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La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Grandi e piccoli incendi divampano sulle rovine dell’ambiente.-di Tonino Perna

Ogni anno la stessa storia. Anzi peggio, perché con l’innalzamento delle temperature e la siccità prolungata il propagarsi degli incendi diventa ancora più facile. Non è possibile che si ripeta pedissequamente lo stesso rito estivo: allarme incendi, analisi e denunzie, grandi dibattiti televisivi e poi…ad ottobre tutto è finito, ne parliamo un altro anno.

Se si va a guardare la mappa della Nasa sugli incendi che hanno attraversato il nostro pianeta nel 2021 scopriamo che l’area più colpita è l’Africa sub-sahariana seguita dall’Amazzonia, California, Siberia, ecc. E’ davvero incredibile la scarsa o nulla informazione rispetto agli incendi che colpiscono l’Africa Sub-Sahariana: nel 2021 la superficie forestale percorsa dal fuoco in questa parte del mondo è stata pari a quasi il 50 per cento degli incendi forestali nel nostro pianeta. E non si è trattato di un anno eccezionale. Da almeno un decennio un numero impressionante di incendi sta “silenziosamente” bruciando le foreste di Angola e Repubblica Democratica del Congo.

Nel bacino del Congo che ospita la seconda foresta pluviale più grande della Terra, ma non ha l’appeal dell’Amazzonia, si sono registrati solo nel 2021 oltre 3000 incendi! Certo, l’uso del fuoco ha una antica tradizione in diverse aree agro-pastorali del pianeta e, soprattutto nelle zone tropicali è stato tradizionalmente usato per accrescere la superficie coltivabile. Ma, la crescita della popolazione e la sua pressione sulle risorse, sia da parte dei pastori che dei contadini, ha rotto l’equilibrio nel rapporto tra uomo e ambiente facendo degenerare una pratica sociale che ha una lunga storia alle spalle. Il mutamento climatico non ha fatto altro che rendere ancora più grave questa situazione.

Se per la prevenzione degli incendi, il pronto intervento, si spendesse un decimo di quanto si spende per la spesa militare si riuscirebbe a ridurre il fenomeno entro limiti tollerabili. Certo, bisogna distinguere tra piccoli e grandi incendi che colpiscono vaste aree forestali, come nel Centro Africa, Siberia, Australia, ecc. In Europa è soprattutto con i cosiddetti “piccoli incendi” che dobbiamo fare i conti e non sappiamo farli. Basterebbe un presidio del territorio per spegnere immediatamente il fuoco quando parte. C’è un detto francese che recita più o meno così: quando parte il fuoco dopo dieci secondi basta un bicchiere d’acqua, dopo un minuto ci vuole un secchio, dopo un’ora i vigili del fuoco. In sostanza è la velocità con cui si interviene che è decisiva e questa dipende dalla presenza umana nel territorio.

Come è stato altre volte raccontato, nel Parco Nazionale dell’Aspromonte, nel Pollino e in altri parchi nazionali e regionali è stato in passato affidato il territorio a soggetti del Terzo Settore con contratti di “responsabilità territoriale”, in base ai quali veniva dato un contributo economico in ragione inversa alla superficie bruciata. Meno terreno bruciava più la cooperativa o associazione veniva premiata. Gli incendi non si possono prevedere, ma si possono spegnere sul nascere. Ed è quanto facevano un tempo gli agricoltori.

Il problema in gran parte dell’Europa mediterranea è che diverse aree interne sono state abbandonate e non c’è chi presidia il territorio, per questo ha funzionato quello che è stato chiamato “il modello Aspromonte”. Certamente questo modello non entusiasmava la lobby dell’antiincendio, il business delle società private che gestiscono elicotteri e canadair, e non è un caso se è stato abbandonato.

Più difficile è il controllo del territorio quando si tratta di vaste foreste disabitate o scarsamente abitate. «Gli scienziati nella previsione dei ’grandi incendi’ hanno lo stesso successo che in campo sismologico» scriveva Mark Buchanan nel suo saggio “Ubiquità”, ma questo non significa che non bisogna investire in studi e ricerche finalizzate a trovare le soluzioni più adatte ai diversi contesti.

Se pensiamo ad un nuovo mix di uomini e mezzi tecnici (come i droni) che possono presidiare il territorio anche a distanza di molti chilometri, crediamo che un serio contrasto ai “grandi incendi” si possa organizzare con successo. E dovrebbe avere una priorità per risparmiare tante vite e contrastare il mutamento climatico: questa crescita esponenziale degli incendi aumenta la quantità di CO2 nell’atmosfera, diminuisce la capacità di assorbimento che svolgono le piante, e quindi fa aumentare lo squilibrio dell’ecosistema con il conseguente aumento della temperatura, dei periodi di siccità, alluvioni sempre più frequenti, ecc. Il circolo vizioso che ci ha reso familiari gli “eventi estremi” e rischia di coinvolgerci in maniera irreversibile se non c’è un netto cambio di rotta che in questo momento non si vede. Anzi, si vede ma in senso nettamente contrario a quello che doveva essere, prima della guerra in Ucraina, la cosiddetta “transizione ecologica”.

da “il Manifesto” del 20 luglio 2022

Come difenderci dall’arrivo di eventi climatici estremi.-di Tonino Perna

Come difenderci dall’arrivo di eventi climatici estremi.-di Tonino Perna

Ci lamentiamo del caldo, ma qualcosa sta cambiando e non di poco conto. Inutile nascondere la testa sotto il cuscino mentre la vita sul Pianeta diventa sempre più complicata e messa a dura prova.

Il 28 maggio scorso a Turbat nella regione del Belucistan (Pakistan) si è toccato un nuovo record nelle alte temperature arrivando a 53,7 °C. Nell’ultimo decennio anche in altri paesi asiatici si sono superati i 50°C, in particolare in India, Iran e Iraq.

Ma questo dato non ci ha riguardato, non ci ha interrogato su dove stiamo andando, come è successo con i conflitti armati che infettano tanti paesi dall’Africa all’Asia all’America Latina, finché non è arrivata la guerra alle porte di casa non ce ne siamo preoccupati.

Mentre d’estate i picchi di temperatura si vanno alzando di anno in anno, d’inverno avviene il contrario con temperature sotto lo zero che hanno sfondato il tetto dei 60°C (un fenomeno di cui sono occupato in passato, analizzando alcune serie storiche, nel saggio “Eventi Estremi”, Milano, 2011).

Diciamo meglio: mentre la temperatura media del nostro pianeta si alza dal tempo della rivoluzione industriale, i picchi di temperatura, verso l’alto e verso il basso, continuano a sfondare i limiti estremi, rendendo la vita dei viventi, dalle piante agli animali, estremamente difficile.

La vita sul nostro pianeta è stata resa possibile dentro questo intervallo di temperature. In tutti gli altri pianeti le temperature minime e massime vanno ben al di là dei 100°C, e soprattutto le escursioni termiche, come avviene anche sulla Luna, sono insostenibili per come conosciamo la vita sulla Terra.

L’affascinante Venere che va in scena nelle notti d’estate ha una temperatura di 475°C di giorno e di –185°C di notte, che è pari alla temperatura media del gelido Saturno, mentre Mercurio è più bollente dell’inferno dantesco con i suoi 430°C che di notte scendono a -185°C.

Dovremmo avere la consapevolezza di vivere in un posto speciale, ma allo stesso tempo fragile, con un equilibrio che è il risultato di una evoluzione avvenuta in milioni di anni e che noi nell’arco di una generazione stiamo mettendo a repentaglio. Viviamo una profonda contraddizione esistenziale: abbiamo una informazione globale, sappiamo quello che avviene in tante parti della Terra, ma ci preoccupiamo solo di ciò che ci riguarda da vicino, nello spazio e nel tempo.

Noi umani che abitiamo il Pianeta non abbiamo sviluppato una coscienza all’altezza del progresso tecnologico, anzi ci siamo rinchiusi nel nostro “particulare” nell’accezione di Guicciardini, cioè nella sola sfera in cui pensiamo di agire e contare. Solo quando veniamo colpiti direttamente prendiamo coscienza di un determinato fenomeno.

Così sta avvenendo con gli effetti del mutamento climatico che finora ci hanno solo sfiorato rispetto a quegli eventi estremi che si registrano in altri paesi del Sud del mondo.

E’ bene sapere, invece, che dovremmo prepararci ad affrontare anche questi picchi di temperatura, che come è avvenuto in Francia nel 2003, possono provocare migliaia di vittime tra tutti gli esseri viventi. A partire dagli enti locali, dovrebbe essere previsto un piano di emergenza per le ondate di calore così da mettere in sicurezza le fasce più fragili della popolazione.

Le misure necessarie non sono difficili da individuare.

Bisogna evitare gli sprechi della risorsa idrica che sta diventando, e ce ne accorgiamo in questi giorni, sempre più preziosa, così come andrebbe vietato il consumo irresponsabile dell’aria condizionata con le porte aperte degli esercizi commerciali, mentre persone anziane e povere non possono più permettersi di accendere un ventilatore per gli aumenti della bolletta elettrica.

Allo stesso tempo dovremmo adesso cominciare ad occuparci di come ci potremo riscaldare in inverno se dovesse prevalere lo scenario peggiore (zero gas dalla Russia), con un piano che punti al risparmio energetico e ad un uso ben più diffuso delle energie rinnovabili. Dovremmo operare come i grandi marchi della moda che presentano oggi le novità per la prossima primavera/estate.

Infine, dovremmo unire i nostri sforzi, almeno a livello europeo, per affrontare questa crisi climatica e invece facciamo di tutto per alimentare la guerra in Ucraina, ritorniamo ad usare il carbone, non vogliamo operare nessuna riduzione dei nostri consumi inquinanti, e tutto questo lo chiamiamo “ritorno alla normalità”.

da “il Manifesto” del 24 giugno 2022
Foto di Sven Lachmann da Pixabay

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.

All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.

In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.

Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.

A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.

Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.

Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.

Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).

Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).

Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.

I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.

Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.

Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.

da “il Manifesto” del 14 giugno 2022
Foto di Mediamodifier da Pixabay

Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna

Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna

Di pochi giorni fa la notizia che il governo indiano bloccava l’export di grano, poi ridimensionata accettando di far passare l’export già passato, al 14 maggio, alle procedure doganali. Malgrado l’India non sia tra i primi dieci paesi esportatori di grano, è il secondo produttore al mondo di frumento dopo la Cina, che soddisfa essenzialmente il mercato interno.

Con questa mossa il governo del presidente Modi avrebbe voluto assicurarsi che il grano prodotto nel subcontinente indiano restasse all’interno del paese, evitando che l’alto prezzo del cereale favorisse l’export a danno della popolazione più povera. Misura eminentemente politica perché le “guerre per il pane” stanno per ritornare all’ordine del giorno.

I primi paesi importatori al mondo, sono anche paesi, sovrappopolati, con una parte rilevante dei cittadini sotto la soglia della povertà o bordenline. E sono nell’ordine: Egitto (che importa mediamente 12 milioni di tn annue), Indonesia, Algeria, Turchia, Brasile. I primi quattro paesi sono nel Mediterraneo, a cui va aggiunta anche la Tunisia non in termini quantitativi ma relativi, dove anche in tempi recenti sono scoppiate le rivolte per il pane e complessivamente importano ogni anno qualcosa come 37-38 milioni di tn. di grano tenero.

Per inciso, il grano duro, che viene usato per la pasta, rappresenta solo il 5% del mercato mondiale del frumento e viene prodotto in pochi paesi, soprattutto nel Mediterraneo e in Canada, con l’Italia come primo produttore al mondo, ed anche primo importatore data la sua specializzazione nel settore.

Con il prezzo del grano tenero che sta salendo vertiginosamente, a causa della guerra in Ucraina, l’export di questo cereale sta diventando un’arma politica che serve per stringere alleanze, per far schierare da una parte, la Nato, o dall’altra, questi paesi importatori netti che ne hanno un bisogno vitale. Stesso discorso, in parte, vale per il mais, usato prevalentemente per gli allevamenti zootecnici. In questo caso l’Ucraina ha un peso rilevante, rappresentando il 15 % dell’export mondiale, e la Ue è uno dei principali importatori di mais, soprattutto per la domanda proveniente dagli allevamenti industriali, disallineati rispetto alle risorse agricole del territorio in cui operano.

Stiamo tornando, senza accorgercene, ai tempi delle città-Stato in Grecia, in cui Solone proibì l’export dei beni alimentari, ad eccezione dell’olio d’oliva, ritenendoli come una riserva strategica in caso di guerra. E la Ue che fa in questo nuovo scenario?

E’ il principale esportatore di grano al mondo, con circa 33 milioni di tn, ma è anche un importatore per circa 7 milioni di tn. Dato che è un esportatore netto potrebbe battersi per porre un tetto al prezzo del grano e sostenere, anche con un contributo proprio, il prezzo all’esportazione per i paesi del Mediterraneo più minacciati da questa nuova situazione. La pace si conquista prima che scoppi un conflitto o che un paese precipiti nel baratro di una guerra civile.

È arrivato il tempo in cui la Ue potrebbe pensare seriamente ad un Mercato Comune Mediterraneo con una strategia di integrazione delle economie della sponda Nord e Sud-est, partendo dall’energia e dai beni alimentari, e varando una intelligente politica di accoglienza e gestione dei flussi migratori. Dobbiamo prendere atto che questa guerra, ancor più della pandemia, ha dato un colpo pesante alla globalizzazione capitalistica, alla creazione di un mercato unico mondiale.

La lotta fra gli imperi, richiamata da chi scrive prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, sta ridisegnando le mappe dei diversi mercati “interni” in cui il “prezzo politico” diventa prevalente rispetto a quello economico. Ma, questo processo di de-globalizzazione è anche una occasione storica per ripensare alle politiche economiche in campo energetico e agro-alimentare. In particolare, è arrivato il momento di rivedere radicalmente la P.A.C. (Politica Agricola Comunitaria) che ha privilegiato grandi aziende ad alto consumo energetico e impatto ambientale a favore di una agricoltura contadina, l’unica in grado di proteggere la biodiversità e l’autosufficienza di un territorio.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
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Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna

Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna

La recente polemica, nata dalle esternazioni del sindaco Sala e del presidente della Lombardia Attilio Fontana nei riguardi del Sud, non va presa sottogamba, come un incidente di percorso. Invece va considerata come un segnale, preoccupante, per il futuro del nostro paese. Quello che Sala e Fontana sostengono lo pensano in tanti amministratori: visto che il Sud non è in grado di utilizzare il 40% delle risorse del Pnrr, tanto vale farle gestire alle regioni del Centro-Nord piuttosto che restituire queste risorse a Bruxelles. C’è una parte di verità in queste affermazioni e tanta parte di mistificazione e strumentalizzazione. Innanzitutto, dovremmo chiarire una questione di fondo. L’Italia ha ricevuto, in percentuale della popolazione e del reddito pro-capite, una quantità di risorse comunitarie come nessun altro paese della Ue proprio perché esiste un enorme divario interno tra Nord e Sud.

Per questa ragione, tra gli obiettivi prioritari del Pnrr c’è la riduzione del divario territoriale, e nessun altro paese Ue ne ha uno così marcato che coinvolge un terzo della sua popolazione, ovvero 20 milioni di abitanti con un reddito pro-capite del 40% inferiore a quello dei 40 milioni di abitanti del Centro-Nord. E se prendiamo gli estremi ci rendiamo meglio conto di che cosa parliamo: Il reddito pro-capite della Calabria è di 12.700 euro a fronte degli oltre 36.000 euro pro-capite della Lombardia, regione che ha un tenore medio di vita superiore alla media della Francia e del Regno Unito. E non è solo una questione di reddito o di consumi, ma della quantità e qualità dei servizi, dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), della qualità dell’istruzione, dei trasporti, ecc.

Senza la presenza di un divario così grande l’Italia non avrebbe ottenuto i 191,5 miliardi di euro, di cui 68,9 a fondo perduto, pari a circa il 27% di tutto il plafond messo a disposizione da Bruxelles per tutti i 27 paesi della Ue. Allo stesso tempo, non si può negare che esista un serio problema di progettazione e gestione di queste risorse da parte degli enti locali meridionali. Non che nel resto del paese la situazione sia brillante, ma è indubbio che negli ultimi dieci anni le regioni meridionali abbiano speso mediamente solo tra il 25 e il 30 % delle risorse comunitarie disponibili. Questo non significa che si debbano trasferire questi flussi finanziari nel Centro –Nord creando una ulteriore divisione, potenzialmente irreversibile e insostenibile. Fra l’altro, il contributo comunitario va a compensare la riduzione degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno che, tra il 2008 e il 2018, sono passati da 21 miliardi a poco più di 10.

Se non ci arrendiamo allo status quo possiamo immaginare una alternativa.

Gli enti locali meridionali, a partire dall’Anci, stanno chiedendo insistentemente al governo di dotare le amministrazioni locali di tecnici ed esperti in grado di utilizzare queste risorse del Pnrr. Richiesta sacrosanta che dovrebbe compensare il danno che hanno subito le amministrazioni locali, in tutta Italia, con il blocco del turn over e il taglio di oltre 12 miliardi di contributi statali. Ma non basta. Bisognerebbe mettere insieme i Comuni del Nord, Centro e Sud per una cooperazione fattiva sul piano della transizione ecologica, della digitalizzazione, dell’Istruzione e Ricerca, della Salute.

I Comuni delle aree più ricche avrebbero il vantaggio di trovare ulteriori occasioni di lavoro per le imprese del loro territorio, mentre i Comuni delle aree più povere avrebbero il vantaggio di vedere implementati le idee progettuali a cui hanno pensato, ma difficilmente riuscirebbero a realizzare. Sarebbero auspicabili dei gemellaggi tra territori con caratteristiche e problematiche simili. Per esempio, i Comuni collinari e montani dell’Etna con quelli del Trentino, oppure i Comuni della costa jonica calabrese con quelli liguri.

Ancora meglio, come ha suggerito Pino Ippolito in un recente convegno on line, servirebbe una piattaforma a livello nazionale dove ogni Comune immette i propri bisogni, necessità, e anche disponibilità di white list di tecnici e di imprese nel proprio territorio con esperienze virtuose. Il Pnrr potrebbe diventare la grande occasione, storica, per un incontro tra Nord e Sud, nel nome della trasparenza e della cooperazione, che rilancerebbe, al di là della retorica, l’Unità reale del nostro paese.

da “il Manifesto” del 16 febbraio 2022

La sfida ecologica alla società dei consumi.-di Tonino Perna

La sfida ecologica alla società dei consumi.-di Tonino Perna

In questi giorni tutti i mass media riportano il dato della crescita del Pil italiano che quest’anno dovrebbe attestarsi oltre il 6 per cento, recuperando i due terzi di quanto si è perso nel 2020. Come è noto, il motore di questa crescita economica è stato il balzo in avanti dei consumi, un dato che ci aspettavamo come reazione alle restrizioni che hanno costretto i consumatori ad una drastica riduzione dei consumi nel 2020, con relativo netto incremento dei risparmi delle famiglie.

Se, da una parte, questa ripresa ci fa piacere, dall’altra si scontra con la necessità di una transizione ecologica che non può non toccare il modello dei consumi, il paniere scelto dai consumatori. Come si suol dire, non possiamo avere la botte piena (pil) e la moglie ubriaca (ecologia). O detto con un altro motto: non si possono servire due padroni. Bisognerà rivedere la qualità dei nostri consumi sul piano dell’impatto con l’ecosistema.

Se prendiamo, ad esempio, l’usa e getta dei contenitori delle bevande (acqua, vino, birra, succhi, ecc.) non possiamo non considerare il fatto che nel nostro paese solo la metà dei contenitori di vetro o plastica viene riciclato, il resto finisce nell’indifferenziata.

In Italia, ogni anno, 7 miliardi di contenitori di bevande sfuggono alla differenziata e finiscono nei rifiuti! Nella Ue il “vuoto a rendere” funziona e ha portato la raccolta differenziata, nei paesi nordici, al 90%. Per questo l’Associazione nazionale Comuni Virtuosi chiede l’introduzione di un sistema di deposito cauzionale per facilitare il riciclo delle bottiglie di plastica.

In Calabria, un sistema di questo tipo ridurrebbe la massa del “tal quale”, ovvero dell’indifferenziata che non riusciamo a smaltire, darebbe una mano all’ecologia e un’altra agli enti locali. In fondo si tratta di riprendere vecchie pratiche (i più anziani ricordano le bottiglie per il latte) e collegarle alla filiera dell’economia circolare, che altrimenti è solo uno slogan.

Il governo regionale potrebbe incentivare, usando le risorse comunitarie per la transizione ecologica, quegli esercizi commerciali che adottano questa pratica. E si potrebbe anche andare oltre. Per esempio, riducendo l’uso della plastica nel confezionare i prodotti alimentari da banco. Non dico di tornare alla carta oleata, ma non è nemmeno accettabile questi giri e rigiri di film di plastica su tutti i prodotti.

Per non parlare degli sprechi energetici, che certo fanno crescere il Pil, ma fanno male all’ambiente e alle tasche dei consumatori. Basti guardare a quegli esercizi commerciali che in piena estate tengono le porte spalancate e l’aria condizionata al massimo, o nelle case dove in pieno inverno si sta in maniche corte. Almeno su questo piano non imitiamo il Nord, dove, dagli Usa alla Ue, passando per la Cina, assistiamo da decenni ad un uso perverso dei climatizzatori, sia d’estate che d’inverno.

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I fallimenti di una sinistra che affida alle urne la sua identità.-di Tonino Perna

I fallimenti di una sinistra che affida alle urne la sua identità.-di Tonino Perna

Il lungo titolo annuncia: «Un milione di voti di cui si parla dal ’68. Una storia di camere sciolte, di un grande movimento e di piccoli partiti. Scritta, naturalmente, col senno di poi». Facendo un po’ d’ordine tra vecchie carte, documenti e articoli di giornali ritagliati, mi sono imbattuto in un articolo di Ritanna Armeni e Rina Gagliardi pubblicato il 20 aprile del 1979.

Vengono percorse, partendo dal 1968, le tappe cruciali delle elezioni politiche e amministrative, passando per il 1972 (elezioni politiche), 1975 (regionali), 1976 (politiche), 1979 (politiche).

In questi appuntamenti elettorali scenderanno nell’agone politico via via il Manifesto-Pdup, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Lotta Continua, e tanti gruppuscoli marxisti-leninisti che sono presenti in alcune realtà territoriali.

Come viene ricordato dalle due autrici, nel ’68 finisce la delega dei movimenti rispetto al Pci e si comincia, in una parte del movimento anticapitalista, a riflettere sulla necessità di formare un partito e candidarsi alle elezioni.

In questo giro di boa entra anche il manifesto con posizioni diverse al suo interno, in particolare tra Luigi Pintor e Rossana Rossanda (come ha ricordato Norma Rangeri, nell’articolo del 14 ottobre scorso, all’indomani delle elezioni amministrative).

Scriveva Pintor: «Giudico la battaglia elettorale un’occasione positiva e feconda per noi e per tutta la sinistra, una prova da affrontare con serietà e slancio, un terreno come un altro su cui misurarci con lo stesso spirito che ha sempre animato la nostra impresa politica…». A cui ribatteva Rossanda: «So bene che nei compagni che si battono per le liste c’è il bisogno di esistere, contarsi, contare. Ma credo per fermo che questo modo di esistere, contarsi e contare sia ambiguo e pericoloso…». Parole profetiche, inascoltate per quarant’anni!

Con l’eccezione del periodo di Rifondazione Comunista con segretario Bertinotti, a sinistra del Pci–Pds-Pd si sono, di volta in volta, formati dei raggruppamenti che, quando è andata bene, hanno preso il minimo di voti per superare la soglia di sbarramento.Ogni volta un simbolo diverso, un nome diverso, che non sono sopravvissuti al di là del ciclo elettorale, non hanno sedimentato un pensiero politico, una visione capace di attrarre e coinvolgere al di là del proprio giardino.

Quante energie sprecate, quante amare delusioni che hanno prodotto conflitti all’interno di queste embrionali forze politiche, spesso più intente a litigare fra loro che a trovare convergenze e strategie comuni.

Anche il Prc, che pure aveva avuto un grande seguito giovanile forgiatosi durante e dopo i fatti di Genova del 2001, si è nel tempo arenato perché non è riuscito a “rifondare” un pensiero politico che facesse i conti con la disfatta dell’Urss e la trasformazione del maoismo in capitalismo di Stato, a tracciare una credibile alternativa di sinistra che facesse tesoro con ciò che ci ha insegnato il ‘900.

«E tuttavia il dubbio maggiore che ci attraversa- scrivevano la Armeni e Gagliardi nell’introdurre questa cronostoria politica- proprio a proposito di elezioni, investe la validità della concezione politica generale che ha ispirato questi undici anni di peripezie: l’idea di partito e organizzazione, la pratica della politica come sfera specialistica e separata, la difficioltà profonda di uscire, in avanti, dagli schemi della II e III Internazionale».

Esistere, contarsi, contare può essere ambiguo e pericoloso, scriveva Rossana Rossanda, perché la qualità del lavoro sociale, culturale, politico, non lo si può pesare unicamente con il voto, non si può dare alle competizioni elettorali la funzione del Giudice Supremo, di colui che decide della tua esistenza.

Non significa che sia inutile partecipare alle competizioni elettorali, come una parte dei movimenti della sinistra radicale ha sempre sostenuto, ma avere un atteggiamento lucido e distaccato, non sopravalutando i risultati delle urne, non pensando che ci giochiamo tutto nell’ultima tornata elettorale.

E poi, dovremmo saperlo, i cambiamenti sociali e culturali non passano necessariamente attraverso la formazione di una forza politica vincente sul piano elettorale.

Se riflettiamo a come è cambiato positivamente il ruolo della donna nella nostra società o ai diritti delle persone diversamente abili, ci rendiamo conto che è stata una lotta quotidiana, trasversale, che ha pagato molto di più che se si fosse fondato un partito delle donne o dei disabili.

Sarebbe come dire che il valore di un quotidiano come il manifesto, con la sua storia e le sue battaglie, lo si misura solo dal numero delle copie vendute e non, al contrario, dalla sua funzione informativa, politica e culturale.

Se chi ci lavora la pensasse così avrebbe fatto chiudere questo giornale da tempo. Se continua ad esistere, dopo cinquant’anni, è perché rappresenta per chi lo legge e per chi ci scrive molto di più di quello che i numeri del mercato editoriale possono raccontare.

da “il Manifesto” del 18 novembre 2021

Energie rinnovabili.-di Tonino Perna Il tesoro calabrese a patto che si superi l'inerzia

Energie rinnovabili.-di Tonino Perna Il tesoro calabrese a patto che si superi l'inerzia

Malgrado la delusione (per altro prevedibile) per i risultati del G20 sulla questione del contrasto al mutamento climatico, l’Ue prosegue la sua strada e chiede ai paesi membri di dare un maggior impulso agli investimenti green e, più in generale, ad un approccio complessivo al nostro modello di sviluppo.
Uno dei pochi settori dove già si vede la svolta è quello dei trasporti: auto elettriche, treni e navi ad idrogeno, sostituzione progressiva del trasporto merci su gomma con altri vettori con minore impatto ambientale.

Questa accelerazione nel campo dei trasporti è indubbiamente dovuta al fatto che rappresenta per l’industria automobilistica in primis, e per altri settori, una straordinaria domanda in una fase in cui il mercato dei mezzi di trasporto (in particolare delle auto e camion) è entrato in crisi, soprattutto in Occidente. Pertanto, ci piaccia o no, dovremo a breve sostituire le nostre auto che usano combustibili fossili con le auto elettriche, passando per una fase di utilizzo delle auto ibride.

Si ridurrà certamente l’inquinamento nelle città, ma non è detto che si riduca complessivamente se le colonnine elettriche, che sostituiranno gli attuali distributori di benzina e gasolio, saranno alimentate con sistemi convenzionali.

Vale a dire: se la mia auto si ricarica con una corrente elettrica prodotta da una centrale termoelettrica che brucia combustibili fossili, non si è risolto un bel nulla in tema di riduzione della CO2. Anzi si potrebbe aggravare perché c’è da contabilizzare l’inquinamento prodotto nella produzione delle batterie, con la relativa estrazione di minerali preziosi, e in aggiunta si pone un problema di smaltimento di milioni di batterie. Insomma, è chiaro che bisogna fare il massimo sforzo perché le macchine elettriche siano alimentate con le energie rinnovabili.

In Calabria potremmo avere condizioni ideali per far camminare le nostre auto e i mezzi pubblici grazie all’uso di energia solare, eolica, biogas. Anche la presenza di tanti borghi e piccoli centri, di tanti spazi attigui alle abitazioni dove collocare pannelli solari o il mini eolico, facilita l’uso di queste energie e consente alle famiglie un grande risparmio.

Ci sono gli incentivi per ammortizzare parte dell’investimento iniziale, ma finora non si è trovato un antidoto ad un virus che abita le nostre contrade: l’inerzia. Non si capisce perché una città come Reggio Calabria baciata dal sole per una gran parte dell’anno abbia meno della metà dei pannelli solari, termici e fotovoltaici, installati a Bolzano, con centomila abitanti contro i 170mila del capoluogo calabrese! E questo vale per tutta la Calabria con pochissime eccezioni.

Quarant’anni fa quando venivano installati i primi pannelli solari termici a Crotone, pensavamo che questa Regione sarebbe diventata come la California o la Florida, in termini di uso dell’energia solare ed eolica. Non siamo certo all’anno zero ma molta strada deve essere percorsa, e non si può perdere questa ultima occasione che ci offre il Pnrr (Programma nazionale recovery e resilienza).

Bisognerebbe già da questo autunno partire con una campagna di sensibilizzazione e promozione, cominciando dalle scuole medie superiori e dalle Università perché sono i giovani i più aperti alle novità, i più adatti a spingere le proprie famiglie ad investire sul futuro, dotarsi di accumulatori da energie rinnovabili, a cogliere quale grande opportunità economica e ambientale può offrire questo cambiamento.

C’è poi da segnalare una grande novità in questo campo: la nascita delle comunità energetiche nella Ue. Una strada maestra per ricreare vincoli di comunità, risparmio energetico e finanziario. Ma, di questo ne parleremo meglio la prossima volta.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 novembre 2021
Foto di Maria Godfrida da Pixabay

Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna

Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna

Tra i fattori che hanno provocato l’aumento della temperatura media del nostro pianeta spesso ci si dimentica del ruolo che gioca l’agricoltura/zootecnia industriale nella produzione dei gas serra. Per molto, troppo tempo siamo vissuti con la convinzione che la terra fosse un corpo inerte dove con la chimica si poteva ottenere quello che si voleva, che gli animali da allevamento fossero delle macchine che si potevano perfezionare a volontà per aumentarne l’efficienza.

Tutto il sapere dell’agricoltura contadina è stato scartato come un residuo di un passato pretecnologico. Così gli allevamenti intensivi di migliaia di animali, chiusi in spazi sempre più ristretti, riempiti di ormoni e antibiotici, erano visti come un progresso per l’umanità, perché aumentavano la produzione per unità e ridotto i costi unitari.

Per decenni solo pochi profeti, spesso ignorati, hanno denunciato i danni alla salute dell’uomo e dell’ambiente di questo modo di produzione. Jeremy Rifkin, prestigioso economista statunitense, aveva denunciato in un suo saggio del 1998 i danni all’ambiente causati dall’industrializzazione della produzione zootecnica, e spinta in avanti dal nostro eccessivo consumo di carne.

Unitamente alla denuncia che da tempo molti studiosi hanno formulato nei confronti dell’agricoltura industriale, per l’uso eccessivo di fertilizzanti che rendono sterili i terreni, per l’inquinamento delle falde acquifere e, last but not least, per i danni alla nostra salute. Questo non significa ritornare alla zappa e alla falce, ma significa fare tesoro di tecniche agricole che rispettino i cicli vitali, che considerano la terra un corpo vivo, con le sue esigenze e i suoi tempi.

La transizione ecologica rivaluta l’agricoltura contadina e gli allevamenti a piccola scala in cui gli animali non vengono rinchiusi in un lager e non si usano sostanze artificiali per aumentarne la produttività. Naturalmente questo significa pagare di più i beni alimentari alla fonte e ridurre i costi dell’intermediazione e distribuzione che oggi assorbe mediamente l’80 per cento del valore.

Vale a dire: è necessario rivedere tutta la filiera agroalimentare con l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori, difendere la biodiversità, ridurre le emissioni di gas serra, dare un “giusto prezzo” ai prodotti delle aziende agricole e condizioni di lavoro e salario dignitosi ai lavoratori. Non si tratta di utopie o di sogni romantici perché esistono tante esperienze sul campo che potremmo raccontare, diverse reti che uniscono braccianti-imprenditori- consumatori in forme diverse e con beneficio di tutti gli attori.

In questa visione la transizione ecologica offre una straordinaria opportunità alla agricoltura calabrese, a quelle piccole aziende agricole e zootecniche che sembravano un residuo del passato, un segno di arretratezza, e invece rappresentano il futuro.

In particolare, la gran parte delle zone interne che non sono state inquinate, che hanno vissuto solo marginalmente l’impatto della chimica sui terreni agricoli, potrebbero uscire dall’abbandono ed essere valorizzate, offrendo prodotti agricoli di prima qualità, con l’utilizzo anche di semi antichi e piante da frutto autoctone, uscendo dalla omologazione attuale dell’offerta di ortaggi e frutta standardizzata.

In questa direzione sarebbe opportuno varare una seconda Riforma Agraria in chiave ecologica, che consenta di mettere a frutto i terreni abbandonati che rappresentano una parte rilevante delle aree collinari, con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero anche sul piano idrogeologico. Siamo di fronte ad un bivio. Se non prendiamo adesso la strada giusta non avremo un’altra opportunità.

da “il Quotidiano del Sud” del 27 ottobre 2021
Foto di Fabio Grandis da Pixabay

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Giuseppe Smorto non ha mai lasciato nel cuore e nella mente la Calabria dove è nato in riva allo Stretto, mentre una nave affondava per una bomba sganciata dagli anglo-americani durante la seconda guerra mondiale. Ogni anno è tornato nella punta della penisola in tutte le feste comandate e durante le vacanze estive. Ma, soprattutto, ha sempre cercato di valorizzare il meglio della sua terra, contrastando una immagine stereotipata della Calabria che la riduce a questione criminale.

A CONCLUSIONE della sua lunga e brillante carriera a Repubblica ha scritto un libro A Sud del Sud (Zolfo, pp. 176, euro 16), un viaggio dentro la Calabria tra i «diavoli e i resistenti». Un viaggio che ha il respiro del «rap», un ritmo incalzante, che ti stordisce, che ti porta in giro dalla costa alle zone di montagna più impervie, che ti fa entrare in luoghi che mai avresti immaginato che esistessero. Un giornalismo di inchiesta come non si vedeva da tempo, soprattutto non si vedeva per quest’area dell’estremo Sud.

In ventuno capitoli, partendo dalla Locride, il viaggio di Smorto tra «la perduta gente» (come recitava un saggio di Umberto Zanotti Bianco) si imbatte nei nuovi partigiani di una Calabria che resiste, senza girarsi dall’altra parte, senza nascondere sotto il tappeto le violenze criminali agli umani e alla natura, lo scempio urbano e il degrado sociale e culturale.

È LA NOVITÀ di questo viaggio-inchiesta. Finora i libri sulla Calabria, ma anche sul Mezzogiorno, hanno seguito due filoni: quello della ’ndrangheta in tutte le sue sfaccettature compresa l’anti-ndrangheta, o quello dell’esaltazione di una natura selvaggia, di una Calabria esotica che sostituisce i viaggi nei paesi del Sud del mondo al tempo della pandemia. In questo libro si passa dal resoconto puntuale del processo al boss dei boss, Luigi Mancuso, «il Supremo», il «Comandante», all’esperienza di Riace, borgo rinato con una politica dell’accoglienza che ne ha fatto un caso internazionale (e oggi anche giudiziario).

DALLA DENUNCIA puntuale dei rifiuti tossici disseminati tra montagne, colline e mare, allo stupore di fronte al Centro di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, promosso dal dottore Lino Caserta, o al plauso per «Comunità competente» di Rubens Curia, il medico che ha messo insieme più di settanta associazioni/cooperative che si occupano della salute delle persone e con la loro pressione, costanza, determinazione, sono riusciti a ottenere grandi e piccoli successi nelle Asp, macchine burocratiche e spesso inquinate dal malaffare.

Dalle eccellenze dell’Università della Calabria, vero fiore all’occhiello che dimostra quanto si potrebbe fare anche in una terra marginale e isolata, alla violenza che subiscono tanti giornalisti coraggiosi e sconosciuti all’opinione pubblica nazionale.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2021

Mimmo Lucano colpevole di reato di umanità.-di Tonino Perna

Mimmo Lucano colpevole di reato di umanità.-di Tonino Perna

La sentenza del tribunale di Locri, che condanna Mimmo Lucano alla pena di 13 anni e due mesi, lascia esterrefatti, indignati, increduli. Quella parte del nostro paese che ancora crede nella democrazia e nell’amministrazione della giustizia ne resta sconcertata.

Se la richiesta del Pubblico ministero, di una pena di 7 anni, già sembrava una mostruosità, con questa sentenza il giudice ha giocato al raddoppio andando al di là di ogni possibile appiglio giuridico.

Conosco Mimmo Lucano dall’autunno del ’98 quando venne a Badolato, dove il Cric (una Ong molto attiva in quel periodo) aveva realizzato il primo progetto di accoglienza degli immigrati, con la finalità di far rinascere un borgo antico abbandonato.

Mimmo con la semplicità e spontaneità che lo ha sempre contraddistinto ci disse che voleva fare la stessa cosa nella sua Riace: «Mi date una mano?». Così nacque il progetto-Riace, grazie ad un prestito importante di Banca Etica e, soprattutto, alla solidarietà di decine di associazioni, italiane e straniere, a partire dalla comunità anarchica di Longo mai che oltre all’aiuto in denaro organizzò un flusso di centinaia di turisti solidali.

Per non parlare di Recosol, la rete del Comuni Solidali che per quasi vent’anni ha sostenuto in tanti modi questa esperienza, diventata un progetto collettivo.

Mimmo Lucano ne rappresenta l’icona, avendogli dedicato tutta la sua vita da adulto, fino a rinunciare alla propria famiglia per occuparsi dell’accoglienza dei migranti. Colpirlo in questo modo significa colpire il modello Riace, conosciuto in tutto il mondo come simbolo concreto e veicolo formidabile di un’altra immagine della Calabria e dell’Italia, capace di dimostrare l’esistenza di una alternativa reale alle baraccopoli, ai ghetti, alle politiche di respingimento di esseri umani che chiedono solo di poter vivere con dignità.

Non solo. Il modello Riace, per fortuna ripreso da diversi comuni calabresi e di altre regioni, è stata e resta la strada maestra per il recupero delle aree interne abbandonate e degradate, offrendo una risposta efficace ai rischi ambientali di smottamenti, frane, alluvioni, in gran parte dovuti proprio a questo drammatico, progressivo abbandono di territori vasti e preziosi per il futuro sostenibile del paese.

Ma, cosa ha fatto di così grave Lucano per meritare una pena che viene comminata ad assassini incalliti, a mafiosi, a trafficanti internazionali di droghe, a stupratori seriali, a terroristi? L’ex sindaco di Riace viene accusato di favoreggiamento di immigrazione clandestina per aver consigliato ad una donna immigrata, disperata perché stava per essere respinta nel suo paese, di sposare un uomo anziano.

Chi di noi in queste circostanze non si sarebbe sentito di suggerirlo come stremo rimedio? E in ogni caso, se è un reato celebrare un matrimonio tra una giovane donna immigrata e un anziano italiano allora annulliamo migliaia di matrimoni e arrestiamoli tutti.

L’altra pesante e incredibile accusa che gli viene contestata è quella di clientelismo a fini elettorali, di truffa, peculato e abuso d’ufficio, ma non un euro gli è stato trovato nelle sue tasche, né esiste alcuna prova che si sia appropriato di denaro pubblico in qualche modo.

La verità, scomoda, molto scomoda, è una sola: Lucano è accusato di «reato d’umanità» per aver accolto decine di migliaia di immigrati, che la Prefettura gli inviava come ultima spiaggia. Per aver cercato di farli lavorare dignitosamente, per aver fatto rinascere un paese totalmente abbandonato, Lucano è diventato un dei più pericolosi delinquenti in circolazione.

Le sue lacune amministrative, l’avere poca dimestichezza con le regole burocratiche gli hanno fatto commettere errori amministrativi, dove tuttavia non c’è dolo, appropriazione di denaro, tangenti o associazioni a delinquere, ma solo ingenuità, superficialità e, se vogliamo, faciloneria di chi non sopporta i vincoli della nostra farraginosa burocrazia.

Con questa sentenza il tribunale di Locri inserisce, di fatto se non di diritto, il «reato d’umanità» nel panorama giuridico del nostro paese, creando un precedente inquietante. È un ennesimo segnale che ci mostra la crisi profonda che attraversa la nostra magistratura, e quindi le istituzioni democratiche. Ne prendiamo atto, ma non ci arrendiamo perché non vogliamo finire nella terra di Erdogan.

E per salvare la nostra democrazia e la nostra stessa società, già oggi si terrà una manifestazione a Riace in suo sostegno. Naturalmente non ci fermeremo qui, puntando sul fatto che in Appello si possa smontare questa sentenza incredibilmente iniqua.

da “il Manifesto” del 1 ottobre 2021

Usciamo dalle ideologie e usiamo il buon senso.-di Tonino Perna

Usciamo dalle ideologie e usiamo il buon senso.-di Tonino Perna

Stiamo assistendo da troppo tempo ad uno scontro ideologico, incarnato da diverse forze politiche, tra gli ultrà del vaccino e i No Vax , tra coloro che sostengono fideisticamente la comunità scientifica e quelli che credono che, dietro questa forsennata campagna vaccinale, ci siano solo sporchi interessi economici e il tentativo di controllarci e sottometterci tutti.

La testimonianza del collega Battista Sangineto, apparsa su questo quotidiano e ripresa a livello nazionale, mi ha fatto molto riflettere. Il professore Sangineto non è un no-vax, è un uomo di scienza, sia pure umanistica, che si era vaccinato convinto di essere ormai immune dal virus Covid 19. Purtroppo, non solo ha preso il virus in maniera pesante, ma lo ha contratto da un soggetto a sua volta vaccinato. E non è il primo caso. Cosa significa tutto questo? Procediamo con ordine.

Prima di tutto non è vero quello che ci è stato detto fin dall’inizio della pandemia da parte di insigni virologi: se ci vacciniamo al 70% otteniamo l’immunità di gregge (pessima espressione), ovvero spegniamo la diffusione del virus. Purtroppo, non è così: anche i vaccinati possono prendere il Covid e trasmetterlo. Unico dato che spinge ancora oggi a ritenere utile il vaccino è quello dei ricoveri: dai dati disponibili sembra che circa il 90 per cento dei nuovi ricoverati, dal mese di agosto, in terapia intensiva non era vaccinato. Pertanto, se ne può dedurre che il vaccino, mediamente, dovrebbe ridurre l’impatto letale del virus.

Finora questa è l’unica certezza a cui ci possiamo aggrappare, ma che non ci lascia tranquilli come testimonia il caso sopra citato. Il buon senso ci dice che conviene vaccinarsi, almeno per le classi di età più avanzate, ma che bisogna ugualmente non abbassare la guardia e mantenere tutte le misure precauzionali. Certo, non è piacevole continuare a usare la mascherina, a disinfettare continuamente le mani, a mantenere una distanza con persone che prima abbracciavamo e baciavamo, specie noi meridionali, senza problemi.

Bisognerebbe che i virologi divenuti star della Tv , che hanno creato tanta confusione e comunicata una immagine falsa della scienza, facessero un po’ di autocritica, dicessero quello che i veri scienziati sanno da sempre: non ci sono certezze, ma solo metodi di ricerca rigorosi e mai definitivi. Questa pandemia ci ha posto di fronte a sfide inedite, unitamente alla pressione formidabile delle forze economiche hanno premuto l’acceleratore per fare ripartire il dio Pil a tutti i costi. Così, in tempi eccezionalmente brevi, sono stati creati dei vaccini che sicuramente portano una riduzione della letalità, ma non risolvono il problema della diffusione del virus.

Pertanto, la battaglia contro gli untori, cioè contro quelli che non si vogliono vaccinare, rischia di essere una battaglia ideologica quanto è quella di coloro che rifiutano qualunque tipo di vaccino e vedono dovunque dei complotti dei poteri forti. Per onestà intellettuale, se è vero quanto abbiamo sostenuto, il famoso “green pass” non può essere imposto, anche se può essere promosso e sostenuto, ma dicendo la verità: non salva il tuo prossimo dall’essere infettato. E quindi non è un gesto di civiltà, ma di sano egoismo, perché chi si vaccina rischia meno di chi non lo fa.

Continuare a chiedere prudenza, distanziamento fisico (e non sociale), misure di prevenzione, è l’unica strada percorribile in attesa che terapie mediche più efficaci possano ridurre il danno di questa epidemia e derubricarla al limite di una normale influenza stagionale.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 settembre 2021
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Calabria, l’oblio delle buone pratiche.- di Tonino Perna

Calabria, l’oblio delle buone pratiche.- di Tonino Perna

Nella torrida estate del 2003 mentre tutta l’Europa del sud bruciava, dal Portogallo alla Grecia, mentre per l’ondata anomala di calore morivano nella sola Francia 25mila persone, venne alla ribalta dei mass media il caso del Parco nazionale dell’Aspromonte. Per la prima volta nella storia contemporanea, si parlava di questa montagna mitica e misteriosa, non per i sequestri di persona, né per omicidi di ‘ndrangheta, ma per un sistema di contrasto agli incendi che da tre anni funzionava.

Il sistema era semplice e andava al nocciolo del fenomeno incendi. Siccome non riusciamo a prevenirli, data la molteplicità delle cause e dei soggetti coinvolti, bisogna trovare il modo di spegnerli appena partono. Con un bando pubblico i circa 40.000 ettari di foresta del Parco nazionale dell’Aspromonte venivano dati in affidamento a soggetti del Terzo Settore (cooperative, associazioni, ecc.) con un contratto che prevedeva un contributo iniziale, in base agli ettari adottati e alla orografia del terreno, e un saldo finale solo nella misura in cui gli ettari andati in fumo non fossero superiori all’1% della superficie adottata.

Veniva evitata la gara al ribasso dell’offerta economica che tanti danni ha provocato, e sostituita con parametri oggettivi. Questi «contratti di responsabilità sociale e territoriale» hanno rappresentato uno strumento per ristabilire un rapporto con questi territori abbandonati, spopolati, dove un tempo vigevano gli usi civici e tutta la comunità si faceva carico della manutenzione dei boschi, del loro uso a fini alimentari e non (legna da ardere, carbone, e persino ghiaccio nelle aree di alta montagna).

Il cosiddetto «metodo Aspromonte» fu imitato da alcuni parchi nazionali e regionali, venne preso in considerazione da Bruxelles, dove nel 2005 chi scrive fu invitato dalla Commissione che si occupa di forestazione, biodiversità, ecc. Fu introdotto in alcuni Comuni con delle interessanti varianti, che davano questa responsabilità territoriale ai contadini piuttosto che ai soggetti del Terzo settore. Insomma, sembrava logico che questa modalità di contrasto degli incendi diventasse una pratica comune. Ed invece nel tempo è prevalso l’oblio. Non a caso: il grande business delle società private che gestiscono l’antincendio ha prevalso e ci ha portato al disastro odierno.

Certo, il surriscaldamento della Terra, estati sempre più afose, lunghi periodi di siccità, tutto questo sappiamo che è dovuto al mutamento climatico indotto dall’uomo, ma proprio per questo dovremmo attrezzarci. Ed invece la cosiddetta «resilienza» appare solo come un vezzo per giustificare investimenti, per utilizzare risorse comunitarie, ma non si vede un piano di resilienza per le città quanto per le zone interne. Aspettiamo la prossima alluvione per gridare alla mancanza di cura del territorio quando potremmo fin d’adesso prendere atto che bisogna dare priorità alla manutenzione e stabilire una nuova relazione con l’ambiente in cui viviamo, fondata sul principio di responsabilità sociale e territoriale.

da “il Manifesto” dell’8 agosto 2021
Foto di jlujuro da Pixabay

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

C’è un vero e proprio progetto politico in linea con la storia del capitalismo. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro all’epoca della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII.

Nei libri di scuola, ed anche all’Università, viene raccontata come la semplice introduzione delle macchine (tra cui la famosa spoletta volante di John Kay) nel settore tessile che permise all’Inghilterra di diventare leader in questo settore a livello mondiale. Quello che raramente viene spiegato è che l’introduzione delle macchine arrivò più di un ventennio dopo la loro scoperta e che fu preceduta da profonde riforme legislative, nonché da una tolleranza rispetto a pratiche fraudolente che riguardavano gli articoli di esportazione (adulterazione delle stoffe).

In un voluminoso saggio dal titolo Prometeo liberato (Einaudi 1978), lo storico statunitense David Landes mostrò come fosse determinante l’abolizione di tutta una serie di regole che stabilivano quanto doveva essere larga la stoffa, i colori, il peso, il broccato, ecc. E’ dal tempo di Dante, e ancor prima, che le Corporazioni di arti e mestieri regolavano con estrema cura, quasi ossessiva, ogni tipo di produzione di beni, impedendo la concorrenza sul prezzo (era vietata) e dando ampie garanzie al cittadino (per esempio ogni artigiano doveva svolgere il proprio mestiere davanti alla finestra…).

L’innovazione di prodotto quanto di processo erano rare e difficili, dovendo combattere contro il potere delle Corporazioni. Solo cancellando una parte importante di queste regole il capitalismo, che era nato con le prime banche nel XIII secolo, poté dare vita a alla “rivoluzione industriale”.

Non diversamente oggi la digitalizzazione del tessuto sociale, la nascita delle smart city, e la ripresa degli investimenti su larga scala sarà possibile solo abbattendo quelli che già un governatore della Banca d’Italia definiva “lacci e lacciuoli”. Abbattere i vincoli burocratici e velocizzare la giustizia civile e penale rappresentano la conditio sine qua non del rilancio del modello di sviluppo capitalistico vincente su scala mondiale.

Questo comporterà certamente una crescita dell’economia, in particolare dell’economia criminale, della presenza delle imprese a capitale mafioso, come denuncia Libera e una parte dei sindacati, ma è difficile opporsi se non c’è un modello alternativo realizzabile. Mi spiego meglio con un esempio. Da quando la magistratura, dopo la morte di Falcone e Borsellino, ha ingaggiato una lotta contro le mafie in tutto il Mezzogiorno, con relativa confisca di beni immobili e imprese, i capitali mafiosi sono fuggiti dal Sud e si sono trasferiti nel Nord Italia ed all’estero.

Nel settore edile è diventato difficile portare avanti un’opera per le interdittive della Prefettura a cantieri aperti. Magari dopo che la stessa impresa aveva ricevuto un certificato antimafia. A questo si aggiunga l’atavica gestione neoborbonica della Pubblica Amministrazione che nessuna riforma è riuscita finora a contrastare. In breve, il Mezzogiorno è caduto in una progressiva stagnazione negli ultimi vent’anni proprio a causa di tutti questi vincoli.

E quindi? Dobbiamo sperare che l’economia criminale prenda il sopravvento in nome dello sviluppo? Certamente no. Allo stesso tempo, la lentezza della giustizia civile, la farraginosità delle procedure burocratiche creano un malessere crescente nella stragrande maggioranza della popolazione. Non è facile uscire da questo dilemma, ma non si può smettere di cercare una soluzione alternativa, praticabile, che non può non passare da una reale partecipazione popolare ai processi decisionali, a partire dagli enti locali.

Ma, anche, da una lotta per spostare gli investimenti verso la cura del territorio, verso i servizi sociali, il recupero delle terre abbandonate, delle aree interne, verso una riduzione degli sprechi e dei consumi di suolo. Una vera rivoluzione ecologica non può non accompagnarsi con una forte spinta democratica da basso. Che si traduce in una maggiore resistenza alla penetrazione dell’economia criminale.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2021
Foto di MonikaP da Pixabay