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Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

“Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica”. Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale.

Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento.

Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei lep senza che i lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione.

Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati SVIMEZ, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la SVIMEZ, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati SVIMEZ, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).
Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2023

Rischiamo una governance da oligarchi. -di Massimo Villone.

Rischiamo una governance da oligarchi. -di Massimo Villone.

Miti e realtà del diritto costituzionale. Così potremmo definire la lezione che viene dalla lettura di alcune norme della legge di bilancio presentata alla Camera in data 18 novembre (AC 2790), e da altre notizie di contorno. L’art. 150 del ddl prevede la istituzione di un fondo di perequazione strutturale di 4.6 miliardi dal 2022 al 2033.

È in principio cosa buona e giusta, salvo che per la modestia delle cifre, poca cosa a fronte delle decine di miliardi che sarebbero necessari. Ma – si potrebbe dire – è un segnale. Già il 20 ottobre un comunicato (n. 3932) della Conferenza delle regioni dava così notizia del fondo: «Queste risorse … saranno a disposizione delle regioni del Mezzogiorno, delle aree interne e delle aree di montagna non appena sarà approvata la legge sull’autonomia».

Il riferimento era alla cd legge-quadro del ministro Boccia. Non è dato sapere, per la genetica oscurità delle conferenze, come e dove nascesse questa linea. Né in specie se e quali regioni interessate al fondo la accettassero, o chi la sostenesse a Palazzo Chigi. Ma qualcuno deve aver deciso, e certo lo sapeva il presidente della conferenza Bonaccini. Un baratto, melius ricatto: autonomia differenziata in cambio di perequazione infrastrutturale.

Lo stigmatizza duramente Giannola, presidente Svimez, sul Quotidiano del Sud del 31 ottobre. Non si costruisce così la solidarietà tra territori voluta dalla Costituzione. Ma non sorprende, considerando che proprio la concertazione nelle conferenze ha contribuito negli anni ad accrescere i divari territoriali. Nell’art. 150 del ddl bilancio non c’è una formale condizione nei termini indicati.

E si apprende ora che la legge-quadro non è tra i collegati alla legge di bilancio, come invece era stato auspicato e annunciato dal ministro. Non risulta sia mai giunta in consiglio dei ministri. Forse è resipiscenza su una personale strategia di Boccia, che ho più volte censurato come politicamente e tecnicamente sbagliata. Dunque, niente condizionalità e problema risolto.

Ma è proprio così? No. La valutazione delle esigenze e la assegnazione delle risorse passano per l’art. 150 attraverso decreti del premier (dpcm), in ogni caso previo concerto con il ministro delle autonomie e previa intesa della conferenza unificata o della conferenza stato-regioni (presiedute dallo stesso ministro). Concerti e intese sono forme di codecisione. È dunque evidente che se vengono subordinati – sia pure fuori da ogni ufficialità – al procedere del ddl sull’autonomia, questa diventa una condizione di fatto ancorché non prevista formalmente.

L’art. 150 può sembrare parva materia per le cifre, certo non in principio. In ogni caso, conferma sia il favor di Palazzo Chigi per modelli di governance fondati sulla concertazione tra esecutivi, le conferenze e le cabine di regia, sia i possibili effetti negativi. Chi governa davvero, dove, come?

Scelte e indirizzi decisi in modi obliqui, sotterranei, invisibili, e sottratti a forme efficaci di responsabilità politica? Può accadere, e accade. Già la lotta alla pandemia ha mostrato debolezze, soprattutto evidenti nella cacofonia politica e istituzionale dell’ultima fase. Lo stesso potrebbe accadere per la governance dei fondi Recovery. Si discute su una struttura di due ministri più il premier, con un ministro aggregato per i rapporti con la Ue. Comandano su sei manager, ciascuno assistito da 50 esperti (presumiamo di nomina governativa. Lottizzati?).

Qualcuno vorrebbe un direttore generale in capo ai manager. Si parla di poteri sostitutivi e commissari a ogni livello. È emarginato il parlamento, che Conte promette di coinvolgere senza dire come e quando. Con una prima assoluta, poi, il governo si auto-emargina a vantaggio di alcuni suoi membri.

Avremo modo di parlarne. Sarebbe necessaria una legge ad hoc, e non mancherebbero dubbi sulla creazione di un’architettura istituzionale parallela affiancata e sovrapposta a quella disegnata in Costituzione. Emerge un groviglio di competenze. E vogliamo sin d’ora richiamare l’attenzione sulla necessità di garantire la piena trasparenza, pubblicità e documentazione dei lavori, comunque e in ogni sede. Con buona pace della Costituzione e della democrazia, in una vicenda cruciale per il paese rischiamo una governance da oligarchi.

da “il Manifesto” del 1 dicembre 2020