Categoria: Dalla Stampa

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Poi dici che il turismo va male, che la Calabria è abbandonata, che le cose vanno male etc etc. Poi tenti una narrazione un po’ diversa , meno catastrofica e un tantino più ottimistica. Ma poi ti imbatti in una notizia peraltro un po’ datata anche ma di cui nessuno parla nella vergogna più assoluta e allora ti cadono le braccia e dici: nooo! Dal 22 al 25 luglio cancellati tutti i treni in partenza ed in arrivo dalla Calabria per una interruzione nel tratto Sapri-Battipaglia.

Sono settimane che è accaduto un incidente e i disagi sono pesantissimi per pendolari, turisti etc. Il tutto nel silenzio assoluto di istituzioni nazionali e regionali che promuovono stratosferici risultati per export e turismo. La verità è quella che ha ben riassunto il segretario regionale della Cgil angelo sposato, l’unico che abbia detto una cosa. “Ci troviamo ancora una volta una Calabria isolata e con costi proibitivi per i voli in entrata ed uscita.

Il tema della mobilità, della sanità, delle politiche ambientali, non sono un affare privato, sono i cardini del sistema pubblico di una regione e di un Paese.Il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, già in passato interpellato sul tema dei servizi e delle tariffe, intervenga su Rfi e Trenitalia per capire quello che sta succedendo e poi spieghi ai cittadini calabresi che fine hanno fatto i fondi del Pnrr per l’alta velocità in Calabria”.

Potremmo finirla qui e invocare pietà per noi tutti, dimenticati da dio e dagli uomini sulle cose più semplici. Ancora una volta ci viene in aiuto il grande poeta Franco califano: tutto il resto è noia.

da “il Quotiando del Sud” del 20 luglio 2024

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

Per il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, la strada sull’autonomia differenziata si fa sempre piu’ stretta, tra alleati interni e opposizioni. Da un lato Occhiuto ribadisce le perplessità sui modi e sui tempi dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e per ultimo al consiglio nazionale di Forza Italia ha usato parole nette. «Il ddl Calderoli, purtroppo, è arrivato all’ok finale delle Camere senza che contemporaneamente sia giunto al traguardo anche il superamento della spesa storica.

Spero che Forza Italia, così come ha sempre detto il nostro leader Antonio Tajani, metta al centro della sua azione proprio il superamento delle differenze territoriali, archiviando definitivamente la spesa storica a favore dei fabbisogni standard. Il mio auspicio è che Forza Italia non voti in Consiglio dei ministri e in Parlamento alcuna intesa con singole Regioni se prima non saranno interamente finanziati i Lep, e se non ci sarà la matematica certezza che determinate intese possano produrre danni al Sud».

Forza Italia ha anche dato vita all’Osservatorio sull’Autonomia differenziata costituito dai massimi responsabili istituzionali e politici del movimento, il vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, il Ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, il sottosegretario all’Economia Sandra Savino, i presidenti delle Regioni di Forza Italia, i capigruppo alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo, i vice segretari nazionali, e una selezionato gruppo di tecnici, economisti e studiosi, che avrà il preciso compito di vigilare sugli effetti pratici dell’attuazione della legge, che deve valorizzare tutte le regioni, con particolare attenzione a non penalizzare il Sud.

Ma ci sono precise puntualizzazioni. «E’ un Osservatorio – ha detto subito la Casellati – che deve solo monitorare questo processo, perché noi abbiamo una legge cornice e adesso c’è tutto il procedimento da mettere in atto, che va dalla definizione dei Lep agli accordi tra lo Stato e le Regioni».

Dell’Osservatorio dunque fa parte anche, nella duplice veste di presidente di Regione e vicesegretario nazionale di Forza Italia, anche il governatore calabrese Roberto Occhiuto. Secondo diversi analisti politici, in realtà, la nascita dell’Osservatorio sarebbe stata dettata dalla necessità per Foza Italia e il suo leader nazionale Tajani di venire incontro alle richieste dei governatori forzisti nelle regioni del Sud, tra cui Occhiuto e il lucano Vito Bardi, che hanno manifestato molte preoccupazioni per le ricadute territoriali del Ddl Calderoli, entrando in rotta di collisione anche con la Lega.

Ma questa strada e’ stretta assai. L’ex Governatore Agazio Loiero, ad esempio, non gliel’ha certo mandato a dire ad Occhiuto. Loiero infatti definisce «tardive» le critiche dell’attuale presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, al Ddl Calderoli’’ ed ha dato un consiglio al governatore: «Può accodarsi alle cinque Regioni del centrosinistra che presentano ricorso e che presentano due ricorsi, uno di abrogazione totale e uno di abrogazione parziale. Si accodi a queste regioni e lui diventa un alfiere, un difensore del proprio territorio, che viene sempre prima del partito e della coalizione».

Ovviamente piu’ drastico il segretario del Pd Nicola Irto: «Serve una battaglia meridionalista e da sud, serve una battaglia calabrese. Sono inaccettabili e anche un po’ ridicole le giravolte di Occhiuto, che prima vota la legge che poi contesta’’.
Insomma Occhiuto e’ stretto ed alla fine una posizione netta e chiara dovra’ pure assumerla: o sarà ligio alla disciplina del suo partito o sceglie il mare aperto della battaglia meridionalista. Restiamo in attesa di capire.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 luglio 2024

La questione morale come questione fondamentale.-di Tonino Perna

La questione morale come questione fondamentale.-di Tonino Perna

Partendo dall’inchiesta “Ducale” che ha coinvolto l’Istituzione comunale reggina, il Direttore Massimo Razzi ha riacceso un faro sulla “questione morale” come questione politica, che è stata seppellita da tutte le forze politiche, ed è ormai accettata dalla gran parte dell’opinione pubblica come fatto quasi naturale e comunque inevitabile. Certo, formalmente, molti si indignano e prendono le distanze, ma spesso sono gli stessi che nel loro quotidiano usano la corruzione per vantaggi di vario tipo.

Purtroppo, questo fenomeno non riguarda solo la Calabria, ma investe tutta l’Italia, e non solo. Che la “questione morale” fosse una questione politica di prima grandezza l’aveva intuito e denunciato Enrico Berlinguer. In una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari il 28 Luglio 1981, il segretario del P.C.I. aveva avvertito del pericolo che correva la democrazia italiana con il diffondersi di una rete di corruzione che riguardava enti e istituzioni pubbliche e parastatali.

Per Berlinguer la causa non era da ricercarsi nella ricorrente lamentela della perdita dei valori, ma aveva delle ragioni strutturali: l’occupazione dello Stato, in tutte le sue articolazioni, da parte dei partiti politici. E, alla domanda di Scalfari, del perché gli italiani non si ribellassero, Enrico Berlinguer rispondeva con una punta di amarezza: “perché sono ricattati o ricevono benefici, o sperano di riceverne in futuro, da questo sistema partitico/clientelare”.

Sono passati più di quarant’anni e la corruzione è diventata un fenomeno di massa che coinvolge milioni di cittadini, dipendenti pubblici e organizzazioni politiche e sindacali. Parafrasando un vecchio e suggestivo libro di Pietro Ingrao (Masse e Potere) si potrebbe dire che le masse si sono fatte Stato per mangiarselo a bocconi. In altre parole, non sono solo i partiti, ridotti da tempo a meri centri di potere e rappresentanti di singoli interessi, ad avere occupato lo Stato è anche una parte rilevante della popolazione che ha utilizzato la corruzione per ottenere benefici dal welfare che è stato conquistato da decenni di lotte dei lavoratori, unitamente ad una crescente corruzione negli apparati amministrativi a tutti i livelli.

Già nel 1968 Samuel P. Huntington , prestigioso e controverso politologo statunitense, nel suo “Modernization and Corruption” , offriva un quadro della corruzione su scala globale, che era vista, soprattutto nei paesi del Sud,, come una sorta di facilitatore per aggirare una burocrazia inefficiente (W.H.Leff) , un acceleratore delle scelte imprenditoriali (D.H. Bayley), un emolliente (Mc-Mullon) una sorta di meccanismo di riequilibrio del mercato.

Al contrario il Nobel Gunnar Mydal denunciava la corruzione come fattore di “distorsione” nei meccanismi di distorsione delle risorse. In ogni caso su un fatto quasi tutti gli studiosi concordavano: la corruzione costituisce un fondamentale fattore di “integrazione” socio-politica. Come ebbe allora ad osservava Huntington : “La corruzione può essere funzionale al mantenimento del sistema politico nello stesso modo in cui lo sono le “riforme”, corruzione e riforme possono essere dei sostituti della rivoluzione”.

A distanza di oltre mezzo secolo queste parole pesano come pietre. La corruzione di massa in cui siamo immersi da tanto tempo ha come anestesizzato il nostro paese, sterilizzato le coscienze, drogando le grandi masse popolari. Se alle volte ci domandiamo perché in Francia, ad esempio, scendono in piazza per mesi per un aumento di due anni dell’età pensionabile o per l’aumento di qualche centesimo del prezzo della benzina, forse la risposta l’abbiamo trovata nel differenziale dei livelli di corruzione tra noi e loro.

Ma non abbiamo ancora trovato la strada per uscire da questo rovinoso declino politico. Forse la fine delle vacche grasse (Prnn), l’inevitabile politica di austerity con il taglio netto della spesa pubblica, farà scoppiare le contraddizioni di un sistema di corruzione che si è retto, anche, su una montagna di debito a carico delle future generazioni.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 luglio 2024

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud. Perché? Primo. La legge contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate acquisite attraverso l’autonomia differenziata derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio.

In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con il governo centrale, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le basi imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare (vedi analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio), gli incentivi piegano verso l’inefficienza e gli sprechi.

Secondo. Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata «espressione geografica». Quale peso politico può avere a Bruxelles, nelle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali un presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali?

Ad esempio, con quale affidabilità avrebbe potuto negoziare un Pnrr dedicato quasi tutto a investimenti e riforme di esclusiva competenza regionale? Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente, ma noi saremmo, come per il premierato, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del presidente della Regione per le modifiche.

Terzo e quarto (sintetizzo e rinvio al mio lavoro per Castelvecchi L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord, prefazione di Pierluigi Bersani). In un quadro di federalismo competitivo, l’autonomia alimenterà il dumping regolativo e – spezzati i contratti collettivi nazionali dei privati a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico – retributivo; moltiplicherà le norme e gli adempimenti amministrativi e lascerà le nostre aziende senza il sostegno politico-diplomatico dello Stato.

Quinto. L’impatto sul costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite.

Non è così. Nelle bozze di Intesa sottoscritte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con la ministra Stefani e tenute in vita dalla legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati … , rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione». Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.

Arrivati qui, pronto il soccorso, anche del Nord, con i mitici Lep. In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, che la definizione dei Lep, nonostante offra amplissimi margini di discrezionalità agli autori, viene lasciata al completo arbitrio del governo. Per valutarne il livello di affidabilità cito un passaggio della posizione della Banca d’Italia: «Le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Sull’autonomia non dobbiamo alimentare la “guerra civile” sudisti contro nordisti, è anche questione settentrionale. Spieghiamolo bene da Roma in su

da “il Manifesto” del 29 giugno 2024

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Questi giochini tattici, i distinguo in punta di penna, le fandonie che si stanno leggendo a due settimane dal voto in Parlamento per cercare di giustificare lo scempio che si consumerà sull’autonomia differenziata hanno, in verità, stancato. Ora che Mattarella ha promulgato la legge sarebbe l’ora di pensare a che fare.

La maggioranza di governo (che intanto in Calabria è già andata sotto ai ballottaggi di domenica e lunedì a Vibo, dopo essere stata ridicolizzata al primo turno a Corigliano-Rossano, ed è già un segnale per chi vuol capire) è invece testarda ma i fatti lo sono ancora di più. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata emerge, infatti, in tutta evidenza la realtà di un’Italia già ammalata di regionalismo e che avrebbe bisogno, semmai, di maggiore coesione. Ci pensano però diversi istituti di ricerca a dimostrare dove porta la narrazione del Ddl Calderoli: l’Italia della salute si presenta, ad esempio, già fratturata in più punti con il federalismo che c’è e quello che verrà rischia di spaccarla definitivamente con la Calabria fanalino di coda.

Il rapporto del «Centro per la ricerca economica applicata in Sanità» dell’università di Tor Vergata, presentato a Roma, parla chiaro: la mappa che ne riassume il contenuto si mostra in verde al di sopra dell’Umbria, gialla dal Lazio in giù e tristemente rossa in Basilicata, Calabria e Sicilia. I colori rispecchiano le performance di salute, sintetizzate in un indice che tiene conto di equità, esiti, appropriatezza e innovazione del servizio sanitario.

«La valutazione 2024 delle Performance regionali in tema di opportunità di tutela socio-sanitaria offerta ai propri cittadini – si legge nel rapporto – oscilla da un massimo del 60% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) a un minimo del 26%: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria». Desolante la conclusione: «Il divario fra la prima e l’ultima Regione è decisamente rilevante: un terzo delle Regioni non arriva a un livello pari al 40% del massimo ottenibile».

Se «sembra essersi registrato una significativa riduzione delle distanze in termini di opportunità di tutela della salute fra Meridione e Settentrione», spiega il rapporto, è perché le Regioni con le performance migliori hanno smesso di migliorare «probabilmente a indicare l’esistenza di limiti strutturali nell’attuale assetto del sistema sanitario».

Un altro rapporto, quello dell’Istat, conferma in «Noi Italia 2024» pubblicato 5 giorni fa con un capitolo su «sanità e salute». Anche l’Istat mostra che l’Italia è fatta da più Paesi in uno. Gli abitanti di Calabria e Campania, ad esempio, dispongono di 2,2 e 2,5 posti letto in ospedale ogni mille abitanti e la Calabria è quella che ne ha tagliati di più tra il 2020 e il 2022 (-17%).

In Emilia-Romagna (3,6) e in Trentino (3,7) sono quasi il doppio e in entrambe le Regioni si è registrato un aumento di posti letto del 7% in un biennio. Il risultato in termini clinici è crudo quanto diretto: nel Nord-est il tasso di mortalità evitabile è di 16,9 decessi per diecimila abitanti e nel sud di 21,8, quasi 5 in più. Campania, Molise e Sicilia sono le regioni in cui si muore di più sia per patologie trattabili (cioè che potrebbero essere curate con un’assistenza migliore) che per quelle prevenibili con interventi su stili di vita e vaccinazioni. Persino la mortalità infantile del mezzogiorno (3,2 ogni mille nati vivi) è più alta rispetto alla media nazionale (2,6).

La mobilità sanitaria, cioè il numero di pazienti che si spostano da una regione all’altra per le cure, infine è in aumento. La regione più ricercata è l’Emilia-Romagna, dove l’immigrazione sanitaria è in costante aumento dal 2018 e il saldo tra chi arriva e chi parte supera anche quello della Lombardia.

Dopo la lettura dei dati assumono un significato sinistro le parole con cui il ministro della salute Schillaci commenta l’impatto della riforma sul diritto universale alla salute: «L’autonomia differenziata già esiste in sanità – ha provato a rassicurare il radiologo – Le Regioni hanno grande autonomia e in questo settore cambierà poco». In peggio ovviamente. Questi, dunque, sono i fatti, il resto chiacchiere.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 giugno 2024.

Autonomia differenziata, l’autocritica mancata di Bonaccini. – di Francesco Pallante

Autonomia differenziata, l’autocritica mancata di Bonaccini. – di Francesco Pallante

Tra le fake news che – come denunciato da Massimo Villone sul manifesto – circolano in tema di autonomia differenziata, assai radicata è quella secondo cui la posizione dell’Emilia-Romagna sarebbe qualitativamente diversa da quella del Veneto e della Lombardia.

È la tesi sostenuta dal presidente regionale uscente, Stefano Bonaccini in molteplici occasioni, l’ultima delle quali in una recente intervista a Repubblica, in cui formula due argomentazioni: che la decisione emiliano-romagnola di unirsi al Veneto e alla Lombardia è stata «condivisa con tutte le parti sociali e senza mai un voto contrario in consiglio regionale» e che «la richiesta dell’Emilia-Romagna riguardava solo alcune delle 23 materie potenzialmente previste, soprattutto limitate e specifiche funzioni all’interno di queste».

LA PRIMA ARGOMENTAZIONE è, tecnicamente, una chiamata di correi (politici): mira a ricordare che le associazioni, i sindacati e tutte le forze politiche a sinistra e a destra del Pd (incluso il M5S, ovunque lo si voglia collocare) hanno sostenuto la decisione emiliano-romagnola di imboccare la via dell’autonomia differenziata. In questo, Bonaccini ha le sue ragioni: se è vero che la forma di governo regionale iper-presidenzialista assegna al presidente un peso preponderante, è altresì vero che nessuno tra coloro che operavano attorno a lui – nemmeno l’ex vice-presidente dal 2020 della regione, Elly Schlein – ha provato a fare da contrappeso. Non è vero, però, che questo schieramento unanime sia una peculiarità emiliano-romagnola, dal momento che, sia pure a parti inverse, esattamente lo stesso è accaduto ai referendum consultivi tenutisi nel 2017 in Veneto e in Lombardia (sebbene, in quest’ultima regione, con qualche indecisione da parte delle forze di centrosinistra).

Quanto alla seconda argomentazione, occorre ricordare che la gran parte delle richieste delle tre regioni copre, in modo identico, i medesimi ambiti: il Veneto chiede tutte e ventitré le materie in astratto richiedibili, la Lombardia ne chiede venti e l’Emilia-Romagna sedici. Al di là delle materie, è corretto, come dice Bonaccini, guardare alle funzioni in cui ogni singola materia si articola. Chi lo facesse scoprirebbe, però, una realtà diversa da quella edulcorata dal neoparlamentare europeo. Se una differenza d’approccio connota la posizione dell’Emilia-Romagna è, infatti, la propensione ad avanzare richieste forse meno estese, ma all’atto pratico non di rado persino più incisive rispetto a quelle delle regioni a guida leghista.

PARTICOLARMENTE RILEVANTI sono i casi dei musei (che la regione vorrebbe vedere tutti, inclusi quelli statali, acquisiti al proprio governo), del governo del sistema dei trasporti (che include tutte le reti viarie e ferroviarie), dell’ambiente e del territorio (ambiti in cui le richieste regionali mirano alla facoltà di agire in deroga alla normativa statale in modo da allentare gli attuali vincoli di tutela) e degli enti locali (rispetto ai quali l’Emilia-Romagna rivela una spiccata volontà di centralismo regionale).

Il caso forse più eclatante è però quello dell’istruzione, in cui la regione a guida Pd mira a dar vita a un sistema scolastico regionale parallelo a quello statale, da porre in concorrenza con quest’ultimo in modo che le famiglie scelgano se iscrivere i figli a frequentare l’uno o l’altro. Merita ricordare le parole usate nella bozza d’intesa Stato-regione trapelata nel maggio 2019, secondo cui l’obiettivo è «garantire in ambito regionale la realizzazione di un sistema unitario e integrato di istruzione secondaria di secondo ciclo e di istruzione e formazione professionale (Iefp) che, nel rispetto delle autonomie scolastiche, permetta di sviluppare le competenze dei giovani in coerenza con le opportunità occupazionali del territorio e con le professionalità richieste dalle imprese, assicurando il diritto effettivo dei giovani di scegliere se assolvere il diritto-dovere all’istruzione e formazione nel “sistema di istruzione”, di competenza statale o nel “sistema di istruzione e formazione professionale” di competenza regionale».

In tal modo, il più importante strumento di costruzione dello spazio simbolico di appartenenza collettiva, la scuola, passerebbe al controllo regionale: difficile non cogliere le conseguenze negative che ne deriverebbero per la tenuta del sentimento di solidarietà – politica, economica e sociale – nazionale sancito, come dovere inderogabile, dall’articolo 2 della Costituzione.

Insomma: se tra il regionalismo differenziato di Veneto e Lombardia, da una parte, ed Emilia-Romagna, dall’altra, vi è una qualche (modesta) differenza quantitativa, dal punto di vista qualitativo è difficile cogliere uno scarto davvero significativo.

da “il Manifesto” del 26 giugno 2024

Corridoi umanitari contro il governo che prepara stragi. –di Tonino Perna

Corridoi umanitari contro il governo che prepara stragi. –di Tonino Perna

Continuano le stragi dei migranti, volute, pianificate lucidamente da chi governa il nostro Paese. L’ultima a largo di Roccella Jonica, dove la Guardia costiera era stata avvisata tre giorni prima del naufragio. D’altra parte cosa vogliamo da un governo che obbliga le navi delle Ong a portare i naufraghi che soccorrono nel porto più lontano possibile in modo che non ritornino subito nel canale di Sicilia per soccorrerne altri. E se nel tragitto che si allunga per diversi giorni muoiono persone fragili, feriti, ammalati, è meglio per questo governo che vede nella strage dei migranti un deterrente per nuove partenze. In modo da poter dire «noi abbiamo ridotto drasticamente gli sbarchi dei clandestini»..

Purtroppo siamo arrivati a questo punto di cinismo e disumanità anche per colpa di governi precedenti, di chi ha fatto i primi accordi criminali con la Libia, di chi nel centro sinistra si vantava di aver ridotto il numero dei migranti che sbarcano sulle coste italiane. E non possiamo più solo manifestare rabbia e dolore, né rassegnarci, ma dobbiamo provare ad indicare una alternativa valida e percorribile. In questa direzione una strada da perseguire è quella dei corridoi umanitari, che in Italia sono nati nel 2015 con un accordo tra lo Stato , la Federazione delle Chiese Evangeliche e Sant’Egidio, a cui poi si sono aggiunti la Caritas, l’Arci e altri. Lo Stato italiano dà solo i visti per entrare nel nostro Paese come rifugiati mentre tutte le spese sono a carico delle istituzioni religiose e non.

Finora sono così arrivati in Italia, soprattutto provenienti dal Libano, poco più di 5.000 persone. Una goccia nel mare magnum del bisogno di fuggire da guerre, fame e mutamenti climatici. Ma, un’esperienza pilota, che ho avuto la fortuna di seguire da vicino e che posso dire, dati alla mano, che si tratta di una modalità di accoglienza di successo. Già nel 2020 la Comunità di Sant’Egidio aveva stilato un primo quadro: su 1000 rifugiati, di cui il 40 per cento minori, dopo due anni 156 si erano resi completamente indipendenti e 304 dipendevano solo dal pagamento dell’alloggio. Altrettanti buoni risultati sono stati ottenuti anche in realtà economicamente deboli come la regione Calabria che ha il più alto di disoccupazione e il più basso reddito pro-capite, dove i profughi siriani, sostenuti economicamente dall’8 per mille della Tavola Valdese, hanno trovato tutti un lavoro dignitoso, alcuni si sono già comprati la casa, e costituiscono una grande risorsa per questo territorio.

Se prendessimo come riferimento il Canada che in pochi anni, attraverso i corridoi umanitari, ha accolto più di 50.000 profughi nel proprio paese, allora potremmo passare dalla testimonianza ad una politica dell’accoglienza che ha un valore che va al di là di quello che pensiamo. Infatti, per ogni migrante che riesce ad arrivare in Europa o Nord America con i corridoi umanitari si crea una aspettativa positiva per decine di altri che vorrebbero partire e che, se non trovano alternative, non gli resta che rischiare la vita salendo su un barcone. Abbiamo incontrato profughi che hanno aspettato anni prima di essere chiamati, ma che hanno intravisto questa possibilità e si sono aggrappati a questa speranza.

Il virtuoso modello canadese funziona perché coinvolge diversi soggetti, dalle imprese alle ong alle associazioni religiose e non, per finire con le Università che possono giocare un ruolo importante, mentre lo Stato non si limita a rilasciare i visti ma copre una metà del budget necessario. Compito di chi accoglie è quello di inserire economicamente, socialmente e culturalmente queste persone, accompagnandole fino alla loro totale autonomia.

Se il miliardo di euro che verrà speso per il campo di concentramento albanese, crudele e inutile, venisse impiegato per accogliere una parte dei rifugiati che sopravvivono di stenti nei vari campi gestiti dall’Onu, allora ne potremmo accogliere in Italia qualcosa come 50.000 persone, in base ai dati della Tavola Valdese , sulla base di sette anni di attività. Se poi il resto della Ue ci seguisse su questa strada potremmo arrivare ad accogliere con i corridoi umanitari 350-400 mila persone ogni anno, aprendo un canale legale di accoglienza vera e fruttuosa, un’alternativa all’attuale sistema.

da”il Manifesto” del 26 giugno 2024

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

L’avevo previsto e l’ho scritto: Forza Italia non può accettare supinamente la legge che vara l’Autonomia Differenziata. La sua base elettorale, le Regioni che governa, sono tutte nel Sud. D’altra parte non può, e non vuole, uscire dal governo, far cadere questa solida maggioranza di destra, rischiando di restare in mezzo al guado, non più alleata con la Destra-destra, ma neanche accolta dal Centro Sinistra.

In mezzo alla corrente si rischia di scomparire, di essere travolti se non si trova una via d’uscita. Probabilmente, Forza Italia potrà uscirne da questa imbarazzante situazione sperando di mettere bastoni burocratici alla implementazione di questa legge “spacca Italia”. Ma, si tratta di tattica, di prendere tempo mentre avanza la richiesta di austerità da parte della Ue, finisce la sbornia del Pnrr, la droga del 110 per cento, e bisognerà restituire la parte di prestito contratto che va ad aggiungersi ad un debito pubblico insostenibile.

Con una recessione alle porte, sperando che i sempre più preoccupanti venti di guerra non ci travolgano prima, l’Autonomia Differenziata rappresenta il colpo finale, la mannaia che taglierà la testa a chiunque pensi di governare le regioni meridionali.

Di fronte a questa sfida di portata storica le popolazioni del Mezzogiorno, in misura crescente, stanno prendendo coscienza che è necessaria una mobilitazione, scendere in piazza e partecipare in massa alla raccolta firme per il referendum. Ma, attenzione, a non creare, nei fatti, una Lega Sud contro il Nord che ci porterebbe a sbattere contro un muro. Intanto il Nord non è un blocco omogeneo, ma esistono forti differenze al suo interno.

Per esempio, la Liguria è una regione che riceve dallo Stato più di quanto versi attraverso le imposte, circa il 13% del suo budget scomparirebbe con l’Autonomia Differenziata (A.D.). ma anche regioni del Nord a Statuto speciale, come il Trentino-Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta, avrebbero solo da perdere dalla A.D. , visto che lo Stato contribuisce in maniera importante, soprattutto in Valle d’Aosta, a mantenere il livello attuale di reddito e consumi.

Naturalmente stessa sorte toccherebbe alle regioni autonome del Sud, Sicilia e Sardegna, malgrado rassicurazioni varie da parte del governo. E non a caso, al di là del colore politico, governatori delle due isole maggiori hanno apertamente espresso il proprio dissenso.

Pertanto, c’è un lavoro determinante da portare avanti. Fare conoscere, con numeri alla mano, l’impatto sulle singole regioni che l’A.D. comporterà se non viene fermata prima. Ci sono poi singole categorie che non accettano di essere frantumate, parcellizzate, come ad esempio i Vigili del Fuoco che hanno già espresso in Veneto la loro contrarietà alla A.D. Così come tra gli insegnanti che non accettano una regionalizzazione dei programmi scolastici per diverse ragioni, sia didattiche, sia di mobilità territoriale, sia di qualità dei programmi.

Credo che si arriverà, con i Consigli regionali o con la raccolta firme, ad un referendum per abrogare questa legge. La risposta del governo Meloni sarà quella di usare l’arma più semplice ed efficace per vincere: chiedere agli italiani di non andare a votare. Dato che per essere valido un referendum abrogativo deve far registrare oltre il 50 per cento di votanti tra gli aventi diritto, basterà che gli elettori della Destra si astengono per perdere anche se i Sì raggiungessero il 100 per cento. Quindi bisogna evitare che passi come una ennesima sfida meloniana: o con me o contro di me. Ovvero: après moi le déluge.

Innanzitutto, bisognerà convincere dell’utilità del voto quel 50 per cento di elettori che negli ultimi anni non hanno partecipato alle elezioni politiche e amministrative. Compito non facile ma non impossibile se le argomentazioni saranno convincenti, basate su dati e non su slogan o invettive, salvo il richiamo all’Unità del nostro paese che questa legge mette seriamente in crisi, facendo aumentare in maniera insostenibile le disparità territoriali. Anche dentro il mondo elettorale dei FdI ci sono e ci saranno coloro che non vogliono che questo partito ( condizionato dal baratto con la Lega “ io ti do l’A.D. e tu mi dai il premierato”), si trasformi in Brandelli d’Italia, secondo l’efficace espressione della Elly Schlein.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 giugno 2024

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata siamo in una terra di mezzo. La legge Calderoli ha stabilito una procedura per giungere alla devoluzione delle materie alle Regioni che le richiedono. La strada è spianata, restano le intese per completare l’opera.

Sarà così raggiunto un traguardo storico irreversibile. Non spetterà più allo Stato salvaguardare i diritti fondamentali su tutto il territorio nazionale, ma alle singole Regioni in base ai negoziati definiti separatamente con il governo. Sarà la fine della solidarietà nazionale e di ogni idea di Paese unitario.

Un esito posto al riparo anche da eventuali ripensamenti: le intese, che verranno definite dal governo in carica e dall’attuale ministro per le autonomie, verranno approvate da un parlamento silente a maggioranza assoluta e non potranno neppure essere sottoposte a referendum abrogativo. In vigore per l’eternità, nonostante l’ipocrita previsione di una durata decennale delle intese (e poi che succede se non c’è il consenso della regione a recedere?). Tutto è ormai pronto perché si cambi volto alla Repubblica.

Che fare per impedire quest’esito annunciato? Qualcosa si può ancor tentare, ma è necessario attivarsi subito e avere ben presente virtù e limiti entro cui si può operare. Sono misure che sono state discusse più volte da questo giornale, ma è bene ricordarle.

LA PRIMA PAROLA spetta alle Regioni. Esse possono portare la legge appena votata difronte alla Consulta. Basta che una regione eserciti quel diritto che l’articolo 127 della Costituzione gli attribuisce. In questo articolo si stabilisce che entro 60 giorni dalla pubblicazione di una legge le Regioni possono promuovere una questione di legittimità per lesioni della propria sfera di competenza. Sino ad ora abbiamo sentito molti presidenti, soprattutto di Regioni meridionali, alcuni anche di destra, denunciare i rischi che l’adozione delle intese produrrebbero sulla stabilità del Paese. Ora hanno la possibilità di far valere le loro ragioni difronte alla Consulta.

Una verifica sul punto mi sembrerebbe doverosa e persino rispettosa dei reciproci ruoli dello Stato e delle Regioni. Sarebbe invece pessimo il segnale se non ci fossero questi ricorsi. Perché si dimostrerebbe che i rappresentanti istituzionali non sono in grado di reagire facendo invece prevalere calcoli politici o (nel caso delle regioni attualmente governate dalla destra) fedeltà di maggioranza. Una dimostrazione di come l’autonomia regionale abbia operato nel profondo.

Quale sarà l’esito del ricorso, cosa deciderà la Consulta, non può essere detto. Per ora si tratta di far valere tutte le ragioni che determinerebbero violazioni di articoli e principi costituzionali a partire da quello d’eguaglianza e la ritenuta lesione dei diritti fondamentali nelle diverse parti del territorio nazionale. Poi la parola passerà alla Corte.

La seconda strada che è possibile percorrere è quella della richiesta di abrogare la legge appena approvata per via referendaria. Non è una via alternativa alla prima, semmai complementare. Non riguarda la illegittimità costituzionale della legge Calderoli, ma il merito politico. Può essere attivato da 500mila elettori o da cinque consigli regionali. Anche in questo caso sarebbe fisiologico che una legge tanto controversa e contrastata da vasti settori dell’opinione pubblica provocasse l’attivazione di quello strumento di partecipazione che la Costituzione mette a disposizione: il referendum, appunto.

Vedo che l’intera opposizione, finalmente unita, afferma di voler precorrere questa strada. Bene, una reazione decisa. Qual è lo scandalo se chi non ama una legge così importante vuole sottoporla al giudizio popolare? Anche in questo caso potrebbe dirsi: se non in questo caso, quando?

da “il Manifesto” del 25 giugno 2024

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Che cosa è successo ieri con la definitiva approvazione della legge sull’autonomia differenziata? Da un punto di vista giuridico ben poco. Non è stato concesso alcun potere. Per quello, bisognerà attendere la firma, e poi la ratifica, di intese fra lo Stato e ciascuna regione. Il confronto politico, delle idee, si sposta quindi sul piano della conoscenza e della discussione di quei contenuti. Tra l’altro, essendo quella approvata una legge ordinaria, qualsiasi sua disposizione può essere modificata da una norma successiva. La battaglia è ancora lunga.

Ma sono stati raggiunti almeno tre importanti obiettivi. Il primo è la rinnovata coesione nella maggioranza, a qualsiasi condizione. Anche a costo di approvare una norma, che deriva dall’antica predicazione leghista, che può disarticolare lo Stato e trasformare l’Italia in un Paese arlecchino. Che cozza frontalmente con la cultura politica di Fratelli d’Italia: girano in Rete le bellicose dichiarazioni di Giorgia Meloni del dicembre 2014, con le quali presentava la sua riforma costituzionale per abolire le regioni, fonte a suo dire di ogni spreco. Oggi le trasforma in Stati-regione dall’ampia sovranità. Una maggioranza che preoccupa: per tanti motivi ma anche perché è disposta a compiere qualsiasi scelta pur di restare al potere.

Il secondo è l’auto-mortificazione del Parlamento. I deputati di maggioranza, con questa legge, hanno deciso di privarsi del diritto-dovere di discutere a fondo i contenuti delle intese, cioè di riflettere su quali poteri, a oggi incardinati nel legislativo nazionale, saranno ceduti. Con un anticipo del premierato, scegliere che cosa e quanto concedere lo decide la presidente del Consiglio; a deputati e senatori spetterà, al termine del percorso un voto di mera ratifica; di giubilante approvazione delle scelte del capo. Così, con queste tristi pagine di storia parlamentare potrebbero avere fine il Servizio sanitario nazionale, la scuola pubblica unitaria, il sistema delle infrastrutture e dell’energia.

Il terzo è che si fornisce un’arma di propaganda. Si dice: con questa legge saranno garantite pari condizioni nei servizi nel Mezzogiorno grazie ai famosi Lep. Che sia una bufala, nonostante le predicazioni di Sabino Cassese è facile intuirlo: chi potrebbe mai ragionevolmente pensare che Luca Zaia e Attilio Fontana abbiano fatto questa lunga lotta per far arrivare più risorse al Sud? Come è evidente da tutti i documenti, l’obiettivo è esattamente il contrario: trattenerne il più possibile nei propri confini. Questo si otterrà grazie a una percentuale garantita del prelievo fiscale nazionale che rimarrà in regione (la “compartecipazione”).

Altro che responsabilizzazione delle classi dirigenti. Un bengodi. Lo Stato, cattivo, tassa; la Regione, buona, spende, senza vincoli di destinazione. Quanto ai Lep, abbiamo un impegno con l’Unione europea a stabilirli, e a mettere a regime tutta l’impalcatura del federalismo fiscale, nel Pnrr. Richiedono comunque risorse che non ci sono. Ma a ogni buon conto, il governo ha pensato bene di nominare presidente della commissione tecnica che dovrà fare i conti, una consulente ufficiale della Regione Veneto. Non si sa mai.

E ora? La strada per i sostenitori della secessione dei ricchi si è fatta più agevole, ma è ancora lunga. Per chi vuole opporsi, ci sono più piani. Il primo è quello della mobilitazione politico-culturale generale su questa assurda idea di Paese arlecchinesco. Coinvolgendo i cittadini, del Sud e del Nord. Cercando di far pagare un prezzo politico elevato a Forza Italia e a Fratelli d’Italia. Nel Mezzogiorno ci sono possibilità, come mostrano le posizioni molto perplesse del presidente forzista della Calabria, ma questo va fatto anche e soprattutto nelle città del Nord, finora troppo distratte.

Il secondo, è quello di marcare stretto il governo sui possibili contenuti delle intese, che inizialmente possono riguardare solo alcune materie (cosiddette non-Lep). C’è certamente una trattativa regioni-ministeri in corso, di cui Parlamento e cittadini non sanno nulla. E allora chiedere alla presidente: se questo cambiamento fa così bene all’Italia, perché ne nascondete gli effettivi contenuti? Parliamo della follia di spezzettare la Protezione civile, ad esempio?

Infine, come ricorda Massimo Villone, c’è la possibilità dei ricorsi in via principale di alcune regioni (auspicabilmente del Nord e del Sud) alla Corte Costituzionale. Assai meno importante la strada referendaria, per i suoi tempi e contenuti (anche se si abolisse questa legge le intese successive resterebbero valide).

Insomma, il 19 giugno non resterà nella memoria della Repubblica come una giornata felice. Ma tempo e modo per contrastare la secessione dei ricchi ancora ci sono.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 giugno 2024

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Una nuova violenza alla qualità della vita della nostra città si sta consumando in questi giorni, in queste ore. È infatti in corso l’abbattimento di un edificio su Corso Umberto nel quartiere storico Riforma – Rivocati (il caso vuole iniziato nella distrazione generale di un fine settimana) probabilmente per fare posto ad un altro ecomostro, come i due già esistenti, in sfregio a qualsiasi idea urbanistica e a qualsiasi senso del decoro e della bellezza.

Per avere notizie sulle procedure che hanno portato all’abbattimento dell’edificio, abbiamo già inviato una richiesta di accesso agli atti alle autorità competenti e ci auguriamo che siano accertate regolarità, trasparenza e legittimità. Su quanto invece dovrà sorgere vogliamo esercitare tutto il nostro potere di cittadini e abitanti preoccupati: visti i precedenti, come sarà riempito quel vuoto?

Chiediamo alla politica, alle associazioni che hanno ottenuto importanti e legittimi finanziamenti per la rigenerazione del quartiere, in particolare al nostro Sindaco che recentemente ha dichiarato che “sta prendendo forma la città bella e armonica che ho promesso” di farci capire, di prendere posizione, di mettere in campo tutte le azioni a tutela dalla collettività, compresa la richiesta di parere alla Soprintendenza, affinché non venga realizzato un altro ecomostro come quelli già esistenti nell’area ma edifici che rispettino le leggi cogenti in materia di urbanistica, sicurezza e efficientamento energetico.

E chiediamo pure al presidente dell’ANCE (associazione costruttori) di Cosenza di responsabilizzare tutti gli attori della filiera edilizia per preservare il tessuto urbano ereditato e veicolare il concetto che fare profitto in edilizia si concilia soltanto con il massimo sforzo in termini di qualità del costruito, generando pure benessere per tutti, piuttosto che realizzando palazzoni deformi e totalmente decontestualizzati.

Allo stesso modo invitiamo i presidenti degli Ordini Provinciali degli Ingegneri e degli Architetti di Cosenza a far rispettare i principi cardine dei rispettivi Codici Deontologici che prevedono doveri e responsabilità (di ingegneri, architetti, paesaggisti) nei confronti della collettività, dell’ambiente e del benessere delle persone.

Vogliamo evidenziare l’importanza della qualità architettonica e dell’inserimento del nuovo nel contesto del paesaggio urbano, aspetto, questo, decisamente trascurato nei due casi di edifici abnormi di recente costruzione, e ciò malgrado siano sorti in un’area di valenza storica largamente riconosciuta, non a caso oggetto di recente approvazione del vincolo paesaggistico.

Il Coordinamento Diritto alla Città rivendica l’adozione di ogni provvedimento di legge finalizzato alla massima tutela della qualità del costruito da parte degli Enti preposti, ricordando che ogni nuovo ecomostro deturpa per sempre la città. Siamo ancora in tempo per arrestare l’ennesimo obbrobrio, è il momento di dire basta agli ecomostri a Cosenza.

Comunicato stampa del
COORDINAMENTO ‘DIRITTO ALLA CITTA’

AUSER TERRITORIALE COSENZA ETS
CIROMA
CIVICA AMICA APS
CONFEDERAZIONE ITALIANA GENERALE LAVORATORI (CGIL) di COSENZA
LA BASE
PRENDOCASA
RI-FORMAP APS
RIFORMA – RIVOCATI APS
UNIONE SINDACALE di BASE (USB) FEDERAZIONE di COSENZA

Sì alla separazione delle carriere, no alla responsabilità dei giudici.-di Enzo Paolini

Sì alla separazione delle carriere, no alla responsabilità dei giudici.-di Enzo Paolini

Il dibattito si incentra su tre questioni: a) responsabilità dei giudici, ovvero chi sbaglia paga, come in qualunque attività; b) separazione delle carriere; c) composizione e metodo elettorale del CSM.

Parto dall’ultima, il CSM, previsto in Costituzione come organo di autogoverno con specifica e peculiare competenza sulle carriere e sulle procedure disciplinari. Sta di fatto che in coincidenza con la progressiva e disastrosa perdita di peso e di autorevolezza dei partiti e della conseguente delegittimazione del Parlamento è emersa sempre più la funzione di supplenza e di pregnanza della Magistratura nella amministrazione dello Stato; così il CSM è diventato una sorta di terza Camera con funzioni consultive o interdittive rispetto ad un Parlamento inane, ed ha acquisito un enorme, straripante potere gestendo le nomine dei Magistrati dirigenti dei distretti giudiziari strategici, i potentissimi “apicali”, quelli che dispongono sopra e oltre, o contro, la politica.

E qui sta il problema: la politica, quella squalificata, delegittimata, arruffona, (nel migliore dei casi) e imbrogliona (nel peggiore) che non governa più nelle aule parlamentari, nel modo regolato dalle procedure istituzionali e con le garanzie dei pesi e contrappesi costituzionali, rientra dalla finestra del CSM composto mediante elezioni appaltate a “correnti” alle quali poi rispondono, in tutto e per tutto, gli eletti.

Un chiaro corto circuito per la democrazia ma anche, a pensarci bene, per la amministrazione della Giustizia, quella quotidiana, quella che incontriamo noi cittadini. Esempio: quale giudicante non sarà condizionato nella sua decisione se il PM del processo che sta affrontando è un capo corrente che può decidere il dove, il quando e il come della vita di quel Giudice?

Problema di non poco conto che si ripresenta – sotto altre vesti – anche in relazione al secondo quesito: la separazione delle carriere.
La commistione non è certezza di parzialità ma non è neanche indice di terzietà.

Qui, in questo ibrido, sta il clima che si vive nei Tribunali del Paese e non è un bene per la serenità dei cittadini che vi entrano e per la certezza del diritto o dei diritti che si invocano.

E così si arriva alla prima questione: la attribuzione della responsabilità a chi, sbagliando nello svolgimento del suo lavoro abbia causato ad altri un danno ingiusto. Concetto semplice e lineare valido per tutte le professioni esercitate secondo regole e protocolli conosciuti e riconosciuti. Il Ministro Nordio ha pensato di istituire una “Alta Corte” che, però, non risolve il problema.

Intanto ricordiamo che la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile un quesito referendario sul punto. E bene ha fatto perché – a parte la motivazione tecnica (sarebbe un referendum innovativo e non abrogativo) – la disciplina della responsabilità diretta, non può applicarsi ai Magistrati se si guarda al bene ed alla tenuta di uno Stato democratico.

E ciò per due motivi che spesso sono oscurati dal comprensibilissimo risentimento provocato da palesi ingiustizie o da grossolani, imperdonabili errori.
Il primo: non è vero che lo sbaglio del Magistrato non è sanzionato. Lo è attraverso il regime delle impugnazioni che possono correggere gli errori di ogni tipo commessi nel corso del processo penale o della causa civile. Così come è possibile anche ottenere dallo Stato i risarcimenti dovuti per i casi di danno economico o al bene della vita (ad esempio l’ingiusta detenzione). La responsabilità non può che essere indiretta perché il Magistrato amministra la giustizia non in proprio ma in nome del popolo italiano.-

Il secondo: chi è che stabilisce se il Giudice ha sbagliato? Un altro Giudice, ovviamente. Ma anche questo potrebbe sbagliare nel giudicare il primo. E potrebbe essere accusato di aver commesso uno sbaglio. E chi giudicherebbe in questo caso? Un altro Giudice. Ma anche a questo può essere imputato un grave errore, e così via. Insomma si innesterebbe una spirale di giudizi tale da minare definitivamente la credibilità, l’efficienza e l’equità del sistema giudiziario, a scapito della garanzia e nella serena sicurezza che necessita al cittadino nello svolgimento delle quotidiane attività della vita.

Ovvio che non è in discussione l’ipotesi del dolo o della corruzione, già ampiamente sottoposta alle norme del codice e delle leggi penali applicabili a tutti ed al rispetto delle quali i Magistrati non sono affatto sottratti.

La conclusione di questo ragionamento è che occorre ritornare, in fretta, allo spirito ed alla lettera della Costituzione. Il Magistrato può sbagliare, e se così non fosse, se cioè dovessimo pretendere un giudice infallibile, esente da errori non dovremmo tenere in piedi un sistema che prevede gli annullamenti, le riforme, le revisioni e le cassazioni delle sentenze.

Sbagliano, certo. Ma non possono essere mai, in nessun caso – salvo per fatti costituenti reato – esposti alla sindacabilità del loro operato da altri che non sia il Giudice della impugnazione.
Perché essi sono sottoposti più degli altri a giudizi sul loro operato.
Per questi motivi – però – occorre che il CSM sia impermeabile da influenze politiche e che le carriere di Giudice e PM siano separate.
Si può fare?

In questo senso va la forte, pressante richiesta di una seria riforma della Giustizia. Che però – ed è qui la considerazione finale – non può che passare per una nuova legge elettorale in senso proporzionale puro, come richiesto dal comitato che ha avviato la raccolta delle firme per un referendum sul punto e che è ispirato alla figura del grande costituzionalista Felice Besostri.

Solo un parlamento autorevole e di veri “eletti” può mettere mano a questa materia incandescente senza bruciarsi o ritrarre la mano.
Il Parlamento attuale è fatto da nominati che la possono solo alzare, la mano. A comando.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 giugno 2024

Basta movida chiassosa e maleducata.-di Battista Sangineto

Basta movida chiassosa e maleducata.-di Battista Sangineto

Negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia Covid-19, è dilagata in Italia, e solo in alcune città italiane, una moda pervasiva e particolarmente nociva: una movida maleducata e rumorosissima i cui protagonisti sono ‘giovani’ di tutte le età.

L’incontenibile proliferazione di bar, pub, ristoranti e locali notturni con relativi innumerevoli tavolini e dehors ha assecondato e favorito questa assoluta mancanza di rispetto del decoro e della quiete pubblica. Un’estensione a tutti i giorni dell’anno degli sfrenati Saturnali che nella Roma antica si svolgevano, però, solo dal 17 al 23 dicembre.

Basti pensare a Corso Mazzini, a Cosenza, che si presenta come un’unica assolata distesa di tavolini e dehors al centro dell’intero miglio di lunghezza lasciando, ai due lati, uno spazio meno ampio di quello che era percorribile dai pedoni prima della sua chiusura al traffico automobilistico.

Un budello vociante, maleodorante e maleducato, sul quale si affacciano ormai solo corrivi negozi di catene e spropositati monomarca globali che nulla ha a che vedere con la ‘piccola Broadway’, bordata di eleganti negozi che vendevano Dior e Fath, raccontata da Guido Piovene, fra il 1957 e il 1967, nel suo “Viaggio in Italia”. Una città che non ha più una stagione lirica, un cartellone di prosa degno di questo nome e un cinema d’essai, una città che, nell’ultimo quindicennio si è irrimediabilmente imbarbarita.

Ha prevalso una ‘movida’ selvaggia che ha metastatizzato anche le vie adiacenti e alcune altre aree della città al punto che può esser descritta, senza tema di smentita, per mezzo di un paradosso: una città ‘gentrificata’ senza progresso economico, sociale e culturale e, persino, senza sviluppo e senza turismo.

La metastasi si è estesa anche ad un intero quadrilatero residenziale della città di Rende, quello che va dall’Emoli al Surdo, che è stato trasformato nel quartiere degli ‘eventi’ e della movida perenne. L’ultima Amministrazione comunale ha concesso a privati l’area mercatale, a ridosso dell’area residenziale della Cep, per la Festa della Birra, ma anche il Parco del Surdo per farne il luogo di un Dj-set in occasione del 1° maggio e della discoteca all’aperto di un pub per quasi tutto il mese di giugno, fra i palazzi e le case residenziali di via Rossini e via Mosca.

Tutto questo senza farsi mancare rumorosi Circhi due o tre volte all’anno (con e senza poveri animali esotici), un tonitruante Luna Park, bar, ristoranti, pizzerie e locali che vomitano musica, da mane a sera inoltrata, ad altissimo volume praticamente per tutto l’anno. C’è da rilevare che ad un anno dall’insediamento dei commissari prefettizi a Rende non è cambiato nulla, a questo riguardo.

L’unificazione dell’area urbana è già stata realizzata grazie alla diffusione della musica a tutto volume, degli olezzi di cibo a tutte le ore e dell’ubriachezza molesta fra i palazzi dei residenti che magari non amano quella musica e che vorrebbero avere, invece, la possibilità di riposare, guardare in pace la tv, leggere un libro o fare due chiacchiere con amici e parenti fra le mura domestiche.

La responsabilità è, naturalmente, delle Amministrazioni locali che hanno elargito, con troppa facilità e lassismo, spazi pubblici in concessione e che hanno permesso che i privati facessero i loro interessi agevolandone i profitti che sono fondati sull’utilizzo a basso, o nessun, costo degli spazi pubblici e sulla complice indulgenza che le Amministrazioni hanno avuto e hanno nei riguardi dei suddetti imprenditori colpevoli, direttamente o indirettamente, di reati contro la quiete pubblica e il decoro.

Una politica che, per un labile consenso elettorale, ha voluto favorire un tornaconto economico per poche persone che sfruttano un centinaio di lavoratori mal pagati e a tempo determinato senza creare alcuna ricchezza per le città e nessun vero posto di lavoro qualificato e duraturo, come del resto dimostrano l’alta mortalità dei suddetti locali e le più recenti indagini socio-economiche (G. Bei-F. Celata 2023).

Voglio ricordare che a Parigi, e in tutta la Francia, le brasserie, i ristoranti e i locali non possono fare musica all’esterno, ma anche che in Germania la musica all’esterno dei locali e quella dei concerti deve finire alle 22.30 e, infine, che, nella scaturigine della ‘movida’, in Spagna ed in particolare a Madrid e a Barcellona, la musica all’aperto è ormai vietata e che le multe per gli schiamazzi notturni ammontano a 600 euro a persona.

Se proprio non si vuole stroncare questa incivile deriva assordante e maleodorante che non è permessa in nessun altro paese occidentale, occorrerebbe che le Amministrazioni allestissero, alla bisogna, aree lontane dalle residenze dei cittadini che hanno il costituzionale diritto alla salute che comprende il diritto di svolgere la propria vita secondo i propri ritmi di veglia-riposo.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 giugno 2024

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo? Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano.

A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale. Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori. Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti (Italo Calvino).

Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno.

Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano gia’ venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria.

Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.

Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi.

Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica. Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno.

Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia.

Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza. Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo?

Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato l’esatto contrario però.

Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni.

Esse non potevano avere più le finalità proprie dell’impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato. Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare.

Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori.

Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!

da “il Quotidiano del Sud”.

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

L’editoriale di Massimo Razzi ha avuto il merito di aprire un dibattito sull’unificazione dell’area urbana di Cosenza e sul consenso e sulle criticità che questa operazione comporta, interpretando il suo ruolo di direttore di un giornale regionale nel modo più alto ed esemplare.

Voglio dir subito che le supposte economie di scala e i presunti maggiori finanziamenti che si otterrebbero unificando, solo quantitativamente, i tre o quattro Comuni in una città più grande e popolosa non credo che siano davvero decisivi, ammesso che si concretizzino davvero. Quel che più mi preme è capire se la costituzione di una città unica della Media Valle del Crati possa migliorare lo spazio e la vita dei cittadini che vi abitano.

Credo che non sia possibile progettare l’unificazione -né da un punto di vista urbanistico, né da un punto di vista sociale, economico e culturale-prescindendo da una visione più ampia di quella che si può avere dai singoli campanili. La città dovrebbe esser governata avendo un’idea complessiva di tutta la Media Valle del Crati, di come possa armonicamente svilupparsi, di quali interventi strutturali ed infrastrutturali abbisogna e di quali improrogabili ricuciture e restauri necessiti questo vasto territorio.

L’unificazione, senza un’opera preventiva di armonizzazione e risanamento del paesaggio urbano, servirebbe solo ad aumentare quantitativamente quello che Rem Koohlaas (2001) definisce lo spazio-spazzatura, lo junkspace inutilizzabile dai cittadini, ma, con il tempo, eventualmente edificabile.

Non è discutibile che il centro di questo territorio sia la città di Cosenza perché senza di essa non sarebbe stato storicamente possibile che si sviluppassero gli altri paesi e casali. È evidente che non può che essere Cosenza il centro della conurbazione e che quest’ultima debba chiamarsi nello stesso modo. Cosenza ha, del resto, una antica storia di primazia perché, dal IV fino al II secolo a.C., è stata la capitale di questa parte del territorio dei “Brettii” e, più tardi, come colonia augustea e ‘municipium’ è stata il centro dell’”ager Consentinus”, esteso lungo la media valle del Crati.

Cosenza ha continuato, poi, ad essere non solo la capitale della Calabria Citeriore fino “aujord’hui”, essendo stata la città dell’Accademia cosentina e di Telesio, ma, in particolar modo, una città non infeudata e, quindi, a differenza di molte altre città meridionali, formalmente autonoma e indipendente.

La città è cresciuta, soprattutto nel secondo dopoguerra, per mezzo di apporti di popolazioni provenienti da tutta la provincia. Prendendo in considerazione tutta l’area urbana si è passati, grossomodo, da 40.000 a 110.000-130.000 abitanti in pochi decenni. I cosentini da più di tre generazioni sono, ormai, una esigua minoranza.

Chi scrive è l’esempio archetipico dell’abitante dell’area urbana: nato a Cosenza da un padre sanlucidano e una madre fuscaldese e, appena sposato, andato a risiedere in uno dei quartieri nuovi di Rende. Quando mi si chiede di dove sono rispondo, senza esitazione, che sono cosentino così come la maggior parte dei miei amici e conoscenti che ha, più o meno, la mia stessa storia. I quartieri nuovi di Rende, Castrolibero e, ora, anche Montalto sono abitati da vecchi cosentini, da neo-cosentini e da mai-cosentini che sarebbero diventati neo-cosentini se avessero trovato casa nel territorio del Comune capoluogo.

È del tutto evidente che il repentino, tumultuoso e disordinato inurbamento ha creato, e crea, notevoli difficoltà identitarie ai cittadini vecchi e nuovi, ma soprattutto ai mai-cosentini. L’unificazione formale dell’area urbana accompagnata da una radicale riprogettazione urbanistica condivisa con i cittadini potrebbe dare, forse, la possibilità che si formi un’identità riconosciuta e riconoscibile per i tanti cittadini che abitano in questo ampio territorio.

La città che vorrei dovrebbe essere costituita da un’area urbana che avesse come centro direzionale, culturale ed identitario Cosenza con il suo Centro storico restaurato e rivitalizzato, il suo Teatro, i suoi Musei, le sue biblioteche, i suoi antichi palazzi, i suoi uffici, le sue vie di negozi, le sue piazze antiche e moderne rivitalizzate.

Vorrei anche che- così come il Centro storico e le colline intorno alla città- tutta l’area otto-novecentesca di Cosenza sia sottoposta a tutela paesaggistica dal Ministero della Cultura e che lo siano pure le due rive del Crati, in tutto il suo percorso urbano, per impedire che si continui a consumare suolo. Sarebbe, inoltre, necessario che scompaiano le ‘perequazioni edilizie’ favorite dall’adottato, ma non ancora approvato, Psc che furbescamente si sostiene essere a “consumo di suolo zero”.

L’area urbana di Cosenza ha già, è vero, nel proprio territorio una città urbanisticamente ben disegnata come quella di Rende Nuova, verdeggiante d’alberi, con i suoi palazzi residenziali e i relativi servizi. Una città che contiene anche un polo propulsivo e innovativo rappresentato dall’Università, ma anche da aziende a tecnologia avanzata, magari spin-off dell’Unical che si sono insediate e che possono insediarsi nella sua zona industriale. Una città che, negli ultimi anni, ha subìto un evidente depauperamento del verde, si pensi ai tagli delle decine e decine di alberi ad alto fusto sani lungo le strade cittadine, e una preoccupante crescita del cemento armato che stava per essere aumentata dal nuovo Psc.

Per realizzare compiutamente ed armonicamente quest’area urbana, però, ci sarebbe bisogno, come “conditio sine qua non”, di porre termine alla colata cementizia che ha inghiottito l’antica campagna ovunque: nei territori di Cosenza, di Rende, di Castrolibero, di Montalto risalendo ad est fino alle pendici della Sila, Rovito, Celico, a sud fino a Donnici, ad Ovest fino a S. Fili.

Una metastasi cementizia che ha lasciato dietro di sé, oltre che una edilizia perlopiù corriva e dimenticabile, una sparsa moltitudine di segmenti residuali che non sono adatti né per l’agricoltura, né per abitarvi, una cementificazione che ha prodotto una terra di nessuno, il “terzo paesaggio” evocato da Gilles Clement (2005). Si poteva realizzare, come ha teorizzato Rem Koolhaas (2020) per l’Olanda, un “intermedi-stan” o terra intermedia, possibilmente alberata, e contemporaneamente provare a fare una paziente e laboriosa opera di rattoppo fra le città e le periferie, le città e le campagne.

Ho già scritto su questo giornale che, secondo gli ultimi dati Istat (2023), la Calabria ha il 42,2% di case vuote e che la cosiddetta area urbana cosentina ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza il 20,7%, Rende il 17%, Montalto Uffugo il 14,4%. In questa area urbana, dunque, se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero ci sono 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole -grazie ai PSC (ora si chiamano così i Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende- colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

L’unificazione di questa area urbana così complessa, frammentata e diseguale da un punto di vista urbanistico, sociale ed economico non può esser fatta, ‘ex abrupto’, per legge, ma dovrebbe essere l’esito finale, di un processo lungo, laborioso e faticoso di armonizzazione frutto, anche, di un raccordo fra tutela paesaggistica e Psc municipali.

Sarebbe meglio che l’unificazione iniziasse, per esempio, con l’Unione dei Comuni sperimentando la gestione unica dei servizi più importanti: i trasporti, la viabilità, i rifiuti, il welfare e la scuola. Si deve, inoltre, tener conto dell’equilibrio finanziario fra i Comuni interessati perché se sappiamo che Rende ha un patrimonio di oltre 250 milioni a fronte di circa 40 di debiti, non sappiamo, invece, a quanto ammonta il patrimonio di Cosenza che ha circa 400 milioni di debiti.

Una fusione come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto costringerebbe i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini:
1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione
2) l’unificazione non può avvenire prima della scadenza del mandato, prefettizio e quindi governativo, dei commissari e prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala renderebbe l’espressione del voto dei cittadini rendesi democraticamente più debole.

Sono i cittadini che devono essere al centro della progettazione della città, sono i cittadini che devono riappropriarsi del diritto alla città (Lefebvre 1968 e Harvey 2012). Il diritto di ripensare la città risponde alla sfida più radicale e democratica: rilanciare la centralità del cittadino assicurando alle nuove generazioni dignità sociale e pieno sviluppo della persona (Settis 2014).

da “il Quotidiano del Sud” del 13 maggio 2024