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La questione italiana.-di Piero Bevilacqua L'Italia in frantumi.

La questione italiana.-di Piero Bevilacqua L'Italia in frantumi.

Chi di solito osserva le condizioni presenti dell’Italia e le confronta con quelle degli altri Paesi avanzati osserva ormai da anni che esse sono di gran lunga peggiori in molti ambiti della vita nazionale: arretramento del livello medio delle retribuzioni, disuguaglianze sociali e territoriali, disoccupazione, precarietà del lavoro, condizioni della scuola, numero dei laureati, risorse per la ricerca, perfino regresso demografico, il segnale meno controvertibile – per lo meno nella società della crescita – della decadenza di un Paese. Tale evidente disparità dello stato della nostra vita sociale ci impone uno sforzo di analisi che vada oltre le cause generali che da 30 anni fanno arretrare le condizioni dei ceti popolari in gran parte dei Paesi europei e del mondo.

Le pratiche neoliberiste, vale a dire i programmi del capitalismo scatenato, messi in atto da un servizievole ceto politico, sono stati applicati in Germania come in Francia, in Spagna o nel Regno Unito, ma è in Italia che esse sembrano avere effetti così marcatamente disgregatori. Perfino sul piano politico e di governo: due esecutivi tecnici, adesso uno di destra destra, con a capo un’erede del neofascismo del dopoguerra. Io credo che se non si vuole restare sulla superficie della questioni bisogna cercare spiegazioni all’ anomalia italiana nelle strutture profonde della nostra storia nazionale. Occorre gettare uno sguardo ai caratteri originali della nostra vicenda civile, alla cultura antropologica degli italiani. Può apparire azzardato nel 2023 tentare di spiegare la grave involuzione dell’economia e della società di oggi interrogando contesti troppo lontani nel tempo. Ma occorre considerare innanzitutto che alcuni caratteri di un popolo durano nei secoli anche se si trasformano con il mutare complessivo della società.

«La mentalità – scriveva Fernand Braudel – è la più tenace delle strutture», uno strato di roccia culturale che il trascorrere dei processi e degli eventi intaccano solo in parte. D’altronde, in tutte le epoche di involuzione e regresso i fondi più oscuri del passato sembrano riemergere e farsi vivi, sia pure in nuove forme. E oggi viviamo non un rinculo, ma un clamoroso collasso di civiltà.

Naturalmente, non è certo il caso di rammentare che la teorizzazione del “particulare” di Francesco Guicciardini della realtà umana, vista come un aggregato incomponibile di egoismi, sia fiorita sintomatologicamente in Italia, per giunta nel cuore del Rinascimento, la fase più alta della nostra storia. Nè tanto meno rammentare che tre secoli più tardi, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani Giacomo Leopardi poteva osservare «che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea». Basti considerare che la sua secolare frantumazione civile, la lacerazione politica dei suoi ceti, anche all’interno delle città, vanto e splendore della nostra storia, ma agenti permanenti di disunione, hanno imposto all’Italia quasi quattro secoli di servaggio a potenze straniere. Il Paese che nel tardo medioevo aveva conseguito il primato economico e finanziario in Europa e nel Mediterraneo era rimasto un nano politico e aveva dovuto attendere il 1860 per avviare il processo di unificazione delle sue sparsa membra e conseguire l’indipendenza nazionale. Uno Stato-Nazione, tuttavia, che non riuscirà mai a conseguire un assetto egemonico.

Ma occorre cogliere l’essenziale della tragica originalità della nostra storia lunga: genio individuale delle élites, creatività e inventiva, spirito di intraprendenza dei ceti popolari, vivissimo senso artistico, intrecciati inestricabilmente a individualismo anarcoide, indisciplina civile, inclinazione a costituire fazioni e logge, assenza di classi dirigenti dotate di visione unitaria. E il filo rosso che giunge oggi fino a noi è rintracciabile in due aspetti che carsicamente riaffiorano nella vita nazionale. Uno è il carattere elitario e separato dei gruppi di potere, l’altro è la frantumazione dei ceti popolari, divisi dai dialetti, dalle forme della vita religiosa, dalle culture gastronomiche, dalle tradizioni politiche, ecc. Vale a dire da quella straordinaria varietà e diversità di caratteri che sono anche una straordinaria risorsa, la ricchezza della nostra storia.

Fino a metà Novecento il carattere separato delle élite si è manifestato plasticamente nel mezzo della comunicazione collettiva: la lingua nazionale. Finché non è arrivata la Tv, come ricordava Tullio De Mauro, l’italiano era appannaggio dei ceti borghesi colti, mentre gran parte delle masse popolari comunicava con la ricca costellazione dei nostri dialetti. Evidentemente non era bastato quasi un secolo di unità perché tra il nostro popolo si realizzasse una piena comunità linguistica.

Ma il distacco elitario delle forze dominanti, della nostra borghesia, per lo meno di sezioni più o meno ampie di essa, si è manifestato in maniera molto più grave e cruenta sotto il profilo politico. Esso ha preso le forma della infedeltà al “contratto” della Stato-nazione, tramite una serie di varianti di rottura delle regole, di eversione, di secessione, di violenza anche terroristica. Se ne può fare un rapidissimo elenco. Un riepilogo anche sommario di fatti salienti del nostro passato consente infatti di comprendere in quale storia siamo immersi. Chi ricorda più oggi la parola d’ordine, a fine ‘800, del “ritorno allo Statuto” lanciata da alti esponenti del mondo politico nazionale? Vale a dire la richiesta di un assoggettamento del governo ai poteri del re, che svuotasse la funzione del Parlamento? E l’imposizione, in quegli stessi anni, dello stato d’assedio contro i lavoratori di Milano che tumultavano per il pane? E le sparatorie contro la folla dei manifestanti ordinate dal generale Bava Beccaris che lasciò 80 morti in strada? E chi ricorda che il nostro ingresso nel macello della Prima guerra mondiale fu deciso da un colpo di mano del re e di pochi politici, che siglarono il Patto di Londra a insaputa del Parlamento e contro la volontà della maggioranza del popolo italiano?

Certo, la ferita più grave è il fascismo, il “colpo di Stato” che liquidò gli ordinamenti liberali, la risposta di quasi tutta la borghesia italiana all’irrompere delle masse popolari nella vita politica nazionale, dopo l’esperienza della guerra. Ma la volontà di sottrarsi al patto degli ordinamenti nazionali si è manifestata anche in forme localizzate. Ad esempio, sul finire della Seconda guerra. Pochi giovani oggi ricordano i moti del separatismo siciliano, il tentativo di gruppi di borghesia isolana, favorito dai servizi segreti americani e inglesi, di costruirsi un potere separato, uno Stato siciliano autonomo. E forse che i 75 anni dell’Italia repubblicana sono meno ricchi di tentativi e di pratiche di eversione? Chi ha dimenticato i tentativi di colpi di Stato nel 1964 e nel 1970?

Chi non ricorda la risposta sanguinaria con cui oscuri settori degli apparati statali hanno cercato di intaccare i rapporti di forza e le conquiste sociali guadagnati dalla classe operaia con le lotte del biennio 68-69? Un pagina infame della nostra storia che ha sparso il sangue di centinaia di vittime innocenti, a partire dalla bomba alla Banca dell’agricoltura a Milano, nel 1969, sino all’attentato alla Stazione di Bologna nel 1980, con in mezzo la strage di Piazza della Loggia a Brescia, l’attentato al treno Italicus e tanti altri oscuri episodi di violenza terroristica. E chissà quale ruolo hanno giocato i servizi segreti di Paesi di cui siamo fedeli e servizievoli alleati.

Ma l’infedeltà, la fellonia di parti estese di borghesia nazionale si manifestano ancora oggi in forme diversissime, normalmente senza il ricorso alla violenza. Come dimenticare, tanto per restare al lungo periodo, la longevità secolare di almeno due criminalità organizzate, la mafia siciliana e la camorra? E potevano durare e prosperare così tanto queste organizzazioni senza legami segreti con pezzi dello Stato e della borghesia imprenditoriale e dei colletti bianchi? Basti dire che il più potente uomo di Stato della cosiddetta prima Repubblica, Giulio Andreotti, è risultato legato alla mafia da una sentenza della Cassazione.

Oggi, inoltre, lo spirito di diserzione e di rottura dell’unità del Paese si manifesta in maniera incruenta ma gravissima attraverso l’iniziativa della Lega, seguita da altri presidenti di regione, mirata a realizzare la cosiddetta autonomia differenziata. E non si creda che si tratti di una mera trovata elettoralistica di alcuni dirigenti politici. Dietro di essa c’è la profonda pulsione separatista di vaste aree della borghesia imprenditoriale del Centro-Nord, che guarda al Mezzogiorno come a un intralcio alla sua espansione in Europa. È la stessa pulsione che da decenni spinge vasti settori della nostra borghesia a evadere le tasse, a trasferire ingenti fortune nei paradisi fiscali, a rompere il patto di mutua cooperazione tra le classi, che è il fondamento stesso dello Stato moderno: la contribuzione fiscale.

Voglio terminare questa rapida rassegna ricordando che il tradimento degli interessi nazionali si viene realizzando anche nel pieno rispetto delle forme istituzionali. Non mi riferisco qui al presidente della Repubblica, che accetta di buon grado la violazione della nostra Costituzione approvando la continuazione dell’invio di armi in Ucraina, ma all’ex presidente del Consiglio. Ricordo che Mario Draghi si è insediato a capo del governo in un momento grave della vita nazionale. L’opinione pubblica era tramortita dalla pandemia del Covid-19, sotto lo shock collettivo più grave della storia repubblicana. Allora l’ex presidente della Bce godeva di un prestigio indiscusso, di un’autorevolezza che forse così totalitaria non era mai arrisa ad alcun altro presidente del Consiglio.

Ebbene, Mario Draghi aveva il potere di porre mano alla più importante riforma legislativa possibile per arrestare il declino dell’Italia, la riforma fiscale. Nessuna patrimoniale, solo un fisco progressivo che nel giro di qualche anno avrebbe in parte riequilibrato le laceranti disuguaglianze dei redditi in Italia, ridare slancio e fiducia alla nostra vita e collettiva. Com’è noto, la sua riforma ha tolto uno scaglione e favorito i ceti medio-alti. Nessuna iniziativa di contrasto all’evasione fiscale. Il filo rosso della sedizione non si è spezzato: un rappresentante della finanza internazionale ha giocato a favore della sua classe di appartenenza, contro gli interessi del suo Paese.

Questa storia di secessioni, com’è noto, ha subito un arresto e una controffensiva popolare con la nascita della Repubblica, la Costituzione, l’avvento dei partiti di massa, la costituzione di solide strutture sindacali. Senza questa nuova pagina di storia, nata dalla Resistenza antifascista, il nostro Paese difficilmente avrebbe retto a tutti i tentativi di abbattere lo Stato democratico, alle trame della P2, ai vari terrorismi, compreso quello delle Brigate rosse.

Ma c’è una parte di questa nuova storia che inizia col dopoguerra che ci interessa per riafferare il nodo della seconda originalità negativa del carattere degli italiani, a cui abbiamo fatto cenno: la disunione anarcoide dei ceti popolari. Tra la fine degli anni 40 e gli anni 70 i partiti di massa sono stati il collante che ha sottratto i lavoratori e le masse proletarie alla loro dispersione e irrilevanza politica e li ha trasformati in società civile consapevole. Non si apprezzerà mai abbastanza l’opera gigantesca del Partito comunista italiano che in tre decenni ha trasformato la massa disgregata di braccianti, operai, impiegati, piccoli imprenditori, intellettuali, in una comunità politica, culturale, spirituale. In tre decenni questo partito ha realizzato un’opera di nation building, di costruzione della nazione, di plasmazione e disciplinamento civile di una parte estesa di società, sconosciuta in tutta la nostra storia precedente. Quasi un “Paese parallelo” a quello reale.

È per tale ragione che oggi la dissoluzione dei partiti di massa fa regredire e disgrega più gravemente che in altri Paesi il tessuto della società civile in Italia. È in questo carattere originario anarcoide di ritorno che occorre cercare la speciale debolezza della sinistra italiana. Da noi l’egocentrismo individualistico dell’antropologia neoliberista ha riportato indietro, in un certo senso, le lancette della storia, che certo rielabora il passato in forme sempre nuove, ma pur lo conserva e ripropone. La sinistra in frantumi andrebbe inquadrata in questo drammatico percorso. Per tale ragione l’opera più rivoluzionaria che le forze politiche possono intraprendere in Italia non consiste tanto nell’elaborare un programma di riforme radicali.

Questa è la premessa. Il compito gigantesco cui metter mano è lo sforzo costante, tenace e irriducibile, questo si altamente politico e dotato di respiro strategico, di ricucire con tutti i mezzi la soggettività polverizzata delle forze in campo, lasciate sul terreno da una lunga serie di errori, settarismi, sconfitte, egolatrie narcisistiche dei capi. La creazione di un nuovo tipo di partito politico, una nuova aggregazione collettiva in grado di governare il pluralismo pur creativo delle menti disseminate e attive sui territori, è la grande sfida da affrontare. È qui la chiave di volta.

L’egemonia del neoliberismo è in frantumi e il capitalismo non sta tanto bene, ma sopravvivono e ci trascinano nella loro rovina, perché non riusciamo ad offrire alla grandi masse, che chiedono di essere protette e rappresentate, se non la nostra impotente frantumazione.

da “Left” del 31 gennaio 2023

La coalizione sociale dell’esperimento con De Magistris.-di Piero Bevilacqua

La coalizione sociale dell’esperimento con De Magistris.-di Piero Bevilacqua

Una riflessione politica in due tempi.

Primo tempo.
Nel Consiglio dei ministri, com’è noto, la proposta di Draghi di esentare dal taglio dell’Irpef i redditi oltre i 75mila euro, per un contributo di solidarietà alle fasce più basse, è stata respinta.
Nonostante l’iniziativa partisse dall’auterovolissimo presidente del Consiglio, la destra ufficiale ha fatto muro insieme alla destra mascherata di Italia viva. Il Pd, il partito che la pubblica vulgata definisce( per pura inerzia) di sinistra, ha abbozzato.

Quando si tratta di redistribuire la ricchezza in Italia gran parte del ceto politico solleva al cielo gli scudi e non si passa. Basta tirare fuori lo spaventevole termine di patrimoniale e tutto si blocca. Quell’episodio tuttavia non è che un frammento della storia d’Italia degli ultimi 20 anni, nel quale si riassume la causa delle cause del declino italiano e la pietrificazione del sistema politico.

La disuguaglianza sociale, alimentata e resa cronica dal sistema fiscale, non è solo un’espressione di ingiustizia, ma blocca e fa regredire l’intero apparato pubblico del paese. Mentre la ricchezza privata delle famiglie si accresce e permane la più elevata al mondo- come ricorda periodicamente la Banca d’Italia – il paese lesina risorse pubbliche alla scuola, all’Università, ai comuni, alla sanità, alla Pubblica Amministrazione, al territorio, al Mezzogiorno.

Cose note. E sappiamo anche dai dati Ocse – lo ha ricordato Marco Revelli su queste pagine – che il nostro è l’unico paese dei 23 più industrializzati dove, tra il 1990 e il 2020, i salari operai sono diminuiti del 2,9%. Un dato rimanda più decisamente al versante partitico-sindacale. Ai lavoratori italiani non è stata data la possibilità di esprimere in conflitto organizzato la rabbia per la loro prolungata regressione sociale.

Secondo tempo.
In Calabria, dove alle recenti elezioni amministrative ha prevalso il candidato della destra, si è verificata tuttavia una novità ancora sottovalutata, il 16,5% di . Luigi De Magistris. Nessun leader al di fuori dei partiti aveva conseguito un tale risultato, ottenuto peraltro senza un soldo, con i media locali e nazionali contro o silenziosi, in un ambiente in cui i partiti hanno clientelizzato una parte estesa di società civile. Ma l’altra novità è che accanto a De Magistris si è formata una potenziale classe dirigente , ben rappresentata nelle liste: medici, ingegneri, sindaci, imprenditori, giornalisti. La parte più pulita, più competente, più dinamica della Calabria.

Durante la campagna elettorale, in appoggio a De Magistris – apparso come cuneo dirompente nel sistema dei partiti che paralizza da decenni la Calabria come l’Italia intera – si è formato un gruppo di intellettuali, dentro e fuori la regione, che ha dato voce e prospettiva ai problemi di questo territorio.

Si tratta di una costellazione di economisti, storici, antropologi, sociologi, filosofi, che riescono ad avere una qualche influenza nei loro rispettivi ambiti e che soprattutto possono fornire al movimento di De Magistris una dimensione culturale e un orizzonte progettuale che i partiti nazionali non posseggono più da tempo. Dunque, l’ultima delle regioni italiane può diventare un laboratorio politico d’avanguardia.

Perché questo accada, tuttavia, occorrono molte condizioni, fra cui una sua proiezione almeno meridionale. Il laboratorio dovrebbe contagiare le regioni contermini e soprattutto porsi come polo di riferimento ideale per far rinascere il conflitto politico in Italia. Occorre saper leggere in profondità la condizione del paese e il momento storico. Il Pnrr non è che un progetto di “rivoluzione passiva”: distribuire danaro per ripristinare il processo di accumulazione capitalistica lasciando intatte le gerarchie sociali e di potere. Appare già chiaro che alla fine avremo un’Italia magari con un Pil in ripresa, ma cristallizzata nei suo squilibri di sempre, più lacerata e impoverita nei sui margini. Ma anche più divisa.

Nei piani del governo c’è la realizzazione dell’autonomia differenziata, lo smembramento del paese faticosamente unificato poco più di un secolo e mezzo fa. Se le sparse forze della sinistra, oggi impotenti, si accostassero a questo progetto aurorale con umiltà e volontà unitaria, non per fare una lista elettorale, ma per aprire campagne di mobilitazione e di lotta, il laboratorio Calabria potrebbe assumere una dimensione nazionale.

Si può aprire una campagna in difesa, nientemeno, che dell’Unità d’Italia, si possono coinvolgere gli imprenditori dell’agricoltura biologica a cui viene negata un legge già pronta, gli insegnanti e gli studenti per l’assenza di investimenti e contro la scuola -azienda, che ancora si ritrovano il numero chiuso per l’accesso all’Università, i sindaci dei comuni cui la “riforma” fiscale nega ogni ruolo, i medici alle prese con risorse scarse, i tanti studenti universitari che pagano le tasse più elevate d’Europa e che dopo la laurea possono solo scappare dalle loro città. Hic Rhodus hic salta.

da “il Manifesto” del 12 dicembre 2021
foto dal profilo Fb:https://www.facebook.com/deMagistrisPresidenteCalabria

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Su questo giornale Gaetano Lamanna (3.3.2021) ha sottolineato il rilievo strategico che può assumere la riforma fiscale e l’impegno politico della sinistra a suo sostegno. Il tema merita di essere ripreso su entrambi i versanti. Intanto occorre ricordare che l’odierno sistema costituisce il pilastro portante del dominio del capitale sulla classe operaia degli ultimi 40 anni. Testimonia ancora oggi la controffensiva vittoriosa dell’imprenditoria industriale sulla classe operaia dopo i conflitti e le conquiste degli ani ’70. Fu avviata nel 1981 da Reagan con L’Economic Recovery Tax Act regalando una gigantesca esenzione fiscale ai ceti ricchi, e definita “il più grande taglio di tasse nella storia americana” (M.Prasad, The politics of free market, Chicago University Press, 2006).

La fine della fiscalità progressiva, messa in atto da quasi tutti gli stati, ha significato la riduzione di risorse per scuole, sanità, servizi pubblici, insomma la semi demolizione del welfare che aveva reso prospere e stabili le società avanzate del dopoguerra. La teoria economica del cosiddetto trickle down, di lasciare più soldi ai ricchi perché li avrebbero accresciuti reinvestendoli, con vantaggio di tutti, si è rivelato un grave errore di fatto e un inganno politico.

La ricchezza è aumentata per pochi e la povertà per molti e perfino la solida middle class degli Usa (quella del “sogno americano”) è stata investita da una ondata senza precedenti di immiserimento e di regressione sociale. Il nuovo sistema fiscale dell’età neoliberista è dunque all’origine delle gravi disuguaglianze attuali, dell’aumento del debito pubblico e privato e – nel declino generale dei sindacati e dei partiti popolari – dell’esplosione del populismo che minaccia le democrazie in tante regioni del mondo.

Ora che l’esecutivo Draghi, riprendendo il proposito del governo Conte, promette di mettere mano a una riforma del fisco credo che la sinistra debba, in anticipo, battere un colpo. Nicola Fratoianni, pur se segretario di una piccola formazione politica, Sinistra Italiana, può prendere qualche iniziativa nel Paese. Senza attendere che la riforma venga discussa in Parlamento, sarebbe invece utile e necessario da subito prendere contatti con Maurizio Acerbo, anche lui segretario di un’altra piccola formazione politica, il Partito della Rifondazione Comunista, e concordare con il suo gruppo dirigente un’azione comune di discussione, mobilitazione e confronto.

Così come occorre coinvolgere Fabrizio Barca e i dirigenti del Forum Disuguaglianze, ricco di intelligenze e competenze che costituiscono parte dell’élite della sinistra reale italiana, oggi resa invisibile dall’inerzia dei micro partiti e dai media, che parlano eternamente con le stesse facce e gli stessi stanchi linguaggi.

Il raggio deve essere più ampio. Non solo devono essere coinvolte, con varie modalità, vecchie istituzioni come Il Centro per la Riforma dello Stato, ma anche i movimenti delle donne, i gruppi organizzati come il Gruppo Abele di Don Ciotti o la Costituente Terra di Raniero La Valle e di Luigi Ferrajoli, e tante altre formazioni. Senza dimenticare il più grande movimento di resistenza del nostro Paese, che per ampiezza e durata non ha confronti in Europa, la comunità dei No Tav, in lotta da 30 anni contro lo sperpero di denaro pubblico per un’opera insensata.

Aprire nel paese, prima che in Parlamento, un ampio approfondimento sulle strutture del bilancio pubblico, mostrare con settimane di incontri, in presenza e da remoto, con comunicati, volantini, messaggi via social, interventi in televisione, giornali amici, come vengono spesi dai governi i soldi di tutti gli italiani costituirebbe un grande evento di democrazia, una vasta agorà che ricomporrebbe almeno temporaneamente il vasto e disperso popolo della sinistra reale.

Gli italiani saprebbero quanti miliardi mancano per le scuole, la ricerca scientifica, le borse di studio, la manutenzione delle strade comunali, i mezzi pubblici, e quanti sono spesi per armi destinate a distruggere paesi, a uccidere la popolazione civile in questa o in quella regione dell’Africa e del Medioriente, o per rifornire gli eserciti di paesi che torturano e uccidono i nostri ragazzi, come accade in Egitto.

Le donne del Sud che non possono lavorare perché mancano gli asili nido, verrebbero così informate che ciò accade anche perché i soldi vengono spesi in raccordi autostradali inutili, in stipendi favolosi ai manager pubblici, in sostegno privilegiato a questo o a quell’ente importante per i consensi elettorali che può fornire. Potrebbero finalmente cogliere il nesso tra il comportamento del deputato che hanno eletto e i disagi e la marginalità della propria vita.

L’iniziativa potrebbe costituire anche un contributo propositivo importante: l’ideazione di un sistema fiscale reso più semplice e comprensibile: colpire le grandi fortune, soprattutto immobiliari, e premiare gli investimenti, soprattutto in ricerca e formazione, scoraggiando e punendo le attività inquinanti, incentivando la formazione di giovani ispettori contro gli evasori in ogni angolo del paese e del mondo, prefigurando una fiscalità europea omogenea, che non dia scampo ai colossi multinazionali, nuovi padroni del pianeta.

da “il Manifesto” del 9 marzo 2021
Foto di 👀 Mabel Amber 👀, Messianic Mystery Guest da Pixabay