Categoria: Dalla Stampa

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sulla sanità in Calabria si potrebbero scrivere enciclopedie, Treccani intere; fare dibattiti 2 o 3 volte al giorno; discutere e litigare per anni interi. E si è fatto e si fa anche tutto questo. Da quando? Non ne ho memoria, ve lo confesso. Ho perso il conto.

Grandi esperti, competenti emeriti, studiosi di diritto sanitario, di diritto pubblico, di sociologia, giuristi, docenti, medici e non, si dannano l’anima per cercare di spiegare alla fine una cosa che è talmente semplice da sembrare banale ma che è all’origine dell’incredibile successo che sta riscuotendo l’iniziativa che si terrà domani pomeriggio in piazza a Catanzaro.

E’ nata dalla testa del direttore di questo giornale, Massimo Razzi, che calabrese non è (e si vede dalla semplicità con cui l’ha pensata e messa in campo), il quale mesi fa dinanzi al diluvio di proteste, accuse, reclami etc., ha pensato alla cosa più semplice del mondo: organizzatevi, organizziamoci, prendiamo la parola, prendete la parola e scendiamo in piazza per il diritto alla salute.

DIRITTO ALLA SALUTE, lo scriviamo in grande così si capisce meglio di che parliamo. Finiamola, cioè, con le ardite e dotte discussioni sui piani di rientro che ci sono e forse vanno via come i commissariamenti (chissà chi lo sa), con i bilanci delle Asp che non tornano, con i fondi e le parcelle pagate 2, 3 e 10 volte, con i buchi neri amministrativi e contabili, etc etc. Cose – dio me ne guardi dal sottovalutarle – molto importanti ma alla fine della fiera il cittadino vorrebbe sapere altro.

Vorrebbe, cioè, sapere perché si può morire in ambulanze senza medici, o in ospedale a nemmeno 40 anni incinta alla prima gravidanza. O perché bisogna andarsene lontani da casa per farsi curare. O perché non si trova più un medico di famiglia. E altre amenità del genere, che pullulano sulle pagine ogni giorno dei quotidiani, dei social, dei siti e rendono tutta la vita dei calabresi più pericolosa di quanto non lo sia già. Perché il punto di fondo è centrato, infatti, sul diritto alla salute negato nonostante l’impegno, l’abnegazione, il sacrificio di medici, infermieri, paramedici che si dannano l’anima per tamponare situazioni difficilissime, a volte al limite dell’impossibile, in reparti affollati, emergenze intasate fino al collasso, tempi biblici nelle prenotazioni (quando funzionano), liste d’attesa di cui è meglio non parlare.

Tutte situazioni che si trascinano da tempo e che hanno incancrenito il settore, dove pure esistono eccellenze sparse qua e là nel territorio, stelle in un infinito mare di nebulose dove il povero calabrese paziente (sostantivo e aggettivo, in tutti i sensi) fatica a raccapezzarsi e a trovare risposte all’unica domanda che agita: il diritto appunto alla salute.

Molto si è discusso e si discute anche sull’utilizzo dei medici venuti da Cuba nelle corsie degli ospedali calabresi. I soliti leoni da tastiera non hanno perso tempo fin dall’inizio a gridare allo scandalo, a chiedere che vengano utilizzati medici italiani (domanda: chissà come e dove prenderli), a sollevare questioni di lana caprina sulla provenienza, la lingua, le metodologie utilizzate. Se c’è invece qualcosa da salvare nei tempi agri che viviamo è proprio l’aiuto fornito e che stanno fornendo questi bravi medici venuti da un altro mondo. Senza di loro sarebbe già forse definitivamente collassato il sistema.

Ecco: servono risposte immediate a quelle domande che ogni giorno, ogni ora del giorno, si manifestano dentro e fuori gli ospedali. Organizzarsi e manifestare è un segno che la coscienza civile non è morta e chiede risposte serie e concrete. A chi? Alla politica e alle istituzioni. È la regola base della democrazia. A ciascuno il suo. Domani pomeriggio questo molto semplicemente si fa.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 maggio 2025

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

La piaga dell’emigrazione giovanile che colpisce pesantemente tutte le regioni meridionali, e non solo, è stata più volte posta al centro del dibattito politico senza che finora si sia trovata una efficace politica per contrastare questo fenomeno.

La SVIMEZ ha più volte lanciato l’allarme sulla fuga dei giovani dal Mezzogiorno: dal 2010 ad oggi oltre 200mila laureati e altrettanti diplomati, si sono trasferiti dal Sud nel Centro-Nord d’Italia. Questi sono i dati ufficiali: ovvero vengono censiti solo quelli che cambiano residenza e, come sappiamo, molti per diverso tempo non lo fanno.

Il rovescio della medaglia è che rimangono sempre più nel Mezzogiorno genitori anziani soli. Le fasce di anziani a reddito medio spesso mantengono i giovani che studiano nelle Università del Centro-Nord e, successivamente, sostengono economicamente i figli durante la prima fase di inserimento lavorativo, soprattutto per gli alti costi degli affitti.

Le fasce a reddito medio-alto tendono ad acquistare un monolocale per i figli emigrati anche quando hanno trovato un lavoro stabile. Complessivamente tutti gli over 60, che possono permetterselo, spendono una parte significativa del proprio reddito per sostenere economicamente i figli emigrati, andarli a trovare, e, soprattutto i nipoti, chi ha la fortuna di averli. Ormai da anni assistiamo ad un “turismo genitoriale” Sud-Nord che va a sommarsi al cosiddetto “turismo sanitario”.

In soldoni, stiamo assistendo, almeno dagli inizi del nuovo secolo, ad un rilevante flusso di denaro dal Mezzogiorno al resto d’Italia e all’estero che impoverisce questi territori creando un circolo vizioso, una perversa sinergia, con il fenomeno emigratorio.

Ben più triste è la condizione di che gode di pensioni minime o ha un reddito basso che non gli permette queste spese. Aspettano che i figli vengano a trovarli a Natale e durante le vacanze estive, che attendono con ansia per riscattare il grigiore di giornate vissute nell’ombra. Ben più grave è la condizione di vedove/i che vivono drammaticamente questo abbandono e tremano al pensiero di diventare disabili o essere colpiti da gravi malattie.

Si può obiettare che questa condizione esisteva anche durante la prima grande ondata migratoria, 1951/’71, ma sbagliamo a paragonare questa realtà ai primi decenni del dopoguerra. Innanzitutto, per il gran numero di laureati che vanno via e impoveriscono questi territori, ma soprattutto perché oggi è venuto meno il senso della comunità, la solidarietà di vicinato, le relazioni affettive che esistevano ancora in quel tempo, e supplivano alla mancanza di servizi sociali.

Particolarmente grave è la condizione degli anziani in Calabria. La percentuale di over 65 è del 24per cento, che rientra nella media nazionale, solo che viene calcolato sempre sui residenti che non corrispondono al dato reale. Pertanto, è molto più alta e si può stimare intorno al 30 per cento.

In particolare, nei Comuni con meno di 1000 abitanti, ben 78, i residenti “reali” sono spesso molto meno di quello che ci dicono i dati ufficiali, e rimangono a vivere solo quegli anziani poveri o malati che non possono spostarsi. Privi di servizi sanitari e sociali, di efficienti trasporti pubblici, l’emarginazione di questi anziani è totalmente ignorata perché non protestano e non sono visibili ai mass media.

Data la condizione finanziaria degli enti comunali che a mala pena pagano gli stipendi ai dipendenti, bisognerebbe avere un intervento regionale, un piano socio-sanitario per tutti questi piccoli paesi collocati nelle aree interne.

Senza sottovalutare la condizione di solitudine degli anziani poveri, malati, disabili che vivono nelle nostre città. Interi condomini abitati da over 70 che si ignorano, che vivono un doppio disagio: vivere in una regione con scarse risorse e politiche socio-sanitarie inadeguate e, allo stesso tempo, vivere in una modernità che ha accentuato l’individualismo “sfrenato” dei calabresi di cui già parlava Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” di settanta anni fa.

In questo inverno demografico che, purtroppo, durerà ancora a lungo dobbiamo seriamente pensare ai servizi socio-sanitari come ad una priorità di questa regione. Magari organizzando i bisogni inevasi, come fa l’associazione “Comunità competente” da diversi anni, e trovando le risorse economiche che esistono ma vengono sprecate in interventi inutili e dannosi. A partire dai 16 miliardi per il fantomatico Ponte sullo Stretto.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2025
Foto di Mircea Iancu da Pixabay

Ambiente e sviluppo, da uno storico un progetto di futuro per Catanzaro.-di Filippo Veltri

Ambiente e sviluppo, da uno storico un progetto di futuro per Catanzaro.-di Filippo Veltri

Piero Bevilacqua fa lo storico di professione, ordinario alla Sapienza di Roma, impegnatissimo in questi mesi nella presentazione del suo ultimo libro sui temi delle guerre e del mondo in fiamme, ma torna spesso nella sua città, Catanzaro, ed ha rivolto una bellissima lettera ai suoi concittadini, su un problema di grande valenza legato al territorio sul mare del capoluogo regionale ma che va ben oltre i confini di quella città per il valore della proposta.

‘’Cari amici di Catanzaro – scrive il prof. Bevilacqua – poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, per non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione’’.

Il progetto è assai lungo e articolato, con una premessa ed un dettagliatissimo proponimento che si spera possa essere ripreso ed attuato dagli amministratori di oggi. Riguarda specificatamente l’area di Giovino, un polmone verde affacciato sullo Jonio, nei pressi di Catanzaro Lido verso Crotone, caratterizzato dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici ‘’e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio’’.

Cioè finalmente porre un alt al cemento selvaggio che drena risorse e distrugge l’ambiente.

A Giovino potrebbe nascere un Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi.

‘’Non si creda – scrive Bevilacqua – che sia un’operazione del tutto nuova. Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud’’.

Occorre dunque uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. ‘’Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un “Istituto per lo studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea’’.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie.

La lettera, nel finale, è un auspicio: ‘’Cari catanzaresi, come sapete, nel territorio di Giovino la precedente amministrazione comunale di Catanzaro intendeva avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali.
Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma. La nuova giunta, composta anche da tanti giovani, ha davanti a sé una grande possibilità e una ancor più grande responsabilità’’.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 maggio 2025.

Il lascito di Quirino Ledda.-di Mario Vallone e Filippo Veltri

Il lascito di Quirino Ledda.-di Mario Vallone e Filippo Veltri

Eravamo in tanti ai suoi funerali dieci anni fa, increduli e tristi per la scomparsa di un grande amico, un caro compagno nostro e di altre centinaia di persone che lo hanno conosciuto direttamente e di migliaia che sapevano, in Calabria come altrove, della presenza nella vita politica cittadina e regionale di Quirino Ledda.

Chi è stato Ledda negli anni della sua vita politica e sindacale non è facile riassumere in poche righe ma basta solo il suo impegno e la sua dedizione alla Federbraccianti Cgil prima e poi nel Partito e nelle Istituzioni per dire di una vita spesa per gli altri. Tutta una vita. Col sorriso sulle labbra e il suo marcato accento sardo che non aveva mai perso e di cui anzi andava fiero.

In quella giornata di 10 anni fa, piena di dolore, prendemmo l’impegno pubblicamente di non dimenticarlo; lo abbiamo fatto in varie occasioni con modalità diverse, dagli incontri pubblici alle testimonianze scritte di chi lo aveva conosciuto, dirigenti politici e sindacali, di tante persone semplici, operai e contadini e tanti giovani. Lo facciamo ora.

In prima fila sempre i suoi adorati figli Giuseppe e Luigi (che ahime’ oggi non c’è più). Furono molti i riconoscimenti nei suoi confronti di una vita spesa nella sinistra, nel sindacato, nelle istituzioni, sempre da una sola parte senza esitazioni e infingimenti: quella delle lavoratrici e dei lavoratori, dei meno abbienti, dei più fragili e indifesi. Una vita per la dignità e i diritti, contro i soprusi e le mafie, una lotta che gli costò tanto anche in termini personali ma che non lo fece mai arretrare.

Si disse allora che la Calabria, quella onesta e seria, perdeva un uomo competente, schierato certamente ma con una apertura mentale ammirevole e basta ricordare i suoi molteplici interessi da quelli propriamente politici ai beni culturali (per tutti la Roccelletta è un segno del suo impegno), dalla storia alla Memoria della Resistenza. La sua morte avvenne poco dopo il 25 Aprile e il 1° Maggio, due date a cui era legatissimo.

Oggi siamo nel decennale della sua scomparsa, quest’anno lo ricorderemo come sempre, l’ANPI insieme a Cgil e Libera, pubblicamente in un incontro programmato per il 6 maggio alle 17.30 nella sala concerti del Comune di Catanzaro. Caro Quirino se la memoria ha un senso, se i ricordi hanno un senso, se la storia stessa ha un significato che è quello di tramandare uomini, fatti e avvenimenti allora la tua storia davvero non può mai essere messa in soffitta.

da “il Quotidiano del Sud” del 1° maggio 2025

Crisi dei dazi, la risposta giusta è la domanda interna.-di Tonino Perna

Crisi dei dazi, la risposta giusta è la domanda interna.-di Tonino Perna

Nessuno sa come andrà a finire la questione dei dazi, ma le mosse di Trump hanno rappresentato un campanello di allarme per il modello di sviluppo che ha guidato l’Italia dagli anni Cinquanta.

Insistere in questa direzione anche quando geopolitica ed economia stanno cambiando vuoldire sbattere la testa al muro.

Augusto Graziani, uno dei più prestigiosi economisti italiani del secolo scorso, nel suo saggio L’economia italiana: 1950-70 metteva in luce la debolezza del nostro modello di sviluppo export oriented, fondato su svalutazione della lira e bassi salari. Nulla è cambiato
dal dopoguerra ad oggi: continuiamo ad essere fortemente dipendenti dalle esportazioni con un rapporto sul Pil tra i più alti della Ue: nel 2024 abbiamo registrato 623 miliardi di export a fronte di un Pil di 2.192 miliardi di euro, generando complessivamente un surplus
di 55 miliardi di euro.

Dato che con l’entrata nell’euro abbiamo finito di usare la svalutazione della moneta per rendere competitive le nostre merci, è grazie al basso costo del lavoro, oltre a capacità innovative e creative, che abbiamo potuto mantenere un livello alto delle nostre esportazioni.

Adesso però, con la recessione alle porte di casa, bisognerebbe ripensare al nostro modello economico. Oltre alla ricerca di altri mercati, che richiede tempo e non è scontata, bisognerebbe puntare a un rilancio della domanda interna sia con un aumento di stipendi e salari, sia con investimenti pubblici a partire dalla cura del territorio, mitigazione degli eventi climatici estremi, sviluppo delle energie rinnovabili e risparmio energetico.

Diversamente la pensa Emanuele Orsini, il presidente di Confindustria, che presenta una proposta al governo in cui richiede «incentivi per aumentare ulteriormente l’export di 80 miliardi nel breve termine e di oltre 400 nel lungo termine». Errare humanum est, perseverare autem…

Crediamo che per i settori dell’industria più esposti alla concorrenza internazionale il governo potrebbe intervenire con sgravi sugli oneri sociali evitando di dare incentivi generici che finiscono solo per far quadrare i bilanci in rosso.

In ogni caso è prioritario aumentare la domanda interna attraverso un aumento del monte salari, ormai una necessità per vivere dignitosamente per una maggioranza di lavoratori, nonché per migliorare i servizi pubblici (sanità, scuola, servizi sociali) dove le magre retribuzioni sono una delle cause del degrado.

Non è un sentiero facile, la Cina ci sta provando da almeno un decennio, ma è una strada obbligata. Per i sindacati dei lavoratori il momento è propizio per richiedere con forza e convinzione un aumento di stipendi e salari, dato che solo la crescita della domanda interna
può farci superare la stagflazione che si sta avvicinando inesorabilmente. L’ideale sarebbe orientare questa domanda aggregata, investimenti e consumi, verso un altro modello di società e qualità della vita. Per adesso è solo un sogno in un tempo di fantasmi e mostri

da “il Manifesto” del 15 aprile 2025

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

Dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna ai giorni nostri free trade e protezionismo si sono alternati. Iniziò sua Maestà britannica a predicare il libero mercato dopo aver imposto per secoli alle sue colonie il più rigido protezionismo.

Sul piano della teoria economica fu David Ricardo a battersi, con successo, per eliminare i dazi all’import di grano in UK, sostenendo che ci sia un vantaggio reciproco a scambiare beni in cui ciascun paese si è specializzato, con il famoso esempio del vino portoghese che viene scambiato con le lane inglesi. Ma, il resto dei Paesi europei quando decise di industrializzarsi ricorse a drastiche misure di protezione della propria industria nascente.

Lo fece la Francia colbertiana, la Germania di Bismark , persino l’Italia con Crispi che alla fine del XIX secolo protesse la nascente industria tessile dell’Italia del Nord ovest, con gravi ricadute per il Mezzogiorno che dovette subire la risposta della Francia, che colpiva soprattutto i prodotti dell’agricoltura meridionale.

Dalla seconda metà del Novecento, con una serie di stop and go si sono moltiplicati gli scambi internazionali, sono cadute o ridotte le barriere doganali, sia come limiti quantitativi all’importazione che come dazi. Per molti Paesi del Sud del mondo questa non è stata una scelta, ma una imposizione del FMI e della Banca Mondiale, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.

Queste due istituzioni internazionali hanno imposto ai cosiddetti PVS, oltre al taglio delle spese sociali e dei sussidi ai produttori agroalimentari, l’abbattimento dei dazi alle importazioni e l’apertura totale dei loro mercati ai prodotti dei paesi industrializzati, utilizzando come arma di ricatto il credito. Il risultato è stato lo smantellamento di industria leggera e artigianato tradizionale, e un pesante impoverimento dei Paesi del Sud del mondo.

Così è stato creato in pochi decenni quello che viene definito Mercato Mondiale, grazie ad un incremento vertiginoso degli scambi a livello internazionale. Per averne un’idea il commercio mondiale è cresciuto dal 1950 ad oggi di quasi 38 volte (sic!), circa quattro volte il Pil mondiale. Come è noto il WTO (World Trade Organization) è l’istituzione internazionale che è stata creata per agevolare questi scambi, regolamentarli e contrastare forme più o meno ufficiali di protezionismo. E’ una delle tante istituzioni internazionali che Trump tenterà di fare saltare.

Malgrado tutti questi sforzi il “free trade” non è stato mai raggiunto, ed è più una costruzione ideologica che realtà. Basti solo pensare ai sussidi dello Stato alle imprese. Quello che Trump non dice, e non può dire, riguarda la massa di sussidi che ha ricevuto negli Usa la produzione di cotone (16 miliardi l’anno secondo gli ultimi dati disponibili), la produzione di carne (900 euro a vacca), di latte, ecc.

Grandi e piccoli paesi africani sono stati affamati da una concorrenza sleale su molti prodotti (cotone, arachidi, mais, ecc.), proprio grazie a questi pesanti interventi pubblici che hanno alterato il cosiddetto libero mercato. E lo stesso si può dire per l’agro-alimentare europeo. Per non parlare dei contributi a fondo perduto per la R&D, ricerca e sviluppo, che i Paesi del Sud del mondo non si possono permettere.

In breve il protezionismo dei paesi più ricchi c’è stato da sempre e ora assume con Trump una dimensione spettacolare, ma non per questo più efficace. Se storicamente le barriere doganali sono state usate per permettere all’industria nascente di germogliare, non si è finora mai visto un paese a capitalismo avanzato che pensi di reindustrializzarsi, senza tener conto del relativo alto costo del lavoro, della concorrenza dei paesi emergenti nel settore dell’industria tradizionale (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, arredi, ecc.) dove i margini di profitto sono molto limitati, eccetto che nel settore del lusso, che è per altro appannaggio di altri Paesi, a partire dall’Italia, e dove l’incremento dei prezzi dovuto ai dazi non scoraggia una clientela a reddito medio-alto.

Infine, Trump dovrebbe preoccuparsi seriamente dei Brics che hanno già deciso di non utilizzare più il dollaro per l’interscambio e che ora diventano una sponda interessante per i Paesi più colpiti dai dazi, a cominciare da alcuni Paesi della Ue. Un nuovo scenario geopolitico si sta configurando e chi tra i governanti rimane legato, o legata nel nostro caso, ad un vecchio carro, ne subirà le conseguenze.

L’impatto sull’Italia e sulla Calabria

Come ormai è chiaro l’Italia insieme alla Germania sono i paesi europei più colpiti dai dazi Usa. In particolare, il settore più penalizzato sarà quello della filiera dell’Automotive e, molto probabilmente, il governo italiano sarà costretto a seguire, in ritardo, quello spagnolo il cui leader ha già disposto 16 miliardi di contributi al settore.

Allo stesso tempo, saranno cercati altri mercati di sbocco per i prodotti più colpiti da questo incremento dei dazi decisi da Trump. Si salveranno, come è sempre avvenuto, i prodotti della fascia alta, del lusso, che più sono cari più sono ricercati dalle élite.

La Calabria, come giustamente ha sostenuto il collega e amico Prof. Cersosimo, ha un export così esiguo, circa 500 milioni su oltre 600 miliardi di export nazionale nel 2024, che non ne risentirà. Ma, allo stesso tempo, ha ragione anche l’imprenditore Fortunato Amarelli, presidente della prestigiosa Associazione Imprese Centenarie Italiane, che mette in guardia dagli effetti indiretti di questo neo-protezionismo fuori stagione.

In sostanza, il ragionamento è questo: se il nostro governo dovrà sostenere le imprese più colpite da questi dazi allora ci saranno meno risorse finanziarie e, come al solito, dai tagli della spesa pubblica e del welfare saranno più colpite le regioni più deboli dove il rapporto “spesa pubblica/Pil regionale”, è più alto. E in Calabria è più del doppio della media nazionale, il che si traduce nella storica dipendenza della nostra economia dai flussi di denaro pubblico.

Che fare, allora? Data questa situazione molti Paesi penseranno di incrementare la Domanda interna per compensare la caduta dell’export. Per questo sarebbe importante, anzi necessario, un incremento dei salari (i più bassi d’Europa).

Si potrebbero incrementare salari e stipendi nei settori protetti dalla concorrenza internazionale come la sanità, l’istruzione, ma anche l’edilizia e il commercio, ecc. dando una migliore retribuzione a medici, infermieri, insegnanti, operai, commessi, ecc. Oltre a un problema di giustizia redistributiva si darebbe una mano importante all’economia del nostro Paese.

Certo, c’è il vincolo di bilancio che pesa nel Paese più indebitato d’Europa, ma si potrebbe semplicemente aumentare la pressione fiscale per i ceti medio-alti, magari introducendo la famosa patrimoniale a partire da oltre cinque milioni di asset.

E’ solo un esempio, ma la strada non può che essere questa: solo una maggiore giustizia sociale, un ruolo redistributivo dello Stato, può salvarci da una pesante recessione che si combinerà, purtroppo, anche con un incremento dell’inflazione, generando una drammatica condizione per i ceti più deboli.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 aprile 2025
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Libri e film dei grandi americani del sudovest lo avevano da tempo certificato a suon di fotogrammi e frasi epiche. Ma all’incontrario! Non è un paese per vecchi dicevano, infatti, i terribili fratelli Coen e prima di loro Cormac McCarthy nello scenario apocalittico del New Mexico. L’Italia affronta invece, nel suo piccolo, una crisi demografica profonda, tra l’altro con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra infatti una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, Open Calabria conferma – in un recente e pregevole studio su dati ISTAT – tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Per arrivare alla conclusione che il Sud è un paese per vecchi.

Che cosa ritroviamo nello studio di Open Calabria? Dal 2019 al 2024 la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a poco più di 58 milioni di abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale. Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia.

Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e nella nostra amata Calabria (-3,8%).

La riduzione della popolazione, dice Open, non sarebbe necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età. Emerge che il calo demografico in Italia non è infatti uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre.

In particolare si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%.

Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Insomma il quadro è quello di un paese per vecchi.

Lo spopolamento del Sud risulta poi strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro.

La frattura demografica tra Nord e Sud è, dunque, conclude lo studio Open causa ed effetto di una questione strutturale che inciderà profondamente sulla sostenibilità di tutta l’Italia ma sarà ancora una volta il Sud, e le regioni più marginali come la Calabria, a risentire di queste dinamiche: anzi ne risentono già oggi se si pensa al lento e progressivo allontanamento non solo più dei giovani ma delle stesse famiglie al seguito dei figli spostatisi nel Nord del paese, per studio o lavoro.

Nelle città soprattutto è ormai un fenomeno visibile ad occhio nudo: a passeggio sui corsi centrali dei capoluoghi ci solo anziani e pensionati. Il resto sembra sparito. In realtà non c’è proprio più. Se n’è andato.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 marzo 2025

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

C’è un gran fermento in città intorno ai progetti di costruzione del nuovo ospedale dell’Annunziata di Cosenza. Numerose Associazioni si riuniscono e discutono gli atti e/o le dichiarazioni del Commissario ad Acta per la sanità calabrese, le istituzioni locali si allarmano e aprono contenziosi giudiziari perché nelle scelte vengono ignorate.

Prendo spunto dall’ultimo atto, l’ordinanza della Protezione Civile Nazionale, Ocdpc 1133 del 13 marzo 2025, con la quale viene dichiarata emergenza (Nazionale!) la costruzione di vari ospedali in Calabria e viene assegnato il compito di edificarli al Commissario ad acta per la sanità, Roberto Occhiuto.

A lui viene affidata la gestione dell’intero pacchetto, dalla scelta dei siti, appalti, ecc., fino alla realizzazione dei vari ospedali (Sibaritide, Vibo Valentia, Piana di Gioia Tauro, Locri, il Gom di Reggio Calabria, l’Asp di Reggio Calabria, Cosenza, l’Azienda ospedaliero universitaria di Catanzaro e Asp di Crotone).

Occhiuto il 7 marzo u.s. aveva chiesto al governo di considerare “emergenza da Protezione Civile” la costruzione degli ospedali in Calabria, richiesta immediatamente esaudita con la delibera del Consiglio dei Ministri dello stesso 7 marzo 2025.
Intanto va subito detto che la spesa per la costruzione di quelle strutture sarà superiore a un miliardo e mezzo di euro. Il Commissario ha sollecitato l’ordinanza della Protezione Civile per saltare gli ostacoli: le contestazioni della popolazione (il fermento a cui accennavo in apertura), i contrasti delle amministrazioni locali e i cavilli burocratici.

Infatti, negli atti inerenti questi ospedali ci sono passaggi poco chiari, ad esempio, a Crotone la delibera per il nuovo ospedale è stata fatta da un commissario che era fuori dai termini di scadenza del mandato, a Cosenza Occhiuto indica un sito sgradito alla popolazione e persino contestato dal comune. È di questi giorni, infatti, l’iniziativa del Comune di Cosenza di adire alla magistratura ordinaria contro la linea del Commissario che, senza valide motivazioni, cancella il sito di Vaglio Lise precedentemente scelto per il nuovo ospedale, e indica il sito di Arcavacata.

Il governo e la Protezione Civile hanno accettato la proposta di considerare emergenza la costruzione degli ospedali, per motivi semplici: 1) Ci sono le risorse finanziarie per costruirli e bisogna che vengano gestite da amici e non da eventuali avversari politici. La cifra è considerevole. 2) Le urgenze spesso si creano per opportunità politica, per evitare i controlli o le contestazioni. Qualcuno ricorderà che nel governo Berlusconi venne inserita come emergenza la festa di San Giuseppe da Cupertino (epoca di Bertolaso alla Prociv), nessuno ne spiegò i motivi.

Chiediamoci, però, se la costruzione dei nuovi ospedali sia la terapia giusta che risolverà i problemi della sanità in Calabria. Certamente gli operatori preferiranno lavorare in un ospedale nuovo, con spazi meglio organizzati ed efficaci, piuttosto che nelle vecchie strutture. La buona sanità, però, è principalmente organizzazione e risorse umane.

La mia personale risposta alla domanda è no, soprattutto perché le scelte della logistica vengono effettuate in conflitto con la popolazione e le istituzioni locali.

Bisognerebbe analizzare un secondo punto importante, valido soprattutto per il costruendo ospedale di Cosenza, dove è nata l’esigenza di cliniche universitarie per il Corso di laurea in Medicina.

Per evitare che nasca anche un conflitto tra gli operatori ospedalieri e quelli universitari, le cliniche devono entrare in unica azienda università-ospedale, onde evitare il grave errore commesso a Catanzaro negli anni ’80, quando nacque la Facoltà di Medicina e vennero create due aziende. Iniziò allora, infatti, un conflitto tra le due strutture sanitarie, durato oltre 40 anni e ancora non sopito, che ha danneggiato l’efficienza della sanità nella città.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 febbraio 2025
Foto di djedj da Pixabay

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

Colpisce vedere i sindaci dei comuni di montagna, in fascia tricolore, manifestare davanti alla sede della Direzione dell’ASL in segno di protesta perché sono nell’impossibilità di garantire l’assistenza medica necessaria nei di casi urgenza-emergenza ai cittadini che vivono nei loro comuni.

Avrebbe dovuto essere con loro anche la sindaca di San Giovanni in Fiore, nonché Presidente della Provincia e dell’ANCI regionale, perché nel comune da lei amministrato recentemente s’è verificato un gravissimo episodio di mancata assistenza proprio in emergenza. Non era presente e non ha fatto conoscere la sua opinione.

Il tema più cogente per chi ha la responsabilità organizzativa della sanità, se si vuol davvero migliorare l’assistenza in Calabria, è, al di sopra di tutto, garantire una risposta adeguata alle urgenze-emergenze nel territorio. La popolazione italiana, come tutta quella occidentale, ha un’età media elevata, è sottoposta a un ritmo di vita altissimo e stressante, pertanto le patologie e gli eventi cardio-vascolari sono frequentissimi e insidiosi, si manifestano spesso imprevisti e richiedono risposte tempestive.

Purtroppo queste risposte non ci sono e la tempestività fa difetto. L’abbiamo visto nel tragico caso di San Giovanni in Fiore. I sindaci nel Testo Unico degli Enti Locali sono indicati come responsabili della salute dei cittadini, pertanto oggi denunciano a chi è preposto all’organizzazione sanitaria di non essere in grado di rispondere al mandato per quanto concerne le emergenze-urgenze nei comuni montani, considerata l’orografia particolare del territorio, la distanza dal Pronto Soccorso dell’ospedale hub della provincia, il disagio dovuto ai fattori climatici invernali e, soprattutto, perché non ci sono nelle vicinanze punti di soccorso adeguati.

Compete ai responsabili dell’organizzazione sanitaria della provincia e al Commissario Regionale della Sanità mettere quegli amministratori in condizione di esaudire le richieste dei cittadini, anche perché la legge prevede che i dirigenti della sanità consultino i sindaci dei comuni prima di redigere gli atti aziendali. Li hanno consultati? Hanno raccolto i loro suggerimenti?

A fronte di un problema così importante, dopo il tragico episodio di San Giovanni in Fiore, ho letto recentemente una strana iniziativa da parte del dirigente organizzativo: ha ordinato ai medici del Pronto Soccorso della struttura, in caso di chiamate dal territorio, di abbandonare la postazione e salire sull’ambulanza così da medicalizzare il soccorso. Un modo bizzarro, se non quasi disperato (o incompetente?) di affrontare il problema, perché così si lascia sguarnito del medico un importante servizio.

Nessuno, invece, si preoccupa di migliorare il livello di gestione della Centrale Operativa, a cui compete il ruolo d’individuare il grado d’urgenza caso per caso e decidere la medicalizzazione delle ambulanze. Come si può migliorare la sanità in Calabria se non si parte dal sistema organizzativo di base e si forniscono le necessarie garanzie ai cittadini che vivono nei paesi più lontani?

La recente pandemia ha messo a nudo la terribile fragilità organizzativa dell’assistenza d’urgenza nei territori e, infatti, l’Unione Europea ha provveduto a erogare nel PNRR fondi per potenziarla con la creazione delle case di comunità. Non ve n’è ancora traccia, anzi, oggi quasi non se ne parla più e si teme che i fondi erogati vengano distratti per altri obiettivi.

Viene, invece, annunciato l’arruolamento di luminari specialisti che opereranno nell’ospedale hub, e facendo intendere questa operazione come la principale soluzione dei problemi. I dirigenti della sanità e il Commissario Regionale hanno chiesto ai cittadini delle montagne se è prioritario chiamare illustri specialisti, certamente di gran livello professionale, o se è prioritario affrontare l’assistenza sanitaria nel territorio, soprattutto per le urgenze-emergenze?

E non voglio qui affrontare il tema della funzione attuale dei medici di famiglia nel territorio, depauperati di professionalità individuale. Occorrerebbe ampio spazio.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025
Foto di ADMC da Pixabay

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

Premessa: in una settimana di scirubetta si è parlato dal Pollino allo Stretto in modo diverso. Addirittura si è rispolverato un vecchio dizionario del dialetto calabrese dove scirubetta diventa scirubettu, con la u finale, bevanda che sarebbe in auge nella locride con rivendicazioni di primogenitura! A Roccella in particolare pare sia molto in voga.

Poi si scopre però che è, in realtà, una specie di gelato e non il fenomenale bicchiere di neve fresca della Sila con tanto di miele di fichi, in uso appunto dalle parti silane e presilane o sanfilesche. Anche se – nuova ultima puntata– i nivari, cioè quelli che usavano conservare in inverno la neve sotto terra per poi riproporla in estate, c’erano anche in altre parti della Calabria e dunque nessuno si può appropriare di questa benedetta scirubetta. Appunto però: c’erano i nivari, c’erano una volta…

C’erano! Ora che non ci sono più questi custodi della neve – tornano così alla carica i tradizionalisti – la scirubetta rivà alle sue radici vere, con la A finale, anche se – ma questo è un altro discorso – di neve di questi tempi non se ne vede moltissimo tranne che in alta montagna.

A rilanciare questo mood nevoso ci ha, comunque, pensato il mitico Brunori (dio l’abbia in gloria) che in una settimana pre e post Sanremo ha rilanciato non solo la scirubetta ma tutto l’armentario calabro recitato in salsa moderna. Se ne sta parlando ancora e molti vi hanno visto un segno addirittura politico, un segnale, una strada da seguire. Stiamo un po’ calmi.

La frase cult è quella: ‘’Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele”, il verso più celebre de L’albero delle noci, non a caso (autocitazione) messo in testa al nostro editoriale di sabato scorso, premonitore di quel terzo posto sanremese arrivato nella nottata tra sabato e domenica.

Ma ora – per buttarla in politica – ci vuole davvero un bel salto di qualità, che la sinistra nostrana non ci pare pronta ad affrontare. Quella neve che si mescola al miele (di fichi) e quindi la scirubetta di cui prima dovrebbe, potrebbe, essere il senso metaforico di una direzione di marcia per chi vuol cambiare le cose?

Con tutto quello che ne consegue e cioè mettendo a bando la particolare predisposizione calabra per la retorica che ha immediatamente trasformato la scirubetta nel prodigio gastronomico più antico della storia, ovviamente nato in Calabria come ogni prodigio che l’umanità ha scoperto soltanto qualche secolo dopo (ci sono decine di esempi di questa grandiosità calabra declamata in tutto il globo)? Da qui nascerebbe in verità un vero prodigio, possibile e immaginabile: un suggerimento per la sinistra affinché riparta dalle aree dimenticate del Paese.

La sinistra riparta dunque dalla scirubetta: un inedito assoluto che nemmeno Brunori poteva mai pensare. Ma un senso la cosa in fin dei conti forse ce l’ha per davvero, se Irto e compagni si mettono (si mettessero) di buzzo buono. Lasciare magari perdere, cioè, le grandi questioni che tanto nessuno è in grado di risolvere e mettersi pancia a terra a ragionare, a pensare, ad operare sul territorio, sui territori per davvero.

Nei piccoli centri, in quelli ormai quasi spopolati di collina e di montagna o nelle marine dove si vive solo un paio di mesi d’estate o nelle periferie delle nostre città (tutte) dove il degrado somiglia tanto a quelle delle grandi metropoli. Basterebbe la scirubetta? Certo che no ma un segnale di autenticità non guasta, diciamo non guasterebbe. Come ha fatto sempre quel Brunori l’altro giorno andando a cantare davanti agli studenti dell’Universita’ della Calabria. Se poi ci metti – altro cult brunoriano – la vurzetta con gli amuleti di San Fili il quadro è completo!

A parte gli scherzi (che non sono poi tali) la politica tutta – di destra e di sinistra – dovrebbe prendere esempio da un dato che ci viene da questi giorni recenti alle nostre spalle: si può essere cioè calabresi senza nascondersi e senza pianti greci, senza retorica ma anche senza enfasi. Non selvaggi abitatori di montagne impervie discendenti dei briganti o poveri abitanti di una terra sempre sfruttata e conculcata! Parlando invece un linguaggio chiaro e semplice, che è quello che la gente normale chiede. Che poi sia scirubetta o scirubettu è in fin dei conti è un’inezia. Alla fine per una vocale ci si mette d’accordo!

da “il Quotidiano del Sud” del 22 febberio 2025

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

Cosa sia la realtà calabrese è difficile da rendere in poche righe di un articolo o financo in un libro. Ci stiamo provando da anni e oscilliamo sempre su quello che Massimo Razzi definisce ‘il crinale sottilissimo’, cioè quello tra il bene e il male, il bello e il brutto, dove a volte prevale il primo e più spesso il secondo. Poi ci sono però i numeri, impietosi, a darci un senso al racconto (vedi quelli dell’ISTAT su cui ci siamo soffermati sabato scorso, ad esempio).

E numeri, tanti e duri, ci forniscono ora in un nuovo lavoro, assolutamente inedito – e di cui il Quotidiano del Sud può oggi offrire una piccola anteprima – Rosanna Nisticò e Mimmo Cersosimo, in un paper in lavorazione ancora all’Università della Calabria.

Proviamo dunque a riassumere decine e decine di pagine. Il trend recente tra il 2022 e il 2023 mette in luce come il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

La Calabria è tra le sei regioni europee nelle quali l’indicatore è cresciuto, nel biennio in considerazione, di almeno 5 punti percentuali con 41 calabresi su 100 che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella registrata nella Provincia di Bolzano e sette volte più alta rispetto a quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Ancora: la Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6%, a fronte di un calo alquanto generalizzato nel resto delle altre regioni, e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

In questo quadro poco felice ci sono altri calabresi, aggiungono nel paper i due studiosi, che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, i comparaggi, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali.

Non va trascurata l’incidenza dei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello dei cittadini: concentrati, usando le parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative).

Il punto tutto politico alla fine qual è? E’ che a quella Calabria della povertà sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare ma anche perché è la Calabria del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilet gialli né protettori: che non minaccia l’ordine dominante.

Come concludono i due? I partiti-residui continuano così a guardare alla Calabria dei garantiti, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non basta per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”.

Questo politico, dunque, è il versante che dovrebbe dare risposte e da lì si attendono le proposte vere e concrete. Tutto il resto sennò è noia. A proposito di Brunori, Califano e del Festival di Sanremo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 febbraio 2025

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

È encomiabile e di grande interesse l’intervista del Direttore Massimo Razzi al Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, sui problemi della sanità in Calabria. Ora sappiamo come pensa, e, pertanto, voglio analizzare le inesattezze significative che ha fatto passare, inerenti alcune inefficienze assai evidenti. Provo a schematizzare

1)Sulla mancanza del medico a bordo nelle ambulanze, prendendo spunto dal triste caso accaduto a San Giovanni in Fiore, dice che nelle altre città d’Italia solo nel 23% delle ambulanze c’è il medico a bordo. È una notizia esatta ma fuorviante, e solo un tecnico avrebbe potuto ribattere in quella sede. Di tecnici ce n’era uno solo, il Dottor Miserendino, che era dalla parte del Presidente e non aveva alcun interesse a riprendere il tema.

Nelle città dove il Pronto Soccorso e i dipartimenti Urgenza-Emergenza funzionano, esiste una Centrale Operativa gestita da tecnici di alta formazione in grado di selezionare le risposte alle chiamate e decidere se è necessario il medico a bordo. Noi sappiamo dalla statistica che in oltre il 70% dei casi le chiamate al 118 sono fatte per patologie che non richiedono il medico a bordo e la Centrale Operativa lo comprende al telefono:
a) dalla distanza del paziente da soccorrere dal Pronto Soccorso ospedaliero, che deve essere raggiungibile entro un breve tempo stabilito da parametri;
b) da due o tre domande a chi sta chiamando. Quei tecnici sono in grado di decidere se inviare il medico, che, però, è sempre disponibile.

Le Centrali Operative calabresi hanno questa capacità di selezionare i casi? L’hanno fatto per il caso di San Giovanni in Fiore? È questa la mancanza. Il medico del Pronto Soccorso aveva richiesto l’ambulanza medicalizzata, che non c’era. Occhiuto non ne fa cenno.

2)Il Presidente accusa carenza di medici nelle strutture di Pronto Soccorso e Urgenza. È un problema reale in tutta l’Italia, perché i medici d’urgenza sono pagati poco a fronte delle responsabilità che si assumono e per il lavoro usurante che svolgono. L’intervistatore chiede perché la Regione non paghi di più. Il Presidente risponde che non può, deve rispettare la legge nazionale. È inesatto.

Per la legge Bindi le aziende sanitarie ogni anno dovrebbero predisporre la distribuzione di budget per ogni settore, compreso Emergenza-Urgenza, e questo viene calcolato sulla base dello strumentario necessario, il materiale di consumo e l’organico teorico previsto per il buon funzionamento. In altri termini, se per un settore è previsto un organico di 10 operatori e ce n’è disponibile solo la metà, significa che circa il 50% del budget stabilito non viene speso. Potrebbe essere usato, allora, per pagare di più quelli che lavorano.

3)La legge Bindi consente alle aziende di dividere il budget previsto per gli operatori in una quota di retribuzione base e una quota legata a incentivi. Quest’ultima dovrebbe essere condizionata dalla realizzazione di progetti dettagliati assegnati d’ufficio o scelti dagli operatori stessi. Il Presidente non ha fatto alcun cenno alla rendicontazione degli incentivi, che dovrebbero emergere dai bilanci annuali. Quali incentivi sono stati assegnati? Ci sono i bilanci?

4)Siamo tutti felici se la Calabria esce presto dal Commissariamento, anche se non è prevista l’uscita dal piano di rientro. Il grande problema nasce proprio dal piano di rientro che costringe le aziende a stringere i cordoni della borsa fino a stritolare l’efficienza della sanità. Intanto, l’obiettivo primario dovrebbe essere ridurre l’ospedalizzazione fuori regione e individuare gli strumenti per raggiungere questo fine. Ma osservando come vanno le cose non si uscirà mai dal piano di rientro. Il Presidente non fa alcun accenno all’emigrazione sanitaria anche per patologie di basso profilo, che continua a determinare l’emorragia delle risorse.

5)L’ultimo punto dell’intervista ha lasciato tutti perplessi, il rapporto università ospedale. La Facoltà di Medicina a Cosenza ora esige giustamente la creazione di un policlinico. Il Presidente non spiega come intende affrontare il problema. Individua il Rettore dell’Unical come l’uomo di fiducia col mandato di creare le cliniche. Bisogna allora fare due obiezioni:

a) il Rettore non è un tecnico della sanità, quindi è assolutamente improprio che abbia il mandato di gestire la creazione delle cliniche universitarie. Viene individuato solo come fiduciario del Presidente della Regione, e la cosa si presta a interpretazione politica e/o ispirata a interessi non specificati. L’unico tecnico che avrebbe la competenza per la creazione del policlinico dovrebbe essere il Preside della Facoltà di Medicina. Il Presidente non ne fa cenno.

b) Come vede il Presidente il rapporto Università- Ospedale a Cosenza? Lui certamente sa che quando, negli anni ’80, venne creata la Facoltà di Medicina a Catanzaro, iniziò un duro conflitto tra l’Ospedale e l’Università durato oltre 40 anni, responsabile di inefficienze e di mancato sviluppo di entrambe le aziende.

Nell’intervista Il Presidente Occhiuto non fa cenno a come sarà impostato questo rapporto, che, invece, è una chiave di volta per risollevare davvero la sanità a Cosenza, dove ci sono già segnali di preoccupazione per il destino dell’Annunziata.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 febbraio 2024

I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri

I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri

Stavolta non sono le classifiche di vivibilità del Sole 24 ore ad indicare dove e come stiamo come Calabria. Classifiche contestabili finché si vuole – del tipo: qui c’è un mare da favola, in Sila l’aria più pulita del mondo (o d’Europa, fa lo stesso) ed altre menate del genere – ma che indicano purtuttavia una tendenza comunque chiara.

Stavolta parla l’ISTAT, incontestabile dunque, che certifica come nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie per abitante del Mezzogiorno si attesta a 17,1mila euro annui e si conferma il più basso del Paese e la Calabria è all’ultimo posto tra gli ultimi. Rapporto che nei giorni scorsi è stato ampiamente illustrato su queste pagine, con tutte le cifre e i dati resi noti da Istat, da Maria Francesca Fortunato.

C’è poco quindi da raccontare a mo’ di favolette ai bambini ma per non annoiarvi troppo ecco qualche altra cifra utile solo per qualche considerazione finale.

La distanza in termini di reddito del Sud da quello del Centro-Nord, pari a 25mila euro, è superiore al 30%. Lo si legge nel Report Istat sui conti economici territoriali. La graduatoria regionale vede in prima posizione la Provincia autonoma di Bolzano/Bozen, con un Pil per abitante di 59,8mila euro, seguita da Lombardia (49,1mila euro), Provincia autonoma di Trento (46,4mila euro) e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (46,3mila euro). Il Lazio si conferma la prima regione del Centro e l’Abruzzo è la regione del Mezzogiorno con un Pil per abitante più alto (31mila euro), seguita da Basilicata (27,5mila), Molise (26,7mila) e Sardegna (26,3mila).

La Calabria in questa classifica resta stabilmente all’ultimo posto della graduatoria, con 21mila euro, preceduta dalla Sicilia, con un valore del Pil per abitante di 22,9mila euro. In pratica nella provincia di Bolzano si registra un pil pro-capite che è quasi tre volte quello della Calabria. E non è finita qui: In Italia nell’anno la spesa per consumi finali delle famiglie per abitante, valutata a prezzi correnti, è stata pari a 21,2mila euro. I valori più elevati si sono registrati nel Nord-ovest (24,2mila euro) e nel Nord-est (23,8mila euro); segue il Centro, con 22,2mila euro, mentre il Mezzogiorno si conferma l’area con il livello di spesa più basso (16,7mila euro).

Fin qui le cifre più significative del rapporto ISTAT, giusto per dare un’idea dello stato dell’arte. Tante altre ce ne sono infatti in quel rapporto ma il quadro è ultra chiaro e indica che le chiacchiere sui miglioramenti mirabolanti che ci vengono propinati ad ogni piè sospinto non si capisce su che cosa si poggiano. E non parliamo dei servizi sociali primari, dell’assistenza, della sanità su cui questo giornale ha avviato da settimane una martellante campagna stampa di mobilitazione. E non parliamo nemmeno delle infrastrutture di trasporto, tutte, strade ferrovie etc etc. ridotte ad uno stato di colabrodo, dove più e dove meno, degne del terzo mondo in alcuni casi.

Bastano tre ore di pioggia per aprire voragini dovunque (vedi ultimo nubifragio di domenica scorsa). Per non parlare – ancora – dei tassi di emigrazione di giovani e meno giovani fuori dalla regione, con un calo delle residenze da far paura.

Siamo insomma ad un momento cruciale, uno dei tanti direte voi, che dovrebbe indicare una linea di condotta chiara e certa a tutti gli attori politici, istituzionali, sociali, culturali che qui operano. Assistiamo, viceversa, ad un continuo vociare senza costrutto, ad un rimpallo di ruoli e responsabilità, di colpe e di errori, vecchi e nuovi, che non si traduce alla fine in niente.

Settimane fa due economisti calabresi – Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò – avevano già descritto un quadro a tinte vere e fosche. Ne abbiamo scritto su questo giornale ampiamente. Tutto era passato in cavalleria. È proseguito quel mettere assieme un pezzo qua ed uno di là, tutto privo di rete e di collegamento, per annebbiare ancora una volta un’opinione pubblica confusa e distratta. La domanda resta sempre quella ed unica: si può andare avanti con questo andazzo?

da “il Quotidiano del Sud” dell’8 febbraio 2025

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Dal punto di vista giuridico, sorprendono, stando ai virgolettati riportati sui giornali, le parole pronunciate dal neopresidente della Corte costituzionale durante la conferenza stampa del 21 gennaio. Spiegando le ragioni della bocciatura del referendum contro la legge sull’autonomia regionale differenziata (legge Calderoli), il presidente Amoroso avrebbe detto che «la decisione della Corte sulla non ammissibilità del referendum si riferiva alla non chiarezza del quesito, perché l’oggetto del quesito (la legge Calderoli, ndr) è oramai ridimensionato» per via della sentenza dello scorso anno che ne ha sancita la parziale, benché amplissima, incostituzionalità, sicché «ciò che residuava era difficilmente comprensibile dall’elettore».

È difficile nascondere la sensazione di disagio suscitata da tali parole. La decisione circa la idoneità della legge Calderoli a rimanere sottoposta a referendum dopo il suo parziale annullamento da parte della Corte costituzionale spettava, infatti, alla sola Corte di Cassazione, la cui valutazione a favore della idoneità non è suscettibile di revisione da parte della Corte costituzionale.

Quest’ultima avrebbe dovuto limitarsi a valutare il rispetto dei limiti alle iniziative referendarie previsti dall’articolo 75 della Costituzione (esclusione delle leggi di bilancio e tributarie, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di amnistia e indulto) e dalla sua stessa giurisprudenza (a partire dalla sentenza 16 del 1978, che esclude altresì i quesiti referendari disomogenei o vertenti su leggi costituzionalmente necessarie o a contenuto vincolato). Invece, a quanto pare, il referendum sarebbe stato ritenuto non ammissibile proprio per via del parziale annullamento della legge, operando un irrituale rovesciamento della precedente decisione della Cassazione.

Altrettanto sorprendente è leggere che, con il referendum, «i cittadini sarebbero stati chiamati a votare sull’articolo 116 comma terzo della Costituzione, e cioè sul principio dell’autonomia differenziata, ma questo è contro la Costituzione». Non è così. La Costituzione attribuisce alle regioni la possibilità di chiedere l’autonomia differenziata, ma la decisione se accogliere la richiesta è rimessa allo Stato. L’autonomia differenziata non è un diritto, è una facoltà che lo Stato può decidere di attivare o di non attivare.

Dunque, decidere di eliminare la legge Calderoli, in quanto volta ad agevolare l’esercizio di quella facoltà, non significa affatto pronunciarsi sulla Costituzione, bensì assumere una decisione di principio sull’attivazione o meno della facoltà in questione (il che, peraltro, non impedisce la possibilità di utilizzare direttamente l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, come mostra l’esperienza dei Governi Gentiloni e Conte I).

Dal punto di vista politico è indubbio che la mancata ammissione del referendum produca il doppio effetto negativo di far venire meno un forte collante tra le opposizioni al governo e di indebolire l’importantissima campagna referendaria che si aprirà in primavera. A beneficiarne non è solo la destra, che rischiava di spaccarsi nelle urne tra favorevoli e contrari all’autonomia, ma anche quella consistente parte del partito democratico che continua a vedere nel regionalismo una risorsa – sia pure trincerandosi dietro l’ambigua formula del regionalismo cooperativo e non competitivo – ed era terrorizzata dall’idea che il referendum sancisse l’esistenza di un diverso orientamento popolare.

C’è, tuttavia, anche un risvolto positivo. Proprio le parole del presidente Amoroso certificano, in via definitiva, che il disegno del regionalismo differenziato è fallito. L’incostituzionalità della legge Calderoli sancita dalla Corte costituzionale è così radicale da aver reso politicamente insostenibile la posizione dei pasdaran del regionalismo (sebbene alcuni di loro continuino, incuranti del ridicolo, a tenere la posizione).

È uno straordinario successo per tutti coloro che fin da subito avevano intuito i pericoli dell’autonomia differenziata e si sono battuti contro il tentativo di spezzare l’Italia, costruendo un movimento di opinione che ha dato un contributo decisivo alla difesa dei principi costituzionali di solidarietà, uguaglianza e unità. Paradossalmente, proprio la mancata ammissione del referendum è la più alta certificazione di tale successo. Si tratta ora di mantenere alta l’attenzione, per impedire i colpi di mano che dovessero cercare d’indebolirlo.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2025

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

L’assegnazione di letti a pagamento al reparto di chirurgia toracica da parte dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza va contro la ripresa della sanità calabrese, che è agli ultimi posti in Italia per la risposta al fabbisogno della popolazione di prestazioni routinarie e specialistiche. Anzi, è una rapina alla sanità pubblica. La spiegazione dei dirigenti dell’Azienda, che per comodo chiamano in causa la legge Bindi, è un balbettio di mala interpretazione della legge stessa. Provo a spiegare la rapina.

Secondo le linee guida nazionali e internazionali della branca specialistica e quelle degli anestesisti e rianimatori sempre coinvolti per necessità, la chirurgia toracica nella maggioranza dei casi richiede assistenza ai pazienti operati nel reparto di terapia intensiva (TI).

Tutti ricordano il serio problema dell’esiguità del numero dei posti letto nelle terapie intensive durante la pandemia del Covid19. E per quanto attiene ai parametri minimi dell’adeguamento alle normative nazionali e ancor più europee in merito al numero di letti di TI, la Calabria era agli ultimi posti nel quadro nazionale.

I parametri minimi europei prevedono che siano attivi 14 letti di TI per ogni 100.000 residenti (in Germania questo parametro è rispettato). In Italia siamo ancora attorno ai 9-10 letti e alcune regioni lentamente si stanno adeguando. In Calabria siamo al di sotto di 7 letti di TI per 100.000 abitanti.

Addirittura durante la pandemia eravamo sotto il 50% dei letti di TI attivi. I parametri richiesti valgono ovunque e non sono assegnati a caso, ma calcolati e codificati per fornire garanzie necessarie a un’assistenza adeguata. Là dove non vengono rispettati, ne scaturisce mala-assistenza che diventa spesso mala-sanità.

L’Azienda Ospedaliera di Cosenza (ospedale Hub della provincia) dovrebbe avere almeno 9-10 letti per ogni 100.000 abitanti residenti, i quali sono complessivamente 750.000. C’è un numero di letti di terapia intensiva e/o sub-intensiva adeguato all’esigenza dell’intero territorio provinciale, assommando a quelli dell’Annunziata anche i sub-intensivi di Castrovillari e Corigliano Rossano? No, non c’è, siamo molto lontani.

Né si può annunciare l’allargamento frettoloso degli spazi e acquisire lo strumentario necessario, perché le terapie intensive non sono limitate alla logistica e agli strumentari, ma per protocollo richiedono un organico medico e infermieristico ultra-specialistico, che non c’è.

La buona assistenza è legata all’adeguamento dell’organico, che impone parametri precisi dettati dalle associazioni nazionali e internazionali degli anestesisti e rianimatori: un medico specialista in rianimazione e TI in turno H24 per non più di 8 pazienti, un infermiere in turno H24 per non più di 2 pazienti.

L’organico attuale in servizio è molto lontano dai parametri richiesti. Per addestrare questi specialisti occorrono anni. È evidente, allora, che se vengono assegnati dei posti-letto (a pagamento) al Reparto di chirurgia toracica, i pazienti che ne fruiranno richiederanno quasi sempre un ricovero in TI, e i pochi letti di TI disponibili verranno sottratti all’attività destinata al servizio pubblico.

Questa manovra ricade inevitabilmente anche sugli altri reparti di chirurgia per gli interventi chirurgici che richiedono assistenza intensiva, allungando, ovviamente, le liste di attesa anche per gli interventi di chirurgia oncologica salvavita

da “il Quotidiano del Sud” del 27 gennaio 2025