Categoria: Dalla Stampa

L’immagine dei Bronzi e l’uso pericoloso del passato.-di Battista Sangineto

L’immagine dei Bronzi e l’uso pericoloso del passato.-di Battista Sangineto

I due Bronzi furono trovati da un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, a soli dieci metri di profondità e poi portati in superficie dai sommozzatori dei carabinieri aiutati da decine, centinaia di volontari. La spiaggia bianca di Riace si riempì d’una umanità accaldata e vociante. Li trassero a riva a braccia, li strofinarono per togliere la patina più superficiale, li adagiarono su materassi posati su improvvisate lettighe lignee che trasportarono, accalcandosi gli uni agli altri, come se portassero un loro parente ferito al Pronto soccorso o come se traslassero, in processione, le sacre reliquie di un loro santo.

A fronte di cotanta partecipazione popolare i giornali, come scrive Salvatore Settis, diedero pochissimo spazio al rinvenimento all’inizio: solo un trafiletto e poi, in un crescendo che si è intensificato per mesi, ha occupato sempre più spazio fino ad arrivare alle prime pagine dei giornali e dei telegiornali nazionali.

Un ritrovamento “spaesante” che ha prodotto, e produce ancora, una quantità imprevedibile di turbamenti dell’anima di quanti vengono a trovarsi al loro cospetto. Da quei lontani primi anni ‘70 i due atleti di bronzo -antichi, ma allo stesso tempo “nuovi” perché non più visti da alcuno da due millenni- sono stati un “affaire” non solo archeologico, ma anche antropologico e sociologico, un vero e proprio capitolo del costume italiano.

Un libro -uscito nel 2015 a cura di Maurizio Paoletti e Salvatore Settis (“Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace”, Donzelli)- aveva ricostruito il clamore che suscitò il ritrovamento dei bronzi e l’uso che se ne fece: reportage televisivi, giornalistici in Italia ed in tutto il mondo, poi, per gli otto anni necessari al primo restauro di Firenze, il silenzio. Silenzio che fu rotto dalla prima apparizione pubblica dei Bronzi, presso il Museo Archeologico di Firenze, in tutto il loro splendore classico. Il risultato fu un afflusso di centinaia di migliaia di visitatori tanto imponente ed entusiasta che i giornali dovettero parlare di un fenomeno collettivo di fascinazione, mai riscontrato prima.

Una reazione impropria e debole ebbero, invece, gli archeologi che, all’epoca, apparivano, ed erano, divisi in due opposte fazioni: gli storici dell’arte e gli archeologi militanti dell’allora nascente “cultura materiale”, ma gli uni e gli altri, secondo Settis, abdicarono alla propria missione civile lasciando il ruolo da protagonista non solo alla folla sulla spiaggia, ma anche alla folla nella mostra e nei musei in cui furono esposti.

Per volontà del presidente Pertini che -dopo Firenze, ma prima che tornassero al Museo di Reggio- volle che fossero esposti al Quirinale dove un’altra immane folla si recò in pellegrinaggio, dando, definitivamente, l’avvio a quel fenomeno delle ‘mostre-evento’ che da allora diventarono, purtroppo, frequentissime. A proposito dell’antico e del suo rapporto con il kitsch, che ne rovescia il senso come in uno specchio deformante, bisogna ricordare che i bronzi sono stati i protagonisti di un profluvio di pubblicità ruspanti o, nella maggior parte dei casi, grottesche.

Provocarono anche un turbamento erotico perché nella loro fulgente nudità vennero riconosciuti e usati, da quella che ora si chiamerebbe bolla mediatica, come portatori di una potenza sessuale quasi indistinta sia verso le donne, sia verso gli uomini, come è testimoniato dalle decine di pubblicità e copertine di giornali, dibattiti sulla sessualità e, persino, dalla pubblicazione di fumetti pornografici.

In un’epoca nella quale i media erano già capaci di omogeneizzare qualsivoglia notizia e di porgerla alle masse depotenziata da ogni valore intrinseco è venuto facile alla classe dirigente della regione nella quale erano stati rinvenuti e poi musealizzati, “calabresizzare” le statue.

Se è vero che ricordando il passato gli uomini lo ricreano attribuendogli un senso che è in relazione alla loro idea del presente e che i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quello che sono oggi, i calabresi, in maggioranza, l’hanno fatto accettando, passivamente e mimeticamente, la titolarità identitaria di magnogreci. I bronzi da Riace nobilitano e, per ellissi di attribuzione, inverano, più di ogni altra cosa, questa identificazione che ha disseccato, malauguratamente, tutte le altre radici del nostro passato storico.

L’uso del passato è una materia pericolosa che va trattata con accortezza perché è molto facile che sia manipolata dalla classe dirigente per trarne vantaggi politici, economici e di consenso sociale.

Basti pensare, per esempio, alla grottesca vicenda del Museo del saccheggiatore di Roma Alarico che, nonostante sia stato bloccato nel 2018 da un intervento della Direzione generale dell’allora Ministero dei beni culturali, viene ora riproposto dall’Amministrazione del Comune di Cosenza in carica che aveva assicurato, in campagna elettorale, di non volerne sapere di un altro Museo virtuale ai piedi del Centro storico.

La “calabresizzazione” dei Bronzi dovrebbe comportare, insieme all’autoidentificazione magnogreca, anche una gelosa e, ormai, identitaria tutela materiale e immateriale delle due statue da parte dei calabresi, oltre che dell’autorità preposta che -nella persona del direttore del Museo, Fabrizio Sudano- si è già tempestivamente espressa affermando che l’immagine è stata usata senza autorizzazione dal ‘comunicatore’ del generale Vannacci. Ha ragione Giuseppe Smorto nel dire che bisognerebbe che l’immagine dei Bronzi fosse tutelata anche da tutti i calabresi come quella dell’amatissimo, dai senesi e pure da me, Palio di Siena.

Le eredità storiche bisogna meritarsele, non sono acquisite una volta per sempre, bisogna saperle tutelare, curare, nutrire e noi calabresi dobbiamo imparare ad esserne degni.

da”il Quotidiano del Sud” del 20 aprile 2024

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Alcune riflessioni a margine di un dibattito sulla sanità.
C’è che non lo vuole difendere. Chi intenzionalmente pone in essere le condizioni per smantellarlo e rendere sterile il principio sancito nella legge 833/78 e poi nel D. Lvo 502/92, quello relativo alla assistenza solidaristica ed universale cioè senza oneri per i cittadini, garantiti dalla fiscalità generale ove chi ha di più paga proporzionalmente anche per chi ha di meno.

Premettiamo per la milionesima volta che il servizio pubblico è svolto concretamente da strutture pubbliche e private, tutte accreditate con il SSN sulla base di identici criteri di appropriatezza e di qualità. Ripetesi, senza alcun impegno economico per i cittadini.

C’è chi dolosamente rema contro ed ha nomi e cognomi. Ed è la classe dirigente tutta, un unicum che non ha alcuna distinzione, che ha consapevolmente omesso l’applicazione della legge, del buon senso e dell’equità.
Andiamo con ordine e ripercorriamo i luoghi comuni che emergono, alcuni con un insopportabile demagogia altri sotto forma di denunce, apparentemente coraggiose e nuove, nei dibattiti e nelle trasmissioni televisive ed individuiamo con chiarezza le responsabilità.

A) La rete ospedaliera: responsabilità molto risalente nel tempo ed ascrivibile a chi – inconscientemente e senza alcuna conoscenza di territori e fabbisogni – ha dissipato un patrimonio di conoscenza e professionalità disponendo d’imperio riconversioni, soppressioni di ospedali in zone disagiate, riduzione di assistenza senza aver prima messo mano e potenziato da un lato l’assistenza di base, cioè la prevenzione, la medicina di famiglia, la specialistica ambulatoriale, e dall’altro le funzioni di urgenza/emergenza.

E’ chiaro a tutti che non si deospedalizza per decreto ma con una intelligente, consapevole e condivisa programmazione.
Quindici anni di Commissari hanno condotto allo sfascio.

Sul presupposto (e sul pregiudizio nei confronti dei calabresi) che la sanità è terreno di malaffare non si è combattuto il malaffare con il lavoro dei generali ed i prefetti nei Tribunali e nelle Questure, ma si sono mandati i generali ed i prefetti a fare un altro lavoro nella Pubblica Amministrazione: organizzare il servizio santiario.
Con risultati devastanti e talvolta con episodi tragicomici.

Con tutti i limiti ed i problemi derivanti da questa situazione la proposta di riorganizzazione di oggi delinea un progetto ed una visione. Staremo a vedere e daremo il contributo di cittadini ed operatori interessati ed attenti, per integrare e migliorare.
Le posizioni manichee e di parte (verrebbe da dire ideologizzate, ma ahinoi l’ideologia non è più nel cassetto della politica) non servono a niente.

B) Le liste d’attesa e l’emigrazione sanitaria. Questo è un problema la cui origine è di immediata e diretta comprensione e di ancor più facile soluzione. Deriva da un principio ottusamente penalizzante solo per le Regioni del Sud ed in particolare per la Calabria: i tetti di spesa.

Si dice, con espressione disinformata e demagogica che gli ospedali pubblici sono messi in condizione di non poter rispondere alla domanda di cura e assistenza e che perciò i pazienti sono obbligati a rivolgersi alla struttura privata, che ingrassa sulla salute dei cittadini.

In realtà, cosa succede: come si è detto prima, presso la struttura privata non si paga ma quel che rileva per questa analisi, è che il paziente, non ricevendo assistenza dalla struttura pubblica, la chiede alla struttura privata ma ad un certo punto trova la porta chiusa perché oltre il tetto stabilito dall’ASP la struttura privata non può erogare prestazioni.

Il che sarebbe comprensibile se questo blocco fosse determinato dalla carenza o inesistenza di risorse e quindi dalla impossibilità di far fronte ai costi. Motivazione odiosa, contraria alla legge, ma comprensibile.
Tuttavia così non è.

Di fronte all’impossibilità di erogare la prestazione richiesta sia da parte dell’ospedale pubblico (per saturazione) che da parte dell’ospedale privato (per esaurimento del tetto di spesa) il cittadino non ha che tre strade: 1) mettersi in lista d’attesa; 2) chiedere assistenza in altra regione; 3) farsi curare a pagamento. Ognuna di queste opzioni è altamente penalizzante ed è indotta da una gestione stupida e dannosa.

Vediamo perché: l’incremento della lista d’attesa è il fenomeno che tutti dicono di voler impedire perché comporta disagio, insoddisfazione, ingravescenza della malattia e costo sociale.

L’assistenza e la cura a pagamento, che non tutti possono permettersi, creano il fenomeno contrario al principio informatore del nostro servizio sanitario, e cioè la salute per i ricchi e quella per i poveri.
Al cittadino bisognoso di assistenza non rimane che andare fuori regione. Il che vuol dire, per lui, sommare le criticità delle prime due opzioni e cioè il disagio per se e per la sua famiglia per viaggi e permanenze in un posto lontano da casa ed il relativo costo.

Questo dal punto di vista del paziente. Ma non finisce, qui perché la Regione Calabria, disinteressata alle sorti del proprio residente è poi costretta a pagare la prestazione alla Regione in cui viene resa a tariffa più che doppia. Con questo sistema noi calabresi spendiamo oltre 250 milioni all’anno. Circa due miliardi e mezzo in dieci anni.

Soldi letteralmente regalati alle Regioni del nord perché – al netto di prestazioni di altissima complessità possibili solo in centri iper specializzati – tutte o gran parte di queste prestazioni sono di natura ordinaria (cataratte, menischi, radioterapia, protesi, colecistesctomia, PET, RMN, ecc. ecc.) che potrebbero essere rese negli ospedali accreditati delle città calabresi a costo dimezzato.

Una semplicissima cosa che potrebbe cambiare la vita dei calabresi, ed invertire la tendenza, per di più applicando la legge, quella che dice (il d.lvo 502/92) che la Pubblica Amministrazione deve consentire le cure a tutti, anche oltre i tetti di spesa, e remunerare le prestazioni con tariffe ridotte proporzionalmente e progressivamente senza oneri per i cittadini. Dunque servizio per i pazienti e risparmio enorme per le casse regionali.

Eppure tutti invocano la riduzione della emigrazione sanitaria senza indicare come fare.
E perché non si fa? I motivi possono essere due. Nel migliore dei casi, la burocrazia dovrebbe impegnarsi nel lavoro di elaborazione dati programmazione e compensazione tra regioni (mentre è meglio dire una volta per tutte, questi sono i soldi e basta, e chi arriva quando i tetti sono esauriti aspetta, emigra o paga). Nel peggiore si vuole dolosamente arricchire regioni e strutture del Nord.

Bene. Chiarito il meccanismo, va però detto che anche su questo punto, sembra che la struttura commissariale abbia idee chiare ed intenda mettere in campo tutte le iniziative necessarie per invertire la tendenza. I primi dati ci sono e costituiscono un segnale confortante: riduzione dell’emigrazione senza spendere un solo centesimo in più anzi, recuperando risorse e conseguente riduzione delle liste d’attesa.

C) La questione generale, gli sprechi, gli imbrogli, le negligenze.
Qui è lo snodo nel quale il Paese, non solo la Calabria, deve interrogarsi. A che servono le denunce – soprattutto se provengono da chi ha avuto ruoli diretti ed in partiti di governo (quindi tutti i politici che parlano e sparlano) – se non sono accompagnate da esplicite richieste di interventi giudiziari o da indicazioni di rimedi? A niente, perché questi fenomeni – il malaffare, la negligenza, l’indifferenza verso i problemi della comunità e del prossimo – sono il frutto dell’inesistenza di un meccanismo di selezione della classe dirigente.

Chi oggi siede nelle istituzioni nazionali non rappresenta in alcun modo le popolazioni di provenienza. Per il semplicissimo ed evidente motivo che non è eletto, ma è nominato e non risponde del suo operato ai cittadini che vorrebbero una sanità migliore ma al capopartito che vuole, al suo comando, solo un’alzata di mano in Parlamento.
È tutto qui. Ed è semplice. Chi davvero vuole cambiare le cose, prima che tutto diventi regime, deve chiedere che si cambi la legge elettorale e si ristabilisca la connessione politica tra eletti ed elettori.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 aprile 2024
Foto di mspark0 da Pixabay

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Sono passati quasi 20 anni, 19 per l’esattezza. Il PD non c’era ancora, c’erano i DS, i Democratici di Sinistra: accadde tutto una mattina del luglio del 2005 al Parco dei Principi di Roma, hotel per attrici e indossatrici, dove quel venerdì si stava svolgendo il Consiglio nazionale dei Ds.

Inaspettatamente Fabio Mussi sfoderò un lessico crudissimo per denunciare «l’esistenza in Campania di veri e propri capibastone», avvertendo: «Su questi argomenti sono pronto a fare uno scandalo!». Cesare Salvi rincarò le dosi contro consulenze e commissioni speciali in terra di Campania («C’è una nuova questione morale!») e alfine il parlamentino della Quercia approvò un ordine del giorno Mussi-Salvi-Napolitano col quale si mettevano all’indice quelle regioni «governate dal centro-sinistra che moltiplicano gli incarichi amministrativi».

Quattro giorni dopo il «capobastone» Antonio Bassolino, dicendosi «rattristato dal calderone», produsse questo contro-argomento: «In Campania si vince sempre dal 1993, altrove a volte si vince e si perde…».
Dunque, guai ai capibastone.

Quell’invettiva deve essere rimasta nell’orecchio di Walter Veltroni che tre anni dopo, dicembre 2008, da leader del Pd la rilanciò con foga ed efficacia spettacolare davanti all’assemblea dei giovani democratici. Nell’ultimo congresso provinciale di Napoli Andrea Cozzolino, il candidato di Bassolino, era stato però battuto dal veltroniano Luigi Nicolais, docente universitario. Ironia della sorte!

Il termine capobastone istintivamente evocava comunque il Sud, dove alle Europee del 2004 Massimo D’Alema aveva conquistato nientedimeno che 832.000 preferenze, anche grazie ad una rete di accordi locali con una miriade di «capibastoncini».

E anche allora c’era il capopopolo Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd. Insomma una maledizione, che aveva poi portato sempre Veltroni in una famosa intemerata pronunciata a Reggio Calabria nel 2008, appena eletto segretario del Pd nella sua prima visita in Calabria, a usare l’espressione biblica (*) ‘’statue di sale’’ (in verità già usata un anno prima ma con altro significato, il 30 giugno 2007: “Questo paese ha la testa rivolta al passato e, se non cambia, rischia di trasformarsi in una statua di sale”). Ma in Calabria allora apriti cielo! Successe un mezzo finimondo, con vere e presunte statue di sale a polemizzare con Walter.

Ora tra una settimana torna in Calabria Schlein per concludere la Conferenza programmatica del PD regionale a Soveria Mannelli e si accettano scommesse se non si ritroverà, più o meno, con lo stesso problema!

La verità è che oggi la Puglia è come una metafora di un partito irrisolto e senza linea non perché ha troppe linee che confliggono tra loro, ma perché nato per essere un partito di governo ed è subito diventato un partito di potere. E di potentati: in Puglia ma anche in Campania, in Toscana, in Basilicata, in Piemonte, nel Lazio, in Calabria etc. etc.

Sono sempre lì i cacicchi e i capibastone che la segretaria diceva di non voler più vedere, i collettori di voti pronti a indirizzare i loro pacchetti in base alle convenienze, o a usarli come armi di deterrenza e il trasformismo cresce di pari passo con l’accresciuto potere dei moltiplicatori di pani e di pesci. Solo che i nuovi cacicchi a differenza dei vecchi, che i voti almeno l’avevano, spesso non hanno nemmeno i voti della loro famiglia e qualche volta solo la promessa dei voti!

La segretaria si è opposta con nettezza alla cancellazione del tetto dei due mandati e sta cercando di costruire – con fortissime resistenze – liste per le europee che con alcune candidature civiche e la sua stessa presenza dovrebbero rianimare lo spirito dei gazebi che la hanno portata alla guida del Pd. Ma il rinnovamento non si fa con una manciata di nomi, per quanto di prestigio. Si fa nei famosi territori, che vanno battuti e disossati palmo a palmo. E costruendo anche alleanze virtuose prima di tutto dentro al partito, aprendo porte e finestre. Con gli “inner circle” non si va lontano. E Schlein da questo punto di vista non pare proprio abbia iniziato a lavorare sul partito.

Quanto alla possibilità, passata la buriana e scavallate le europee, di costruire una alleanza con il movimento 5 Stelle, al momento sembra quasi lunare. Il leader dei 5S ha sferrato un colpo basso proprio alla segretaria del Pd, con l’azzeramento delle primarie come dato di fatto. Il tutto per capitalizzare i guai del Pd alle Europee, sognando il sorpasso. Comunque andrà quel voto, dopo sarà comunque più difficile ricucire lo strappo, ammesso che l’ex premier lo voglia.

*Immagine: La moglie di Lot è una figura menzionata per la prima volta nella Bibbia, in Genesi 19,26, che descrive come la donna divenne una statua di sale dopo aver guardato Sodoma.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 aprile 2024
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Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente legati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sui paesaggi dell’Italia. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli:

“L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità” (L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, 1974).

La potestà legislativa sul Patrimonio culturale e paesaggistico è stata, finora, prerogativa della Repubblica, della Nazione, del Ministero dei Beni Culturali e non delle Regioni che secondo il disegno di legge di Calderoli, invece, sarà trasferita alle Regioni.

Un trasferimento che comporterà la cessione alla Regioni delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze, organi periferici del Ministero della Cultura, violando l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

Funzioni e competenze delle Soprintendenze e dei Soprintendenti che Matteo Renzi definiva così: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario … Sovrintendente de che?”. Un milieu culturale che, negli ultimi due decenni, è stato assecondato e favorito dalle politiche del Pd come, sopra tutti, la riforma Franceschini del ‘Ministero dei beni culturali’ che non solo ha separato la tutela dalla valorizzazione e sminuzzato i territori e le competenze, ma che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero, addirittura, in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali.

A partire dalla sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, purtroppo, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni. Quella modifica aveva attribuito, fra le tante altre cose, potestà legislativa concorrente alle Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, promozione e organizzazione di attività culturali, ma non si era spinta, per fortuna, fino alla tutela dei Beni culturali.

Le prime richieste di “autonomia differenziata” sono state avanzate, già nel 2017, da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sulla scia della modifica della Carta tanto che stavano per essere approvate proprio da un altro governo di centrosinistra, quello Gentiloni, che, per fortuna, decadde prima della ratifica definitiva, nel giugno 2018.

Il disegno di legge 615 Calderoli, approvato il 23 gennaio 2024 in Senato, grazie all’ultraventennale connivenza dell’opposizione, può ora tranquillamente affermare che : “Le funzioni amministrative trasferite alla Regione in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione possono essere attribuite, nel rispetto del principio di leale collaborazione, a Comuni, Province e Città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie”.

Quel che ci interessa ai fini del presente scritto, oltre alla vituperabile autonomia regionale sanitaria, è il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione regola, dal 2001, il grado di autonomia delle Regioni, consentendo loro di “personalizzare” le deleghe anche in materia ambientale, con i disastrosi risultati -in Emilia Romagna, in Liguria ed in Veneto- che sono sotto gli occhi di tutti.

La modifica del Titolo V della Costituzione contiene l’articolo 116 che richiama l’elenco delle materie trasferibili alle Regioni riportato in quello successivo, il 117. Tra queste materie, alla lettera “s”, figurano: la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali che significa, se non verrà modificata alla Camera, che queste materie saranno governate da ogni Regione. Non finisce qui, purtroppo, perché queste ultime potranno trasferirle, a loro volta, a Comuni, Province e Città metropolitane.

Mi fa ‘tremar le vene ei polsi’ il solo pensiero di quel che potrà accadere, per esempio, in Calabria se il presidente della Regione, chiunque esso sia e sarà, dovesse scegliere i Soprintendenti e i direttori dei Musei statali, dare o negare autorizzazioni a costruire o ristrutturare, apporre e far rispettare vincoli archeologici, paesaggistici e via dicendo. Mi chiedo, soprattutto, come potrà svolgere la stessa persona e la stessa Istituzione il ruolo sia di controllore sia di controllato.

Già nel 1960 Bianchi Bandinelli, forse il più importante antichista italiano del ‘900, amaramente scriveva: “L’Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e tale distruzione […] è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana […] perché è l’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune”.

Se dovesse essere approvato, anche alla Camera, questo Disegno di Legge anticostituzionale ed antiunitario la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale, su cui si fonda il nostro comune sentirsi italiani, non sarebbero più prerogative della Repubblica e della Nazione, ma verrebbero spezzettate regione per regione e non rappresenterebbero più quegli argini, già fragili, che hanno impedito, finora, che dilagassero il cemento e l’oblio definitivo del passato, distruggendo, per sempre, quel tessuto connettivo che tiene insieme la Nazione, quell’ “essenza stessa della nostra personalità”, quel sentimento di orgoglio e di appartenenza all’Italia.

Un vero e proprio attentato all’Unità ed alla percezione collettiva della Nazione (come dice l’art. 9) con il complice avallo dei presunti nazionalisti.

da “il Quotidiano del Sud” del 10 aprile 2024

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

Nei giorni scorsi ci siamo soffermati a lungo sui guasti che provocherebbe nel sistema sanitario italiano, e calabrese in particolare, il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata: una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione. Il Ddl Calderoli, cioè, non farà altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Tutto giusto e corretto e moltissimi hanno, infatti, apprezzato. Ma moltissimi sono stati anche i lettori che sollecitano a fare nel contempo, se non prima, una critica tutta calabrese sui guasti del nostro sistema sanitario a prescindere cioè da quelli che provocherebbe il Ddl Calderoli. Moltissimi hanno scritto in privato per denunciare altri clamorosi casi di disastri e di ruberie varie, di un malaffare che ha fatto penetrare la ‘ndrangheta, della sanità usata come bancomat dalla classe politica calabrese per arricchimenti clamorosi e/o clientele a raffica financo nella scelta dei primari, che hanno alla fine solo impoverito lo stesso sistema della tutela della salute dei calabresi.

Come a dire: guardiamo prima in casa nostra e proviamo a vedere il disastro in salsa calabrese, che già esisteva prima di Calderoli. Del resto 14 anni di commissariamento della sanità hanno pure una ragione, o no? E lo Stato, mandando in tutti questi anni gente che con la sanità non aveva alcun rapporto ha peggiorato la situazione, con la domanda che resta sullo sfondo ma che diventa centrale ai fini del ragionamento: perché Roma ha inviato al capezzale del servizio sanitario regionale persone sicuramente rispettabili ma che con la sanità non c’entravano praticamente nulla (e spesso persino in pensione pure dai loro lavori)? Risposta: per tutelare i grandi interessi nazionali, politici e non, che stanno dietro, davanti, sopra e sotto il settore. Un magma di società, corporazioni, aziende, ditte, potentati di vario genere.

Di fatto l’emergenza della sanità in Calabria è diventata quindi endemica e dai buchi disastrosi dovuti alla clientela politica nel settore si è passati alle voragini. Il commissariamento doveva in teoria servire a rimettere ordine nel disordine gestionale e contabile, a migliorare la qualità delle prestazioni negli ospedali pubblici della Calabria, a porre un freno al pagamento delle doppie e delle triple fatture e all’insinuarsi della ‘ndrangheta e della corruzione ma nulla di tutto questo è avvenuto, nemmeno dopo la coraggiosa denuncia di Santo Gioffrè da responsabile dell’ ASP reggina, al momento unico episodio di una pubblica e forte denuncia sul malaffare che aveva portato al commissariamento.

Su quella poltrona di commissario si sono via via seduti carabinieri, prefetti, finanzieri, manager, generali, ingegneri etc. Gente che, però, arrivò addirittura ad ammettere dinanzi alle telecamere della TV di Stato che si era persino scordato di varare il piano anticovid chiesto dal Governo, tanto per capirci! La verità è, dunque, quella di un fallimento totale, dietro cui sono continuate quelle ruberie, quel malaffare e quella malagestione, che hanno avuto come effetto solo quello di moltiplicare diseguaglianze e privazioni, in una regione che già scontava condizioni di sanità diseguale.

Ora c’è Roberto Occhiuto alla guida del commissariamento ma di strada da fare ancora ce n’è tantissima, come del resto lo stesso presidente di Regione riconosce. In questo quadro già terremotato per i motivi suddetti interverrebbe il DDL Calderoli: un motivo in più per allontanarlo e respingerlo ma un motivo in più per aprire una vera operazione verità sul pozzo senza fondo in cui le classi dirigenti calabresi hanno trascinato in tutti questi decenni il settore primario per la vita di tutti noi.

Un pozzo senza fondo – ultima ma non ultima notazione su cui anche qui andrebbe fatto un serio ragionamento per capirne le ragioni – su cui troppo poco si è indagato anche da parte di chi ha e aveva il dovere di farlo. Anzi, si è fatto l’esatto contrario se solo ricordiamo (e sempre occorre farlo) l’incredibile vicenda proprio di Gioffrè: appena nominato Commissario, il 13 marzo 2015, si è imbattuto nel sistema di furti che per decenni hanno saccheggiato l’Asp di Reggio, denunciando transazioni false, il sistema di furti in vari modi delle risorse e cercato di ricostruire i bilanci dell’Asp che da anni non esistevano.

Scoprì per primo il termine “contabilità” orale, che, in sostanza, tutt’ora tiene dentro il Piano di Rientro la Calabria. Ostacolato, isolato e strenuamente lottato, fu sollevato dall’Anac per un cavillo in quanto, anni prima, era stato candidato a Sindaco, sconfitto, di Seminara. Assolto alla fine per non aver commesso il fatto: nelle motivazioni venne scritto che Santo Gioffrè ha difeso l’Asp di Reggio Calabria con “diligenza’’. Sul resto del malaffare vero invece tutto tace.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 aprile 2024

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Un vero e proprio giallo, un ‘cold case’ il libro che ha scritto Gino Famiglietti sull’ormai famosa ‘scure letterata’ del VI secolo a.C. di San Sosti (CS), per le edizioni Scienze e Lettere.
Un giallo che, come molti fra quelli contemporanei, alterna i capitoli delle vicende del ritrovamento e dello studio della scure bronzea nel XIX secolo ai capitoli con la storia dei tentativi di farsela restituire dal British Museum dove andò a finire, a partire dalla fine del XX secolo.

Un giallo costruito à la manière de Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto” e, più recentemente, di Camilleri ne “La concessione del telefono”, con tanto di documenti, carte bollate, decreti legislativi, ministri più o meno sempiterni e parlamentari, dirigenti e funzionari ministeriali prima borbonici, poi dell’Italia unita e, infine, della Repubblica, affascinanti mercanti d’arte, gentlemen inglesi e del Grand Tour e Musei d’oltremanica, archeologi non troppo fedeli alla tutela del Patrimonio e altri inflessibili difensori. E non mancano sindaci, dotti aristocratici, canonici, studiosi locali o ricchi possidenti che collezionano monete e oggetti antichi pur non sapendone un “frullo” a partire dalla metà dell’800 fino aujourd’hui.

Il caso si apre, come spesso accade nei gialli ben costruiti, con il ritrovamento fortuito, nel 1846, in una località piuttosto impervia e di considerevole altitudine, Casalini della Porta della Serra di San Sosti di una scure-martello in bronzo che reca incisa su una delle facce un’epigrafe redatta in dialetto dorico ed in alfabeto acheo, databile al VI secolo a.C. più esattamente fra la metà e la fine del VI a.C. Il sito del rinvenimento, secondo il canonico Leopoldo Pagano che nel 1857 ne scrive in un opuscoletto, è un’area disabitata e piena di ruderi, forse destinata ad usi civici, a 3 miglia dalla località S. Agata, nei Casalini della Porta della montagna della Serra di fronte al santuario del Pettoruto.

L’iscrizione dedicatoria viene tradotta, nel 1969, dalla grande epigrafista Margherita Guarducci in questo modo: “Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kyniskòs mi dedicò, lo àrtamos (secondo Giovanni Pugliese Carratelli il vittimario), come decima (tributo) dei (suoi) lavori”. Un’iscrizione interessante sia per la forma letteraria dell’iscrizione che fa propendere per una provenienza sibarita dell’oggetto sia per quel che dice, perché indica chiaramente la presenza di un tempio dedicato ad Hera in una pianura, probabilmente un luogo pianeggiante, finora non individuato precisamente neanche dalle ricerche archeologiche più recenti, della Valle del Crati.

Le ultime ricerche archeologiche pubblicate da Domenico Marino e Carmelo Colelli indicano come tutta l’area fosse profondamente antropizzata a partire da epoca protostorica e lo è stata fino alla fine dell’antichità come dimostrano gli scavi stratigrafici condotti nel Centro storico di San Sosti (chiesa del Carmine e Castello della Rocca) e ai Casalini dai quali proviene l’ascia. La presenza di edifici databili fra l’VIII ed il V secolo a.C. e, soprattutto l’ascia, provano la grande espansione e la forte influenza di Sibari su questo territorio che è, in sostanza, il corridoio naturale verso il Tirreno, vitale per la colonia greca. Riguardo all’ubicazione del tempio di Hera in pianura citato nell’iscrizione si ipotizza un’ubicazione sulla riva sinistra del torrente Rosa lungo la quale si trovano tracce consistenti di piccoli luoghi di culto databili fra il VI, appunto, ed il III secolo a.C.

Il certosino lavoro d’archivio di Famiglietti ricostruisce -grazie alla esemplare contestualizzazione storica, politica, culturale e sociale dei documenti- la vicenda del ritrovamento, dello studio preliminare dell’ascia e del suo arrivo a Napoli e a Roma, prima, e della sua esportazione all’estero, poi.

S’inizia con una lettera, finora inedita, del 1852 che l’aristocratico studioso vibonese – anzi monteleonese- Vito Capialbi invia al suo amico Giulio Minervini, eminente antichista, soprattutto epigrafista, napoletano informandolo del ritrovamento dell’ascia. È il primo documento, forse con un disegno del reperto, in cui si nomina e si descrive minutamente la scure che pesa un rotolo (890 gr. ca.) così come viene riferito a Capialbi da un corrispondente del luogo che lui stesso dice non essere molto esperto.

Capialbi e Minervini sono legati da una serie di conoscenze comuni e dall’essere entrambi soci della ‘Reale Accademia Ercolanense’, una Istituzione fondata da Carlo di Borbone che avrà un ruolo decisivo nell’applicazione dei successivi reali decreti borbonici di Ferdinando che il 14 maggio del 1822 -subito dopo la Restaurazione imposta con il Congresso di Vienna- dotò il regno di un strumento giuridico per la tutela del Patrimonio artistico e archeologico, ispirato e migliorativo dell’editto Pacca emesso nel 1820 dal Vaticano.

Nella fitta corrispondenza fra i due, Capialbi sollecita l’amico e collega Minervini a pubblicare la scure perché ritiene che sia il più qualificato a farlo a causa delle sue riconosciute doti di epigrafista. Si deve ricordare che -a cavallo fra l’Italia preunitaria e quella della prima era postunitaria- c’era una serie di figure di importanti archeologi che si erano formati in Germania dove la disciplina era più avanzata, soprattutto la storia dell’arte antica, l’”altertumswissenschaft”, che era stata fondata da Johan Joachim Winckelmann nella seconda metà del XVIII secolo. Fra queste figure di rilievo – insieme a Fiorelli, Conestabile della Staffa, Salinas e Fabretti – c’era proprio Giulio Minervini.

Nel febbraio 1853 Capialbi riceve, finalmente, la risposta tanto attesa da Minervini che lo informa di aver pubblicato l’articolo “La scure di bronzo, con greca iscrizione” che sarebbe uscito sul ‘Bullettino archeologico neapolitano’ nel marzo del 1853 corredato da uno straordinario disegno, quello della copertina del libro, di Giuseppe Abbate, ‘Primo disegnatore dei Reali Scavi di Pompei’.

Bisogna sottolineare che la pubblicazione delle notizie sulla scure, oltre a favorire la circolazione presso la comunità scientifica, si poteva considerare la catalogazione scientifica ufficiale del reperto che in tal modo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto reale del 14.05.1822, la rendeva inesportabile perché era “rilevante per l’istruzione e il decoro della nazione”.

Il problema vero di questo straordinario oggetto era, ed è, che Capialbi non sapeva chi lo possedesse e, nonostante i suoi numerosi tentativi, non riuscì mai a venirne a conoscenza e, neanche, ad acquistarlo per “salvarlo”. Secondo alcune fonti il prezioso reperto era nelle mani di uno dei maggiorenti di San Sosti che esercitavano un potere assoluto e sopraffattorio sull’intera comunità del comprensorio. In ogni caso, secondo il suddetto Decreto reale, il rinvenimento fortuito, pur rimanendo di proprietà dello scopritore, avrebbe comunque dovuto essere oggetto di segnalazione da parte del Sindaco all’intendente della Provincia che avrebbe dovuto, a sua volta, segnalarlo al direttore del Reale Museo borbonico.

Giulio Minervini lo pubblica, ma non fa, neanche lui, una formale segnalazione al direttore del Reale Museo con la conseguenza che del prezioso reperto non si saprà più nulla per quasi 3 decenni, fino a quando riappare nell’asta, a Parigi, della vendita della collezione appartenuta al famoso antiquario romano Alessandro Castellani. In questo trentennio cambiano radicalmente, è vero, gli assetti politici, economici, culturali e sociali con l’Unità, ma, nel territorio di ogni Stato preunitario, rimangono in vigore, fra le altre, le leggi riguardanti la tutela e la salvaguardia del Patrimonio culturale compreso il divieto di esportazione di oggetti ritenuti “rilevanti per l’istruzione e il decoro della nazione”.

L’antiquario Castellani, che dal 1862 si era stabilito a Napoli, intesse rapporti con il bel mondo aristocratico, alto borghese e intellettuale partenopeo allo scopo di procacciarsi venditori, compratori e anche validi ‘expertiseur’ d’arte e antichità. Felice Barnabei, importante archeologo e dirigente statale della fine dell’800, lo descrive in un suo libro (“Le memorie di un archeologo”) come il più grande mercante di antichità e compratore di anticaglie che lui avesse conosciuto, ma anche come un personaggio affascinante, un liberale che aveva partecipato, a Roma, ai moti del 1848 ed era stato arrestato. Un uomo di mondo, insomma, che si teneva buoni e acquiescenti, e forse conniventi, le autorità preposte alla tutela e i controllori del suo commercio illegale di beni archeologici.

L’affascinante antiquario stringe amicizia con Minervini che, dopo l’Unità, è nella fase declinante della sua carriera passata al servizio dei Borbone. Non accetta di andare ad insegnare all’Università perché è convinto che verrà nominato Direttore di quello che ora si chiama Museo Nazionale di antichità e belle arti, ma alla morte del vecchio direttore, il principe Spinelli, il ministro Amari, nomina, invece, Giuseppe Fiorelli, di provata fede liberale tanto da essere arrestato durante i moti del ’48. Minervini viene a trovarsi, dunque, in difficoltà economiche e deve guadagnarsi da vivere sfruttando le sue conoscenze scientifiche e le sue relazioni sociali come quella con il mercante Castellani. Sulla base di alcune lettere che invia al mercante, si può inferire che si fosse stabilita una sorta di ‘entente cordiale’ fra i due a proposito della compravendita di oggetti antichi fra i quali avrebbe potuto esserci, forse, anche la nostra ascia.

Si può ipotizzare che Castellani, venuto a conoscenza dell’esistenza della preziosa scure bronzea pubblicata sul “Bullettino” da Minervini, abbia voluto comprarla a causa non solo della ricchezza delle decorazioni e dell’antichità dell’iscrizione, ma soprattutto a causa del colore del materiale con il quale era realizzata: l’oricalco, ovvero bronzo sottoposto a doratura con una particolare tecnica che gliene ricordava una elaborata proprio nella sua famiglia. Famiglietti ci mette, acutamente, a conoscenza che il padre, Fortunato Pio Castellani, aveva messo a punto, negli anni ’20 dell’800, un processo chimico per ottenere una patinatura dell’oro e del bronzo che dava ai metalli un inalterabile colore giallo chiaro come quello dell’ascia di S. Sosti.

Nel 1870 Castellani torna a Roma, passando il 20 settembre da Porta Pia al seguito del generale Cadorna e, subito, ottiene un posto nella Commissione per la conservazione degli istituti culturali della città, mentre il fratello Augusto entra nella Giunta per la città di Roma.

Nel 1883 Castellani muore e il figlio Torquato si dà da fare per vendere le raccolte di oggetti d’arte antichi nelle case di Roma e Parigi. L’asta, con 4.000 oggetti, di Roma è programmata per il 17 marzo 1884, ma quella che più interessa a noi è quella di Parigi che si svolge dal 12 al 14 maggio 1884 con ben 682 oggetti che erano stati portati, come dice il catalogo parigino, da ‘longtemps’ nella capitale francese a dispetto delle leggi borboniche e vaticane che ne impedivano l’espatrio. Nel catalogo, con il numero 311, compare la nostra ‘hache grecque votive’.

Essendo che l’ascia è citata, in uno studio epigrafico, come presente a Roma nel 1882, mentre già nel 1884 è a Parigi, dobbiamo desumere che in questo breve lasso di tempo, Castellani o suo figlio Torquato, l’avessero portata nella capitale francese e siccome presso l’Archivio Centrale dello Stato non c’è traccia di autorizzazione all’espatrio della scure bronzea ne discende che quest’ultima sia stata esportata illegalmente.

Ad acquistarla nell’asta parigina del 1884, per conto del British Museum, è sir Charles Thomas Newton, già direttore delle antichità del museo e professore di archeologia alla London University, per 5.000 franchi. Dobbiamo aggiungere che sir Charles era intimo amico di Castellani anche perché aveva comprato, per rifornire il British, molte ‘anticaglie’ da lui.

La storia, impeccabilmente ricostruita dall’autore, dei tentativi di riprendersi la preziosa ascia votiva inizia nel 1996 quando il sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, si accorge che l’ascia è nel catalogo della grande mostra “I Greci e l’Occidente’, tenutasi a Palazzo Grassi a Venezia, proveniente dal British Museum e scrive al Ministro Antonio Paolucci chiedendogli di intervenire in un qualche modo, ma a giugno 1996 cade il governo e la XII legislatura. Nel settembre 1996 l’on. Romano Carratelli interroga il nuovo ministro Veltroni, stigmatizzando la colpevole inerzia dello Stato italiano, a proposito della scure-martello in bronzo proveniente da San Sosti, ma questa interrogazione rimane senza risposta. Seguiranno ben altre tre interrogazioni: nel 2016 di Franco Bruno al ministro Franceschini; nell’ottobre 2019 interrogazione di nuovo a Franceschini di Wanda Ferro e altri; nel dicembre del 2019 nuova interrogazione a Franceschini da parte di Margherita Corrado e altri.

Solo nel 24 luglio 2020, Franceschini, per la prima volta, risponde per iscritto all’interrogazione della Ferro dicendo che la risonanza e il buon esito dell’asta parigina del 1884 significava che era tutto regolare e quindi “non esistono presupposti giuridici che possano sostanziare una rivendicazione del bene da parte dell’Italia”. Il ministro, insomma, non voleva saperne di avventurarsi in una lunga e defatigante trattativa con il British Museum.

Famiglietti riassume, per concludere, la situazione per i capi principali: il rinvenimento fortuito in una località della Calabria viene, anche se in maniera contorta, catalogato e reso di pubblico dominio da Capialbi e da Minervini come “bene che riguarda il decoro ed il prestigio della nazione”, e dunque non esportabile secondo il reale decreto del 14 maggio 1822. La proprietà del bene rimane dello scopritore, ma la proprietà privata non interferisce con il divieto di esportazione. Lo status giuridico della scure, acquisito secondo la normativa borbonica, rimane tale dopo la sua migrazione a Roma, avvenuta nel 1870, perché nell’ex stato della Chiesa perduravano le disposizioni dettate dall’editto Pacca del 1820 che vietavano, anch’esse, l’esportazione.

L’autore -da raffinato giurista e, soprattutto, da strenuo difensore del Patrimonio culturale nazionale- indica a noi cittadini italiani e, in particolare, a noi calabresi un’ipotetica, ma praticabile, via legale da percorrere: l’adozione, da parte della competente autorità giudiziaria (a mio giudizio la Procura della Repubblica presso il competente, per territorio, Tribunale di Cosenza), di un decreto che disponga la confisca della scure e la sua restituzione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 aprile 2024

Autonomia differenzata e sanità. Allarmi inascoltati-di Filippo Veltri

Autonomia differenzata e sanità. Allarmi inascoltati-di Filippo Veltri

L’allarme era, è, di quelli che non lasciano dubbi: l’autonomia differenziata “non solo porterà al collasso la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti”. Parola di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, per illustrare i risultati del report ‘L’autonomia differenziata in sanità‘ che esamina le criticità del Disegno di legge Calderoli approvato al Senato e ora in discussione alla Camera.

Non sembra che l’allarme abbia suscitato particolari scossoni nel mondo politico e istituzionale, tranne Rubens Curia con la sua Comunità Competente ed i Vescovi calabresi riuniti in conclave. In Consiglio Regionale un centrosinistra titubante dà invece ancora spazio ad un centrodestra diviso e lacerato, senza affondare i colpi.

Il report analizza il potenziale impatto sul Ssn delle maggiori autonomie richieste dalle regioni in materia di “tutela della salute”. Un de profundis largamente annunciato, che documenta dal 2010 enormi divari in ambito sanitario tra il Nord e il Sud del Paese e solleva preoccupazioni riguardo l’equità di accesso alle cure.

Se per le Regioni del Sud, già in fondo alle classifiche per cure essenziali e aspettativa di vita, si profila infatti il pericolo di collasso del reparto sanitario, al Nord si rischia il sovraccarico da mobilità sanitaria. Numerosi gli esempi che possono portarsi al riguardo: nessuna regione del Sud nella top 10 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel decennio 2010-2019; una mobilità sanitaria dal Centrosud al Nord, con tutte le regioni del Sud ad eccezione del Molise, che hanno accumulato complessivamente un saldo negativo pari a 13,2 miliardi di euro nel periodo 2010-2021, mentre sul podio si trovano proprio le tre regioni che hanno già richiesto le maggiori autonomie; scarse performance delle regioni del Centro-Sud per il raggiungimento degli obiettivi della Missione Salute del Pnrr.

“Complessivamente questi dati – spiega Cartabellotta – confermano che in sanità, nonostante la definizione dei Lea nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali”.

Siamo perciò oggi davanti ad una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione.

I dati Gimbe dovrebbero essere, in una nazione normale, la pietra tombale sul progetto della Lega ed un Governo responsabile metterebbe da parte subito questo progetto perché il Ddl Calderoli non fa altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Se un istituto terzo come Gimbe (e non un fiero oppositore della Meloni o i pericolosi estremisti (sigh!) Schlein, Conte, Fratoianni o Santoro) certifica che l’autonomia differenziata di Calderoli spacca l’Italia e uccide la sanità pubblica del nostro Paese, di fatto regalando il servizio sanitario nazionale ai privati e a chi si potrà permettere di pagare, qualcosa dovrebbe pure succedere. E invece niente!

Il Sud si vedrà privato delle risorse necessarie per garantire qualità nei servizi, equità di accesso vedendo rinnegato il diritto stesso alla salute in favore di interessi particolari che avranno come effetto paradossale quello di accentuare il pendolarismo sanitario dal Sud al Nord. La disuguaglianza è sempre negativa, ma se c’è un campo in cui è nefasta e vergognosa è proprio quello della salute: se sei in una condizione di povertà sei discriminato, se ti viene tolto o ridotto l’accesso al servizio sanitario sei messo in pericolo di vita.

In Calabria tutto questo ragionamento deve essere moltiplicato per 2,3,4…Per mille, fate voi. La voce piu’ forte appare però ancora quella dei Vescovi.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 marzo 2024

Se il presente aiuta a capire il passato.-di Battista Sangineto

Se il presente aiuta a capire il passato.-di Battista Sangineto

A seguito di un Convegno svoltosi a San Giovanni in Fiore nel gennaio del 2023 sono stati appena pubblicati gli Atti del simposio, a cura di Pia Tucci con un’introduzione di Vittorio Cappelli, dedicato alla figura di don Luigi Nicoletti, nato nel centro silano. Il Convegno, organizzato dalla Fondazione Heritage Calabria presieduta da Salvatore Belcastro, ha ospitato alcuni oratori che hanno analizzato da diverse prospettive la vita e l’opera di questo religioso che fu anche un giornalista acuto e agguerrito e un politico battagliero.

Luigi Nicoletti nasce in una famiglia borghese di S. Giovanni in Fiore nel 1883 e la sua vita, come ben scrive Lorenzo Coscarella nel saggio iniziale, attraversa tre fasi fondamentali. Una prima fase che va dalla formazione e ordinazione, avvenuta nel 1906, fino alla nascita del Partito Popolare; una seconda che è quella degli anni del contrasto con il fascismo e la direzione del periodico diocesano “Parole di Vita” e del suo allontanamento dalla Calabria; una terza ed ultima fase che parte dalla fondazione della Dc, nel 1943, fino alla sua morte avvenuta nel 1958.

Nel corso della sua formazione è di particolare importanza, sia per il sacerdozio sia per la politica, l’incontro, nel 1902, con don Carlo De Cardona che lo mise in contatto con i cattolici impegnati in politica vicini a Romolo Murri, un sacerdote formatosi culturalmente alla Sapienza anche con Antonio Labriola.

L’impegno dei cattolici nel sociale, come ricorda nel suo lucido e interessantissimo contributo Paolo Palma, origina da papa Leone XIII che nel 1891 pubblica l’enciclica “Rerum novarum. Sulla Questione Operaia”. Papa Pecci intuisce che la Chiesa deve stare con le masse dei lavoratori, con gli operai anche perché il socialismo, ateo, avanzava e la Chiesa non si occupava dei più poveri come avrebbe dovuto e, per questi motivi, scrive l’enciclica che fonda la dottrina sociale della chiesa.

L’interprete più appassionato della dottrina sociale della Chiesa è don Murri che fonda una prima Democrazia cristiana che però viene fermata prima da Pio IX, e poi dallo stesso papa Leone XIII per rispettare il “non expedit”, la disposizione della Santa Sede del 1868 con la quale si dichiarava inaccettabile che i cattolici partecipassero alle elezioni e alla vita politica del Regno.

Nicoletti si allontana abbastanza presto da questa visione sociale e di classe di Murri e di De Cardona maturando, invece, una sua propria impostazione socio-politica interclassista e liberal-democratica e, come don Sturzo, sostiene che le Leghe del lavoro cattoliche debbano aprirsi alla borghesia.

In quegli anni avvia la sua attività di pubblicista nei giornali cattolici locali che, come ricorda Saverio Basile, lo appassiona molto e viene chiamato ad insegnare materie letterarie nel Liceo Classico Telesio e, nello stesso periodo, intraprende la sua attività politica fondando, a S. Giovanni in Fiore, la Cassa Rurale, la Lega del lavoro e un ricreatorio per i ragazzi. Nel 1910 si candida e viene eletto nel Consiglio provinciale di Cosenza.

A Roma, intanto, nel 1919 don Sturzo fonda il Partito popolare che a Cosenza trova molte adesioni, soprattutto per merito di De Cardona, e già nel febbraio dello stesso anno viene fondata in città una sezione del Partito della quale Nicoletti diviene segretario.

L’energico sacerdote scrive sui giornali facendo polemiche politiche con i socialisti arrivando a scrivere su “L’Unione” che “la lotta finale sarà tra noi e il socialismo o l’anarchia”, anche se dopo l’assassinio di Matteotti si dichiara un irriducibile oppositore del regime fascista. Dal 1925 scrive sul periodico diocesano “Parole di Vita” e, dal 1936, ne diventa direttore facendolo diventare una voce relativamente libera nell’ambito locale.

Nel 1938, a seguito di suoi ripetuti attacchi contro le leggi razziali fasciste, Nicoletti è costretto a lasciare la direzione del periodico e anche l’insegnamento al Telesio per andare ad insegnare in un liceo pugliese, a Galatina, per un anno.

Già nell’ottobre del 1942 partecipa alle prime riunioni clandestine del CLN cosentino e nel 1943 torna a far politica alla luce del sole. Nicoletti, con il suo allievo Gennaro Cassiani, è il principale artefice della nascita della Democrazia cristiana a Cosenza, una delle prime sezioni in Italia a costituirsi formalmente. Don Luigi Nicoletti è stato il capo indiscusso della Dc dal 1943 fino al 1953, nonostante i contrasti interni che spesso risolveva dimettendosi e ritirando le dimissioni.

Dirige la Dc cosentina assumendo posizioni pubbliche molto battagliere e polemiche con gli avversari politici sin dal 1945 quando, per esempio, si vanta di esser riuscito “…a liberare la Prefettura dalla dittatura manciniana” e ottenere un sottosegretario, Cassiani, che “neutralizza in qualche modo lo strapotere dei socialcomunisti”.

Nel 1953 viene sconfitto in Congresso a causa dei dissapori nella Dc nella quale ha attecchito secondo le sue parole “la mala pianta che aduggia la vita del partito”. L’instancabile sacerdote, però, non si ferma tanto che nel 1954 viene eletto Consigliere provinciale e Assessore all’assistenza sociale e nel 1956 in un discorso all’Assemblea provinciale dice: “ho combattuto tutta la vita -pagando di persona- la dittatura fascista e quella comunista (sic!). È chiaro che non potrei a lungo sottostare a una dittatura casalinga!”.

Nicoletti muore nel 1958 nell’Ospedale civile di Cosenza.
Questo intenso e vivido racconto della storia umana, politica e culturale di don Luigi Nicoletti ci aiuta a comprendere meglio la complessità e la diversità delle anime di quel gran partito che fu la Dc e le sue successive trasformazioni nella cosiddetta Seconda Repubblica, a Roma e a Cosenza. Da una parte i cattolici liberaldemocratici e conservatori come Nicoletti e dall’altra i cattolici sociali e progressisti come De Cardona.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 marzo 2024

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Anche in Calabria è nata La Via Maestra, un comitato regionale composto da Cgil Calabria, Arci, Acli, Anpi, Collettivo Valarioti, Cdc, Associazione Controcorrente, Emergency, Legambiente, Libera, Associazione Giuseppe Dossetti.

È un fatto molto importante perché il Comitato sta pensando a concrete iniziative sui temi del lavoro, dell’ambiente e della giusta transizione, con una particolare attenzione alla vera e propria torsione democratica del Paese, in particolare all’Autonomia Differenziata che tra poco andrà in discussione alla Camera dopo l’approvazione in Senato.

Queste associazioni, in linea con quanto sta avvenendo a livello nazionale, saranno le protagoniste di un percorso che porterà al coinvolgimento e alla mobilitazione in difesa della Costituzione, contro l’autonomia differenziata, la precarietà e lo stravolgimento della Repubblica parlamentare. Una strada nuova, dunque, che dal basso punta alla partecipazione e alla mobilitazione reale. E dio solo sa quanto ce n’è bisogno in tempi in cui così scarsa è la mobilitazione financo alle competizioni elettorali (ultimo test le regionali in Abruzzo non hanno bisogno di ulteriori commenti).

In Calabria ovviamente tutto questo si colora di molti altri significati, legati alla accoglienza e all’uguaglianza, alle lotte sociali e a quelle civili (si pensi solo alla sanità e alla tutela della salute), tant’è che dopo la nascita del comitato regionale sono sorti provincia per provincia i comitati territoriali de La Via Maestra, che stanno già lavorando alla riappropriazione dei famigerati Livelli Essenziali di Prestazione (Lep), garantendo a tutti i cittadini italiani gli stessi diritti e le stesse opportunità nei settori cruciali come sanità, istruzione, trasporti, ambiente e servizi amministrativi.

«La Calabria non ha bisogno di differenziarsi – spiega Angelo Sposato, segretario regionale della Cgil – ma di armonizzarsi con le altre regioni per garantire servizi primari adeguati. La proposta di autonomia differenziata mina l’unità nazionale e rischia di accentuare ulteriormente gli squilibri tra Nord e Sud, abbandonando le regioni meridionali ai propri problemi’’.

Il Coordinamento Nazionale per la Democrazia Costituzionale aveva già proposto, insieme ad altri, di dare vita ad una discussione a tutto campo ne La Via Maestra per mettere al centro la Costituzione, il contrasto agli attacchi che le vengono portati a partire dal premierato, e il contrasto all’autonomia differenziata nella versione Calderoli.

Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale insiste da tempo sull’esigenza di dare vita ad iniziative larghe e unitarie e La Via Maestra è certamente la prima naturale sede di convergenza di una parte importante della società e della cultura. La strada che indica è chiara: quella dei referendum.

I referendum sono in questo momento l’unica possibilità per fermare le scelte su autonomia a premierato. Spiegano ancora quelli de La Via Maestra: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio porterebbe ad uno sconvolgimento della Costituzione e del suo assetto istituzionale perché cambierebbe la sostanza democratica e antifascista della nostra Repubblica, riducendo nettamente i poteri del Quirinale e ridimensionando drasticamente il ruolo del Parlamento che, da architrave delle istituzioni diventerebbe definitivamente subalterno al capo del governo, complice il ricatto della fine della legislatura, trasformando così la nostra Repubblica in una sorta di “capocrazia”.

L’autonomia differenziata targata Calderoli, su cui tante perplessità sono nate recentemente anche in Calabria in settori non marginali del centrodestra, la si può bloccare eventualmente solo così. Con partecipazione e strumenti concreti a partire dai referendum.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 marzo 2024.

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.

In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.

Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.

Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?

Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?

E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?

Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.

La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.

Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?

La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.

Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.

dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il Pnrr comporta importanti scelte politiche: nel suo disegno e nella sua realizzazione. E il governo Meloni ne ha compiute alcune molto nette, di cui è utile avere coscienza.

Il Pnrr è tutt’altro che un documento tecnico che contiene un’ovvia lista di riforme e investimenti. Il governo Draghi ha compiuto molte importanti scelte, senza che il Parlamento e la stessa opinione pubblica potessero dare il loro contributo in una grande, aperta, discussione; senza che ne fossero persino pienamente informati.

Ne è scaturito un Piano con luci e ombre. Fra le più positive l’enorme investimento sui nuovi nidi: in pochi anni tanti posti quanti negli ultimi 50 anni; fra le più negative, la misura sui “borghi”, con una visione da cartolina della complessa realtà delle aree interne.

Licenziato il Piano da un Parlamento plaudente, si è passati all’allocazione delle risorse ai singoli progetti, fino al settembre 2022. Un periodo molto interessante e poco conosciuto, nel quale ministri prevalentemente tecnici hanno compiuto importantissime scelte politiche; un periodo nel quale è davvero esistita la mitica “stanza dei bottoni” di nenniana memoria: tante risorse da allocare, con criteri e destinazioni scelti discrezionalmente.

Quando è entrato in carica il governo Meloni, i bottoni erano stati quasi tutti premuti; e all’esecutivo toccava un compito istituzionale: curare la tempestiva realizzazione di quanto programmato da altri. Una beffa per un governo guidato dall’unico partito che era prima all’opposizione. Ma questo ruolo male si addiceva alla scalpitante nuova maggioranza, che voleva lasciare il suo segno.

Così il ministro Fitto, nelle cui mani erano stati concentrati tutti i poteri e che subito ha fatto piazza pulita delle vecchie strutture tecniche, ha cominciato a preparare il terreno: giudizi sempre più critici sul Piano che doveva realizzare e opinioni sempre più pessimiste sulla sua realizzazione. Si è preso il suo tempo. Tanto tempo.

A maggio 2023 ha infine prodotto un documento sul Pnrr che ne elencava tutte le supposte criticità. Poi a luglio ha colpito. Ha presentato una ipotesi di complessiva, rilevante riformulazione, profittando della necessità di aggiungere un capitolo legato alla nuova iniziativa europea RePower EU, conseguenza della crisi ucraina.

Nel dibattito pubblico, occupato da mille comunicazioni su “target” e “milestone”, su rate da richiedere e da incassare, è sfuggito il senso politico dell’operazione. Intendiamoci: occuparsi delle scadenze per ottenere le risorse è fondamentale; ma è ancora più importante capire che ne facciamo. E il governo Meloni ha scelto: ha spostato circa 15 miliardi dagli investimenti pubblici ai sussidi alle imprese.

Dare incentivi alle imprese non è in sé un male: ma, viste le straordinarie dimensioni di queste misure (fra vecchio Piano e aggiunte siamo a 50 miliardi) e le loro caratteristiche prevalentemente a pioggia, molti dubbi sono leciti. Ma le forze di opposizione sembrano timorose nel criticare qualsiasi misura per le imprese; e la maggioranza è decisa a rafforzare la sua alleanza con le associazioni imprenditoriali, nell’industria, nei servizi, nell’agricoltura.

Sono invece usciti dal Piano importantissimi interventi: nella sanità, nelle aree interne, a Taranto e soprattutto nelle città, a vantaggio dei cittadini. Le motivazioni tecniche per il taglio proprio di questi interventi sono apparse subito molto deboli. È stato un atto politico d’imperio: più alle imprese, meno agli investimenti pubblici.
Nell’estate, di fronte alla protesta dei sindaci il governo ha garantito che gli interventi urbani sarebbero stati rifinanziati. Poi a novembre la Commissione (che lascia le scelte di merito agli Stati membri) ha approvato la proposta italiana, con diverse modifiche.

E siamo all’oggi. Come è fatto il nuovo Piano? Sembra incredibile, ma è impossibile saperlo perché non esiste ancora un testo ufficiale. Che effetti territoriali avranno queste modifiche?

Ci sono seri motivi per pensare che i tagli colpiranno più il Mezzogiorno, ma il governo, semplicemente, non pubblica più l’apposita relazione semestrale. Da dove verranno le risorse per rifinanziare i progetti esclusi? Un decreto promesso da novembre dovrebbe stabilirlo, ma ancora non si è visto. Si naviga nell’oscurità e nell’improvvisazione. E tutto questo ha pesantissime implicazioni: massima incertezza per i “vecchi” progetti, con i nuovi che non possono ancora partire.

Insomma, il Pnrr è assai più interessante di quanto sembri. Perché è anche una cartina al tornasole che fa vedere più aspetti del governo: determinatissimo nell’usare le risorse pubbliche per i propri fini; arrogante e opaco nei modi e nella comunicazione; azzardato e poco capace sui complessi nodi tecnici.

da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2024

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

Tre inganni si nascondono dietro la promessa che i Lep controbilanceranno il regionalismo differenziato: uno formale, uno sostanziale, uno finanziario. La sigla Lep sta per «livelli essenziali delle prestazioni». L’espressione indica quell’insieme di attività e servizi che, pur nell’ambito di un Paese regionalizzato, dovrebbe essere ovunque erogato uniformemente.

Lo schema retrostante è semplice – forse semplicistico – ma chiaro: una volta fornite a tutti i cittadini le medesime prestazioni di base, secondo quanto stabilito nel dettaglio dalla legge del Parlamento (articolo 117 della Costituzione), spetterà poi a ciascuna regione decidere se fornirne ai propri cittadini di ulteriori e quali.

Quanto alle risorse necessarie a sostenerne i costi, la legislazione sul federalismo fiscale prevede che per ciascun Lep sia definito il «costo standard», in modo che dalla loro somma si possa poi ricavare l’ammontare della somma da assegnare a ciascuna regione: il cosiddetto «fabbisogno standard». Spetterà quindi alle regioni che vorranno erogare prestazioni ulteriori procurarsi autonomamente le risorse necessarie, grazie ai risparmi generati dall’efficienza amministrativa o all’introduzione di imposte aggiuntive.

Un quadro, insomma volto a differenziare, ma a partire da un nucleo di uguaglianza: per questo – affermano i paladini delle regioni – nessun pericolo potrà venire dal regionalismo differenziato. Peccato che il disegno di legge Calderoli smentisca sotto tutti i punti di vista tale rassicurante visione.

Anzitutto, il parlamento – vale a dire, l’organo che rappresenta tutti – è escluso dalla definizione dei Lep. E ciò non tanto perché il progetto Calderoli affida tale compito al governo tramite decreti legislativi. Quanto, piuttosto, perché i Lep saranno successivamente soggetti ad aggiornamenti periodici tramite decreti del presidente del Consiglio dei ministri (gli ormai famosi Dpcm) e, soprattutto, perché nell’attesa dei decreti legislativi è previsto che i Lep siano anticipati tramite Dpcm – o, se il premier dovesse ritardare, tramite intervento di un Commissario: come se definire il contenuto di un diritto equivalesse a realizzare un’infrastruttura! – la cui normativa «è fatta salva… alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi».

In sintesi, i Lep saranno definiti con Dpcm, i decreti legislativi li recepiranno pro forma e potranno poi essere modificati con Dpcm: tutto nelle mani del governo.

Di seguito, il lavoro preparatorio compiuto dalla commissione Cassese incaricata di una prima ricognizione dei Lep risulta nel merito del tutto insoddisfacente. Come messo per iscritto dall’ex governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (lettera alla commissione del 10 ottobre scorso), «le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Non diversa la valutazione fornita a inizio mese dall’Ufficio parlamentare di bilancio, per il quale ai Lep sono stati ricondotti, oltre alle prestazioni, procedure di selezione dei beneficiari, modalità di accesso e presa in carico, profili organizzativi e programmatori e numerosi altri elementi eterogenei. Nessuna definizione sostanziale del nucleo di uguaglianza a partire dal quale differenziarsi, dunque: con il risultato che la differenziazione non potrà che tradursi in (ulteriore) disuguaglianza. Più in radice, la verità è che ridurre i diritti ai Lep è – oltre che in molti casi impossibile – profondamente sbagliato, perché l’obiettivo dovrebbe essere la piena, e non l’essenziale, tutela dei diritti.

Infine, il meccanismo di finanziamento delle regioni che si differenzieranno previsto dal disegno di legge Calderoli è definito in modo tale da svincolare i Lep dai costi standard e affidare la determinazione delle risorse a un’apposita commissione paritetica tra lo Stato e la regione interessata. Dunque, in concreto: una commissione nominata per metà da Calderoli e per metà da Zaia, nel caso del Veneto; per metà da Calderoli e per metà da Bonaccini nel caso dell’Emilia Romagna; e via dicendo. Malizioso immaginare che a muovere gli orientamenti di tali organi sarà un’attitudine più attenta all’egoistica rivendicazione del residuo fiscale che alla solidaristica perequazione inter-regionale?

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Oggi dunque nelle piazze e davanti le Prefetture scenderanno in strada sindaci e cittadini per una protesta si spera corale contro il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata.

Un DDL già approvato al Senato e prossimo alla Camera, che una vulgata non si capisce bene da chi orchestrata dipinge come un provvedimento che tanto non entrerà mai in attuazione, che non si farà mai, statevi tranquilli voi meridionali, i LEP (acronimo divenuto leggendario che pero’ in pochi sanno davvero cosa sia) non ci sono i soldi, è tutta una manovra politica, etc. etc. Insomma tranquillanti soporiferi diffusi a volontà per acquietare gli animi (peraltro nemmeno tanto bellicosi).

Nulla però di più falso e ingannevole.

Il problema non è l’autonomia in sé e la gente sarebbe bene che iniziasse a ragionarci sopra. C’è l’autonomia e va benissimo, c’è una legge di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione, rispettiamola e andiamo avanti. La legge – infatti – prevede i famosi livelli essenziali delle prestazioni, quei LEP di cui sopra, ma questa autonomia prevista dal disegno di legge Calderoli è un trucco, di questo dobbiamo essere consapevoli.

Perché non è l’autonomia secondo Costituzione: è piuttosto la costituzionalizzazione della spesa storica, esattamente quello che la legge Calderoli del 2009, la 42, diceva di voler eliminare». «Ed è un trucco – spiega bene Adriano Giannola, presidente SVIMEZ – perché si dice che tutto quello che è legato ai Lep almeno per due anni non si tocca, perché non ci sono i soldi e non sono definiti’’.

Ma tutto il resto – questo il richiamo allarmatissimo del presidente Svimez – si tocca subito e questo poca gente lo ha capito. Non è la sanità, non è la scuola che il Nord ha già. Il resto sono le strade, le autostrade, gli aeroporti, la protezione civile, tutto ciò per cui non è specificata la necessità di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni è infatti trasferibile oggi.

Per Giannola la conclusione è presto detta «quando passa alla Camera questo disegno di legge, si attivano subito le intese per tutta una serie di materie di cui oggi non si discute. E quando l’intesa va in Parlamento non potrà essere emendata, è una legge rafforzata che può essere accolta o bocciata e non c’è la possibilità di referendum.

Sono veramente preoccupato perché nessuno parla di ciò che c’è veramente dietro, si mette il carro davanti ai buoi perché i Lep non bloccano ma ritardano un pezzo che solo apparentemente è tutto. Invece il tutto viene subito messo in contrattazione e una volta raggiunta l’intesa se rispettiamo la categoria di legge rafforzata la situazione è inemendabile e irreversibile’’.

Fatta questa doverosa chiarezza sarebbe perciò giunta l’ora che si sveglino i cittadini, appresso ai sindaci che – seppure in ritardo, in grave ritardo – hanno capito l’antifona. Le manifestazioni di oggi a Catanzaro, Cosenza, Reggio, Vibo e Crotone hanno infatti un senso se accompagnate da una diffusa presa di coscienza che sin qui è mancata per colpa di partiti, sindacati e associazioni varie, tutti intenti a macinare grandi discussioni ma non a far capire nel concreto cosa si nascondeva dietro il disegno leghista.

O, peggio, a tracciare linee di distinzione tra opposizioni e maggioranze, destra o sinistra, aprendo la classica autostrada a quattro corsie a chi vuole invece distruggere il Paese. Speriamo che non sia troppo tardi.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 febbraio 2024.
foto da “il Quotidiano del Sud”.

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Autonomia come autogoverno e autodeterminazione delle persone, della classe, dei popoli. Autonomia operaia e dei consigli di fabbrica. Autonomia come democrazia diretta, sociale e politica. Queste, e altre declinazioni, del concetto – quello di «autonomia», appunto – sono state fatte nella lunga e travagliata storia della sinistra sindacale, comunista, socialista e liberale.

QUESTA STORIA si è sviluppata sempre nel fuoco delle lotte in Italia. Ha dato esiti stupefacenti molti fallimenti, riprese insperate. Fu rielaborata dall’Ordine Nuovo con Antonio Gramsci nel primo «biennio rosso» (1919-1920). Il grande politico e filosofo, fondatore del Pci, allora parlava di una delle istituzioni dell’autonomia: i «consigli operai». Erano «cellule prime» della democrazia rivoluzionaria. L’idea dell’«autonomia» tornò trasformata nel secondo «biennio rosso»: tra il 1968 e l’«autunno caldo» del 1969. Nacquero le organizzazioni autonome: il Consiglio Unitario di base (Cub) alla Pirelli di Milano. Altri consigli di fabbrica si erano strutturati prima.

UNA STORIA POTENTE. Ha attraversato prospettive leniniste, luxemburghiane, proudhoniane, gramsciane, socialiste e comuniste, liberalismi originali opposti a quelli classisti ed economicisti. C’è stata l’epica, la tragedia e il martirio. Quello di Piero Gobetti ucciso dai fascisti. Ci sono le traiettorie di socialisti come Vittorio Foa, oppure quelle di fondatori dell’operaismo: un gigante come Raniero Panzieri, per esempio. La riflessione sull’autonomia si ritrova, in altre posizioni, quelle di un segretario della Fiom e della Cgil, oltre che pensatore di prim’ordine: Bruno Trentin.

CI SONO STORIE di formidabili dibattiti pratici e teorici che hanno coinvolto le riviste più belle, i convegni più combattuti, gli intellettuali, gli operai, i militanti culturali e di base. Ci fu il dibattito sulle «sette tesi sul controllo operaio» del 1958 di Raniero Panzieri e Lucio Libertini sulla rivista del Psi «Mondo operaio». Molti ricordano e praticano l’operaismo dei «Quaderni Rossi». Su un altro versante possiamo trovare, per esempio, la storia della «nuova sinistra», quella de Il Manifesto. E ancora i movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. In tutta evidenza, non stiamo parlando di una prospettiva unica, ma irriducibilmente plurale, spesso conflittuale, comunque problematica. Com’è la storia delle sinistre. Mille fili che però oggi potrebbero essere intrecciati in una genealogia eretica. Per creare nuove idee e cortocircuiti nel presente.

QUESTA È STATA l’intuizione che ha ispirato un bel convegno organizzato ieri all’università Roma Tre dalla Fondazione Di Vittorio (Cgil). I densissimi interventi, senza una pausa, possono essere ora rivisti sul sito Collettiva.it. In tale contesto è stata avanzata un’ipotesi di lotta culturale, dunque politica.

OGGI, È STATO DETTO, il concetto di «autonomia» è stato sequestrato dalle destre leghiste e postfasciste che compongono il governo Meloni. Quest’ultimo si regge su uno scambio osceno che rompe l’unità nazionale e rafforza l’autoritarismo dilagante. I leghisti Salvini e Calderoli vogliono imporre l’«autonomia differenziata», una «secessione» delle regioni «ricche» (Veneto e Lombardia, per cominciare) che aspirano a costituirsi in micro-staterelli. Meloni e i suoi «Fratelli d’Italia» vogliono il «premierato» che metterà in discussione sia il parlamento che le funzioni dello stesso presidente della Repubblica.

«LA STORIA DELL’AUTONOMIA come autogoverno e come pratica democratica non ha nulla a che vedere con l’autonomia differenziata di Calderoli ed è l’antidoto allo scambio osceno con il presidenzialismo di Meloni -ha detto Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio – Si tratta di un doppio autoritarismo. Per contrastare questa deriva possiamo ispirarci a queste tradizioni. Bisogna tornare a lavorare dal basso, cambiare profondamente il sistema sociale. La sinistra di governo ha gravissime responsabilità. Senza la riattivazione della partecipazione democratica nella società e nel lavoro non sarà possibile rispondere alla crisi della partecipazione sulla quale cresce anche la regressione in atto».

«IL DIBATTITO SUI CONSIGLI di fabbrica oggi è prezioso – ha detto Luciana Castellina, co-fondatrice de Il Manifesto – Anche oggi è possibile immaginare forme di democrazie diretta non solo nei luoghi di lavoro ma nella società. Da qui possiamo ripartire nel momento in cui prevale la frammentazione e l’astensionismo. Possiamo reimpadronirci della gestione di pezzi della società costruendo poteri sul territorio. la gestione diretta dei beni comuni serve anche a cambiare la cultura diffusa attraverso le pratiche della democrazia diretta. Oggi non c’è solo la fabbrica, che è decentrata al suo interno da appalti e subappalti. Il nostro problema è creare poteri collettivi, decentrati e diffusi, anche fuori da essa, cioè nuove istituzioni nella società».

«CON LA PROPOSTA del “sindacato dei diritti” Bruno Trentin ha indicato come il sindacato deve aprirsi alla partecipazione dei cittadini e unirla a quella sui luoghi di lavoro. Questa idea pone la necessità di una maggiore radicalità della nostra azione – ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini – Il governo ha un progetto organico, corporativo, autoritario. Meloni ha chiesto il referendum sulla riforma costituzionale per affermare la propria leadership. Noi dobbiamo usare il referendum per obiettivi opposti e affermare la democrazia in nome della Costituzione. Dobbiamo portarci all’altezza dello scontro o rischiamo che il conflitto prenda un’altra strada».

da “il Manifesto” del 30 gennaio 2024