Mese: dicembre 2018

Sull’autonomia lombardo-veneta. La piccola politica cantoniera italiana di Sandro Abruzzese

Sull’autonomia lombardo-veneta. La piccola politica cantoniera italiana di Sandro Abruzzese

 Gianfranco Viesti ha documentato con un’intensa e meritoria attività, quasi quotidianamente, l’assurdità dei meccanismi che distraggono risorse al Meridione per portarle altrove. Insieme a lui, sulle pagine del Mattino, Marco Esposito ha seguito e spiegato i vari e iniqui passi del federalismo fiscale all’italiana. L’altro giorno giustamente Viesti si appellava, su Twitter, agli amici progressisti del Settentrione che “vedono arrivare la secessione dei ricchi (…) e voltano la testa dall’altra parte”.

Che dire? Potremmo rispondere al prof. Viesti col Gramsci di Passato e presente: “Il problema delle classi dirigenti riguarda anche i suoi capi: bisogna distinguere se siamo di fronte a grande ambizione, la quale è indissolubile dal bene collettivo e dalla crescita generale degli strati sociali, oppure a piccola ambizione, la quale, attorno a sé, crea solo il deserto”.

Comunque sia, sono lontani i tempi in cui Max Weber sosteneva che “Lo scopo dello stato è la grandezza della nazione”. Occorre forse ancora ricordare che uno Stato è un progetto, e che gli italiani come popolo esistono grazie all’Italia e non viceversa. Si può poi discutere sulla natura e i risultati del progetto, ma se non si capisce questo assunto, non si capirà la parte nobile e spirituale della storia del Paese. Non si capiranno la Repubblica romana e i Pisacane, la Resistenza, i padri costituenti e i valori universali propugnati dalla Costituzione italiana. Anzi, rimarranno nell’immaginario solo gli scongiuri di Berlusconi durante l’inno di Mameli, insieme agli sproloqui di Pontida che vanno dai Borghezio, a Bossi, Zaia e Salvini, ai loro vecchi e nuovi epigoni meridionali.

Dunque, oggi non basta chiedersi che fine abbiano fatto i parlamentari meridionali o settentrionali, o i Cinque stelle: occorre chiedersi che ne è stato della passione e dello spirito per le “grandi ambizioni” di uguaglianza, soldarietà, reciprocità, nell’ambito dell’Italia e dell’Europa, e forse del mondo. Già, perché se chiunque anteponga interessi di fazione alla causa dello Stato è responsabile dello sfacelo dell’Italia e dell’Unione, l’inarrestabile regressione politica del Paese riporta dritta alle sue origini municipali.

E’ pur vero che alla spinta centrifuga e disgregatrice, a livello planetario, non è estraneo il tracollo culturale della sinistra occidentale successivo alla caduta del Muro, il quale ha aperto le porte alla globalizzazione e al finanzcapitalismo, e con essi a un vergognoso incremento delle disuguaglianze su scala globale (Bauman, Giddens, Gallino). Ed è vero che contestualmente, sul piano nazionale, si registra la perdita del ruolo di spina dorsale del Paese da parte dei defunti e smanellati partiti tradizionali.

Ma l’unione di queste direttrici, oggi che la spinta disgregatrice delle nostre forze regionali tribali si è fatta principale forza di governo, e il sogno di spaccare l’Italia sembra stia per avverarsi, produce e evidenzia il fatto che tutto il Paese è diventato tribale.

Siamo di fronte alla definitiva scomparsa di un universo politico e morale, le cui avvisaglie erano inoltre insite negli squilibri territoriali, socio-economici su cui l’Italia stessa, in maniera miope, è stata precedentemente edificata.

 

Nessuna traccia di grande ambizione, quindi, per non dire della lotta alle mafie, all’evasione, della redistribuzione del reddito, dell’arresto dello spopolamento e dell’emigrazione. Nessun vero e nobile progetto per il Paese nella sua interezza e integrità. Niente. Il resto di niente.

 

Molto più facile, anche se non certo nobile, arraffare la ricchezza prodotta come un fratellastro qualsiasi, svuotando la costituzione e la democrazia della loro già precaria tenuta.

E’ il grado zero della piccola politica cantoniera italiana. Non può che conseguirne l’allontanamento dalla costruzione di un’Europa più giusta e umana.

Se andrà come sembra, a vincere saranno le peggiori pulsioni di questo Paese: la visione di un mondo che, per dirla con Barthes, è solo qualcosa da spartire, lontano da qualsiasi ideale: il ritratto di un Paese abitato da un’umanità abbrutita e vile.

 

Sandro Abruzzese

Sud. La natura sociale di un crollo che l’Istat non vede di Tonino Perna

Sud. La natura sociale di un crollo che l’Istat non vede di Tonino Perna

Da quando è iniziata la Lunga Recessione, l’Istat constata il distacco crescente, in termini di reddito pro-capite, tra il Mezzogiorno e il resto del nostro paese.

Ma i dati raccontano solo una parte della realtà. E non sempre ci permettono di capire che cosa sta avvenendo nella vita quotidiana della popolazione meridionale. Alcune cifre dovrebbero essere integrate, altre debbono essere lette correttamente, con tutti i loro limiti.

Per esempio, il reddito pro-capite se non lo esprimiamo in termini di potere d’acquisto non comprendiamo il reale divario in termini di ricchezza e povertà delle famiglie.

Una famiglia operaia monoreddito che vive in un paesino delle aree interne del Sud, che è proprietaria di casa con un pezzetto di terra con orto e animali, ha una serie di legami sociali che consentono di usufruire di servizi alla persona gratuiti, e ha certamente un potere d’acquisto nettamente superiore a una famiglia operaia delle grandi città del Nord.

Quello di cui soffre è la mancanza di un lavoro qualificato per i figli, di scuole e trasporti che funzionino, di servizi socio-sanitari efficienti.

Il più grande danno al Sud durante questi dieci anni di crisi l’ha fatto lo Stato bloccando il turn over nella pubblica amministrazione, con una perdita di oltre 250mila posti di lavoro, e il taglio netto agli investimenti pubblici nelle infrastrutture che servono (altro che Ponte sullo Stretto per la cui progettazione/promozione sono stati spesi centinaia di milioni).

Rispetto al 2007 il Mezzogiorno odierno ha subìto un netto arretramento nell’offerta dei servizi socio-sanitari, nei trasporti locali, nelle scuole che sono a rischio e fatiscenti, nelle università che hanno perso mediamente il 30 per cento degli iscritti.

L’emigrazione, soprattutto giovanile, è ripresa a ritmi che non si erano mai visti, nemmeno nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale. L’Istat parla di un milione di meridionali che negli ultimi venti anni sono emigrati nel Centro-Nord. Ma, si tratta di una cifra che sottovaluta decisamente il fenomeno: l’Istat guarda ai cambi di residenza, ma centinaia di migliaia di giovani meridionali hanno abbandonato il Sud senza cambiare la residenza.

In diverse ricerche sul campo emerge un fenomeno migratorio ben più ampio e sconvolgente: possiamo stimare che due giovani su tre negli ultimi dieci anni hanno abbandonato il Mezzogiorno almeno una volta, e oltre la metà definitivamente. Alcuni, dopo il fallimento nell’esperienza migratoria sono rientrati a testa bassa e sono andati a rimpolpare l’esercito dei neet (not employement, education, training), altri vanno e vengono non solo verso il Nord I’Italia, ma verso il Nord Europa e persino l’Australia (l’emigrazione verso il quinto continente è la vera novità di questi ultimi anni).

Quello che, soprattutto, l’Istat non ci racconta è come è cambiato il rapporto tra i migranti e le famiglie di provenienza. Mentre negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso erano i migranti meridionali che mantenevano le famiglie di origine con le rimesse (oltre a concorrere a salvare la nostra bilancia dei pagamenti), oggi sono molte volte le famiglie meridionali che mantengono i figli nel Nord Italia o all’estero, non solo per studiare o specializzarsi, ma anche perché con i lavoretti non si sopravvive in questi territori.

E sono le stesse famiglie, soprattutto a livello di ceto medio, che spingono i figli, fin dalle scuole medie superiori, a pensare di lasciare le terre del Sud perché, come si dice da queste parte«qui non c’è niente da prendere». Ed è questa la nota più triste che nessuna statistica potrà mai quantificare: la cifra che diventa un necrologio, la morte della speranza di una terra dove una volta i giovani gridavano «lottare per restare, restare per lottare».

Il Manifesto del 14.12.2018

“Mezzogiorno amnesia pericolosa” di Gianfranco Viesti

“Mezzogiorno amnesia pericolosa” di Gianfranco Viesti

Parlando ieri in provincia di Treviso, Luigi di Maio ha affermato che “l’autonomia del Veneto si deve dare il prima possibile”, “non ci sono dubbi da nessuna delle due forze politiche che sostengono questo governo”. “Nei vari Consigli dei Ministri di dicembre occorre affrontare questi temi”.

Il Vicepresidente del Consiglio sa certamente di cosa parla. Che non si tratta di una piccola questione amministrativa che riguarda i Veneti, ma di una grandissima questione politica che riguarda tutti gli italiani; della regionalizzazione e differenziazione di molti grandi servizi pubblici nazionali, a cominciare dalla scuola; dell’introduzione di un principio per il quale i cittadini delle regioni più ricche avranno più diritti di cittadinanza di quelli delle regioni più povere; di una redistribuzione di risorse assai più ampia di qualsiasi reddito di cittadinanza. Il Vicepresidente del Consiglio sa che sta dando il suo pieno sostegno ad un progetto politico che porterà, presto, gli studenti della Campania ad avere meno diritti degli studenti del Veneto.

Ricordiamo di che cosa si tratta. La Regione Veneto chiede di avere maggiori competenze su tutte le 23 materie su cui è teoricamente possibile in base alla Costituzione. Una lunga serie di temi: dal diritto allo studio universitario all’organizzazione della previdenza complementare; dai beni culturali a tutte le politiche di sostegno alle imprese (punto che giustamente ha destato forte preoccupazione all’Unione Industriali di Napoli). Dalle competenze sulle grandi reti energetiche e infrastrutturali, all’organizzazione dei vigili del fuoco e della protezione civile; dalla regionalizzazione dell’ISTAT (nascerà la statistica veneta!) fino all’istituzione di una zona franca. Eliminando del tutto il Sistema Sanitario Nazionale. Regionalizzando la scuola: gli insegnanti diventeranno dipendenti della Regione Veneto, avranno un contratto e retribuzioni diverse da quelle degli altri insegnanti italiani. Tutti questi servizi pubblici saranno quindi frammentati su base regionale.

Perché la Regione Veneto vuole tutte queste, grandi e disparate, competenze? Perché al passaggio di competenze lega la richiesta di risorse finanziarie molto maggiori di quelle che oggi sono spese, in Veneto, dallo Stato. Come il Vicepresidente del Consiglio sa perfettamente, la richiesta di autonomia nasce dalla volontà di trattenere una quota molto maggiore del gettito fiscale regionale, sottraendolo allo Stato nazionale e quindi alla redistribuzione in favore di tutti gli altri cittadini italiani. Si chiede che dopo un anno transitorio, l’ammontare delle risorse necessarie per svolgere tutti questi compiti sia ricalcolato, tenendo conto anche del gettito fiscale. Introducendo dunque il principio che i cittadini veneti, dato che pagano più tasse degli altri italiani (cosa del tutto ovvia e scolpita nella nostra Costituzione, dato che hanno redditi maggiori) hanno diritto a più servizi. Questo, senza definire regole che consentano di avere criteri uguali di calcolo, e i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) per tutti: definizione prevista dalla Costituzione ma opportunamente accantonata. Facendo sì che, appunto, gli studenti veneti avranno per principio diritto ad un maggiore spesa pubblica per le loro scuole rispetto agli studenti campani. Date le risorse pubbliche complessive disponibili, più ai primi significherà automaticamente, meno ai secondi.

Il testo che arriverà in Consiglio dei Ministri è stato predisposto dal Presidente leghista del Veneto Zaia, e dalla sua “controparte nazionale”, cioè la ministra leghista veneta Stefani. Che si è sempre fatta pubblicamente vanto di sostenere in toto le richieste regionali. L’approvazione in Consiglio dei Ministri porterebbe la questione in Parlamento, chiamato ad esprimersi però solo con un “sì” o con un “no”. Se il Parlamento approva, il processo non si ferma più, dato che tutti i suoi importantissimi aspetti applicativi e di dettaglio finiscono nelle mani di una Commissione Veneto-Italia, cioè composta di leghisti e di leghisti. Ma non finisce qui: perché, aperta la strada dal Veneto c’è già la Lombardia con le stesse richieste. E poi l’Emilia-Romagna.

Il quadro politico-culturale nel quale tutto ciò sta maturando è davvero sconfortante. I cittadini italiani non ne sanno niente. Nessuna autorevole voce si leva per discuterne; anzi la grande stampa fa pressione per una maggiore attenzione “al Nord”. Questo fa magnificamente il gioco della Lega, impegnata nella conquista del consenso nel Centro-Sud; che sarebbe disturbata se si cominciasse ad informare i cittadini, specie del Centro-Sud, che quel partito (come sempre ha fatto e farà) continua a sostenere prioritariamente le ragioni del Nord, ed in particolare del Lombardo-Veneto, a danno di quelle degli altri italiani. Altro che prima gli italiani: prima i Veneti! E a danno degli altri italiani. La posizione del Movimento 5 Stelle appare, come sovente accade, poco comprensibile: se il ministro Lezzi in Parlamento solo venerdì scorso ha dichiarato che “il completamento dell’iter non comporterà un surplus fiscale trattenuto al Nord”, ieri Di Maio dà il via libera alle richiesta venete. Il Partito Democratico, forse troppo impegnato nella fondamentale scelta del suo leader, non sembra occuparsi di questioni politiche come questa; neanche il candidato Zingaretti, che da Presidente della Regione Lazio dovrebbe saperne qualcosa. Ma in Veneto, Lombardia, Emilia, la gran parte dei Democratici sostiene pienamente la secessione dei ricchi, arrivando ad accusare il Governo di andare troppo piano. Da Forza Italia e Fratelli d’Italia (che pure, non fosse per il nome che portano, dovrebbero avere un qualche interesse), nulla. Qualche protesta solo all’estrema sinistra e a titolo individuale di alcuni politici. Gravissime, infine, le responsabilità dei Presidenti di Campania e Puglia, le due maggiori regioni a statuto ordinario del Sud che più pagheranno le conseguenze di questo processo: invece di porre le grandi questioni dell’equità, dell’uguaglianza, dello sviluppo, nell’interesse dei loro cittadini e dei principi fondanti della nostra Repubblica, si sono accodati anch’essi alle richiesta di maggiori poteri per le loro Amministrazioni, ignorando le conseguenze sul finanziamento.

Quella che viene chiamata “autonomia regionale”, dunque, è una vera e propria secessione dei ricchi. Dopo la lunga grande crisi le regioni più ricche del paese non vogliono più investire nel futuro del paese, della sua scuola, dei suoi grandi servizi; preferiscono organizzarsi per conto proprio tenendosi i propri soldi. Così, i principi costituzionali di uguaglianza possono essere, a breve, stravolti. E i cittadini del Sud ancora una volta nella loro storia restare senza la minima rappresentanza politica che difenda i loro diritti in quanto italiani.

Gianfranco Viesti

2 dicembre “Il Mattino”