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Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

L’aspetto più incoraggiante di questi ultimi giorni, nei quali
riflettiamo con delusione e frustrazione sui risultati elettorali di
Unione Popolare, è la volontà, espressa da tutti coloro che
intervengono coi loro commenti, di continuare la nostra avventura. Si
legge la stessa determinazione con cui abbiamo affrontato, nelle
condizioni più avverse, la sfida quasi impossibile di raccogliere, nel
cuore di una delle estati più torride del millennio, le decine di
migliaia di firme richieste per la partecipazione alla campagna
elettorale. E bisogna aggiungere che pari ostinazione hanno mostrato
migliaia di cittadini, i quali hanno affrontato in paziente fila, il
sole ustorio di agosto per potere apporre la loro firma.

Dunque volontà di continuare il nostro progetto come del resto avevamo
promesso. Ma come? In che forma, con che modalità organizzativa?
Dobbiamo fare il salto da una lista elettorale imbastita
precipitosamente – ma, bisogna riconoscere, ammirevolmente ben fatta –
a una struttura più stabile, pensata accuratamente nei suoi organismi
rappresentativi, in grado di garantire democrazia ed efficienza
operativa. Non è un obiettivo che si raggiunge in un giorno, ma
bisogna, con il concorso di tutti, gettare da subito le prime
fondamenta su cui costruire l’edificio.

A mio avviso sarebbe molto utile organizzare intorno a metà ottobre
quella Assemblea costituente di due, tre giorni che De Magistris aveva
proposto prima che dovessimo affrontare le elezioni anticipate.
Sarebbe innanzitutto um modo di reincontrarci o di conoscerci per la
prima volta. I compagni e le compagne sentono anche un gran bisogno di
raccontarsi, di narrare le loro esperienze, esprimere le loro
critiche, suggerimenti, proposte. La volontà militante – che
purtroppo, di questi tempi, non è una virtù civile diffusa – si
rafforza se tutti si sentono protagonisti di un progetto, se hanno
diritto di parola, alla pari con gli altri.

Naturalmente occorre arrivare all’appuntamento con qualche idea
organizzativa. L’appuntamento deve essere in parte una festa ma deve
concludersi con indicazioni operative ben chiare, perchè tutte e tutti
tornino a casa sapendo come proseguire. Provo perciò a buttare giù
delle idee da prendere come contributo sperimentale alla discussione
che seguirà. E la prima cosa che mi sento di dire è che – con tutte le
variazioni, declinazioni originali che possiamo immaginare –io non
vedo organizzazione più efficiente, capace di tenere insieme
pluralismo delle idee e capacità di azione, del partito.

Il partito, non dimentichiamolo, è “l’organizzazione della volontà collettiva”
(Gramsci) è una grande conquista della modernità, ha sottratto gli
individui al loro isolamento molecolare e ne ha fatto una comunità di
lotta, un protagonista di prima grandezza dell’età contemporanea in
tutto il mondo. Anche se adesso i partiti non sono, almeno in Italia,
che agenzie di marketing elettorale, noi dobbiamo tentare questo
modello, sapendo che abbiamo intorno altre forze di sinistra con cui
dobbiamo dialogare e un arcipelago vastissimo di associazioni,
circoli, gruppi che non faranno mai parte di un partito, ma che
saranno i nostri compagni esterni nelle varie battaglie e mobilitazioni
che condurremo.

Un partito necessita di un portavoce e noi l’abbiamo.Chi ha seguito De
Magistris anche nelle poche apparizioni televisive ha potuto
constatare la sua capacità di rappresentarci e di dare calore
comunicativo ai punti del nostro programma. Questo al netto della sua
esperienza politico-amministrativa che nessuno di noi possiede.
Naturalmente, come ho sempre sostenuto, se il suo ruolo e la sua
figura nel nostro collettivo, sono naturaliter preminenti, dobbiamo
evitare di imboccare la strada del partito del leader.

Questa tendenza, ormai dominante dappertutto, va contrastata come effetto
dello svuotamento di democrazia che i partiti hanno subito negli
ultimi decenni, soprattutto in Italia. In concomitanza, del resto, con
la torsione autoritaria che ha investito l’intera società, a
cominciare dai sistemi elettorali. Il neoliberismo non ha liberato
nessuno, ha creato nuovi vincoli e nuove servitù. Mentre la società
dello spettacolo tende a rappresentare la politica come un gioco di
società tra leader facendo scomparire tutti gli altri.

Quindi il portavoce deve avere attorno un gruppo
dirigenterappresentativo delle varie anime di UP, che al momento sono
i dirigenti delle forze politiche che la compongono. Potremmo
chiamarla Segreteriao Direttivo, si vedrà. Naturalmente in seguito
bisognerà inventare procedure elettive che garantiscano un
funzionamento pienamente democratico. E va da sé che occorrerà
elaborare uno statuto. Potrebbe essere il caso di convolgere un gruppo
di saggi – personaggi di prestigio esterni a UP – che ci aiutino in
questo compito di selezione e fondazione delle regole di democrazia
interna.

Un altro organismo che al momento io vedo necessario, per un primo
assetto organizzativo, è un Comitato territoriale, vale a dire un
organo in cui siano presenti i rappresentanti di tutti i territori,
che si riunisce con una periodicità da stabilire. Si dovrà poi capire
se una rappresentanza di dimensione regionale sia la misura più giusta
e meglio gestibile.

Scendendo al livello organizzativo di base, cioé alla necessità di
creare delle unità organizzative che possiamo chiamare
circoli,sezioni, presidi , case del popolo o in altro modo, si pongono
dei problemi politici rilevanti, anzi, il problema politico principale
per la costruzione di un partito. Vale a dire il passaggio di
Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, Dema e tutte le formazioni
minori alla nuova creatura chiamata Unione Popolare.

Voglio premettere che io sono uno storico e per giunta un vecchio militante e posso
capire forse più di altri l’attaccamento quasi carnale di tanti
compagni alle proprie bandiere. So che in quel legame c’è un pezzo di
storia della propria vita, battaglie, sacrifici personali, marce e
nottate. Per questo ho il massimo rispetto per tali sentimenti di
fedeltà, che davvero splendono di nobiltà di fronte alle giravolte dei
voltagabbana della nostra scena parlamentare e partitica.

Ma la politica, specie quella che ha l’ambizione di cambiare il mondo, è
consapevolezza del proprio tempo e coscienza della propria storia. E
la nostra, non dimentichiamolo, negli ultimi decenni è stata una
storia di divisioni e lacerazioni. Dobbiamo essere consapevoli che se
non vogliamo limitarci a fare opera di testimonianza, ma abbiamo
l’ambizione di ottenere largo consenso dagli italiani, diventare forti
per aiutare chi è stato emarginato, noi non possiamo presentarci come
i resti di un esercito sconfitto.Diciamo la verità: Rifondazione,
Potere al Popolo, Dema appaiono agli osservatori esterni come la
testimonianza della sempiterna divisione della sinistra. Aggiungo qui
un’altra considerazione: è il nostro vasto e disperso popolo di
militanti e semplici elettori, deluso e scoraggiato, che vive come un
dramma le nostre divisioni. Ne ho avuto ulteriori, molteplici prove
durante la campagna elettorale. E il fatto di non accorgercene è la
nostra maggiore colpa e una delle causa della nostra perdurante
marginalità.

Dunque l’Unione Popolare è un passo in avanti, una conquista a cui
occorre guardare con fiducia e generosità, puntando a rendere
tendenzialmente ancora più vasto il campo dell’ unità con le altre
forze anticapitalistiche che esistono in Italia. Ricordo che
Melanchon, Iglesias, Corbin, Ken Loach, non avrebbero espresso il loro
autorevole appoggio alle singole forze se esse non si fossero
presentate sotto il simbolo unitario dell’Unione.

Passando perciò ai più terrestri problemi organizzativi io credo
necessario,con tempi di maturazione che varieranno da situazione a
situazione, che occorre creare dovunque sia possibile circoli,
sezioni, case del popolo, ecc , con l’insegna di Unione Popolare,
magari unificando le poche forze che abbiamo anche in uno stesso
locale. Bisogna imparare a vivere insieme: anche questa è intelligenza
politica, lavoro di costruzione del partito. Quanto più realizziamo ed
esprimiamo spirito unitario tanto più diventiamo e appariamo forti e
credibili.

E qui vorrei concludere con tre osservazioni e proposte. Dobbiamo
trasmettere ai cittadini il senso della nostra utilità sociale. Oggi,
fondatamente, la maggioranza degli italiani – come testimonia anche il
crescente astensionismo – considera gli esponenti dei partiti come un
ceto sociale parassitario. Vendono propaganda elettorale e in cambio
ricevono i nostri voti: cioé soldi, potere, privilegi, visibilità
mediatica in cambio di nulla. Quando non compiono scelte
antipopolari…

Noi siamo diversi, abbiamo programmi alternativi, ma
non abbiamo ancora fatto niente, come Unione Popolare,per convincere i
cittadini che siamo diversi e che potremmo realizzarli.Molto
opportunamente, De Magistris ha cercato di smarcarsi da questa
immagine, di rendersi credibile nel grande frastuono pubblicitario
della campagna elettorale, ricordardo la propria esperienza di
sindaco.Ma noi siamo agli inizi e dunque dico che i nostri presidi nel
territorio devono assomigliare a sedi di volontariato.

I cittadini del quartiere devono vedere in esse non soltanto il luogo dove si discute
di politica, ma dove si insegna un po’ di italiano agli immigrati, si
organizzano i GAS per portare le cassette di cibo a casa degli
anziani, si aiutano le persone inesperte a risolvere al computer i
loro problemi amministrativi. Attenzione a quest’ultimo aspetto:
l’anafabetsimo informatico di tanti cittadini costituisce oggi una
limitazione dei loro diritti. E’ come l’analfabetismo totale degli anni
’50. Ma questi nostri centri dovrebbero essere in grado, con altre
forze, di organizzare campagne ambientaliste con i giovani, i quali
oggi sembrano interessati solo a questa forma di militanza. Quindi
giornate dedicate alla pulizia dei giardini pubblici, delle spiagge,
per la piantumazioni di alberi in città, ecc.

Ma c’è un altro aspetto su cui voglio richiamare la vostra
attenzione:noi dobbiamo distinguerci nel linguaggio, parlare davvero
ai sentimenti delle persone, scambiare esperienze umane anche senza
volontà di coinvolgimento politico.L’ideologia neoliberistica ha
ridotto la società a una giungla competitiva e noi dobbiamo
combatterla a partire dal nostro comportamento, dalle nostre parole.

I cittadini non hanno solo bisogno di vedere abbassate le bollette e
aumentati i salari, vorrebbero sentire risuonare di nuovo le parole
dell’amicizia, della solidarietà, della fratellanza e della
sorellanza. Prendiamone atto: un Grande Inverno ha inaridito i
sentimenti che avevano tenuto insieme milioni di persone, unite dalle
stesse speranze e dagli stessi sogni.Le nostre città sono aggregati di
solitudini frettolose: perciò occorre creare momenti di pausa, di
fermo, di incontri senza fini utili, di festa, di bighellonaggio, di
sberleffi alla società agonistica, spietata e stupida della corsa al
danaro.

Organizziamo giornate di rivolta civile spese per strada e
nelle piazze a chiacchierare con gli amici, giocare con nostri figli e
nipoti, coi nostri animali.Rendiamo consapevoli le persone di essere
incalzate dal potere in ogni momento della loro vita, insegniamo loro
a liberarsi. Al tempo stesso dobbiamo esprimere un atteggiamento di
cura verso l’altro perché oggi lo dobbiamo avere anche per la natura,
ferita dal nostro saccheggio. Noi saremo davvero il nuovo mondo
possibile se riusciremo a legare insieme la fratellanza fra di noi con
quella per tutte le altre creture viventi oggi in pericolo.Il rapporto
con il mondo cattolico sensibile al messaggio di papa Francesco, ma
anche con le compagne e i compagni che si raccolgono nella Società
della cura, con tanti movimenti ambientalisti, i ragazzi di Fridays
for Future, ecc. diventa in questo modo possibile.

Infine una proposta che ho già avanzato e che ripeto.Io ho i rapporti
personali necessari per poter organizzare una Scuola di cultura
politica e ambientale online, capace di diventare, con una lezione da
remoto ogni settimana, un nostro marchio culturale e al tempo stesso
uno strumento di formazione, di allargamento della nostra influenza,
di arricchimento e unificazione della soggettività politica di tanti
italiani, di dialogo con le altre forze di sinistra.Ogni settimana uno
studioso terrà una lezione su un tema di sua competenza, che gli verrà
richiesto secondo un calendario da costruirsi, così che centinaia di
migliaia di persone possano ascoltarla in ogni angolo d’Italia.

Ma per fare questo occorre una grande piattaforma informatica.Lo strumento,
tra l’altro, che ci può consentire l’informazione alternativa alla
manipolazione sistematica della TV capitalistica. Questione non solo
tecnica, ma anche politica. Occorre che le mailing list di Dema,
Rifondazione, Potere al Popolo e delle altre formazioni si fondano.
Ancora una volta dunque occorre un altro salto verso l’unificazione di
Unione Popolare.

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico.

Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone.

Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

da “Left” del 10 agosto 2022

I fallimenti di una sinistra che affida alle urne la sua identità.-di Tonino Perna

I fallimenti di una sinistra che affida alle urne la sua identità.-di Tonino Perna

Il lungo titolo annuncia: «Un milione di voti di cui si parla dal ’68. Una storia di camere sciolte, di un grande movimento e di piccoli partiti. Scritta, naturalmente, col senno di poi». Facendo un po’ d’ordine tra vecchie carte, documenti e articoli di giornali ritagliati, mi sono imbattuto in un articolo di Ritanna Armeni e Rina Gagliardi pubblicato il 20 aprile del 1979.

Vengono percorse, partendo dal 1968, le tappe cruciali delle elezioni politiche e amministrative, passando per il 1972 (elezioni politiche), 1975 (regionali), 1976 (politiche), 1979 (politiche).

In questi appuntamenti elettorali scenderanno nell’agone politico via via il Manifesto-Pdup, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Lotta Continua, e tanti gruppuscoli marxisti-leninisti che sono presenti in alcune realtà territoriali.

Come viene ricordato dalle due autrici, nel ’68 finisce la delega dei movimenti rispetto al Pci e si comincia, in una parte del movimento anticapitalista, a riflettere sulla necessità di formare un partito e candidarsi alle elezioni.

In questo giro di boa entra anche il manifesto con posizioni diverse al suo interno, in particolare tra Luigi Pintor e Rossana Rossanda (come ha ricordato Norma Rangeri, nell’articolo del 14 ottobre scorso, all’indomani delle elezioni amministrative).

Scriveva Pintor: «Giudico la battaglia elettorale un’occasione positiva e feconda per noi e per tutta la sinistra, una prova da affrontare con serietà e slancio, un terreno come un altro su cui misurarci con lo stesso spirito che ha sempre animato la nostra impresa politica…». A cui ribatteva Rossanda: «So bene che nei compagni che si battono per le liste c’è il bisogno di esistere, contarsi, contare. Ma credo per fermo che questo modo di esistere, contarsi e contare sia ambiguo e pericoloso…». Parole profetiche, inascoltate per quarant’anni!

Con l’eccezione del periodo di Rifondazione Comunista con segretario Bertinotti, a sinistra del Pci–Pds-Pd si sono, di volta in volta, formati dei raggruppamenti che, quando è andata bene, hanno preso il minimo di voti per superare la soglia di sbarramento.Ogni volta un simbolo diverso, un nome diverso, che non sono sopravvissuti al di là del ciclo elettorale, non hanno sedimentato un pensiero politico, una visione capace di attrarre e coinvolgere al di là del proprio giardino.

Quante energie sprecate, quante amare delusioni che hanno prodotto conflitti all’interno di queste embrionali forze politiche, spesso più intente a litigare fra loro che a trovare convergenze e strategie comuni.

Anche il Prc, che pure aveva avuto un grande seguito giovanile forgiatosi durante e dopo i fatti di Genova del 2001, si è nel tempo arenato perché non è riuscito a “rifondare” un pensiero politico che facesse i conti con la disfatta dell’Urss e la trasformazione del maoismo in capitalismo di Stato, a tracciare una credibile alternativa di sinistra che facesse tesoro con ciò che ci ha insegnato il ‘900.

«E tuttavia il dubbio maggiore che ci attraversa- scrivevano la Armeni e Gagliardi nell’introdurre questa cronostoria politica- proprio a proposito di elezioni, investe la validità della concezione politica generale che ha ispirato questi undici anni di peripezie: l’idea di partito e organizzazione, la pratica della politica come sfera specialistica e separata, la difficioltà profonda di uscire, in avanti, dagli schemi della II e III Internazionale».

Esistere, contarsi, contare può essere ambiguo e pericoloso, scriveva Rossana Rossanda, perché la qualità del lavoro sociale, culturale, politico, non lo si può pesare unicamente con il voto, non si può dare alle competizioni elettorali la funzione del Giudice Supremo, di colui che decide della tua esistenza.

Non significa che sia inutile partecipare alle competizioni elettorali, come una parte dei movimenti della sinistra radicale ha sempre sostenuto, ma avere un atteggiamento lucido e distaccato, non sopravalutando i risultati delle urne, non pensando che ci giochiamo tutto nell’ultima tornata elettorale.

E poi, dovremmo saperlo, i cambiamenti sociali e culturali non passano necessariamente attraverso la formazione di una forza politica vincente sul piano elettorale.

Se riflettiamo a come è cambiato positivamente il ruolo della donna nella nostra società o ai diritti delle persone diversamente abili, ci rendiamo conto che è stata una lotta quotidiana, trasversale, che ha pagato molto di più che se si fosse fondato un partito delle donne o dei disabili.

Sarebbe come dire che il valore di un quotidiano come il manifesto, con la sua storia e le sue battaglie, lo si misura solo dal numero delle copie vendute e non, al contrario, dalla sua funzione informativa, politica e culturale.

Se chi ci lavora la pensasse così avrebbe fatto chiudere questo giornale da tempo. Se continua ad esistere, dopo cinquant’anni, è perché rappresenta per chi lo legge e per chi ci scrive molto di più di quello che i numeri del mercato editoriale possono raccontare.

da “il Manifesto” del 18 novembre 2021