamento di immigrazione clandestina per aver consigliato ad una donna immigrata, disperata perché stava per essere respinta nel suo paese, di sposare un uomo anziano.

Chi di noi in queste circostanze non si sarebbe sentito di suggerirlo come stremo rimedio? E in ogni caso, se è un reato celebrare un matrimonio tra una giovane donna immigrata e un anziano italiano allora annulliamo migliaia di matrimoni e arrestiamoli tutti.

L’altra pesante e incredibile accusa che gli viene contestata è quella di clientelismo a fini elettorali, di truffa, peculato e abuso d’ufficio, ma non un euro gli è stato trovato nelle sue tasche, né esiste alcuna prova che si sia appropriato di denaro pubblico in qualche modo.

La verità, scomoda, molto scomoda, è una sola: Lucano è accusato di «reato d’umanità» per aver accolto decine di migliaia di immigrati, che la Prefettura gli inviava come ultima spiaggia. Per aver cercato di farli lavorare dignitosamente, per aver fatto rinascere un paese totalmente abbandonato, Lucano è diventato un dei più pericolosi delinquenti in circolazione.

Le sue lacune amministrative, l’avere poca dimestichezza con le regole burocratiche gli hanno fatto commettere errori amministrativi, dove tuttavia non c’è dolo, appropriazione di denaro, tangenti o associazioni a delinquere, ma solo ingenuità, superficialità e, se vogliamo, faciloneria di chi non sopporta i vincoli della nostra farraginosa burocrazia.

Con questa sentenza il tribunale di Locri inserisce, di fatto se non di diritto, il «reato d’umanità» nel panorama giuridico del nostro paese, creando un precedente inquietante. È un ennesimo segnale che ci mostra la crisi profonda che attraversa la nostra magistratura, e quindi le istituzioni democratiche. Ne prendiamo atto, ma non ci arrendiamo perché non vogliamo finire nella terra di Erdogan.

E per salvare la nostra democrazia e la nostra stessa società, già oggi si terrà una manifestazione a Riace in suo sostegno. Naturalmente non ci fermeremo qui, puntando sul fatto che in Appello si possa smontare questa sentenza incredibilmente iniqua.

da “il Manifesto” del 1 ottobre 2021

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Col garbo e la finezza argomentativa che lo contraddistinguono, Agazio Loiero polemizza con me su questo giornale( 26/9 ) perché io, in quanto intellettuale, e dunque dotato di ampie capacità di valutazione e di giudizio, sostengo la candidatura di Luigi de Magistris a presidente della Regione Calabria.

Cercherò perciò di esporre le ragioni per cui, proprio in virtù delle doti che lui mi attribuisce, io sostengo convintamente questa candidatura.Non senza aver espresso tuttavia, preliminarmente, il disagio di una discussione così impostata, che mi pone in una posizione di “avvocatura” nei confronti di una singola persona, quando noi, a pochi giorni dal voto, dovremmo parlare dei drammatici nodi che strangolano la regione, di programmi di riforma, di prospettive possibili per le nuove generazioni.

Ma questo è lo stato degenerato della democrazia e della vita politica in Italia. Si discute solo di uomini, di alleanze, di posizionamenti, di gruppi, cioé solo di potere, di ceto politico: i cittadini, le masse lavoratrici, le loro condizioni, sfuggono al radar di ogni considerazione.

Loiero muove critica a due apetti e momenti dell’eperienza pubblica di de Magistris: in quanto magistrato, che ha operato in Calabria per alcuni anni e in quanto sindaco di Napoli, dove non avrebbe combinato granché. Da magistrato avrebbe condotto “molte inchieste quasi tutte senza successo”; e soprattutto ha inviato avvisi di garanzia a personaggi pubblici – Prodi, Mastella, lo stello Loiero – che non avrebbero poi condotto ad alcuna condanna giudiziaria. Ma, osserva Loiero, mettere sotto accusa i potenti offre a un magistrato una visibilità mediatica enorme.

Una possibilità che de Magistris ha sfruttato a piene mani. Questo dimostrerebbe che l’attuale sindaco di Napoli sarebbe “l’archetipo di una Italia guappa e furba in cui la demagogia si coniuga con il diffuso populismo”.

Non è possibile, in un breve articolo, entrare nel merito di complicate vicende giudiziarie (ammesso di possedere le conoscenze necessarie per farlo) e io posso anche concedere ad Agazio, nel merito, qualche imprudenza, errore ed avventatezza del magistrato de Magistris, allora trentenne. Ma sotto il profilo politico io traggo conseguenze opposte. Un magistrato che punta a indagare sui potenti è un uomo coraggioso, che in un paese come l’Italia rischia di rompersi l’osso del collo, di compromettere per sempre la propria carriera.

Qui non si tratta di guapperia, caso mai di temerarietà e in una regione come la Calabria, segnata da tanta corruzione e malavita, un presidente intransigente sul piano della legalità è quanto mai necessario. A de Magistris non chiediamo di tornare a fare il magistrato, ma di governare la regione.

Su un punto devo dare ragione ad Agazio, là dove affermo che il sindaco di Napoli è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro l’autonomia differenziata. Intendevo una figura con carica istituzionale nel momento delle trattative del 2019. Loiero è stato in effetti uno dei pochissimi dirigenti italiani a schierarsi contro la Lega, in difesa del Sud, anche con pubblicazioni, già in anni precedenti. E veniamo al sindaco de Magistris.

Davvero non si comprende la taccia di populismo che gli viene inflitta. Perché non partecipa ai giochi dei gruppi e gruppetti annidati nei partiti politici? Napoli è stata l’unica grande città d’Italia che ha reso pubblica l’acqua, abbasandone anche il prezzo, rispettando il risultato del refenendum istituzionale del 2011, dunque ottemperando a un dettato della Costituzione. Gli altri partiti politici, a cominciare dal PD, hanno sistematicamente sabotato la volontà popolare.

A Napoli de Magistris ha risolto l’umiliante problema dei rifiuti, che in certe zone della città si innalzavano sino ai primi piani dei palazzi, e lo ha fatto con pochissimi mezzi finanziari e con un rafforzamento della macchina amministrativa pubblica, contro un andazzo neoliberista che faceva prosperare la criminalità. Ha tolto il servizio di raccolta e smaltimento alle società private che si spartivano la torta, e lo affidato all’azienda comunale Asìa.

Tramite la creazione di 10 isole ecologiche, una per ogni municipalità, e cinque itineranti (per raccogliere mobili ed elettrodomestici che prima finivano per la strada) l’acquisto di nuovi macchinari, la creazione di una polizia ecologica, che ha sanzionato migliaia di trasgressori, l’esportazione in Olanda, Napoli ha raggiunto il 40% della raccolta differenziata.Oggi in quasi tutti i quartieri è diffusa la raccolta porta a porta e le tariffe TARI sono fra le più basse d’Italia.
C’è stata una importante iniziativa del sindaco, che ha avuto esiti importanti per la città, ma anche effetti negativi sulla sua immagine di uomo politico. Si è trattato di una scelta politica di legalità e profondamente antineoliberista: de Magistris ha ricondotto all’interno della macchina comunale, cioé del potere pubblico, la gestione del patrimomio immobiliare di Napoli, prima affidato all’imperenditore Romeo, finito in alcune inchieste giudiziarie.

E’ stato un gesto che solo un politico di grande coraggio come de Magistris poteva compiere, gli altri sindaci non avevano osato.Perché Romeo, membro di un potentissimo gruppo finanziario, è da lunga data amico della famiglia Caltagirone, patron del Mattino di Napoli, il più diffuso e infuente quotidiano della città. Da allora quel giornale ha iniziato una vera e propria guerra diffamatoria contro De Magistris, a cui si è associata anche La Repubblica locale, che sostiene il PD, nemico giurato del sindaco, il quale fa politiche “populiste”, cioé non viene realisticamente a patti con i potenti. Gran parte dell’immagine pubblica che abbiamo del politico De Magistris viene costruita da questi giornali e dalla TV regionale, che ubbidisce agli stessi orientamenti.

E’ dunque naturale che si sappia poco di quel che egli ha realizzato a Napoli. Ad es. non si sa dei miglioramenti i apportati al sistema del traffico cittadino, con la trasformazione di quasi tutti gli incroci in rotonde, il rifacimento di centinaia di km di strade, la pedonalizzazione di gran parte del lungomare di via Caracciolo, l’incremento del trasporto pubblico con l’acquisto di 150 nuovi autobus (rinnovando una flotta risalente al più agli anni ’90), l’apertura di 5 nuove stazioni della Metro. Tutto accompagnato dal risanamento dell’azienda pubblica di trasporto, l’ANM, il cui bilancio è ritornato in attivo. Niente male per una amministrazione penalizzata da un debito accumulato dal terremoto dell’80.

Io potrei qui dilungarmi con un lungo elenco di realizzazioni che farebbero impallidire il bilancio di molti sindaci italiani. Potrei rammentare la rigenerazione del quartiere Sanità, la “riconquista” dei Quartieri Spagnoli, un tempo luoghi pericolosi, oggi pullulanti di osterie e bar, affrescati da murales giganteschi noti in tutto il mondo. Potrei ricordare gli investimenti in verde grazie all’apertura di tanti parchi, in centro come in periferia.

Potrei rammentare i tratti di spiaggia un tempo privatizzati e riconsegnati ai cittadini, i monumenti ristrutturati, i centri culturali aperti, in centro e nelle aree degradate.Ma vorrei ricordare, che il sindaco ha inaugurato una politica di ascolto dei cittadini e dei loro diritti. Napoli è stata la prima città d’Italia a dotarsi di un registro delle unioni civili, che ha permesso il riconoscimento legale a coppie dello stesso sesso e ai loro figli, anche adottivi, esempio poi seguito anche da altre città.

Almeno questo dovrebbe bastare per fare di de Magistris un candidato degno di governare la Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 settembre 2021

Luigi, il napoletano.- di Pino Ippolito Armino

Luigi, il napoletano.- di Pino Ippolito Armino

“Che faccia tosta Luigi De Magistris! Non lo vogliono a Napoli e se ne viene in Calabria”. De Magistris è stato eletto per la prima volta sindaco di Napoli nel 2011. Al primo turno aveva avuto 128.303 preferenze e al ballottaggio ha superato l’avversario di centro-destra, Giovanni Lettieri, con il 65,38% dei suffragi. Si è ricandidato a sindaco nel 2016 e ha preso al primo turno oltre quarantamila voti in più della tornata elettorale precedente (172.710).

Ha poi nuovamente battuto Lettieri al ballottaggio ma con un margine superiore di quello del 2011 (66,85%). Non pare, dunque, che sia così sgradito ai napoletani e che, almeno, il primo mandato non sia stato apprezzato. Certo, non sappiamo cosa pensano i napoletani del secondo mandato ma, come è noto, la legge elettorale non consente la candidatura a sindaco per più di due volte consecutive.

“Che faccia tosta Luigi De Magistris! Non ha saputo affrontare la questione rifiuti a Napoli e viene qui in Calabria dove affoghiamo nella spazzatura”. La città metropolitana di Napoli ha una densità di 2.560 ab/Kmq, la più alta in Italia e una delle più alte al mondo; Reggio Calabria ha una densità per abitante (164 ab/Kmq) che è un quindicesimo di quella napoletana. È del tutto evidente che la complessità del problema rifiuti è direttamente e positivamente correlata alla densità abitativa; nondimeno Napoli appare oggi assai più pulita che Reggio, la città più sporca della Calabria. Non è solo un’apparenza.

Napoli produce circa un milione e mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno e ne differenzia il 47,05%; Reggio produce poco più che duecentomila tonnellate differenziandone il 36,34%, 10 punti in meno di Napoli (Ispra – Catasto nazionale rifiuti).

In vero la contestazione più ricorrente che viene fatta a De Magistris è di non essere calabrese, di essere napoletano. Sembra farlo, e spiace davvero, anche Jasmine Cristallo, leader delle Sardine calabresi, in una recente intervista a un quotidiano (Domani, 23 agosto 2021) quando dice “Voglio vedere se si trasferirà, se vivrà in Calabria, ma lo escludo. La mia terra è stata consegnata”.

Consegnata a un napoletano. Un argomento curioso soprattutto se a muoverlo è chi da sempre si batte contro ogni pregiudizio e sa bene che le identità tanto più sono locali, soltanto locali, tanto più sono asfittiche. La storia della Repubblica è ricca di donne e di uomini che sono stati candidati dai partiti a rappresentare in parlamento regioni diverse dalla loro provenienza. Non risulta che abbiano sempre demeritato e soprattutto se lo hanno fatto non era perché venivano da una regione diversa da quella nella quale sono risultati eletti.

Credo sia più importante sapere che Napoli è stata la prima città italiana a rispettare, con la ri-pubblicizzazione del servizio idrico, la volontà espressa da 27 milioni di elettori italiani con il referendum del giugno 2011. Ancora più importante credo non dimenticare che il sindaco De Magistris è stato, come ricorda Piero Bevilacqua (Il Quotidiano del Sud, 24 agosto 2021), l’unica figura istituzionale meridionale di rilievo che si è apertamente schierata contro l’autonomia differenziata – richiesta da Veneto e Lombardia e sostenuta dall’Emilia Romagna presieduta dal democratico Stefano Bonaccini – che, come dovremmo ormai sapere, se attuata sarebbe una catastrofe per l’intero Mezzogiorno.

Ma De Magistris, piaccia o meno, ha un’ambizione assai più grande del governo della Calabria. Questo non sarebbe che il primo tassello di un disegno che, nelle sue intenzioni, dovrebbe coinvolgere l’intero Mezzogiorno per riscattarlo dalle miserie e dall’arretratezza dell’oggi e per riconsegnarlo all’Italia e all’Europa nel posto che gli spetta per la sua antichissima storia di civiltà. Che importa se è un napoletano a provare a farlo?

da “il Quotidiano del Sud” del 4 settembre 2021

Pnrr, tra Nord e Sud la disuguaglianza delle risorse.-di Massimo Villone

Pnrr, tra Nord e Sud la disuguaglianza delle risorse.-di Massimo Villone

Sulla stampa napoletana (Marco Esposito, Il Mattino, 2 settembre) leggiamo dell’assegnazione di 700 milioni in materia di materne e asili nido, da inserire nella contabilità del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In principio, la priorità era dei comuni svantaggiati, per ridurre divari territoriali e diseguaglianze in linea con le indicazioni Ue. Ma si scopre che tra i comuni «svantaggiati» compaiono alcuni tra i più ricchi del paese, che drenano risorse a danno di quelli più poveri secondo i parametri economici pur richiamati nel bando.

Come al solito, il trucco c’è, e si vede. Il bando di gara prevedeva che il cofinanziamento da parte dei comuni desse un punteggio aggiuntivo commisurato all’entità. Ed è allora ovvio che il comune ricco possa cofinanziare di più. Così, il comune di Milano vince su Venafro (provincia di Isernia), che pure lo precedeva in classifica prima del cofinanziamento. Milano batte Venafro uno a zero.

È STORIA ANTICA. Ad esempio, un meccanismo non diverso ha penalizzato le Università del Mezzogiorno nella assegnazione di risorse legate all’eccellenza perché questa è misurata tra l’altro con il tempo necessario per trovare un posto di lavoro dopo la laurea. Una competizione che gli atenei meridionali possono solo perdere, e non per proprio demerito.

Questo paese deve decidere se vuole davvero ridurre divari territoriali e diseguaglianze, oppure no. Chi a Palazzo Chigi ha scritto la clausola del cofinanziamento non poteva essere tanto stupido da non sapere. Dolo, e non colpa. Questo insegna che sull’attuazione del Pnrr è indispensabile mantenere una occhiuta vigilanza.

Tanto più che è ormai documentata – in specie da Adriano Giannola presidente Svimez – l’ingannevolezza della tesi della «locomotiva del Nord». Le statistiche dimostrano che il Nord vincente in Italia affonda nelle classifiche territoriali europee, mentre le regioni del Centro progressivamente si meridionalizzano.

LA «LOCOMOTIVA DEL NORD» ha trainato l’Italia nella stagnazione. Bisogna invece avviare il secondo motore del paese nel Sud, e a tal fine non bastano certo il turismo, la cultura e qualche eccellenza agroalimentare. Sono indispensabili un progetto lungimirante e una ferma volontà politica. In questo contesto colpiscono in specie due cose. La prima è l’esternazione di Conte sulla legge speciale per Milano, considerata la vera locomotiva d’Italia.

Non vogliamo pensare che ignori il contrasto radicale tra la locomotiva del Nord e il secondo motore da avviare nel Sud. La sua proposta è del resto opinabile anche con riferimento alla sola Lombardia e alle sue aree svantaggiate. Capiamo la sua ansia di cercare legittimazione e consensi come capo politico del Movimento 5S.

Ma la via scelta non è quella giusta, pur nel contesto della competizione amministrativa in atto. In prospettiva, servirà poco a M5S racimolare qualche stentato consenso in più nell’arco del Nord, dove è in una condizione di comparativa debolezza. La seconda è la ripartenza del circo dell’autonomia differenziata. È anzitutto censurabile che la ministra Gelmini riprenda la prassi dell’occultamento targata Stefani. Le rumorose rimostranze di Zaia riportate in specie dalla stampa locale ci dicono dell’esistenza di bozze di accordo. Diversamente, di cosa si lamenta? Ma sono tenute, per quel che sappiamo, coperte, e dovremo aspettare qualche meritoria gola profonda che le renda pubbliche.

VOGLIAMO SAPERE su cosa si sta trattando, in che termini, e con chi. Come si vuole modificare la legge quadro già di Boccia? Quali conclusioni ha raggiunto la commissione istituita dalla ministra? È vero o no che Zaia non vuole assolutamente che il Parlamento metta mano sugli accordi raggiunti tra le singole regioni e Palazzo Chigi? È vero o no che si vuole attivare il federalismo fiscale – che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse – prima del 2026, e quindi senza sapere quale paese uscirà dal Pnrr?

Quel che accade non è degno di un paese democratico. Ci aspettiamo che i parlamentari delle commissioni competenti – affari costituzionali, finanze, bilancio, bicamerali per le questioni regionali e il federalismo fiscale – pretendano di vedere le carte e di discutere. O forse preferiscono vivacchiare, magari sperando che alla fine arrivi la mordacchia di una questione di fiducia? Sarebbe allora difficile contrastare l’opinione di non pochi che gli eletti siano solo dei costosi mangiapane a ufo.

da “il Manifesto” del 3 settembre 2021

Regionalismo, luci e ombre.- di Gaetano Lamanna

Regionalismo, luci e ombre.- di Gaetano Lamanna

Regioni 50 anni di fallimenti scritto da Franco Ambrogio con Filippo Veltri (Rubbettino editore, 2021) è un libro di grande attualità. Ci offre l’occasione di discutere della crisi calabrese e delle sue origini. Una crisi strutturale, non solo economica e sociale, ma anche politica, istituzionale, morale, di classe dirigente. Ambrogio è lapidario: «si è realizzato un nuovo centralismo inefficiente». Argomenta che al centralismo di Roma si è aggiunto quello di Catanzaro. Inefficienza su inefficienza. E aggiunge: «La delega agli enti locali rimane nel cassetto […] La Regione non è stata strumento di allargamento e rafforzamento della democrazia».

Ce ne siamo accorti tutti in questi due anni di grave emergenza sanitaria. E ce ne accorgiamo ogni giorno, di fronte all’incendio dei nostri boschi, una delle tante declinazioni di un malgoverno che riguarda la gestione del territorio. Devastato prima tutto dall’incuria e dall’incapacità di poteri pubblici collusi con la criminalità mafiosa Chi governa la regione o ambisce a governarla è poi del tutto silente rispetto all’attuazione del Pnrr e alla vexata quaestio dell’autonomia differenziata, cioè rispetto a scelte politiche e istituzionali destinate ad avere un peso determinante sullo sviluppo economico, sull’evoluzione delle disuguaglianze sociali e territoriali, sull’assetto e la tenuta della democrazia.

Una cosa è certa. Dopo 50 anni, in Calabria pochi credono in un ruolo positivo, di cambiamento e di sviluppo, dell’ente regione. Il fatto che alle elezioni di due anni fa abbia votato meno del 45 per cento degli aventi diritto la dice lunga sui sentimenti dei calabresi verso questa istituzione. Concordo dunque pienamente con la valutazione degli autori sul fatto che l’esperienza regionalista ha indebolito le ragioni del meridionalismo. Dagli anni 80 in poi la propaganda leghista ha diffuso un’immagine delle regioni meridionali condannate all’inefficienza e all’assistenzialismo e perdute irrimediabilmente alla causa dello sviluppo.

C’è da dire che il senso comune, diffuso tra le popolazioni settentrionali, di un Sud come «palla al piede» è avvenuto anche per la cattiva prova degli amministratori regionali e per l’abbandono, da parte degli eredi del Pci e della Dc, di un pensiero politico che aveva proprio nel meridionalismo una delle sue radici più forti. La questione meridionale diventa un problema di «coesione sociale e territoriale», viene declassata a ritardi di sviluppo da recuperare facendo leva sulle «eccellenze». Come se alcune oasi felici potessero invertire la tendenza del deserto che avanza.

In linea col pensiero liberista dominante, il Pds e a seguire i Ds e il Pd abbandonano di fatto la tradizione meridionalista e abbracciano acriticamente la «questione settentrionale». Mi pare che questo mutamento d’approccio, culturale e politico, che ha molto influito sulla vita delle autonomie regionali, non risalti come avrebbe meritato, nella conversazione tra Ambrogio e Veltri. I divari e le disuguaglianze sociali e territoriali tra Nord e Sud, a 50 anni dall’istituzione delle Regioni, sono cresciuti per una politica con una forte impronta liberista, attenta al profitto d’impresa, che si è presa cura delle aree forti a scapito di quelle deboli. Tanto la «mano invisibile» del mercato avrebbe provveduto a mettere le cose a posto. Una convinzione miope, che stiamo pagando a caro prezzo e che non poteva non avere come conseguenza politica la famigerata «autonomia differenziata».

I limiti e le difficoltà del regionalismo nel Mezzogiorno andrebbero indagati, a mio avviso, anche in un’altra direzione. Ambrogio sottolinea giustamente che gli uffici regionali si sono gonfiati, in questi 50 anni, di personale poco qualificato (di norma), con assunzioni basate poco sul merito e molto, invece, sulla logica clientelare. Mano a mano che venivano trasferiti poteri e competenze statali alle Regioni, anziché emanare provvedimenti di delega agli enti locali, in Calabria e nelle altre regioni del Sud, si rafforzavano le funzioni gestionali, creando un corto circuito tra l’aumento delle cose da fare (e dei soldi da spendere) e la lentezza e l’inefficienza dell’apparato burocratico. Sta qui una delle cause principali dell’aumento del divario Nord-Sud, particolarmente marcato negli ultimi vent’anni. Sono peggiorati tutti gli indicatori riguardanti i servizi pubblici, la qualità della vita, gli investimenti produttivi e infrastrutturali. Per non parlare, degli sprechi, della corruzione, delle infiltrazioni mafiose.

Un po’ di storia ci aiuta a capire meglio alcune dinamiche politiche ed economiche. Prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, la gestione della cosa pubblica era essenzialmente garantita dai comuni, dalle province e dagli enti periferici dello Stato. Con una variante significativa nel Mezzogiorno, che è stata, dagli inizi degli anni ’50, la Cassa del Mezzogiorno. Il ricorso all’intervento “straordinario” ha segnato la vita e il funzionamento del sistema istituzionale e politico meridionale L’uniformità ordinamentale si piegava, nelle intenzioni del legislatore, all’esigenza di rispondere alla peculiarità economica, sociale e culturale delle regioni meridionali.

Al dualismo economico si accompagna, dunque, una sorta di dualismo istituzionale, che ha avuto un peso rilevante. Mentre nelle aree del Nord gli interventi erano regolati sulla base di una distinzione fondamentale tra obiettivi d’interesse nazionale e quelli di scala locale, in quelle del Sud, invece, soprattutto a partire dall’istituzione della Cassa del Mezzogiorno (1950), vi è la contestuale presenza di una pluralità di soggetti pubblici operanti nel medesimo ambito territoriale, e a volte nell’ambito delle stesse materie. Inoltre le risorse necessarie derivavano dalla finanza centrale e il loro controllo dipendeva essenzialmente dagli “enti speciali”.

Si è molto discusso se la Cassa del Mezzogiorno abbia o meno contribuito a ridurre il divario economico tra Nord e Sud. Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che il gap ha interessato non solo la sfera economica, ma anche la struttura istituzionale, quella amministrativa e quella, da non sottovalutare, degli interessi privato-collettivi (imprese, sindacato, associazionismo). Il giudizio sostanzialmente positivo, oggi in voga, sull’intervento straordinario non tiene conto del fatto che questo modello di governo ha depotenziato di fatto l’amministrazione ordinaria. Ha contribuito a dequalificarne gli apparati, ha determinato la cronica inefficienza dei servizi, e anche il degrado politico e morale che avvolge il settore pubblico. Tutto questo è, in grande misura, il riflesso dell’intervento straordinario, da molti ancora invocato come panacea di tutti i mali.

L’amministrazione ordinaria, insomma, quella che nel resto del paese è preposta al governo regionale e locale, in Calabria ha perso autorevolezza ed efficienza. E’ relegata a un ruolo subordinato, di «ancella» esecutiva del sistema di potere politico-affaristico-mafioso. La lunga transizione dalla “straordinarietà” alla “ordinarietà” dell’intervento pubblico non si è ancora conclusa e rischia di riaprirsi con la gestione del Pnrr.

L’esperienza regionalista non è stata pari alle aspettative. Non ha determinato quel salto di qualità auspicato nella politica di programmazione e nell’efficienza ed efficacia dell’amministrazione. Non ha rappresentato il punto di svolta in un percorso di autonomia politica, progettuale e finanziaria per le diverse aree del Sud. E’ prevalsa una logica di sovrapposizione di competenze tra Stato e Regione che ha prodotto una crescita della spesa pubblica e improduttiva.

Per lunghi decenni, dal 1970 in poi, la finanza regionale, totalmente derivata dal centro, ha permesso una larga autonomia di spesa senza alcuna autonomia di entrata, generando una totale deresponsabilizzazione degli amministratori e degli apparati dirigenziali delle Regioni sia sul fronte del reperimento delle risorse finanziarie (garantite dai trasferimenti erariali e dai fondi strutturali europei) sia riguardo alla gestione oculata delle stesse. Per il Mezzogiorno e la Calabria, dunque, la Regione è stata un nuovo grande centro di spesa pubblica, che, per le sue caratteristiche, ha accentuato la tradizionale “dipendenza” economica.

Lo strutturale “ritardo di sviluppo” è il frutto della crisi politica e istituzionale. La regressione culturale, il degrado della vita pubblica, l’avanzata incessante della criminalità mafiosa trovano una spiegazione nel ruolo “minimo” dei partiti, in quello che sono diventati.

Nel colloquio di Franco Ambrogio con Filippo Veltri ci sono molte verità e sono presenti molte critiche. Ma, accanto ad alcune omissioni che ho segnalato, ho colto una certa reticenza politica. Se si vuole invertire la tendenza auto-distruttiva della sinistra bisogna affermare un’idea della politica non già come presidio della stanza dei bottoni e nemmeno solo come buona amministrazione, che dovrebbero essere sempre i presupposti di chi si occupa della cosa pubblica.

La politica è innanzitutto radicamento territoriale, conflitto sociale, capacità di leggere e interpretare problemi di uomini e donne, la vicinanza a chi ha più bisogno, l’impegno nel trovare risposte immediate e concrete senza mai smarrire la prospettiva del cambiamento. Sono queste le condizioni minime perché la sinistra riacquisti forza attrattiva e diventi perno della costruzione di un più largo campo democratico e progressista. Diventerebbe anche più semplice discutere del futuro da riservare alle Regioni.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 agosto 2021

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Il mese di luglio 2021 è stato il più caldo di sempre. La crisi ambientale infatti sta aggravandosi sensibilmente. Le ondate di calore che imperversano vengono improvvisamente interrotte da burrasche e “bombe d’acqua”. Un’atmosfera sempre più “arrabbiata”(gonfiata da entropia crescente)si abbatte su territori sempre piu’ stressati e indeboliti dai conflitti dei cicli “ Calore/siccità / inaridimento vs. macroprecipitazioni”.

In Calabria, lo “Sfasciume pendulo”, ulteriormente piagato (abbiamo cementificato anche le fiumare), esaspera così gli effetti delle criminali azioni incendiarie di speculatori e ndranghetisti.
L’attuale disastro pero’ chiama in causa in primis le responsabilità delle istituzioni politiche ,nazionali e locali.

La “transizione ecologica” italiana infatti si sta rivelando sempre più una barzelletta: infatti stiamo facendo ridere tutta Europa pretendendo di attuare il Green Deal con misure di facciata: ancora cemento e consumo di suolo; e la perdurante dominanza dell’energia da fossili. Addirittura integrando il Recovery Plan, che già prevede di suo ca 30 miliardi di Euro per TAV e Grandi Opere (spacciati per mobilita’ sostenibile) con il Collegato,ovvero l’ennesimo “Sblocca cantieri”. In cui “recuperiamo” 57 megaprogetti- e 81 miliardi di euro- della “criminogena “ (definizione ANAC) legge Obiettivo di Berlusconi.

Così la “svolta ecologica “ italiana si dovrebbe realizzare con opere ad alto impatto ambientale per una quota pari a dieci volte quanto si investe per tutela e risanamento del territorio. Che invece sarebbe l’unica grande opera davvero utile e necessaria. E che in Calabria rappresenta un’urgenza assoluta.

Draghi dice in queste ore che finanzierà programmi di rimboschimento e risanamento ambientale delle aree piu’colpite da incendi. E’ bene che i relativi fondi siano gestiti senza improvvisazioni emotive o mediatiche , ma usando quegli strumenti di pianificazione già finalizzati a questo ; che non abbiamo mai attuato. Certo , affrontando subito l’emergenza , cui devono seguire progetti di adattamento ai mutamenti climatici. E quindi la riqualificazione ecopaesistica del territorio. L’unica risorsa ancora in grado di prospettare un futuro.

I guasti che ovunque, in Europa e in Italia, sono stati causati da modelli di sviluppo falliti e ipercementificazione, in Calabria e in altre aree a grande intensità criminale risultano ingigantite, amplificando autentiche catastrofi ambientali , come oggi gli incendi.

Eppure la Calabria si era dotata di un ottimo Piano Territoriale Paesaggistico: ma all’atto della sua approvazione l’allora giunta regionale di Centro destra- subentrata a quella di segno opposto che l’aveva formulato- pensò bene di smantellarne la normativa ; trasformando un fondamentale atto di governo e risanamento di territorio e paesaggio in una esercitazione accademica: E cancellando così anche le regola di difesa da dissesti e disastri , incendi compresi.

Con un piano realmente cogente, infatti, ciascun ambito paesaggistico avrebbe regole e misure per affrontare l’emergenza e quindi risanare il territorio. Chiunque saprebbe che la prima difesa è rappresentata dalla ricostituzione degli ecosistemi , dell’ecofunzionamento “dell’organismo territorio”. Più che da generici rinverdimenti o rimboschimenti.

Nell’emergenza odierna, bisogna tener conto del drastico peggioramento della crisi ambientale negli ultimi anni. E’ utile certamente l’idea degli ex Presidenti del Parco Dell’Aspromonte, Perna e Bombino, di rilanciare i “Contratti di Solidarietà” , investendo associazioni e cooperative locali di produttori, con funzioni di vigilanza continua e primo intervento.

Ma questo va integrato con la “Task Force “ proposta (speriamo seriamente) per il Governo dal Ministro delle Politiche agricole Patuanelli; che prevede il coordinamento e l’ampliamento degli organismi già preposti agli interventi di emergenza, Vigili del fuoco, Protezione Civile, Carabinieri Forestali e Operai Forestali residui, cui si potrebbero aggiungere i “Nuovi responsabili”, oltre ai comuni e agli enti interessati ,come i Parchi che dovrebbe continuamente monitorare il territorio con mappe digitali aggiornate in continuo .

E quindi intervenire subito: sapendo già come e dove intervenire , una volta localizzati i primi focolai. E conoscendo anche le postazioni dei siti di approvvigionamento d’acqua, in funzione delle aree di operazione.

L’emergenza incendi va affrontata usando anche la risorsa idrica dei grandi invasi interni –spesso totalmente inutilizzata – a cominciare dalla diga del Menta . Oggi è assurdo che , come è capitato in questi giorni , i pompieri possano restare senz’acqua proprio al culmine del loro intervento . Inoltre si consideri che un CanadAir impiega nel tragitto andata /ritorno tra il cuore dell’Aspromonte o della Sila e il mare circa 25 minuti, un elicottero oltre mezzora: nell’eccezionalità l’uso dell’acqua degli invasi abbatterebbe i tempi a pochi secondi.

Le emergenze di questi giorni però diventeranno sempre più una costante , sia pure in forme diverse: pensiamo alle piogge che arriveranno tra qualche settimana e troveranno un territorio già dissestato anche da migliaia di frane. Che almeno vengano liberate le vie di fuga dell’acqua, in primis le fiumare. Bisogna fronteggiare situazioni anche molto difficili.

Ma senza smarrire la capacità di guardare anche oltre. Le stesse misure previste dal piano paesaggistico, se riprese, ci indicano le operazioni utili e necessarie alla tutela e al risanamento ambientale ; compresi i progetti di resilienza ed adattamento climatico di periodo medio-breve. Fino ad un territorio riqualificato , da cui possano emergere scenari futuri di auto sostenibilità sociale legati al paesaggio.

Mentre si cercano misure per affrontare l’emergenza drammatica , risulta davvero grottesca e incomprensibile la decisione di riaprire la caccia. Vabbè che i cacciatori sono elettori, ma metter la loro incolumità e la vita stessa a rischio in contesti dissestati e accidentati da roghi appena sopiti, per renderli i giustizieri degli ultimi uccelli e della fauna sopravvissuta, sembra irresponsabile quanto- ribadiamo- incomprensibile.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 agosto 2021.
Foto di ojkumena da Pixabay

Mezzogiorno. Il grande bluff del Pnrr sugli investimenti- di Luigi Pandolfi

Mezzogiorno. Il grande bluff del Pnrr sugli investimenti- di Luigi Pandolfi

Quanti sono i soldi che il Pnrr destina al Mezzogiorno? È uno dei tormentoni di questa caldissima estate. Ufficialmente dovrebbero essere il 40% del totale (82 miliardi), ma c’è chi sostiene che non arriveranno nemmeno al 10%. Eppure parliamo di numeri, dovrebbero essere certi. Ma, a quanto pare, non è proprio così. Gianfranco Viesti, ad esempio, spulciando tra gli interventi previsti dal Piano è giunto alla conclusione che i miliardi spesi al sud non saranno più di 22. Esagerazione? Beh, le risorse del Dispositivo di Ripresa e Resilienza non si tradurranno direttamente in investimenti pubblici (la quota dispersa in bonus, incentivi, mance alle imprese, è notevole).

E poi, c’è tutta la partita dei bandi. Anche per l’assegnazione dei fondi per investimenti varrà il criterio della concorrenza e della competizione. Tra nord e sud, tra le varie regioni. Il governo su questo punto ha provato a tranquillizzare, dicendo che anche per i bandi varrà la clausola del 40%. Nondimeno, anche se così fosse, l’incertezza legata ad una selezione pubblica non sarebbe eliminata. Insomma, chi pensa che il governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. E c’è un paradosso. Per ogni miliardo speso al sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

Ma non è finita qui. Il Piano non finanzierà solo nuovi progetti. Per ogni missione, è previsto che con queste nuove risorse si andranno a finanziare anche «progetti già in essere», per i quali già esiste la copertura finanziaria. Parliamo di 53,1 miliardi su 191,5. Quanti sono i «progetti già in essere» nelle regioni del sud? Quali di questi erano già finanziati con risorse del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione già spettanti al Mezzogiorno, in quanto «area sottoutilizzata»? Per non parlare del fatto che alcuni di questi elaborati, giacenti da anni in cassetti polverosi di regioni e ministeri, ormai non hanno nessuna aderenza con la realtà socio-economica dei territori cui afferiscono e rischiano di rivelarsi irrealizzabili.

La verità è che alla base del Pnrr c’è una filosofia ben precisa riguardo alla ripartenza del Paese dopo la pandemia, per quanto sbagliata: il differenziale di crescita con le economie più forti dell’Unione europea potrà essere colmato soltanto dando ossigeno e sciogliendo le briglie all’economia del nord.

Non è il momento di pensare (o ripensare) alla «questione meridionale». Quindi, da un lato soldi pubblici alle imprese e investimenti diretti in infrastrutture materiali e immateriali prevalentemente al nord, dall’altra riforme che «promuovano la concorrenza nel mercato dei servizi e dei prodotti» e «iniziative di modernizzazione del mercato del lavoro». Ora le chiamano «riforme di contesto».

Lo Stato che apparecchia la tavola alle imprese, investendo quasi tutte le fiches sulle virtù taumaturgiche del mercato, che, lasciato libero di operare, creerà le condizioni per il benessere di tutti. «Gli effetti della concorrenza sono idonei a favorire una più consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale», si legge nel Piano. Vecchio cavallo di battaglia dei liberisti. E a nulla vale la lezione della storia. L’importante è che l’equilibrio economico si realizzi sugli assi cartesiani. Coerenza liberista delle «riforme» e incoerenza degli interventi, insomma.

Un doppio problema: il sud abbandonato a se stesso e un modello di sviluppo neoliberista calibrato per il motore economico del Paese. Ma non ci guadagna né il sud né il nord. O meglio: non ci guadagnano i nuovi proletari italiani, da nord a sud. È un modello che accentua le disuguaglianze territoriali e non interviene sull’esplosione e sulla frantumazione delle disuguaglianze sociali prodotta dalla crisi e dal disfacimento del compromesso fordista.

Cosa servirebbe? Un’altra filosofia, un altro Piano. O, che sarebbe meglio, una nuova stagione di programmazione economica. Una strategia per coniugare crescita economica e riequilibrio territoriale, accumulazione del capitale e produttività da un lato e benessere diffuso e coesione sociale dall’altro. Si potrebbe fare, ma è una questione di rapporti di forza. Intanto, le piazze si riempiono solo per dire no al green pass.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2021

Il sud dei borboni non era il migliore dei mondi possibili.- di Piero Bevilacqua

Il sud dei borboni non era il migliore dei mondi possibili.- di Piero Bevilacqua

Fra i fenomeni politico-culturali più sorprendenti e civilmente dannosi, che hanno imperversato in Italia negli ultimi dieci anni, un posto speciale merita il cosiddetto neoborbonismo. Vale a dire la credenza secondo cui il Sud prima dell’Unità, o meglio il Regno borbonico, fosse stato il migliore dei mondi possibili. Non solo, ma Il fantastico regno delle Due Sicilie – come Pino Ippolito Armino intitola il suo denso pamphlet, col sottotitolo Breve catalogo delle imposture neoborboniche (Laterza, pp.125, euro 14) – avrebbe subìto dal processo di unificazione nazionale, condotto dai Savoia, una sequela di massacri e danni irreversibili che ne avrebbero condizionato il futuro.

A DARE VITA alla leggenda è stato il giornalista Pino Aprile che con Terroni (2010), un libro da oltre mezzo milione di copie, ha ripreso antichi motivi recriminatori aggiungendo molti temi romanzeschi alla storia reale.

Quel successo merita di essere interpretato. È per un verso il sintomo di un malessere profondo del Sud, sempre più emarginato dalle politiche pubbliche, e al tempo stesso una rivalsa tardiva contro l’opera di criminalizzazione con cui la Lega di Bossi ha imposto all’immaginario degli italiani un Sud di delinquenti e spreconi.

LA RICOSTRUZIONE ROMANZATA e vittimistica di Aprile è apparsa come una riparazione attesa, un riscatto dell’onore ferito, ma ha creato una corrente ideologica, un nuovo modo di pensare, che ancorché storicamente infondato, ha favorito la nascita di un leghismo meridionale. Il distillato politico di questo risentimento antisabaudo e antisettentrionale fa oggi il paio con la richiesta di autonomia differenziata di alcune regioni del Nord Italia. Una via davvero progressiva per il futuro del nostro Paese.

Va subito detto che il libro di Pino Ippolito non è un contropamphlet polemico rivolto al testo di Aprile e alla letteratura che ne è seguita, ma un agile saggio di storia che demolisce con puntiglio documentario uno per uno i luoghi comuni e le vere e proprie panzane che punteggiano la leggenda generale.

L’AUTORE INIZIA col ricordare il capostipite della rinata vulgata che è La conquista del Sud (1972) di Carlo Aiello, un romanzo scambiato per un testo di storia, e poi passa in rassegna le notizie più clamorose come l’affermazione di Aprile secondo l’unificazione sarebbe stato «un genocidio» con almeno 800mila morti. Davvero una incredibile enormità che Ippolito smonta con le cifre elencando il numero dei soldati borbonici morti in battaglia, i briganti uccisi, e parte di popolazione civile. Così fa anche per la leggenda nera costruita intorno alla prigione sabauda di Fenestrelle, posta a 1200 metri, che vuole migliaia di vittime, non registrate da nessuna parte.

IN REALTÀ I MORTI sono stati registrati e, ricorda Ippolito, «dal 1860 al 1865 si registrarono circa quaranta decessi fra i soldati ex borbonici e papalini». Ma qui siamo alle cifre. Ben altre sono le invenzioni di geopolitica relative alle trame che presiedettero, ad esempio, alla spedizione dei Mille.
Secondo uno di questi storici, Giulio Di Vita, l’impresa sarebbe stata finanziata con tre milioni di franchi francesi dalla massoneria inglese. Gli inglesi che finanziano in franchi è una ben strana storia che diventa esilarante quando Ippolito scopre che l’autore è un fantasma, sconosciuto anche ai colleghi che lo citano: «Non esistono studiosi con questo nome e nessuno è in grado di dire chi sia».

MOLTE ALTRE sono le menzogne ridicolizzate dall’autore, ma merito di Ippolito è di non lasciarsi trascinare in una controstoria, ricordando anche i misfatti reali compiuti dall’esercito piemontese, i danni subiti dall’economia meridionale a causa delle scelte dei primi governi unitari, ad esempio le improvvide leggi di unificazione doganale del 1860 e 1861, l’unificazione del debito pubblico che fu spalmato sulle spalle di tutti gli italiani.

L’autore si muove in una prospettiva storica e civile avanzata, non dimentica il valore dell’unità nazionale, una conquista fra le più importanti nella storia del nostro Paese, che i borboni non ebbero l’ambizione progressista di perseguire.

da “il Manifesto” del 13 luglio 2021

Contro la distrazione di massa.- di Guido Viale Mentre il pianeta va a fuoco il parlamento italiano vota il ponte sullo Stretto

Contro la distrazione di massa.- di Guido Viale Mentre il pianeta va a fuoco il parlamento italiano vota il ponte sullo Stretto

Greta Thunberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice sul mondo austriaco promosso da Arnold Schwarzenegger, che si è svolto il 1° luglio, con, tra gli altri, Angela Merkel, Antonio Guterres. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, Greta ha rimarcato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare l’opposto: la loro lotta per il clima serve a mascherare la continuazione di una politica fondata sui fossili, che altro non è che la ricerca di nuove occasioni di business.

L’accusa coglie in pieno anche il Pnrr italiano, il suo padre, il Recovery Fund della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a fissare l’attenzione intorno a misure inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il Pnrr, bensì con un “fondone” che Draghi ha aggiunto, a debito, ai fondi del Pnrr, anch’essi di fatto tutti a debito, per “non lasciare indietro nessuno”: in questo caso la lobby del cemento). D’altronde, il Senato italiano, anni fa, aveva votato che il cambiamento climatico non esiste.

Tra le parole contraddette dai fatti di cui parla Greta spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ma quella transizione implica un cambiamento radicale: l’abbandono del mito fasullo e letale della “crescita” (termine con cui oggi si indica l’accumulazione del capitale) e non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica dovrebbe essere, quindi, una grande campagna di informazione: sul perché di una svolta così radicale, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un grande confronto (non era certo tale la kermesse del secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” – associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura – sulle alternative che abbiamo di fronte sia a livello planetario che locale. Se si vogliono ottenere dei risultati non si può che procedere che così.

E se il governo non lo fa, di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra. Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà – un po’ per volta – il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto), ecc.

Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il Pnrr, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il Tav Torino-Lione, ricompreso nel Pnrr, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).

E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il Pnrr evita), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma dal basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri, per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord della Sicilia), per portare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra, in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di Co2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la Co2 fittiziamente sottrattale? O queste cose non dobbiamo chiedercele.

da “il Manifesto” del 10 luglio 2021

Destre revisioniste all’assalto della Calabria.-di Pino Ippolito Armino

Destre revisioniste all’assalto della Calabria.-di Pino Ippolito Armino

Se le destre, in una data che resta ancora da definire ma che sarà tra metà settembre e metà ottobre, vinceranno la prossima competizione elettorale per il governo della Regione la Calabria acquisterà un nuovo primato.

Sarà, infatti, la prima nella storia d’Italia ad essere guidata da una coppia (pessimo e ingiustificato l’uso dell’inglese ticket) di revisionisti farlocchi. Candidato alla presidenza della giunta regionale è Roberto Occhiuto, capogruppo di Forza Italia a Montecitorio. Lo ricordiamo da deputato dell’Unione di Centro che, nel marzo del 2012, interrogava il ministro della cultura per chiedere, in appoggio al Comitato No Lombroso (tra i cui autorevoli membri, manco a dirlo, figura Pino Aprile), la restituzione del cranio del “brigante” duo-siciliano Giuseppe Villella per quel che esso rappresenta, scriveva allora Occhiuto, “ovvero un torto subito dai territori e dalla popolazione nei valori intellettuali, sociali, storici e culturali”.

Non era la prima interrogazione in tal senso. Ci avevano già pensato il deputato di Italia dei Valori Domenico Scilipoti (14 settembre 2010) e la senatrice ex missina Adriana Poli Bortone (16 marzo 2011). Due anni prima a Torino, a manifestare contro il Museo Lombroso che custodisce quei resti (poi risultati neppure appartenenti a un “brigante”), non c’era soltanto il fior fiore dell’intelligenza neoborbonica, c’erano pure Roberto Gremmo, autonomista e indipendentista piemontese, e Mario Borghezio, del quale non credo serva aggiungere qualificazione.

Berlusconi, Salvini e Meloni hanno dunque scelto per guidare la Calabria un uomo che ha le idee molto confuse sulla storia d’Italia nel periodo risorgimentale. Ma hanno fatto anche di più perché tanta ignoranza non venisse confinata in ambito ottocentesco. Il vice di Occhiuto sarà niente popò di meno che Nino Spirlì, attualmente facente funzione di presidente ma inizialmente chiamato da Jole Santelli alla vicepresidenza della Calabria con delega alla Cultura, ai beni e attività culturali, musei, teatri e biblioteche, etc. etc. La persona giusta.

Quella che serviva per aggiungere l’ignoranza che mancava, quella sul Secolo breve. Spirlì, devoto alle peggiori cause reazionarie, ha infatti recentemente dichiarato di condannare la guerra e le leggi razziali ma, ha aggiunto, “bisogna riconoscere che il Duce è stato soprattutto all’inizio fautore di una rivoluzione popolare. Ha creato le case popolari, le pensioni, l’assistenza all’infanzia, l’assistenza alle donne, le bonifiche, l’industrializzazione ..”. Il candidato alla vicepresidenza ha, dunque, ingoiato le più stolte panzane sul conto del fascismo.

Ignora che l’istituto delle Case Popolari è stato creato con legge n. 251 del 31 maggio 1903, che la Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai è nata nel 1898 con legge 17 luglio n. 350, che l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia è divenuta obbligatoria nel 1919, che l’industrializzazione dell’Italia prese corpo con l’avvento al potere della Sinistra storica nel 1876 e la progressiva messa in soffitta delle politiche ultraliberiste che avevano caratterizzato i primi anni di vita del Regno, che il periodo fascista è stato quello in cui maggiore si è fatta la divaricazione economica fra il Nord e il Sud dell’Italia. Quanta ignoranza per chi aspira a governare sia pure la regione più povera e più debole d’Italia!

da “il Manifesto” del 2 luglio 2021
immagine da: https://www.citynow.it/regionali-calabria-spirli-occhiuto-vittoria-elezioni-centrodestra/

Gelmini suona la carica. Ma c’è l’art.119 e il Pnrr.- di Massimo Villone Autonomie differenziate

Gelmini suona la carica. Ma c’è l’art.119 e il Pnrr.- di Massimo Villone Autonomie differenziate

La ministra Gelmini in audizione il 26 maggio presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale ci informa che riparte il circo dell’autonomia differenziata, e che ha istituito a tal fine commissioni e gruppi di studio. Sarà riproposta con aggiustamenti la legge-quadro già messa in campo dal suo predecessore Boccia, si definiranno i livelli essenziali delle prestazioni e i fabbisogni standard in vista dell’attuazione del federalismo fiscale.

Il tutto con le opportune concertazioni per evitare dissensi e contrasti. L’accoglienza in Veneto è stata trionfale (Corriere del Veneto, 30 maggio, e Nuova Venezia, 31 maggio). Celebra la ripartenza anche Zaia sul Corriere della Sera di ieri, con accenti che potremmo persino definire in qualche punto minacciosi.

Abbiamo già ampiamente censurato la proposta Boccia di legge-quadro, oltre che più in generale il metodo seguito sul regionalismo differenziato. Non ci ripeteremo. Cogliamo invece una novità. Nell’audizione la sen. Ricciardi (M5S) chiede lumi sulla perequazione a livello comunale di cui all’art. 119 Cost. per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Nell’art. 119 uno dei cardini è che l’ente locale disponga di risorse sufficienti al finanziamento integrale delle funzioni.

Ma nel 2015 la perequazione a livello comunale viene arbitrariamente limitata al 45.8%, come riferisce Marco Esposito nei suoi libri Zero al Sud e Fake Sud. La senatrice – alcuni parlamentari meritoriamente studiano – chiede come e quando si arriverà al 100%. La stupefacente risposta è: probabilmente mai, a causa del necessario rispetto degli equilibri di bilancio.

E il finanziamento integrale di cui all’art. 119? Ci chiediamo se la ministra Gelmini abbia letto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che dovrebbe essere voce primaria dell’indirizzo di governo. Sul punto parla di un processo in corso, senza porre tetti arbitrari all’attuazione. Conta, altresì, quel che dice per il federalismo fiscale a livello regionale. È “in corso di approfondimenti da parte del Tavolo tecnico istituito presso il Mef. Il processo sarà definito entro il primo quadrimestre dell’anno 2026”.

Ma allora di cosa parla la Gelmini? Come si può far ripartire il regionalismo differenziato, che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse, se il contesto di riferimento non sarà definito prima del 2026? E come – per ampliare il tema – inciderà la riforma fiscale, altro punto cruciale nel rapporto con la Ue? È ovvio che con essa potrà essere modificata la riferibilità ai territori dei proventi tributari, con ricadute a cascata sull’assegnazione delle risorse. Un momento meno opportuno per rilanciare il regionalismo differenziato non potrebbe davvero esserci.

La domanda è: qual è l’indirizzo di governo sul regionalismo differenziato e il suo rapporto con il Pnrr? Lo vogliamo segnalare a Letta, che nel suo libro Anima e cacciavite sottolinea il fallimento della tesi della locomotiva del Nord, cara agli economisti contigui ai circoli economici e finanziari: “non sto dicendo che la locomotiva deve essere depotenziata, rallentata, per ragioni di uguaglianza. Sto dicendo che la priorità è rendere forti prima di tutto i vagoni, altrimenti è tutto il treno che deraglia”. Sembra di leggere un testo Svimez – per l’occasione declassata dalla stampa veneta prima citata a “ufficio studi” – sul Sud come secondo motore del paese in una prospettiva euromediterranea, per il rilancio dell’Italia tutta. Ma il segretario ha un problema in casa, di nome Bonaccini.

Un consiglio a Letta, pur non richiesto. Non sprechi energie su temi di poco o nessun rendimento reale, come i regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, o la sfiducia costruttiva. Si concentri sull’essenziale: un buon sistema elettorale proporzionale, una solida legge sui partiti politici, e magari una clausola di supremazia statale, che copra anche il regionalismo differenziato, nel Titolo V della Costituzione.

Invece, investa sul Mezzogiorno. Là si vincerà o si perderà il confronto con la destra, presto o tardi che venga. Lanciare oggi un progetto forte e chiaro, impostato sul rilancio produttivo, sulla seconda locomotiva per il paese e sull’eguaglianza dei diritti potrà far uscire il Pd e il centrosinistra dalla stagnazione dei consensi in cui vivacchiano. Diversamente, la traversata nel deserto sarà lunga, e nessuno starà sereno.

da “il Manifesto” del 3 giugno 2021