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La coalizione sociale dell’esperimento con De Magistris.-di Piero Bevilacqua

La coalizione sociale dell’esperimento con De Magistris.-di Piero Bevilacqua

Una riflessione politica in due tempi.

Primo tempo.
Nel Consiglio dei ministri, com’è noto, la proposta di Draghi di esentare dal taglio dell’Irpef i redditi oltre i 75mila euro, per un contributo di solidarietà alle fasce più basse, è stata respinta.
Nonostante l’iniziativa partisse dall’auterovolissimo presidente del Consiglio, la destra ufficiale ha fatto muro insieme alla destra mascherata di Italia viva. Il Pd, il partito che la pubblica vulgata definisce( per pura inerzia) di sinistra, ha abbozzato.

Quando si tratta di redistribuire la ricchezza in Italia gran parte del ceto politico solleva al cielo gli scudi e non si passa. Basta tirare fuori lo spaventevole termine di patrimoniale e tutto si blocca. Quell’episodio tuttavia non è che un frammento della storia d’Italia degli ultimi 20 anni, nel quale si riassume la causa delle cause del declino italiano e la pietrificazione del sistema politico.

La disuguaglianza sociale, alimentata e resa cronica dal sistema fiscale, non è solo un’espressione di ingiustizia, ma blocca e fa regredire l’intero apparato pubblico del paese. Mentre la ricchezza privata delle famiglie si accresce e permane la più elevata al mondo- come ricorda periodicamente la Banca d’Italia – il paese lesina risorse pubbliche alla scuola, all’Università, ai comuni, alla sanità, alla Pubblica Amministrazione, al territorio, al Mezzogiorno.

Cose note. E sappiamo anche dai dati Ocse – lo ha ricordato Marco Revelli su queste pagine – che il nostro è l’unico paese dei 23 più industrializzati dove, tra il 1990 e il 2020, i salari operai sono diminuiti del 2,9%. Un dato rimanda più decisamente al versante partitico-sindacale. Ai lavoratori italiani non è stata data la possibilità di esprimere in conflitto organizzato la rabbia per la loro prolungata regressione sociale.

Secondo tempo.
In Calabria, dove alle recenti elezioni amministrative ha prevalso il candidato della destra, si è verificata tuttavia una novità ancora sottovalutata, il 16,5% di . Luigi De Magistris. Nessun leader al di fuori dei partiti aveva conseguito un tale risultato, ottenuto peraltro senza un soldo, con i media locali e nazionali contro o silenziosi, in un ambiente in cui i partiti hanno clientelizzato una parte estesa di società civile. Ma l’altra novità è che accanto a De Magistris si è formata una potenziale classe dirigente , ben rappresentata nelle liste: medici, ingegneri, sindaci, imprenditori, giornalisti. La parte più pulita, più competente, più dinamica della Calabria.

Durante la campagna elettorale, in appoggio a De Magistris – apparso come cuneo dirompente nel sistema dei partiti che paralizza da decenni la Calabria come l’Italia intera – si è formato un gruppo di intellettuali, dentro e fuori la regione, che ha dato voce e prospettiva ai problemi di questo territorio.

Si tratta di una costellazione di economisti, storici, antropologi, sociologi, filosofi, che riescono ad avere una qualche influenza nei loro rispettivi ambiti e che soprattutto possono fornire al movimento di De Magistris una dimensione culturale e un orizzonte progettuale che i partiti nazionali non posseggono più da tempo. Dunque, l’ultima delle regioni italiane può diventare un laboratorio politico d’avanguardia.

Perché questo accada, tuttavia, occorrono molte condizioni, fra cui una sua proiezione almeno meridionale. Il laboratorio dovrebbe contagiare le regioni contermini e soprattutto porsi come polo di riferimento ideale per far rinascere il conflitto politico in Italia. Occorre saper leggere in profondità la condizione del paese e il momento storico. Il Pnrr non è che un progetto di “rivoluzione passiva”: distribuire danaro per ripristinare il processo di accumulazione capitalistica lasciando intatte le gerarchie sociali e di potere. Appare già chiaro che alla fine avremo un’Italia magari con un Pil in ripresa, ma cristallizzata nei suo squilibri di sempre, più lacerata e impoverita nei sui margini. Ma anche più divisa.

Nei piani del governo c’è la realizzazione dell’autonomia differenziata, lo smembramento del paese faticosamente unificato poco più di un secolo e mezzo fa. Se le sparse forze della sinistra, oggi impotenti, si accostassero a questo progetto aurorale con umiltà e volontà unitaria, non per fare una lista elettorale, ma per aprire campagne di mobilitazione e di lotta, il laboratorio Calabria potrebbe assumere una dimensione nazionale.

Si può aprire una campagna in difesa, nientemeno, che dell’Unità d’Italia, si possono coinvolgere gli imprenditori dell’agricoltura biologica a cui viene negata un legge già pronta, gli insegnanti e gli studenti per l’assenza di investimenti e contro la scuola -azienda, che ancora si ritrovano il numero chiuso per l’accesso all’Università, i sindaci dei comuni cui la “riforma” fiscale nega ogni ruolo, i medici alle prese con risorse scarse, i tanti studenti universitari che pagano le tasse più elevate d’Europa e che dopo la laurea possono solo scappare dalle loro città. Hic Rhodus hic salta.

da “il Manifesto” del 12 dicembre 2021
foto dal profilo Fb:https://www.facebook.com/deMagistrisPresidenteCalabria

La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune.-di Piero Bevilacqua

La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune.-di Piero Bevilacqua

In un Paese nel quale due uomini come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi son potuti assurgere al ruolo di presidenti del Consiglio, e il primo ambisce alla Presidenza della Repubblica, con ogni evidenza è accaduto qualcosa di grave nei fondamenti della sua vita civile. Quanto è avvenuto segnala un guasto profondo nell’etica pubblica, un decadimento di vasta portata della moralità collettiva.

Occorre ricordare che i processi di degrado dell’etica pubblica, in atto in Italia, ingigantiscono in virtù dei singolari caratteri originali del nostro Paese, un fenomeno di per sé universale: lo svuotamento ideale e il decadimento della politica quale arte moderna del governo delle società, pratica della sua trasformazione progressiva o rivoluzionaria. Si tratta di questioni note: il tracollo delle ideologie del ‘900, la dissoluzione dei partiti popolari e la loro riduzione a comitati elettorali, la corruzione dilagante, ecc. Questa analisi coglie però una parte della realtà.

La scomparsa dell’antagonista storico del capitalismo (comunismo e in parte socialdemocrazia) ha favorito, insieme ai processi materiali della globalizzazione, la marginalizzazione dei ceti medi e della classe operaia avanzata, che avevano costituito per decenni la base più estesa di consenso e partecipazione pubblica nelle società industriali. Erano questi ceti che garantivano la moralità progressista della politica. La loro regressione sociale, anche per effetto della riduzione del welfare, ha allontanato masse estese dalla militanza politica, dalla partecipazione elettorale, da ogni interesse per la cosa pubblica.

Al loro posto è emersa una nebulosa indistinta di gruppi e individui priva di connotazioni politiche coerenti, che sostituisce rivendicazioni e prospettive di riforma dell’esistente con espressioni rancorose di risentimento, confuse pretese risarcitorie, ostilità contro l’”altro”. Mancando la direzione dell’intelletuale collettivo che erano i partiti, la scena pubblica viene occupata così da un magma sociale a cui politologi e commentatori, in mancanza di meglio, hanno dato il nome di popolo. Un lemma vecchio per una realtà del tutto inedita.

Se un dato distingue le società industriali questa è la loro ricchissima stratificazione sociale. Il popolo è un concetto dell’800 per l’800. Ma l’analisi politologica non ha ancora colto l’essenziale. Dietro la decadenza della politica si erge gigantesco un fantasma che rimane nascosto agli sguardi superficiali: il nichilismo. Quanto profetizzato da Nietzsche, la morte di Dio e la perdita di fondamenti di ogni morale, è ormai senso comune e investe la politica alle radici. Col dissolvimento della religione, la scomparsa, per lo meno in Occidente, delle fedi delle varie confessioni, veicolo pur sempre di valori morali, anche la politica tracolla.

Se la scienza politica, a partire da Machiavelli, fa a meno della religione, la politica corrente muore se nessuna “religione” la sostiene, neppure la fede laica nel bene comune e nella possibilità di cambiare il mondo. E non è senza significato che ad anticipare questi anni sia stato il nostro Leopardi, il quale diversi decenni prima di Nietzsche aveva intravisto «questa universale dissoluzione dei principi sociali, questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in grande forse circa il futuro destino delle società civili». Si rilegge oggi con brividi di emozione e stupore il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani(1824), per la potenza disvelatrice di uno sguardo che non lascia ombre alla situazione desolante del nostro tempo.

Dunque, il quadro generale è quello di una grave involuzione antropologica delle società umane, ma entro il quale, l’Italia è, per ragioni che Leopardi esamina in maniera impeccabile, il Paese in più gravi condizioni: «L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun altra nazione europea e civile». Sembra scritto in questi giorni: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». L’egoismo, il narcisismo, l’invidia, l’odio per l’altro erano allora la norma, prima che gli ideali del risorgimento investissero lo spirito pubblico.

Naturalmente all’analisi di Leopardi manca il ruolo dei media, i quali amplificano, rendono popolare, materia di spettacolo l’immoralità crescente del ceto politico e della cosiddetta società civile.

So per certo, per parafrasare Leopardi, che se le leggi l’avessero consentito, non pochi giornalisti avrebbero invitato Totò Riina ai loro programmi televisivi. Costoro sono incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana. Ebbene, è dalla profondità di tale catastrofe culturale e spirituale che la sinistra e le forze democratiche dovrebbero oggi prendere le mosse, perché la dissoluzione della società non abbia quale rimedio al caos un governo autoritario.

da “il Manifesto” del 20 novembre 2021
Di Sconosciuta, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1128950

Reddito di cittadinanza:i guasti politici dell’invidia sociale.- di Piero Bevilacqua

Reddito di cittadinanza:i guasti politici dell’invidia sociale.- di Piero Bevilacqua

Un ampio ventaglio di ragioni e di umori, posizioni teoriche e avversioni viscerali, militano contro il reddito di cittadinanza in Italia. E’ un calderone in cui si agitano i cascami della cultura neoliberista, secondo la quale non esiste la keynesiana “disoccupazione involontaria”, essendo la mancanza di lavoro responsabilità di chi non lo cerca.

Come ci ricorda ora il saggio di Mauro Callegati, Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo (Luiss,2021). Ma si rinvengono anche opposizioni “di sinistra”, come quelle del sindacato, che teme il dilagare di un assistenzialismo deteriore, destinato ad accrescere la subalternità dei ceti proletari.

Il lavoro, si sostiene, è l’unica leva del riscatto, senza troppe remore a perpetuare così la cultura del dominio capitalistico sugli individui, e tenendo in poco conto che il lavoro non c’è e la sua scarsità è un’arma formidabile in mano ai gruppi padronali. I quali la usano per fare accettare condizioni anche estreme di precarietà, soprattutto ai giovani e agli immigrati, per fare pressione sui governi, per creare egemonia col porsi come dispensatori di impiego e di reddito, i benefattori dell’umanità.

Ho ascoltato sindacalisti criticare il reddito di cittadinanza in Calabria, dove tanti giovani laureati, che arrivano a 30 40 anni con lavoretti, e non hanno la possibilità di fuggire all’estero, oggi sarebbero alla disperazione senza il cosiddetto reddito di cittadinanza. Di cui conosciamo peraltro i limiti e a cui Roberto Ciccarelli ha dedicato su questo giornale analisi circostanziate, sino alla intervista a Chiara Saraceno (10/11), dove si denunciano gli intenti punitivi delle annunciate “correzioni” governative.

Ma esiste anche un’avversione più oscura a questa forma di sostegno alla sopravvivenza, che si agita tra gli strati popolari a cui do il nome di invidia sociale. I lavoratori non sopportano che ci siano nel loro ceto persone retribuite, sia pure in forma modesta, senza fatica e impegno. Trovano intollerabile questa “ingiustizia”. Anche chi è in condizioni di estremo bisogno deve meritarsi il pane, accettando qualsiasi forma di occupazione.

E’ su questo giustizialismo rancoroso che la nostra destra plebea fa le proprie fortune, come le ha fatte con la narrazione degli stranieri che rubano il lavoro agli italiani. Si tratta di un humus culturale pernicioso con cui i gruppi dominanti e il ceto politico che li serve, scatenano la guerra tra gli ultimi e i penultimi, perpetuando il proprio soggiogamento materiale e culturale su gran parte dei ceti popolari.

Un coacervo ideologico su cui l’assenza di uno sguardo radicale impedisce un’opera salutare di demistificazione. E’ esemplare a tal proposito l’imbarazzata timidezza del ministro Orlando di fronte alle recriminazioni per gli abusi emersi nella percezione del reddito.

Egli non è riuscito a ricordare ai suoi interlocutori e all’opinione pubblica, che in Italia non si riesce a tassare le grandi ricchezze di pochi, i patrimoni immobiliari di molti, le fortune di una platea estesa di famiglie e si lascia nella povertà milioni di persone che pur lavorano, una fascia crescente di occupati precari, 2 milioni di famiglie in povertà assoluta (dati Istat 2020) mentre si costringono le migliori energie intellettuali del Paese a cercare occupazione all’estero.

Ho conosciuto gli effetti perversi dell’invidia sociale in un ambito “alto” della società italiana, l’università. Allorché incominciarono a circolare le prime notizie sui criteri di valutazione dei titoli scientifici dei docenti da parte di una autorità esterna, che sarebbe poi diventata l’Anvur.

E’ apparso evidente che a far accettare l’imposizione di un Moloch burocratico calato dall’alto per il controllo di merito sulle attività dei professori è stato il desiderio di “giustizia valutativa” da parte soprattutto dei colleghi scientificamente più attrezzati e progressisti. Non sopportavano la presenza dei (pochissimi) docenti scarsamente attivi e produttivi o l’avanzamento di carriera di quelli, altrettanto pochi, considerati non meritevoli.

Così un sistema di valutazione affidato ai concorsi e tutto interno a una istituzione secolare, l’autonomia universitaria, gestito dai docenti, e certamente segnato da pecche e punti deboli, è stato abbandonato per sanare queste mancanze. Lo scandalo sollevato dai media sul familismo nell’università, sui concorsi truccati…, ha spinto a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il più antico e uno dei migliori sistemi universitari del mondo è stato avviato alla sua trasformazione aziendalistica secondo i dettami europei elaborati dal cosiddetto Processo di Bologna(1999).

Nessuno dei moralisti di allora è stato in grado di sollevare lo sguardo dal pelo nell’uovo per scorgere il superiore disegno di asservimento del sistema formativo europeo alle ragioni della strategia neoliberista della Ue. In assenza della critica sociale un tempo esercitata dal movimento operaio, la grande massa dei cittadini opera così per il proprio volenteroso asservimento alla grande macchina capitalistica.

da “il Manifesto” del 13 novembre 2021
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La divisione delle sinistre è il progetto perdente.-di Piero Bevilacqua

La divisione delle sinistre è il progetto perdente.-di Piero Bevilacqua

L’intervento su “il Manifesto” di Nicola Fratoianni ( 26/10 ) e di Loris Caruso (28/10) per opposti motivi vincono il senso di frustrazione a tornarei sulla condizione e il destino della sinistra italiana, a seguito della discussione generosamente avviata da Norma Rangeri.

Il segretario di Sinistra Italiana non vede davanti a sé, e alla sinistra tutta, nessun’altra prospettiva se non il campo del centro-sinistra.

Tanta ampiezza di visione francamente sconforta dopo il misero risultato del 2,5%, raccolto dalla lista “Sinistra civica ed ecologista” alle elezioni comunali di Roma.

Intendiamoci, la scelta di sostenere la candidatura di Gualtieri era obbligata, occorreva sbarrare la strada a una destra plebea e culturalmente fascista, dare alla città almeno una figura di sindaco progressista e autorevole. Ma queste sono scelte tattiche, che può fare un partito con una sua fisionomia autonoma, decidendo di allearsi con il Partito democratico quando la situazione lo rende utile, quale variabile all’interno di una strategia più generale.

Nella visione di Fratoianni SI appare una rassegnata appendice del Pd che persegue una originale forma di minoritarismo, non settario, ma subalterno. Come se il fine di quel partito non fosse la trasformazione della realtà attraverso l’organizzazione e la direzione del conflitto, ma l’affermazione elettorale, la presenza in Parlamento. E quindi come se bastasse esprimere una posizione politica di sinistra per avere quel risultato.

Così passano gli anni e non si assiste mai alla nascita di una idea, una iniziativa, almeno a un dibattito nazionale, con studiosi e cittadini, sui grandi temi italiani, dal lavoro al Mezzogiorno. Silenzio.

Caruso svolge una lucida analisi della collocazione e del senso di direzione del Pd nello scenario politico italiano di oggi. Io vorrei aggiungere qualche considerazione in prospettiva storica, e. non posso non ricordare che il Pd è, nelle sue fondamenta, un errore strategico. Non solo perché, “un amalgama mal riuscito”, ma soprattutto una camicia di forza imposta alle varie culture politiche nazionali, uniformandole in una politica centrista nella fase di scatenamento del capitalismo su scala mondiale.

Non a caso quella camicia si è subito strappata, mentre l’imposizione di un sistema elettorale maggioritario ha contribuito all’emarginazione delle forze politiche minori.

Il bipartitismo anglo-americano che si è voluto importare in Italia come un prodotto di Hollywood, da noi è arrivato quando nei paesi d’origine era già logoro. Chi si ricorda dei programmi elettorali più o meno identici dei Laburisti e dei Conservatori inglesi, dopo gli anni della Thatcher, rilevati nientemeno che dal Financial Times, entrambi sostenuti da un robusto impianto neoliberista? E non è stato così per decenni anche negli Usa con i Democratici che si erano resi indistinguibili dai Repubblicani? E da dove è uscito Trump se non dal vasto impoverimento della middle class, che il biparitismo non rappresentava più da almeno un ventennio?

Tutto il populismo europeo non è solo figlio della globalizzazione e della crisi del 2008, delle politiche austere dell’Ue, ma del fatto che a milioni di cittadini, i quali vedevano peggiorare la loro vita di anno in anno, non è stato neppure offerta una interpretazione classista e politicamente avanzata di quel che stava loro accadendo.

Quali sono oggi i risultati che il Pd può vantare dopo la lunga presenza, a vario titolo, nei governi nazionali? Qualcuno è in grado di indicare un ambito della vita sociale dell’Italia la cui condizione è migliorata? Nell’assetto e nella qualità del lavoro? Nella condizione femminile? Nella scuola e nell’università? Nella sanità? Nel sistema fiscale? Nello stato delle nostre città? Negli assetti dell’ambiente e del territorio? Nella condizione giovanile e del Mezzogiorno? 15 anni di generale regresso.

Da quando è nato nel 2006 il Pd, con il suo moderatismo, ha obiettivamente costituito una forza di conservazione negli equilibri sociali del Paese. Ma è stato anche un fattore di immobilismo disordinato del sistema politico.

E’ il suo peso uno degli ostacoli che impedisce la nascita di una formazione alla sua sinistra, a causa della forza di attrazione che ancora esercita grazie alla presenza al suo interno di dirigenti stimabili, per il ruolo che vi hanno ancora amministratori locali onesti e capaci, per la sua struttura organizzativa nei territori, per la forza inerziale di una tradizione sopravvissuta nella mente di tanti vecchi militanti ed elettori del Pci.

Questa evidente verità, tuttavia, non salva l’anima ai dirigenti delle varie sinistre, che nulla fanno per sfuggire alla forza calamitante di questa nuova Democrazia Cristiana. Quello che Rifondazione Comunista e Potere al Popolo dimenticano, quando rivendicano la loro presenza nei luoghi dei conflitti, o la coerenza classista delle proprie posizioni, è che questi sforzi contano poco se non si configurano in un più ampio disegno di crescita politica unitaria.

Le parole d’ordine più avanzate si perdono nell’aria, insieme alla pubblicità, se non si comunica l’idea di avere la forza per poterle perseguire. Non si deve dimenticare che le loro percentuali di consenso esprimono una valutazione di natura elettorale, non di merito. I cittadini tengono cioè conto del loro reale potere d’azione. Il voto della minoranza che oggi va alle urne è un “voto utile”.

da “il Manifesto” del 4 novembre 2021

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Col garbo e la finezza argomentativa che lo contraddistinguono, Agazio Loiero polemizza con me su questo giornale( 26/9 ) perché io, in quanto intellettuale, e dunque dotato di ampie capacità di valutazione e di giudizio, sostengo la candidatura di Luigi de Magistris a presidente della Regione Calabria.

Cercherò perciò di esporre le ragioni per cui, proprio in virtù delle doti che lui mi attribuisce, io sostengo convintamente questa candidatura.Non senza aver espresso tuttavia, preliminarmente, il disagio di una discussione così impostata, che mi pone in una posizione di “avvocatura” nei confronti di una singola persona, quando noi, a pochi giorni dal voto, dovremmo parlare dei drammatici nodi che strangolano la regione, di programmi di riforma, di prospettive possibili per le nuove generazioni.

Ma questo è lo stato degenerato della democrazia e della vita politica in Italia. Si discute solo di uomini, di alleanze, di posizionamenti, di gruppi, cioé solo di potere, di ceto politico: i cittadini, le masse lavoratrici, le loro condizioni, sfuggono al radar di ogni considerazione.

Loiero muove critica a due apetti e momenti dell’eperienza pubblica di de Magistris: in quanto magistrato, che ha operato in Calabria per alcuni anni e in quanto sindaco di Napoli, dove non avrebbe combinato granché. Da magistrato avrebbe condotto “molte inchieste quasi tutte senza successo”; e soprattutto ha inviato avvisi di garanzia a personaggi pubblici – Prodi, Mastella, lo stello Loiero – che non avrebbero poi condotto ad alcuna condanna giudiziaria. Ma, osserva Loiero, mettere sotto accusa i potenti offre a un magistrato una visibilità mediatica enorme.

Una possibilità che de Magistris ha sfruttato a piene mani. Questo dimostrerebbe che l’attuale sindaco di Napoli sarebbe “l’archetipo di una Italia guappa e furba in cui la demagogia si coniuga con il diffuso populismo”.

Non è possibile, in un breve articolo, entrare nel merito di complicate vicende giudiziarie (ammesso di possedere le conoscenze necessarie per farlo) e io posso anche concedere ad Agazio, nel merito, qualche imprudenza, errore ed avventatezza del magistrato de Magistris, allora trentenne. Ma sotto il profilo politico io traggo conseguenze opposte. Un magistrato che punta a indagare sui potenti è un uomo coraggioso, che in un paese come l’Italia rischia di rompersi l’osso del collo, di compromettere per sempre la propria carriera.

Qui non si tratta di guapperia, caso mai di temerarietà e in una regione come la Calabria, segnata da tanta corruzione e malavita, un presidente intransigente sul piano della legalità è quanto mai necessario. A de Magistris non chiediamo di tornare a fare il magistrato, ma di governare la regione.

Su un punto devo dare ragione ad Agazio, là dove affermo che il sindaco di Napoli è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro l’autonomia differenziata. Intendevo una figura con carica istituzionale nel momento delle trattative del 2019. Loiero è stato in effetti uno dei pochissimi dirigenti italiani a schierarsi contro la Lega, in difesa del Sud, anche con pubblicazioni, già in anni precedenti. E veniamo al sindaco de Magistris.

Davvero non si comprende la taccia di populismo che gli viene inflitta. Perché non partecipa ai giochi dei gruppi e gruppetti annidati nei partiti politici? Napoli è stata l’unica grande città d’Italia che ha reso pubblica l’acqua, abbasandone anche il prezzo, rispettando il risultato del refenendum istituzionale del 2011, dunque ottemperando a un dettato della Costituzione. Gli altri partiti politici, a cominciare dal PD, hanno sistematicamente sabotato la volontà popolare.

A Napoli de Magistris ha risolto l’umiliante problema dei rifiuti, che in certe zone della città si innalzavano sino ai primi piani dei palazzi, e lo ha fatto con pochissimi mezzi finanziari e con un rafforzamento della macchina amministrativa pubblica, contro un andazzo neoliberista che faceva prosperare la criminalità. Ha tolto il servizio di raccolta e smaltimento alle società private che si spartivano la torta, e lo affidato all’azienda comunale Asìa.

Tramite la creazione di 10 isole ecologiche, una per ogni municipalità, e cinque itineranti (per raccogliere mobili ed elettrodomestici che prima finivano per la strada) l’acquisto di nuovi macchinari, la creazione di una polizia ecologica, che ha sanzionato migliaia di trasgressori, l’esportazione in Olanda, Napoli ha raggiunto il 40% della raccolta differenziata.Oggi in quasi tutti i quartieri è diffusa la raccolta porta a porta e le tariffe TARI sono fra le più basse d’Italia.
C’è stata una importante iniziativa del sindaco, che ha avuto esiti importanti per la città, ma anche effetti negativi sulla sua immagine di uomo politico. Si è trattato di una scelta politica di legalità e profondamente antineoliberista: de Magistris ha ricondotto all’interno della macchina comunale, cioé del potere pubblico, la gestione del patrimomio immobiliare di Napoli, prima affidato all’imperenditore Romeo, finito in alcune inchieste giudiziarie.

E’ stato un gesto che solo un politico di grande coraggio come de Magistris poteva compiere, gli altri sindaci non avevano osato.Perché Romeo, membro di un potentissimo gruppo finanziario, è da lunga data amico della famiglia Caltagirone, patron del Mattino di Napoli, il più diffuso e infuente quotidiano della città. Da allora quel giornale ha iniziato una vera e propria guerra diffamatoria contro De Magistris, a cui si è associata anche La Repubblica locale, che sostiene il PD, nemico giurato del sindaco, il quale fa politiche “populiste”, cioé non viene realisticamente a patti con i potenti. Gran parte dell’immagine pubblica che abbiamo del politico De Magistris viene costruita da questi giornali e dalla TV regionale, che ubbidisce agli stessi orientamenti.

E’ dunque naturale che si sappia poco di quel che egli ha realizzato a Napoli. Ad es. non si sa dei miglioramenti i apportati al sistema del traffico cittadino, con la trasformazione di quasi tutti gli incroci in rotonde, il rifacimento di centinaia di km di strade, la pedonalizzazione di gran parte del lungomare di via Caracciolo, l’incremento del trasporto pubblico con l’acquisto di 150 nuovi autobus (rinnovando una flotta risalente al più agli anni ’90), l’apertura di 5 nuove stazioni della Metro. Tutto accompagnato dal risanamento dell’azienda pubblica di trasporto, l’ANM, il cui bilancio è ritornato in attivo. Niente male per una amministrazione penalizzata da un debito accumulato dal terremoto dell’80.

Io potrei qui dilungarmi con un lungo elenco di realizzazioni che farebbero impallidire il bilancio di molti sindaci italiani. Potrei rammentare la rigenerazione del quartiere Sanità, la “riconquista” dei Quartieri Spagnoli, un tempo luoghi pericolosi, oggi pullulanti di osterie e bar, affrescati da murales giganteschi noti in tutto il mondo. Potrei ricordare gli investimenti in verde grazie all’apertura di tanti parchi, in centro come in periferia.

Potrei rammentare i tratti di spiaggia un tempo privatizzati e riconsegnati ai cittadini, i monumenti ristrutturati, i centri culturali aperti, in centro e nelle aree degradate.Ma vorrei ricordare, che il sindaco ha inaugurato una politica di ascolto dei cittadini e dei loro diritti. Napoli è stata la prima città d’Italia a dotarsi di un registro delle unioni civili, che ha permesso il riconoscimento legale a coppie dello stesso sesso e ai loro figli, anche adottivi, esempio poi seguito anche da altre città.

Almeno questo dovrebbe bastare per fare di de Magistris un candidato degno di governare la Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 settembre 2021

Tocqueville e i suoi fantasmi. Una lezione di filosofia.-di Filippo La Porta Saggio (con gusto letterario) di Bevilacqua

Tocqueville e i suoi fantasmi. Una lezione di filosofia.-di Filippo La Porta Saggio (con gusto letterario) di Bevilacqua

Piero Bevilacqua, storico meridionalista e scrittore, ha orchestrato un dialogo impossibile tra alcuni giganti del pensiero moderno, altrettanti spettri convocati nel 2021 in una sontuosa dimora vicino Parigi, dal visconte Alexis de Tocqueville: Illustri fantasmi nel castello di Tocqueville (Castelvecchi), e lo ha fatto con gusto letterario, sapiente messinscena e senso dei dialoghi.

Di fronte a noi sfilano Marx, Burke, Nietzsche, Lenin, Rosa Luxemburg, Gramsci, Friedman… tutti molto informati sulle trasformazioni del mondo contemporaneo. Credo che il nostro ceto politico – apparentemente nato da se stesso (riuscite a immaginare una biblioteca dietro i nostri partiti?) – avrebbe l’obbligo di leggere questo libretto, anche solo per acquisire un senso del passato, una consapevolezza della politica stessa, una cognizione sufficientemente precisa del conflitto di idee così come ci viene dalla tradizione.

Dichiaro subito la mia totale condivisione dello spirito del libretto, della sensibilità che lo sottende, della segreta identificazione dell’autore con Rosa Luxemburg (se non mi sbaglio), l’unica capace di attaccare sia la “ragione”occidentale, legata al dominio, e sia il soggettivismo rivoluzionario privo di misura, che non riconosce al caso alcuna importanza. Inoltre segnalo, in queste pagine, alcune perle assolute: la originale riflessione sulla mancanza di una vera tradizione di sinistra negli Usa, la disputa sulla illusione che basti produrre più ricchezza per elevare il livello di tutti, la denuncia dell’applicazione agli animali dei metodi di sterminio collaudati nel secolo breve, la confutazione del cosiddetto “stato leggero”, l’idea aberrante della colpa originaria oggi legata al debito contratto…

Non solo Bevilacqua dice qualcosa di sinistra, ma la dice con una chiarezza problematica esemplare. Detto questo, mi sento allora autorizzato a riportare qui un elenco di considerazioni critiche e di possibili obiezioni.

1 Nel nobile consesso mancano alcuni ospiti che sarebbero stati fondamentali (mentre far rappresentare da Friedman l’intera tradizione liberale è un po’ mettersi le cose facili). In particolare: Proudhon, che non capiva la dialettica (come Tocqueville) ma che aveva intravisto l’autoritarismo di Marx e più che di socialismo “scientifico”(micidiale illusione) parlava della centralità del bisogno di giustizia; Leopardi, che più di chiunque altro ha meditato sulla natura (restiamo creature gettate sulla terra, condannate a invecchiare e a morire, dice Tocqueville) auspicando (nella “Ginestra”) una lotta di tutti contro il comune nemico (mente il marxismo sulla questione del limite oscuro e naturale dell’esistenza ha delegato troppo al positivismo più bolso); Herzen, il pensatore libertario che ha mostrato come i fini troppo lontani nel tempo sono sempre un inganno (contano quasi solo i “mezzi”).

2 Unico autore contemporaneo citato è sir Ralf Dahrendorf ( e il nostro Carlo Cipolla)! Senza nulla togliere all’illustre “baronetto” politologo, forse c’era di meglio: Sennett, Nancy, Castoriadis, Ivan Illich…

3 La tirata di Marx contro il nostro tempo (la tendenza a farsi gregge delle persone) e le strategie pervasive di marketing (ci indurrebbero ad acquistare anche prodotti di cui non abbiamo bisogno)non mi convince, né mi pare in fondo “marxista”: le merci non sono mai imposte né interamente calate dall’alto. Vi è interazione tra alto e basso. L’iPhone – un prodotto di eccellenza tecnologica – è stato immaginato e disegnato da ex fricchettoni californiani (sottopagati) pensando a ciò che loro stessi desideravano di più, alla possibilità di comunicare facilmente con chiunque, etc.! Non ne abbiamo bisogno per la sopravvivenza? Certo, ma allora dovremmo rinunciare a 4/5 del nostro stile di vita.

4 Sulla violenza le critiche (radicali) al marxismo (la violenza levatrice della Storia, etc.) le avrei fatte citando almeno Simone Weil: ogni guerra, come la guerra di Troia, si dimentica le sue ragioni, mentre l’uso della forza sfigura per sempre chi la usa e chi la subisce. Compagni, ancora uno sforzo: Saul Alinsky, inventore del sit-in e di tecniche di disobbedienza passiva, organizzatore dal basso di comunità a Chicago negli anni ’30, è assai più “eversivo” di Che Guevara!

5 Il Nietzsche di questo consesso, benché dipinto correttamente come pessimista incorreggibile e critico della modernità, mi sembra troppo poco di destra, come invece era! Non dimentichiamolo, voleva gli operai ridotti a schiavi, senza la “finzione” del diritto di sciopero e cose analoghe!
6 Sugli States. Bevilacqua accoglie equanimemente opinioni diverse, però si capisce che è un po’ più dalla parte di chi li demonizza. Ora, dal punto di vista dell’ “essenza”(i filosofi prediligono l’essenza) può anche darsi che tra democrazia americana e Germania nazista non ci siano differenze rilevanti. Ma basta avr vissuto negli Stati Uniti una settimana per capire come invece i “dettagli” sono tutto, e circola ovunque un senso di libertà vertiginoso, a noi sconosciuto (un musicista nero, che viveva di espedienti, mi disse convinto: “I’m not poor, I’m broke”, “Non sono povero, sono – temporaneamente – al verde”).

Torniamo al mio pieno consenso a queste pagine di Bevilacqua. Nelle conclusioni fa dire a Marx: “Dentro quest’ordine vecchio della società, questo involucro inerte di divisioni e confini…è sorta una sola umanità, spinta da un comune desiderio di uguaglianza”. E parla di una “crisalide” uscita dalla membrana, una “nuova ragione del mondo”. E così Rosa Luxemburg, anche lei rivolta a Nietzsche (ma perché? tanto nessuno lo convince!), dirà che il bello, il buono e il giusto non sono spariti, “fanno parte della volontà di essere di tanti uomini e donne”. Ed è la “storia più nobile del nostro passato”.
Appunto: per la rivoluzione – qualsiasi cosa voglia dire questo concetto – è molto più utile il passato del futuro, la nostalgia di ciò che non è stato realizzato.

Particolarmente felice la invenzione del personaggio di Caterina, la domestica napoletana di Tocqueville, che alla fine invita tutti al pranzo, alle penne al ragù di maiale cucinato a fuoco lento per tre giorni, etc. (per la signora Rosa, vegetariana, pasta aglio e olio)… Sano richiamo materialistico ad una concreta esperienza di piacere indispensabile per criticare l’esistente, che quel piacere nega ai più. In tedesco le parole “compagno” e “godimento” hanno la stessa radice, come a quel pranzo ben sapeva Marx, affondando la mano nel groviglio della sua grande barba.

da “il Riformista”

Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua

Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua

Una delle immagini più avvilenti degli ultimi tempi,un episodio da nulla, ma che mi ha mostrato in quale catastrofe culturale, prima ancora che politica, fosse caduta la Calabria, mi è caduta sotto gli occhi nel 2019.

Nel servizio di un telegiornale nazionale, dedicato agli impegni elettorali dei vari leader, ho visto Matteo Salvini passegiare per le strade di una città calabrese tra ali di folla, mentre una donna si chinava ai suoi piedi baciandogli la mano. Come è potuto verificarsi un gesto del genere? Tanto calore di folla e perfino l’umiliazione di un baciamano, che di solito si dispensa alla Madonna o ai capimafia? Dove vivevano quei calabresi almeno 5 o 10 anni prima? Avevano letto qualche giornale, o almeno seguito qualche programma televisivo in cui era di scena la Lega e i suoi dirigenti?

E’ davvero stupefacente constatare tanta smemoratezza, anche se so bene che in altre città della Calabria Salvini è stato vigorosamente osteggiato. Ma il punto clamoroso che rende inconcepibile l’accoglienza e il consenso a un dirigente leghista nelle nostre regioni è che la Lega è alla radice un partito antimeridionale, che nasce e continua a operare come avversario e denigratore della nostra gente. E non per gratuita cattiveria ma per strategia politica.

Debbo qui ricordare che sin dalle origini, questo partito, la Lega Nord di Umberto Bossi, fonda le sue fortune nei territori del Nord inventando fasulle identità etniche, ma soprattutto creando due nemici: “Roma ladrona” e il “Sud che vive a spese del Nord.” Questa narrazione intessuta di menzogne, ha avuto una grande fortuna – nulla funziona meglio in politica della creazione di un nemico e di un capro espiatorio cui addossare la responsabilità dei disagi e dei problemi – al punto da condizionare le politiche pubbliche a favore del Sud per i decenni successivi.

Ebbene, l’astuzia di Salvini è consistita nel trovare un nuovo nemico con cui sostituire i meridionali e Roma, che a Umberto Bossi era nel frattempo diventata simpatica, visti i lauti stipendi istituzionali di cui ha goduto e le possibilità che il suo potere di governo ha offerto alla sua famiglia.
I nuovi nemici, a partire dal nuovo millennio, sono diventati gli immigrati, i clandestini, i disperati della terra che scappavano da guerre e miseria, trasformati in criminali, violentatori delle nostre donne, venuti a rubare il lavoro agli italiani. Salvini ha continuato il lavoro di Bossi, promuovendo i meridionali a italiani così da estendere a tutto il territorio nazionale il bacino elettorale della Lega.

Ora non si tratta di rimproverare a Salvini il suo passato antimeridionale.Anche se dai meridionali si pretenderebbe una memoria critica sempre vigile, per rammentare i danni gravi che sono statti loro inflitti. Il fatto è che il partito della Lega continua con più accortezza la sua politica di sempre. Mentre infatti il suo capo viene a fare comizi nelle nostre regioni, i presidenti del Veneto e della Lombardia continuano in segreto a lavorare perl la secessione delle loro regioni dal resto d’Italia. Esse rivendicano la piena podestà su ben 23 materie (scuola, sanità, trasporti,energia, ambiente, ecc.) e soprattutto pretendono di incassare tutti gli introiti fiscali generati nel loro territorio.

In questo modo viene meno la solidarietà fiscale su cui si regge qualsiasi stato al mondo e l’Italia va letteralmente a pezzi. I meridionali possono solo immaginare quel che accadrebbe alla sanità pubblica, che nel giro di pochi anni verrebbe in gran parte privatizzata.I “viaggi della speranza” di tanti malati verso gli ospedali di Roma e del Nord avrebbero costi insostenibili. Ma è l’Italia, così com’è stata costruita a partire dal 1861, dopo 4 secoli di divisioni e di asservimento allo straniero, che verrebbe di nuovo riportata agli statarelli di antico regime.

Ne abbiamo avuto la prova nel 2019, quando si stava per realizzare in gran segreto, saltando il Parlamento,l’accordo tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e il governo nazionale. In quei mesi, anche Piemonte, Liguria, Umbria manifestarono la stessa volontà di secessione, anticipando quel che sarebbe accaduto se l’accordo fosse stato raggiunto.

Ebbene, non c’è dubbio che l’autonomia differenziata costituisca la più grave minaccia che grava ancora oggi sull’avvenire del nostro Paese:la frantumazione territoriale che ci ha reso irrilevanti in Europa per tutti secoli dell’età moderna. E e allora come è possibile che ci sia così tanto poco allarme e informazione su tale gravissimo pericolo? I motivi sono due.I grandi giornali nazionali sposano ormai la posizione di gran parte dell’industria e della finanza del Nord, secondo cui il Sud costituisce un freno all’economia nazionale.Quindi sono d’accordo sulla secessione e tacciono. L’altra ragione riguarda i partiti e soprattutto il PD, l’unica formazione con insediamento locale, che avrebbe interesse a contrastare la Lega, soprattutto al Sud, ricordando i suoi propositi secessionisti. Ma questo non accade, perché una delle regioni chiave di questo partito, l’Emilia Romagna di Bonaccini, rivendica anch’essa l’autonomia differenziata, sebbene su un numero minore di materie.

Debbo qui rivelare una esperienza personale.Nei mesi che precedettero la campagna elettorale amministrativa del 2019, insieme ad altri amici, avevamo tentato di organizzare una carovana di uomini e donne che partisse dal Sud e arrivasse al Nord, con un pulman, per spiegare al maggior numero possibile di cittadini qual’era la vera strategia della Lega: Salvini che faceva l’italiano al Sud e i presidenti di regioni che lavoravano per la secessione. Per tale iniziativa fui all’inizio sostenuto dalla CGIL nazionale.Ed ebbi vari incontri a Roma, nella sede centrale di Corso Italia. Ma a un certo punto tutto naufragò, la disponibilità del sindacato venne ritirata. Nessuno lo disse esplicitamente, ma il PD non voleva che si danneggiasse la campagna elettorale di Stefano Bonaccini e il tema secessione non andava sollevato.

Un’arma efficacissima per battere la destra nel Sud e in Calabria fu abbandonato. Ebbene, agli amici stupiti che tanti intellettuali si siano schierati a fianco di De Magistris, debbo ricordare che questo leader è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro la secessione leghista e la semisecessione di Bonaccini; che nella sua lista annovera figure di prim’ordine estranei ai giochi nazionali dei partiti, tra cui Mimmo Lucano, il quale, come sindaco di Riace, ha riscattato l’onore della Calabria agli occhi del mondo.A chi denigra la sua figura di sindaco di Napoli ha già risposto su questo giornale Pino Ippolito(6/9).

Io aggiungerei che chi vuol valutare con onestà quella esperienza, deve considerare il grave debito che egli ha ereditato dalle precedenti amministrazioni, lo strangolamento finanziario subito da tutti i comuni italiani in questi anni, il fatto di amministrare la più difficile città d’Italia avendo contro tutti i partiti, la grande stampa e la TV nazionale. Che un personaggio così isolato, privo di mezzi e osteggiato sia stato riconfermato sindaco, ai calabresi onesti dice che potrebbe essere un ottimo presidente di Regione . Che egli venga diffamato perché a Napoli non ha fatto “questo” e quello” è in tanti casi la prova che il personaggio non rientra negli schemi del conformismo politico dominante. Quel conformismo che occorre far saltare per l’avvenire della Calabria.

da il “Quotidiano del Sud” del 22 settembre 2021

Un argine al dilagare delle falsità veicolate dal senso comune.-di Lelio La Porta

Un argine al dilagare delle falsità veicolate dal senso comune.-di Lelio La Porta

«Gli immigrati ci rubano il lavoro»: è una delle affermazioni più ricorrenti dei sovranisti nostrani che insinuano fra gli italiani una forma particolarissima di odio fondata sul fatto che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri operai: questa narrazione, oltre a essere infondata, serve, invece, «a rendere ancora più deboli i braccianti» sfruttati dai caporali e dai padroni e favorisce la lievitazione smisurata dei profitti. Altro che esaltazione del popolo italiano («Prima gli italiani»); si tratta di uno schierarsi esplicito dalla parte del grande capitale nell’ottica della prosecuzione e dell’estensione del dominio delle classi dominanti sui lavoratori italiani.

QUESTA APPENA RIASSUNTA è una delle contronarrazioni presenti nella raccolta “Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche” (a cura di Tiziana Drago, Enzo Scandurra, con Prefazione di Piero Bevilacqua, Castelvecchi, pp. 148, euro 17,50).

Il volume, dedicato a Franco Cassano, è il frutto di un lavoro collettaneo di intellettuali, provenienti da discipline diverse, raccolti intorno al sito dell’Officina dei saperi con l’obiettivo di proporre voci in grado di erigere un argine al dilagante senso comune delle narrazioni false e pericolose (come quella esposta all’inizio), che sono in grado, però, di diventare egemoniche poiché, di fatto, ripropongono quanto scriveva Manzoni nel suo romanzo storico a proposito del rapporto fra buon senso e senso comune: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Per sconfiggere la paura del senso comune diffuso, sostenuto da narrazioni che diventano tossiche in quanto producono consenso antidemocratico e conformista, cioè conforme al pensiero neoliberista, e provare a costruirne uno nuovo, sono raccolti testi di Abati, Agostini, Angelucci, Aragno, Bevilacqua, Budini Gattai, Cingari, Drago, Ferri, Fiorentini, Lorenzoni, Marchetti, Masulli, Novelli, Pazzagli, Sangineto, Scandurra, Toscani, Vacchelli, Vavalà, Vitale, Ziparo.

Questi scritti, come fa presente il sottotitolo del libro, si propongono nell’ottica di una critica sociale delle narrazioni, come quella riportata all’inizio. Dalla loro lettura emerge come e quanto il concetto di critica sia usato nell’accezione kantiana del termine, cioè come espressione di giudizi che si contrappongono, in quanto contronarrazioni, alle narrazioni correnti, ricettacolo di falsità e bugie.

«Tutti al centro»: lo spopolamento delle aree interne italiane (60% del territorio) è un fenomeno che non può essere ricondotto a una prosecuzione nel secolo presente di un processo di urbanizzazione iniziato molto prima; è molto di più e ha come prima conseguenza la frattura tra città e campagna.

L’estate appena trascorsa ha visto la realizzazione di alcune lodevoli iniziative in zone interne del nostro paese, nella fattispecie in Abruzzo, con l’obiettivo di «riabilitare i paesi, coltivare le campagne, ricostruire un rapporto equilibrato con la natura». Quindi una contronarrazione operativa che ha messo in discussione, decostruendola, la «metafora sbiadita della stanca modernità del nostro tempo» costituita dal «Tutti al centro».

L’INSIEME delle contronarrazioni costituisce un nucleo di controtendenza nei confronti di una forma egemonica nella quale il capitale, e il suo dominio, ha un ruolo di primo piano. E il capitale, vero convitato di pietra nell’elaborazione dei vari contributi, non è un quid astratto in quanto si concretizza in figure il cui potere, la cui filocrazia determinano l’infuturarsi del rapporto fra gli sfruttati e gli sfruttatori, fra gli oppressi e gli oppressori in forme di ineguaglianza non meno feroci di quelle a cui sono stati sottoposti i subalterni di altre epoche storiche.

Per avvicinarsi all’obiettivo e creare una coscienza collettiva, ossia un «nuovo senso comune» che sappia cogliere nell’urgenza della soluzione dei problemi immediati la prospettiva di una nuova dimensione del vivere in comune, quello che Marx definiva «Das Kommunistische Wesen» e Gramsci «vita d’insieme», c’è bisogno di operare nella realizzazione di una nuova volontà collettiva che, una volta, era veicolata dall’opera dei partiti politici (la cui assenza è sottolineata nel volume), ma ora è carente a causa di mancanza di discussione e di confronto e di incapacità di prendere decisioni e assumersi responsabilità.

ANCHE IN QUESTO GLI SCRITTI che compongono il volume si presentano come pars construens rispondendo all’affermazione di Seneca, nella lettera 104 a Lucilio, secondo la quale «Non è perché le cose sono difficili che non le affrontiamo, è perché non le affrontiamo che sono difficili».

Le autrici e gli autori delle varie contronarrazioni affrontano le cose difficili, con l’onestà intellettuale di chi è gramscianamente partigiano, ossia schierato da e con una parte. L’indicazione sembra essere quella di procedere alla ricerca delle strade che più possano avvicinare la democrazia, intesa come pedagogia della solidarietà e nel rispetto del dettato costituzionale, al socialismo come sistema economico-politico in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna si pongano soltanto come elemento di riflessione e di studio su una storia passata.

La fatica del concetto, di cui scriveva il vecchio filosofo, si concretizza nei testi della raccolta laicamente, al di fuori della politica intesa come potere, bensì come discussione libera ed aperta nella polis, alla ricerca di un’alternativa: l’alternativa come contronarrazione rispetto al «non c’è alternativa su cui il capitalismo fonda il suo potere e il suo linguaggio».

da “il Manifesto” del 4 settembre 2021

L’occasione che i calabresi non possono perdere.-di Piero Bevilacqua

L’occasione che i calabresi non possono perdere.-di Piero Bevilacqua

Grande è la confusione sotto il cielo della Calabria a poco più di un mese dalle elezioni regionali.Molti i gruppi in campo, molti i nomi, che affondano e riemergono, pochissime idee programmatiche, nessun progetto visibile.Tranne l’eccezione De Magistris. Eppure, se si possiede un po’ di prospettiva storica, se si conoscono le vicende politiche nazionali degli ultimi anni, se si esaminano le scelte politiche dei partiti, la nebbia presente si dirada, la confusione svanisce, alcuni aspetti della battaglia elettorale in corso diventano semplici, perfino banali.

Almeno due verità inoppugnabili vanno dette oggi ai calabresi, che si trovano davanti alla possibilità di cambiare il proprio destino o di assistere all’ennesima, avvilente replica di una vecchia storia: il ritorno della regione in mano a gruppi di potere che amministrano clientele e non promuovono alcun progetto di trasformazione profonda della Calabria.

La verità più nota è che, soprattutto nella nostra regione, tanto le formazioni della destra, quanto il Partito democratico non sono più partiti, ma aggregati di potere, gruppi clientelari portatori di pacchetti di voti, la cui azione di governo si traduce, di legislatura in legislatura, nella continua mediazione per soddisfare le richieste eterogenee e particolari di tali raggruppamenti. Con i risultati, sulle condizioni della regione, storicamente constatabili da tutti.

La seconda verità, meno nota, è che tanto la destra nazionale, in primo luogo la Lega, quanto il PD, hanno accettato le lettura che dell’intero Mezzogiorno fa da tempo la borgesia industriale del Nord, la sua stampa di riferimento ( La Repubblica, Il Corriere, La Stampa), gruppi intellettuali, settori di opinione pubblica, formazioni politiche:questa parte d’Italia è una palla al piede del Paese, impedisce all’economia del Nord di competere con le grandi regioni industriali del Nord Europa ( come la Baviera), e perciò bisogna sganciare le aree più dinamiche e più prospere dai “vagoni più arretrati”, con vantaggio generale dell’Italia.

Tale narrazione sbagliata sotto tutti i profili, anche quello economico (come hanno mostrato gli studi dello SVIMEZ) ispira, come è noto, la richiesta di autonomia differenziata avanzata da Veneto e Lombardia e poi dall’Emilia Romagna, presieduta da Stefano Bonacci, autorevole dirigente del PD. Gran parte del gruppo dirigente di questo partito è convinta di tale interpretazione, o è del tutto indifferente alle vicende che riguardano il destino generale del Sud e dell’Italia.

Nel migliore dei casi cercano delle vie per rendere meno devastante la secessione, come fa Francesco Boccia, che ha curato i rapporti con le regioni nel precedente governo e ora lo fa per il PD. Ma l’aspetto più grave è che perfino autorevoli presidenti di regioni meridionali, come De Luca ed Emiliano, nel 2019, nel momento in cui la Lega stava per fare approvare in Parlamento l’autonomia differenziata, non hanno mostrato la benché minima opposizione a un progetto che emarginava irrimediabimente il Sud e metteva in pericolo l’unità del Paese. E qui debbo evocare una esperienza personale.

In quelle concitate settimane, in gennaio, io scrissi una lettera aperta ad Emiliano, presidente della Puglia, pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno, perché esprimesse una esplicita condanna di quella forma camuffata di secessione. Non ci fu alcuna risposta e nessuna azione. E per completezza di informazione debbo ricordare che l’unica figura istituzionale meridionale di rilievo, che si schierò contro l’autonomia differenziata, fu il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, il quale, invitato da un gruppo di cui facevo parte, venne a Roma e tenne un vigoroso comizio davanti il palazzo di Montecitorio.

Tutto questo prova ampiamente che al Partito democratico, come alla destra, importa poco o nulla del destino in sé della Calabria, se non come pedina nei rapporti di forza nazionali. Ora, la chiarezza semplicissima cui facevo riferimento consiste in questo: i calabresi che votano per la destra devono sapere che danno un voto a favore della secessione delle regioni del Nord, per accrescere il distacco delle aree del Sud dal resto del Paese.

Questo è il programma nazionale della Lega approvato dagli alleati. Chi vota per il PD vota in realtà per la sconfitta del fronte democratico. E’ evidente a tutti che questo partito e l’intero centro sinistra sono caduti nel discredito generale, disamorando anche i loro antichi elettori.

L’enorme difficoltà che il PD ha mostrato negli ultimi mesi nel trovare un canditato presentabile quale presidente della Regione, mostra il disfacimento di questo partito, un arcipelago di gruppi, privo ormai, come la destra, di qualunque cultura politica , senza il benché minimo progetto di rinnovamento strutturale della Calabria. E dovrebbe costituire ragione di umiliazione e di offesa, per i calabresi, che le designazioni dei candidati, una più fallimentare dell’altra, partissero da Roma.

Ora, l’ultima semplice verità da dire è che il Partito democratico, certo della sconfitta, gioca tuttavia una sua partita elettorale: quella di impedire che vinca Luigi De Magistris.Non è affatto un paradosso. Per i gruppi di potere che operano in quel partito “destra” e “ sinistra” non hanno alcun significato. Quel che importa è poter realizzare, anche dall’opposizione, tramite i dovuti compromessi con i gruppi di destra, le operazioni e gli affari che ispirano la loro condotta. E questo, con De Magistris presidente, sarebbe molto più difficile o impossibile.

Per tale ragione è evidentissimo che chi voterà per il PD in realtà voterà a favore della destra, con tutti i danni che deriveranno alla Calabria. Perciò mi permetto di rivolgermi ad Amalia Bruni, persona degna, che ha lasciato le proprie ricerche per entrare in un mondo che non è il suo, per chiederle di riflettere sul ruolo ingrato e anticalabrese che le è stato assegnato.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 agosto 2021.

Senza l’economia agricola e forestale l’Italia va in fumo.-di Piero Bevilacqua

Senza l’economia agricola e forestale l’Italia va in fumo.-di Piero Bevilacqua

Ricordate il teorema del lampione? Un uomo, mentre rientra a casa, perde le chiavi davanti al portone. E’ notte, è buio, le cerca invano per un po’, poi scorge alcuni metri più avanti la luce di un lampione e vi si dirige. Là non le troverà, ma almeno riuscirà a vedere dove mette i piedi. Viene in mente questa storiella quando si pensa alle recenti uscite del governo, che riprende (con diverso impegno) i vecchi progetti delle grandi opere, il Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto. Non affronta nessuno dei gravi problemi del territorio italiano e però sa come muoversi. Può rivolgersi a grandi imprese di costruzione, utilizzare meccanismi collaudati di strumentazione finanziaria (financing projet), assoggettare un pezzo di territorio plasmato da secoli dalle popolazioni locali, e ottenere alla fine un prodotto finito, per il quale ricevere applausi dal grande pubblico.

Non torno sulle ragioni che si oppongono a queste opere, argomentate con competenza su questo giornale da tanti esperti e studiosi. E tengo a precisare che non nutro pregiudizi sulle grandi opere in sé. Nel territorio impervio della Penisola è stato necessario far ricorso a imprese di alta ingegneria per dotare il paese di una moderna infrastrutturazione.

Anche se sappiamo che tanta ingegneria, nell’Italia repubblicana, è stata impiegata soprattutto per le autostrade. Sicché oggi ci troviamo privi di un sistema ferroviario per le merci lungo la Penisola, mentre le autostrade, (e le statali, le provinciali, le comunali) sono flagellate da autotreni, camion, furgoni.

Oggi tutto il sistema della mobilità, anche urbana, è esploso. E fa sorridere l’enfasi sulle auto elettriche. Il problema non sono solo i motori delle auto, ma soprattutto le auto. Ormai anche il più piccolo dei paesi è soffocato dal traffico automobilistico. Ma la cultura economica di chi ci governa, rimasta al ‘900, una cultura pre-ecologica, non considera lo spazio un bene, perché non lo identifica con una merce, e non riesce a valutare il crescente disagio di vita dei cittadini che lo perdono.

Ma la considerazione fondamentale da fare è un’altra. Riproporre oggi il Tav e il Ponte sullo Stretto è come portare un ferito con fratture multiple dall’estetista, anziché in ospedale. Investire somme ingenti ( il Ponte a totale carico dello stato) per queste opere è una scelta delittuosa di fronte allo stato della Penisola. Debbo ricordarlo. Sull’Italia incombe la più grave questione territoriale e ambientale d’Europa: è il progressivo spopolamento e abbandono delle aree centrali dello Stivale e il corrispondente intasamento delle zone a valle. Si tratta di uno squilibrio all’interno del quale si svolgono i più vari e distruttivi fenomeni.

Nelle zone interne, appenniniche e preappenniniche, si perdono terre fertili, vanno in rovina patrimoni abitativi, si deteriorano i nostri boschi. La ragione fondamentale, insieme ai mutamenti climatici, di incendi così vasti e devastanti come quelli che hanno distrutto le selve delle Sardegna e della Sicilia, e che ancora si accaniscono in Calabria e altrove, è l’assenza degli uomini. Mancano le economie agricole e forestali di un tempo, la cura dei boschi e dei territori contermini. E gli incendi non devastano solo aziende, patrimoni vegetali, tesori di biodiversità anche animale, ma trasformano i boschi d’altura, che sono i serbatoi d’acqua d’Italia, in suoli carbonizzati destinati a franare.

A valle accade che, a ogni temporale intenso, ormai sempre più frequente, fiumi e torrenti lasciati senza cura devastino abitati, aziende, ponti e strade. Quando piove gli spazi urbani diventano luoghi di rischio. Nel Sud ci sono città senz’acqua potabile, alle prese con sistemi fognari vecchi e inadeguati.

Chi, in questo periodo di grande pressione antropica, gira per le cittadine di mare – il cuore del nostro turismo balneare – può avvertire il fetore di fogna che si spande per le strade. Ma dovunque, città o piccoli centri, soffocati dal traffico, si avverte uno stato di assenza di manutenzione degli spazi pubblici, le periferie sono invase da erbe e immondizie, gli spazi verdi non ricevono alcuna cura.

Dunque sono le grandi opere la risposta a questo precipitare? Non facciamoci ingannare: il riscaldamento della Terra non sarà arrestato. Quali che saranno le iniziative dei governi, noi dovremo fare i conti con mutamenti di vasta portata per un periodo incalcolabile. E allora le terre fertili, i boschi, le acque, gli spazi abitabili delle colline e delle montagne diventato preziosi, un patrimonio di riserva che non possiamo dilapidare.

E noi, che crediamo nelle piccole opere, sappiamo quali sono i soggetti in grado di invertire la rotta di un indirizzo nefasto che assegna valore solo ai manufatti in cemento. Sono i comuni, l’ossatura storica del territorio italiano. Rimettiamo i comuni al centro del suo governo. Alla luce del fallimento storico delle Regioni, diamo risorse e competenze a questi organi, investiamo nei nostri giovani laureati, impediamo che portino altrove il loro sapere e la loro energia.

da “il Manifesto” del 12 agosto 2021.

Il sud dei borboni non era il migliore dei mondi possibili.- di Piero Bevilacqua

Il sud dei borboni non era il migliore dei mondi possibili.- di Piero Bevilacqua

Fra i fenomeni politico-culturali più sorprendenti e civilmente dannosi, che hanno imperversato in Italia negli ultimi dieci anni, un posto speciale merita il cosiddetto neoborbonismo. Vale a dire la credenza secondo cui il Sud prima dell’Unità, o meglio il Regno borbonico, fosse stato il migliore dei mondi possibili. Non solo, ma Il fantastico regno delle Due Sicilie – come Pino Ippolito Armino intitola il suo denso pamphlet, col sottotitolo Breve catalogo delle imposture neoborboniche (Laterza, pp.125, euro 14) – avrebbe subìto dal processo di unificazione nazionale, condotto dai Savoia, una sequela di massacri e danni irreversibili che ne avrebbero condizionato il futuro.

A DARE VITA alla leggenda è stato il giornalista Pino Aprile che con Terroni (2010), un libro da oltre mezzo milione di copie, ha ripreso antichi motivi recriminatori aggiungendo molti temi romanzeschi alla storia reale.

Quel successo merita di essere interpretato. È per un verso il sintomo di un malessere profondo del Sud, sempre più emarginato dalle politiche pubbliche, e al tempo stesso una rivalsa tardiva contro l’opera di criminalizzazione con cui la Lega di Bossi ha imposto all’immaginario degli italiani un Sud di delinquenti e spreconi.

LA RICOSTRUZIONE ROMANZATA e vittimistica di Aprile è apparsa come una riparazione attesa, un riscatto dell’onore ferito, ma ha creato una corrente ideologica, un nuovo modo di pensare, che ancorché storicamente infondato, ha favorito la nascita di un leghismo meridionale. Il distillato politico di questo risentimento antisabaudo e antisettentrionale fa oggi il paio con la richiesta di autonomia differenziata di alcune regioni del Nord Italia. Una via davvero progressiva per il futuro del nostro Paese.

Va subito detto che il libro di Pino Ippolito non è un contropamphlet polemico rivolto al testo di Aprile e alla letteratura che ne è seguita, ma un agile saggio di storia che demolisce con puntiglio documentario uno per uno i luoghi comuni e le vere e proprie panzane che punteggiano la leggenda generale.

L’AUTORE INIZIA col ricordare il capostipite della rinata vulgata che è La conquista del Sud (1972) di Carlo Aiello, un romanzo scambiato per un testo di storia, e poi passa in rassegna le notizie più clamorose come l’affermazione di Aprile secondo l’unificazione sarebbe stato «un genocidio» con almeno 800mila morti. Davvero una incredibile enormità che Ippolito smonta con le cifre elencando il numero dei soldati borbonici morti in battaglia, i briganti uccisi, e parte di popolazione civile. Così fa anche per la leggenda nera costruita intorno alla prigione sabauda di Fenestrelle, posta a 1200 metri, che vuole migliaia di vittime, non registrate da nessuna parte.

IN REALTÀ I MORTI sono stati registrati e, ricorda Ippolito, «dal 1860 al 1865 si registrarono circa quaranta decessi fra i soldati ex borbonici e papalini». Ma qui siamo alle cifre. Ben altre sono le invenzioni di geopolitica relative alle trame che presiedettero, ad esempio, alla spedizione dei Mille.
Secondo uno di questi storici, Giulio Di Vita, l’impresa sarebbe stata finanziata con tre milioni di franchi francesi dalla massoneria inglese. Gli inglesi che finanziano in franchi è una ben strana storia che diventa esilarante quando Ippolito scopre che l’autore è un fantasma, sconosciuto anche ai colleghi che lo citano: «Non esistono studiosi con questo nome e nessuno è in grado di dire chi sia».

MOLTE ALTRE sono le menzogne ridicolizzate dall’autore, ma merito di Ippolito è di non lasciarsi trascinare in una controstoria, ricordando anche i misfatti reali compiuti dall’esercito piemontese, i danni subiti dall’economia meridionale a causa delle scelte dei primi governi unitari, ad esempio le improvvide leggi di unificazione doganale del 1860 e 1861, l’unificazione del debito pubblico che fu spalmato sulle spalle di tutti gli italiani.

L’autore si muove in una prospettiva storica e civile avanzata, non dimentica il valore dell’unità nazionale, una conquista fra le più importanti nella storia del nostro Paese, che i borboni non ebbero l’ambizione progressista di perseguire.

da “il Manifesto” del 13 luglio 2021

La scommessa di De Magistris nella terra più sfortunata del Paese.-di Piero Bevilacqua

La scommessa di De Magistris nella terra più sfortunata del Paese.-di Piero Bevilacqua

Nel 1926, in un saggio per più versi geniale, Gramsci definiva il Mezzogiorno «una grande disgregazione sociale». Quell’espressione – che forse già allora sottovalutava il peso e il ruolo delle città – oggi è la definizione che meglio di tutte descrive la condizione attuale della Calabria, la regione più povera e male amministrata d’Italia. E il concetto di disgregazione consente di cogliere alcune ragioni fondative della sua condizione materiale presente e della debolezza delle sue classi dirigenti. La Calabria è già in origine una terra disgregata per la sua conformazione fisico-geografica. Non è certo un caso se per secoli, sotto il Regno di Napoli, si è avvertito il bisogno di definirla al plurale, Calabrie, e di compartirla in Calabria Citra e Ultra e poi dividerla, con ulteriore segmentazione, in Calabria Ulteriore Prima e Seconda. A differenza di quasi tutte le altre regioni del Sud non ha mai goduto di un polo aggregatore, una vera città capoluogo, in grado di connettere le sparse membra di un territorio disarticolato, difficile e disperso, in un organismo dotato di una qualche omogeneità e unità.

Reggio Calabria, la città più antica, più grande e dinamica, posta sulla punta dello stivale, era proiettata verso la Sicilia e il Mediterraneo, più che verso l’interno della regione. Mentre Catanzaro e Cosenza hanno vissuto storie separate e la prima, posta al centro del territorio, era economicamente troppo debole per svolgere funzioni egemoniche aggregative. Ricordo che negli anni ’60 e ’70, perfino il partito più coeso e unitario d’Italia, il Partito Comunista Italiano, risentiva di questa frantumazione (che comportava diversità di culture locali, legami con il passato greco o con quello latino o addirittura albanese, difformità di dialetti, tradizioni politiche, ecc) al punto che le tre Federazioni provinciali apparivano tre mondi separati.

Né questa frantumazione territoriale, sociale e politica è stata superata nel corso del secondo ‘900. L’assenza di un sviluppo economico omogeneo, ma per isole, non ha dato vita a un ceto sociale dotato di sufficiente omogeneità di caratteri, in grado di costituire l’intelaiatura unitaria che alla Calabria manca drammaticamente. Questo spiega molte cose dell’attuale disastro politico e amministrativo in cui la regione è stata inghiottita.

Una ragione evidente è che ad ogni tornata elettorale, chi ambisce a diventare presidente, non può contare su una omogenea base sociale – magari resa culturalmente autonoma da un lavoro stabile e dall’indipendenza economica – ma deve trovare accordi con la miriade dispersa dei «grandi elettori», portatori di voti raccattati nei territori, con cui mettere insieme una maggioranza.

Sicché, una volta diventato presidente, il suo compito verrà in gran parte assorbito dalla necessità di rispondere alle richieste delle varie e frantumate clientele che gli hanno consentito il successo elettorale. Mai quindi un grande progetto capace di invertire la disgregazione storica originaria, ma solo piccoli interventi di assistenza, volti a placare soprattutto, con pratiche affaristiche, la grande fame di lavoro della gioventù.

È per questo che, alcuni mesi fa, ad apertura della campagna elettorale, quando seppi che Luigi De Magistris intendeva presentarsi quale candidato, ne fui sorpreso e lieto. Non pochi calabresi, anche di sinistra, appresero la notizia con contrarietà, sentendo la candidatura come l’invasione di campo di un forestiero, come se i precedenti presidenti calabresi avessero compiuto miracoli e se ne sentisse la nostalgia.
Ora, a parte il fatto che De Magistris estraneo alla Calabria non è poi così tanto, avendovi svolto il ruolo di magistrato per alcuni anni. Ma quella «estraneità», o per meglio dire quella «esternità», costituirebbe una risorsa preziosa per il futuro del governo regionale.

La popolarità, il carisma di De Magistris, il fatto – che dovrebbe pesare nel giudizio di tutti i democratici del nostro Paese – di essere stato confermato sindaco a Napoli, la città più difficile d’Italia, dovrebbe garantirgli la possibilità di vincere la partita senza sottostare ai patti con la miriade dei grandi elettori, senza dover assecondare i loro minuti interessi, e poter governare liberamente, secondo progetti ambiziosi di trasformazione strutturale.

Un uomo esterno ai partiti (aggregati di gruppi elettorali, nel migliore dei casi), un ex magistrato in una terra funestata da illegalità e criminalità, un amministratore dotato ormai di una lunga esperienza di governo locale, sarebbe una fortuna per la Calabria.

De Magistris da mesi sta conducendo un’azione che dovrebbe costituire un modello per tutti i politici: sta battendo la regione per ascoltare chi ha da esprimere bisogni, chi è in grado di fornirgli consigli. Ricordo infine un aspetto che oggi – di fronte alla devastante prova data dalle regioni italiane in tempi di pandemia – andrebbe sottolineato, l’attiva posizione che De Magistris ha preso contro l’autonomia differenziata. Non lo hanno fatto né Emiliano né De Luca. Per questo il Partito Democratico (quello calabrese, ma anche quello nazionale) deve assumersi tutta la responsabilità di far riuscire o far fallire questa possibilità e questa speranza per la regione più sfortunata d’Italia.

da 2il Manifesto” 30 aprile 2021
foto dalla pagina fb:Luigi de Magistris Presidente per la Calabria
https://www.facebook.com/dema.calabria/photos/a.104456624317449/472593024170472

La transizione ecologica non è una riforma ma una rivoluzione.-di Piero Bevilacqua

La transizione ecologica non è una riforma ma una rivoluzione.-di Piero Bevilacqua

Come bene argomentato da P.G. Ardeni e M. Gallegati l’annunciata rivoluzione verde europea e la sua versione italiana, la transizione ecologica, sembrano esaurirsi in un progetto di innovazione tecnologica orientato a ridurre i gas climalteranti, a limitare gli impatti dell’energia fossile, a rendere insomma il mondo un po’ meno sporco e a continuare tuttavia nella «crescita». Come se il problema fosse solo questo.

C’è un treno che corre a velocità crescente e in traiettoria lineare, senza stazioni e senza destinazione finale, che sembra voler uscire dalla terra e continuare nello spazio delle galassie, e l’ambizione è di fargli produrre meno fumo e meno rumore, ma spingendolo a correre ancora di più. Si fa finta di non capire (o non si capisce realmente) che il problema è il treno, non la qualità dei suoi carburanti. La grande questione è il capitalismo nella fase storica presente e nella configurazione dei suoi poteri a livello mondiale.

Sino a poco meno di un secolo fa il capitalismo, nonostante le alterazioni prodotte nel corso del 1800, era un sistema compatibile con le risorse disponibili e con gli equilibri del pianeta. A partire dagli anni 30 del ‘900, durante la Grande Depressione, alcuni manager americani si accorgono di ciò che Marx aveva già colto a suo tempo: l’industria capitalistica produce molte più merci di quante i salariati e il mercato riescano ad assorbirne. Una contraddizione da cui si poteva uscire in due modi: rendendo più rapidamente deperibili le merci, programmandone l’obsolescenza, e mettendo in piedi una gigantesca macchina pubblicitaria, in grado di inventare sempre nuovi desideri, così da trasformare gli individui in consumatori ansiosi di comprare cose di cui non hanno alcun bisogno.

Questo mutamento storico avviato negli Usa è diventato il modello di tutti i paesi capitalistici e oggi appare configurato in un sistema internazionale il cui tracollo catastrofico è l’esito più probabile. Come ha scritto Luigi Ferrajoli in uno splendido capitolo del suo La costruzione della democrazia (Laterza,2021): è «inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie, nucleari, economiche ed ecologiche».

Dunque il problema, gigantesco, è duplice: rendere circolare la corsa del treno, vale a dire rendere riparabili e riciclabili le merci, i materiali ecc, mutare la scala dei bisogni e soprattutto puntare a un nuovo ordine mondiale, a un «costituzionalismo sovranazionale» come dice Ferrajoli, che insieme a Raniero La Valle ha costituito il movimento Costituente Terra. Si tratta di una strada obbligata per la salvezza del pianeta eppure non utopica. Nel dopoguerra, lo ricorda sempre Ferrajoli, la nascita dell’Onu aveva per qualche tempo orientato gli Stati verso una condotta cooperante ormai perduta.

Ma ci sono prove storiche poco note di come si può fare per intervenire con potere politico, sulle produzioni, sui mercati, sui singoli Stati. Il 1988 non evocherà nessun passaggio epocale nella mente dei lettori. Ebbene, in quell’anno vengono avviati in Europa, all’interno della Politica Agraria Comunitaria, i programmi di set-aside (messa da parte) per limitare gli eccessi di produzione agricola e alimentare.

Ai contadini viene richiesto di smettere di coltivare in cambio di un rimborso economico da parte della Comunità Europea. È un piccolo episodio legislativo, ma una svolta di portata simbolica universale. Mai era accaduto nella storia delle società umane che gli stati (i re, gli imperatori) esortassero a non coltivare la terra, ricevendone addirittura un compenso. Per millenni è accaduto il contrario. Questa politica di contenimento degli eccessi di produzione è proseguita con gli allevamenti, le note Quote latte, continua oggi anche con la viticultura.

Nessun imprenditore europeo è oggi libero di coltivare viti sul suo terreno se non possiede quote disponibili che lo autorizzino. Non ha qui senso entrare nel merito di questi provvedimenti, ma voglio sottolineare il loro carattere dirompente e carico di indicazioni per il futuro prossimo. Per la prima volta nella storia un potere sovranazionale interviene sulla libertà d’impresa dei diversi Stati, limita la produzione, regola il mercato.

Dunque, se è stato possibile in Europa deve essere possibile anche a livello globale: è solo questione di volontà politica. Ma questa volontà politica bisogna costruirla subito, puntare a un ordine internazionale di cooperazione non più rinviabile. Per questo restiamo sgomenti di fronte all’ottuso atlantismo del nostro ceto politico e del giornalismo che gli dà voce, incapace di vedere dove corre la storia del mondo.

Come si fa a seguire gli Usa che credono di essere ancora nel ‘900 e di poter continuare la guerra fredda per conservare una centralità ormai perduta? Come si può restare dentro un’alleanza che ha fatto esplodere guerre dappertutto, sta facendo lievitare la produzione e la vendita di armi in ogni angolo del mondo? Un macabro festival degli armamenti, in cui il nostro paese è protagonista, di ordigni di morte, mentre nel mondo già muoiono milioni di persone per un virus. E a quale fasulla mascherata si è ridotta la nostra democrazia, se di fronte a scelte tanto gravi dei governi la voce dell’opinione pubblica conta men che nulla.

da il Manifesto del 31 marzo 2021
Foto di Alexander Vollmer da Pixabay

Gli appuntamenti con la storia che la sinistra rischia di perdere.-di Piero Bevilacqua

Gli appuntamenti con la storia che la sinistra rischia di perdere.-di Piero Bevilacqua

Ha scritto Norma Rangeri a proposito delle possibilità che si aprono alla sinistra in Italia: “Perchè in teoria si tratterebbe di coltivare una vasta prateria, grande quanto l’arcipelago sociale che in questi anni ha conosciuto il protagonismo di movimenti giovanili, ambientalisti,femministi insieme a nuove soggettività cresciute nel lavoro intermittente, manuale e intellettuale” (il manifesto,16.3.2021.

Aggiungerei una considerazione d’insieme. Siamo in presenza della chiusura di un ciclo storico. Una fase che potremmo definire di rivoluzione conservatrice, di globalizzazione sregolata, di dominio capitalistico senza antagonisti. Iniziata 40 anni fa con la riscossa dei partiti conservatori nel Regno Unito e negli Usa, che offrono ai gruppi imprenditoriali vistose riduzioni fiscali, la lotta aperta contro i sindacati, la riduzione del welfare conquistato nel dopoguerra.

Questa rimonta conservatrice si accompagna all’evento straordinario della rivoluzione informatica. Non solo si aprono nuove praterie di profitto per il capitale nella fase storica in cui declinano le fortune dell’industria automobilistica (vero motore del capitalismo novecentesco), ma si offrono alle imprese vantaggi insperati nei rapporti di forza con la classe operaia.

La delocalizzazione delle aziende, la mobilità mondiale dell’impresa di fronte alla fissità locale della forza lavoro, spezza drammaticamente il motore rivoluzionario del modo di produzione capitalistico: il conflitto di classe. E qui trascuriamo tutti gli aspetti di riorganizzazione del lavoro che frantumano il fronte operaio. Non è tutto: l’antagonista storico, pure imbalsamato in burocrazie autoritarie, ma in piedi su un fronte internazionale, il comunismo, tracolla.

E poiché la fortuna dei fortunati non ha confine, il capitalismo internazionale riceve bello e pronto un corpus di dottrine economiche, il neoliberismo – peraltro pluripremiato dai Nobel per l’economia – con cui dare dignità teorica e culturale al suo dominio assoluto sul mondo.

Ora dopo 40 anni guardiamo ai risultati. Le più vertiginose disuguaglianze sociali lacerano le società, la classe media è drammaticamente regredita, per ampi strati sociali il lavoro non è più sufficiente per emancipare gli individui dalla povertà, mentre avanzano disoccupazione e impieghi precari e le protezioni si riducono di anno in anno. In quelle che erano state le società del benessere i legami sociali vanno in frantumi, la vita pubblica viene mercificata, il nichilismo preconizzato da Nietzsche è ormai la stoffa del vivere quotidiano. Si crede che tutto questo non abbia effetti sulla vita politica?

Dismessi i grandi ideali, nei partiti d’un tempo si persegue la carriera personale, il cinico tran tran quotidiano che ha fatto rinascere i relitti del sovranismo e della xenofibia. Nel frattempo le crisi cicliche si sono sempre più ravvicinate nel tempo e con caratteri dirompenti, i conflitti locali, frutto di un assetto mondiale fondato sulla competizione intercapitalistica, costituiscono ormai una guerra mondiale permanente a bassa intensità. A causa delle guerre e per i mutamenti climatici, moltitudini di migranti vagano per il globo varcando mari, muri e fili spinati.

Dopo una serie ravvicinata di pandemie, ne è giunta una che da un anno semina morte e devastazione. Mentre si altera il clima e le risorse collassano, il pianeta Terra è sempre più minacciato. Mai era capitato nella storia che l’umanità potesse intravedere come suo possibile prossimo avvenire la fine della propria specie.

Ebbene, c’è qualcuno che può qualificare questa breve rassegna di trofei con un termine diverso da disfatta, fallimento, tracollo, sconfitta? Non ci interessa la risposta. Non abbiamo in mente il vaste programme di redimere gli imbecilli. La storia ha sempre proceduto a loro insaputa. La domanda è rivolta agli amici, alle donne e agli uomini che hanno davanti questa prateria.
Ebbene, nessuno si illuda che qualche risposta possa venire dal Pd. Giustamente lo hanno ricordato qui anche Alfonso Gianni e Paolo Favilli. Solo perché ora è arrivato Enrico Letta?

Con tutto il rispetto, mi avessero detto Vladimir Ilic Lenin redivivo avrei nutrito qualche speranza. Il Pd è stato un errore strategico, così lo definii alla sua nascita e non ho qui lo spazio per ripetere analiticamente tutte le ragioni di quel giudizio. Ma la storia reale dei sui 13 anni è più eloquente di me.

Allora? Approfitto dell’ospitalità del manifesto per un gesto improprio, un invito a Elly Schlein. perché senza cambiare la sua attuale collocazione politica, non prova a promuovere quel che lei stessa ha auspicato? Perché non prova a mettere insieme gli esponenti più rappresentativi dei vari gruppi e formazioni per una campagna che duri qualche tempo su temi che accomunano tutti? Sulla riforma elettorale mi sono già espresso. Ma anche su obiettivi più limitati, come l’abrogazione della Bossi Fini e lo Ius soli, il reddito per meriti ambientali per tutti i coltivatori che stanno sulla terra, ecc.

Ma importante sarebbe sperimentare in queste occasioni forme di aggregazione che si stabilizzano, che danno vita a organismi più durevoli, per sfidare la frontiera di una nuova forma di politica di sinistra organizzata. Schlein, è una leader, ma di tipo nuovo, non solo perché è donna, ma perché è persuasiva, netta nei contenuti e misurata nei toni. Deve farsi coraggio.
da “il Manifesto” del 18 marzo 2021

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Su questo giornale Gaetano Lamanna (3.3.2021) ha sottolineato il rilievo strategico che può assumere la riforma fiscale e l’impegno politico della sinistra a suo sostegno. Il tema merita di essere ripreso su entrambi i versanti. Intanto occorre ricordare che l’odierno sistema costituisce il pilastro portante del dominio del capitale sulla classe operaia degli ultimi 40 anni. Testimonia ancora oggi la controffensiva vittoriosa dell’imprenditoria industriale sulla classe operaia dopo i conflitti e le conquiste degli ani ’70. Fu avviata nel 1981 da Reagan con L’Economic Recovery Tax Act regalando una gigantesca esenzione fiscale ai ceti ricchi, e definita “il più grande taglio di tasse nella storia americana” (M.Prasad, The politics of free market, Chicago University Press, 2006).

La fine della fiscalità progressiva, messa in atto da quasi tutti gli stati, ha significato la riduzione di risorse per scuole, sanità, servizi pubblici, insomma la semi demolizione del welfare che aveva reso prospere e stabili le società avanzate del dopoguerra. La teoria economica del cosiddetto trickle down, di lasciare più soldi ai ricchi perché li avrebbero accresciuti reinvestendoli, con vantaggio di tutti, si è rivelato un grave errore di fatto e un inganno politico.

La ricchezza è aumentata per pochi e la povertà per molti e perfino la solida middle class degli Usa (quella del “sogno americano”) è stata investita da una ondata senza precedenti di immiserimento e di regressione sociale. Il nuovo sistema fiscale dell’età neoliberista è dunque all’origine delle gravi disuguaglianze attuali, dell’aumento del debito pubblico e privato e – nel declino generale dei sindacati e dei partiti popolari – dell’esplosione del populismo che minaccia le democrazie in tante regioni del mondo.

Ora che l’esecutivo Draghi, riprendendo il proposito del governo Conte, promette di mettere mano a una riforma del fisco credo che la sinistra debba, in anticipo, battere un colpo. Nicola Fratoianni, pur se segretario di una piccola formazione politica, Sinistra Italiana, può prendere qualche iniziativa nel Paese. Senza attendere che la riforma venga discussa in Parlamento, sarebbe invece utile e necessario da subito prendere contatti con Maurizio Acerbo, anche lui segretario di un’altra piccola formazione politica, il Partito della Rifondazione Comunista, e concordare con il suo gruppo dirigente un’azione comune di discussione, mobilitazione e confronto.

Così come occorre coinvolgere Fabrizio Barca e i dirigenti del Forum Disuguaglianze, ricco di intelligenze e competenze che costituiscono parte dell’élite della sinistra reale italiana, oggi resa invisibile dall’inerzia dei micro partiti e dai media, che parlano eternamente con le stesse facce e gli stessi stanchi linguaggi.

Il raggio deve essere più ampio. Non solo devono essere coinvolte, con varie modalità, vecchie istituzioni come Il Centro per la Riforma dello Stato, ma anche i movimenti delle donne, i gruppi organizzati come il Gruppo Abele di Don Ciotti o la Costituente Terra di Raniero La Valle e di Luigi Ferrajoli, e tante altre formazioni. Senza dimenticare il più grande movimento di resistenza del nostro Paese, che per ampiezza e durata non ha confronti in Europa, la comunità dei No Tav, in lotta da 30 anni contro lo sperpero di denaro pubblico per un’opera insensata.

Aprire nel paese, prima che in Parlamento, un ampio approfondimento sulle strutture del bilancio pubblico, mostrare con settimane di incontri, in presenza e da remoto, con comunicati, volantini, messaggi via social, interventi in televisione, giornali amici, come vengono spesi dai governi i soldi di tutti gli italiani costituirebbe un grande evento di democrazia, una vasta agorà che ricomporrebbe almeno temporaneamente il vasto e disperso popolo della sinistra reale.

Gli italiani saprebbero quanti miliardi mancano per le scuole, la ricerca scientifica, le borse di studio, la manutenzione delle strade comunali, i mezzi pubblici, e quanti sono spesi per armi destinate a distruggere paesi, a uccidere la popolazione civile in questa o in quella regione dell’Africa e del Medioriente, o per rifornire gli eserciti di paesi che torturano e uccidono i nostri ragazzi, come accade in Egitto.

Le donne del Sud che non possono lavorare perché mancano gli asili nido, verrebbero così informate che ciò accade anche perché i soldi vengono spesi in raccordi autostradali inutili, in stipendi favolosi ai manager pubblici, in sostegno privilegiato a questo o a quell’ente importante per i consensi elettorali che può fornire. Potrebbero finalmente cogliere il nesso tra il comportamento del deputato che hanno eletto e i disagi e la marginalità della propria vita.

L’iniziativa potrebbe costituire anche un contributo propositivo importante: l’ideazione di un sistema fiscale reso più semplice e comprensibile: colpire le grandi fortune, soprattutto immobiliari, e premiare gli investimenti, soprattutto in ricerca e formazione, scoraggiando e punendo le attività inquinanti, incentivando la formazione di giovani ispettori contro gli evasori in ogni angolo del paese e del mondo, prefigurando una fiscalità europea omogenea, che non dia scampo ai colossi multinazionali, nuovi padroni del pianeta.

da “il Manifesto” del 9 marzo 2021
Foto di 👀 Mabel Amber 👀, Messianic Mystery Guest da Pixabay