Mese: ottobre 2021

Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna

Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna

Tra i fattori che hanno provocato l’aumento della temperatura media del nostro pianeta spesso ci si dimentica del ruolo che gioca l’agricoltura/zootecnia industriale nella produzione dei gas serra. Per molto, troppo tempo siamo vissuti con la convinzione che la terra fosse un corpo inerte dove con la chimica si poteva ottenere quello che si voleva, che gli animali da allevamento fossero delle macchine che si potevano perfezionare a volontà per aumentarne l’efficienza.

Tutto il sapere dell’agricoltura contadina è stato scartato come un residuo di un passato pretecnologico. Così gli allevamenti intensivi di migliaia di animali, chiusi in spazi sempre più ristretti, riempiti di ormoni e antibiotici, erano visti come un progresso per l’umanità, perché aumentavano la produzione per unità e ridotto i costi unitari.

Per decenni solo pochi profeti, spesso ignorati, hanno denunciato i danni alla salute dell’uomo e dell’ambiente di questo modo di produzione. Jeremy Rifkin, prestigioso economista statunitense, aveva denunciato in un suo saggio del 1998 i danni all’ambiente causati dall’industrializzazione della produzione zootecnica, e spinta in avanti dal nostro eccessivo consumo di carne.

Unitamente alla denuncia che da tempo molti studiosi hanno formulato nei confronti dell’agricoltura industriale, per l’uso eccessivo di fertilizzanti che rendono sterili i terreni, per l’inquinamento delle falde acquifere e, last but not least, per i danni alla nostra salute. Questo non significa ritornare alla zappa e alla falce, ma significa fare tesoro di tecniche agricole che rispettino i cicli vitali, che considerano la terra un corpo vivo, con le sue esigenze e i suoi tempi.

La transizione ecologica rivaluta l’agricoltura contadina e gli allevamenti a piccola scala in cui gli animali non vengono rinchiusi in un lager e non si usano sostanze artificiali per aumentarne la produttività. Naturalmente questo significa pagare di più i beni alimentari alla fonte e ridurre i costi dell’intermediazione e distribuzione che oggi assorbe mediamente l’80 per cento del valore.

Vale a dire: è necessario rivedere tutta la filiera agroalimentare con l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori, difendere la biodiversità, ridurre le emissioni di gas serra, dare un “giusto prezzo” ai prodotti delle aziende agricole e condizioni di lavoro e salario dignitosi ai lavoratori. Non si tratta di utopie o di sogni romantici perché esistono tante esperienze sul campo che potremmo raccontare, diverse reti che uniscono braccianti-imprenditori- consumatori in forme diverse e con beneficio di tutti gli attori.

In questa visione la transizione ecologica offre una straordinaria opportunità alla agricoltura calabrese, a quelle piccole aziende agricole e zootecniche che sembravano un residuo del passato, un segno di arretratezza, e invece rappresentano il futuro.

In particolare, la gran parte delle zone interne che non sono state inquinate, che hanno vissuto solo marginalmente l’impatto della chimica sui terreni agricoli, potrebbero uscire dall’abbandono ed essere valorizzate, offrendo prodotti agricoli di prima qualità, con l’utilizzo anche di semi antichi e piante da frutto autoctone, uscendo dalla omologazione attuale dell’offerta di ortaggi e frutta standardizzata.

In questa direzione sarebbe opportuno varare una seconda Riforma Agraria in chiave ecologica, che consenta di mettere a frutto i terreni abbandonati che rappresentano una parte rilevante delle aree collinari, con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero anche sul piano idrogeologico. Siamo di fronte ad un bivio. Se non prendiamo adesso la strada giusta non avremo un’altra opportunità.

da “il Quotidiano del Sud” del 27 ottobre 2021
Foto di Fabio Grandis da Pixabay

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Viaggio in una Calabria lontana dagli stereotipi.- di Tonino Perna Recensione a "A sud del Sud" di Giuseppe Smorto, Zolfo editore

Giuseppe Smorto non ha mai lasciato nel cuore e nella mente la Calabria dove è nato in riva allo Stretto, mentre una nave affondava per una bomba sganciata dagli anglo-americani durante la seconda guerra mondiale. Ogni anno è tornato nella punta della penisola in tutte le feste comandate e durante le vacanze estive. Ma, soprattutto, ha sempre cercato di valorizzare il meglio della sua terra, contrastando una immagine stereotipata della Calabria che la riduce a questione criminale.

A CONCLUSIONE della sua lunga e brillante carriera a Repubblica ha scritto un libro A Sud del Sud (Zolfo, pp. 176, euro 16), un viaggio dentro la Calabria tra i «diavoli e i resistenti». Un viaggio che ha il respiro del «rap», un ritmo incalzante, che ti stordisce, che ti porta in giro dalla costa alle zone di montagna più impervie, che ti fa entrare in luoghi che mai avresti immaginato che esistessero. Un giornalismo di inchiesta come non si vedeva da tempo, soprattutto non si vedeva per quest’area dell’estremo Sud.

In ventuno capitoli, partendo dalla Locride, il viaggio di Smorto tra «la perduta gente» (come recitava un saggio di Umberto Zanotti Bianco) si imbatte nei nuovi partigiani di una Calabria che resiste, senza girarsi dall’altra parte, senza nascondere sotto il tappeto le violenze criminali agli umani e alla natura, lo scempio urbano e il degrado sociale e culturale.

È LA NOVITÀ di questo viaggio-inchiesta. Finora i libri sulla Calabria, ma anche sul Mezzogiorno, hanno seguito due filoni: quello della ’ndrangheta in tutte le sue sfaccettature compresa l’anti-ndrangheta, o quello dell’esaltazione di una natura selvaggia, di una Calabria esotica che sostituisce i viaggi nei paesi del Sud del mondo al tempo della pandemia. In questo libro si passa dal resoconto puntuale del processo al boss dei boss, Luigi Mancuso, «il Supremo», il «Comandante», all’esperienza di Riace, borgo rinato con una politica dell’accoglienza che ne ha fatto un caso internazionale (e oggi anche giudiziario).

DALLA DENUNCIA puntuale dei rifiuti tossici disseminati tra montagne, colline e mare, allo stupore di fronte al Centro di medicina solidale di Pellaro e Arghillà, promosso dal dottore Lino Caserta, o al plauso per «Comunità competente» di Rubens Curia, il medico che ha messo insieme più di settanta associazioni/cooperative che si occupano della salute delle persone e con la loro pressione, costanza, determinazione, sono riusciti a ottenere grandi e piccoli successi nelle Asp, macchine burocratiche e spesso inquinate dal malaffare.

Dalle eccellenze dell’Università della Calabria, vero fiore all’occhiello che dimostra quanto si potrebbe fare anche in una terra marginale e isolata, alla violenza che subiscono tanti giornalisti coraggiosi e sconosciuti all’opinione pubblica nazionale.

da “il Manifesto” del 15 ottobre 2021

Il caso Lucano: la legge, la giustizia e l’hubris .-di Sarantis Thanopulos

Il caso Lucano: la legge, la giustizia e l’hubris .-di Sarantis Thanopulos

L’«hubris» è un concetto fondamentale nella definizione della giustizia, mai preso in considerazione dai sistemi giuridici. Per la nota discrepanza tra giustizia e legge.

Nel greco antico il termine indicava la crescita rigogliosa di una pianta che invade e impedisce lo sviluppo delle altre piante. Esso designava metaforicamente l’eccesso di protervia che porta ad oltrepassare la misura.

La legge punisce l’infrazione delle regole, ma non contempla come suo oggetto diretto il superamento del limite. Spesso è essa stessa hubris, specie nei paesi oligarchici, ma anche in quelli democratici. Di ciò è un esempio grave la pena di morte. Nel nostro paese ha superato i limiti etici, nonché quelli stabiliti dalle leggi internazionali di soccorso, la legge Severino.

La giustizia è la forza che si oppone al venir meno del senso della misura. Più grave è il superamento della misura (da sempre legato al diritto di chi è senza scrupoli, del più spietato), più forte è l’opposizione tra il suo autore e la società dei giusti, la comunità della Polis democratica. Giusto e democratico è ciò che si compie con misura, equilibrio secondo le regole che in origine erano quelle della musica, del canto degli uccelli (Monica Ferrando).

Più la legge si allontana dalla giustizia, più è hubris in se stessa. Nessuna logica giuridica la può assolvere del danno che infligge alla natura più intima e inviolabile delle relazioni umane da cui emanano i diritti umani, valori etici al di sopra di ogni altro diritto e di ogni legge. Si tenga presente che sulla giustizia si fonda la sanità psichica collettiva.

Nella condanna di Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di carcere, il doppio della condanna chiesta dal pubblico ministero, sono molte le cose che non convincono, a partire dalla mancata applicazione del principio del reato continuato (l’infrazione con azioni diverse, volte a realizzare un unico progetto criminoso, di una o più disposizioni di legge) e la contemporanea attribuzione del reato di associazione a delinquere a una persona a cui si riconosce di aver agito senza interesse personale.

Sarà la pubblicazione delle motivazioni della sentenza a rendere più chiaro l’agire dei giudici e saranno i successivi gradi di giudizio a stabilire se essi hanno agito nel rispetto della civiltà giuridica e della legge. Esiste, tuttavia, un punto che fin da ora deve far riflettere: l’uso di un criterio computazionale nella valutazione della pena. Esso introduce una dimensione algoritmica nella gestione del rapporto tra Stato e cittadini che finora si è fatta strada in un paese non propriamente democratico, la Cina.

Un magistrato non applica la legge alla lettera. Basterebbe aver letto Kafka per comprendere che non può pensare da ragioniere. Deve saper valutare le circostanze umane, i fattori sociali, culturali, politici e psicologici di cui la legge non tiene conto. Se si parla di «spirito della legge», è perché nessuna legge è satura e a sé stante. L’ispirazione della sua «interpretazione», che spetta a un soggetto responsabile, è la giustizia, il sapere condiviso su ciò che è umanamente sensato, misurato.

Condannare un uomo dignitoso, incensurato, povero di sostanze materiali a una pena degna di un mafioso è, nella migliore delle ipotesi (in attesa di vedere confermata la validità del dispositivo della sentenza), un eccesso di «accanimento terapeutico», un’ammonizione educativa nei confronti dei cittadini francamente, totalmente fuori luogo.

Sul piano della giustizia, la sentenza nei confronti di Mimmo Lucano è hubris.

I giudizi non devono ergersi al di sopra del senso della misura. Devono valutare in modo equilibrato, sereno. La serenità del giudizio non significa assenza di sofferenza psichica. Tra i servitori della città c’è molto più senso di responsabilità in chi soffre rispetto a chi dimentica la condivisione dei valori universali, convinto di stare bene con la propria coscienza.

da “il Manifesto” del 9 ottobre 2021.

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

«Fear of the walking dead» recita il titolo di una nota serie televisiva. Bene si adatta all’autonomia differenziata, che dovrebbe a buona ragione essere defunta, e invece cammina ancora tra noi. Lo testimonia l’inserimento tra i collegati al bilancio del disegno di legge attuativo dell’art. 116.3 della Costituzione, fatto con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF).

Con il danno collaterale di una probabile sottrazione al referendum abrogativo, per il limite delle leggi di bilancio di cui all’art. 75 della Costituzione. Intendiamoci. L’inserimento di per sé non dà certezze quanto ai tempi o all’approvazione. Molti collegati non hanno poi visto la luce. Ma qui abbiamo due dati significativi.

Il primo, è che in una originaria stesura dell’elenco dei collegati il ddl sull’autonomia differenziata non era presente, ed è poi comparso nella versione definitiva, al primo posto. Questo ci dice di una pressione politica per l’inserimento che non ha trovato opposizioni significative.

Il secondo, che il ddl si inserisce nella dialettica interna alla maggioranza, e specificamente nel tormentone del dualismo Lega di lotta e di governo. Per cui il ddl può essere visto o come offa per la Lega di governo vicina a Draghi (i Fedriga, Zaia, Giorgetti) o come ciambella di salvataggio per Salvini mentre affonda – come indica il voto amministrativo – il suo disegno nazional-sovranista. O entrambe le cose. Ci stupirebbe se l’autonomia non entrasse nell’agenda degli annunciati appuntamenti settimanali di Salvini con il premier Draghi.

Ma era giusto ritenere l’autonomia differenziata defunta, o almeno caduta in catalessi? Ragionevolmente, sì. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli. Per il diritto alla salute, il regionalismo ha nei fatti distrutto il sistema sanitario nazionale, come bene afferma da ultimo l’Anaao-Assomed.

Per l’istruzione, la pressione della pandemia ha aggravato il ritardo già pesante che lede i diritti degli studenti di tutte le età in un terzo del paese. In molteplici settori si è evidenziata la necessità di forti politiche pubbliche nazionali e di regole volte a ridurre il divario Nord-Sud secondo le indicazioni dell’Europa. Mentre i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non sono nemmeno giunti alla pista di lancio.

Invece, vengono segnali negativi sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Le polemiche sulle risorse “territorializzabili”, l’aggiunta ai fondi europei di quelli per la coesione già destinati al Sud, il “repackaging” di vecchi progetti, i bandi che aprono alle zone forti del paese come quello sugli asili nido, la comparativa debolezza delle amministrazioni meridionali, la mancanza di una chiara strategia su punti nodali come i porti, la logistica e la manifattura, prefigurano una mera riparazione dei danni da Covid e un ripristino delle preesistenze.

L’intento di costruire un paese nuovo e diverso rischia di dissolversi. Capiamo che il momento favorisce ciò che fa ripartire subito il PIL. Ma se solo questa è la logica, l’esito è concentrare le risorse sulle aree forti del paese, dove il rendimento a breve termine degli investimenti può essere presentato come maggiore, più agevole e certo. E dove, non a caso, il lobbying su chi decide è più efficace.

È bene che i governatori del Sud protestino perché mancano 7 miliardi, ed è scontata la difesa di ufficio di Giovannini sul 40% per il Sud. La questione del quantum, però, è più complessa, e si aggiunge ad altre. In specie, l’autonomia differenziata si scontra con gli obiettivi di rilancio del paese tutto assegnati a parole al PNRR. I governatori dovrebbero pretendere di vedere le carte tuttora nascoste, farle valutare da studiosi ed esperti indipendenti, e cercare sinergie da far valere nelle sedi di concertazione. Proprio in quelle il Sud negli anni è stato colpito e affondato, per colpa dei suoi ignavi governanti e per dolo degli altri.

Lasciamo perdere la favola menzognera che l’autonomia differenziata conviene al Sud come al Nord. Mettiamo la questione almeno in standby per il tempo del PNRR, e vediamo quale paese viene dall’attuazione del Piano. Diversamente, il rischio è una collisione che spinge il Sud tra i walking dead. Per essere poi seguito dal paese tutto, che rimane nella stagnazione.

da “il Manifesto” del 9 ottobre 2021

Perché siamo solidali con Mimmo Lucano, il fuorilegge.-di Gaetano Lamanna

Perché siamo solidali con Mimmo Lucano, il fuorilegge.-di Gaetano Lamanna

Trattato come un delinquente. Prima del processo aveva subito un provvedimento di allontanamento da Riace. Non poteva rientrare nel suo paese nemmeno per fare visita al padre vecchio e malato. Considerato peggio di un mafioso. Si dà il caso, però, che Mimmo Lucano non sia un mafioso, ma un cittadino onesto, buono e generoso. Una testa dura, come tante in Calabria. Ci troviamo di fronte ad una contraddizione clamorosa tra legge e giustizia. Non sempre la legge va d’accordo con la giustizia. Spesso per fare o avere giustizia si deve cambiare una legge. È stato fatto tante volte. Ma è un processo lungo e laborioso. Richiede a volte battaglie, movimenti, petizioni popolari, referendum, prima che il parlamento si decida a cambiare una legge ingiusta o a promuovere dei diritti.

È stato così per lo Statuto dei lavoratori. È così per lo ius soli. È stato così per il delitto d’onore, per l’aborto, per il divorzio, e tanti altri esempi si potrebbero fare. Il diritto, che sta alla base della legge, si evolve, segue la storia, si aggiorna in base ai mutamenti storici e politici. Al tempo dei greci e dei romani, la schiavitù non era illegale. Nel medioevo i privilegi feudali e la servitù della gleba erano legali. Il diritto non è neutro.

Il più delle volte si limita a codificare norme, convenzioni, costumi, già in uso. Trasforma in legge lo status quo. In genere prende atto dei rapporti di potere. Con la rivoluzione francese la borghesia nascente rovescia il vecchio mondo feudale, plasmato a misura dell’aristocrazia, stretto da vincoli, privilegi e regole che impedivano l’accumulazione del capitale, il libero mercato e lo sviluppo industriale. Per andare a tempi più recenti, durante i governi a guida Berlusconi abbiamo visto anche leggi ad personam, reati declassati o spariti dal codice da un giorno all’altro.

Il diritto, dunque, è stato sempre modellato sulla base degli interessi della/e classe/i al potere. È la storia. Fuori della storia e del buon senso sono i giudici di Locri. Per fare funzionare il modello Riace, un modello di accoglienza e di inclusione studiato in tutto il mondo, Mimmo Lucano ha dovuto infrangere leggi vecchie e inadeguate. Come quella, ad esempio, che non dà diritto ai bimbi che nascono e studiano in Italia di avere la cittadinanza. O come quella che nega la casa popolare, il diritto ad un alloggio agli immigrati regolari che sono residenti in Italia da meno di 10 anni. Mimmo Lucano si è inventato il lavoro, ha messo in movimento un’economia asfittica.

E per fare questo ha dovuto inventarsi perfino una moneta alternativa. Un modo che permettesse ai nuovi arrivati di vestirsi e di mangiare, fino a quando il ministero dell’Interno, guidato allora da Marco Minniti ( e poi da Salvini), non si fosse degnato di trasferire un po’ di soldi per pagare i fornitori. A Riace case, botteghe artigiane, negozi, avevano riaperto i battenti. Il paese si era ripopolato, ritornando a nuova vita, al contrario di tanti paesi morti della Calabria.
Ai coccodrilli che piangono per i borghi abbandonati, il sindaco di Riace aveva mostrato una via concreta per la rinascita.

Un’alternativa allo spopolamento e all’abbandono dei villaggi. Dopo la rottura del latifondo e la riforma agraria, la Calabria è entrata nella modernità pagando un prezzo altissimo in termini di emigrazione. Ha fornito braccia a buon mercato allo sviluppo industriale del Nord e dell’Europa. Ha distrutto un artigianato fiorente che non ha retto l’urto del mercato dei prodotti industriali. Anche molti che avevano beneficiato della riforma agraria hanno abbandonato le campagne per lo scarso sostegno pubblico, indirizzato soprattutto ad agevolare l’attività edilizia e commerciale, oltre che posti di lavoro nella pubblica amministrazione.

La Calabria diventa terra di consumo. Si sviluppa un’economia dipendente e funzionale alla crescita economica delle regioni centro-settentrionali. Con un ceto politico attento solo ad intercettare i flussi di spesa pubblica e a gestire affari e malaffari. In questo contesto non c’è posto per la Calabria dei villaggi, per le comunità rurali, collinari e montane.

Mimmo Lucano ci ha fatto intravedere (in una piccola realtà) un’alternativa possibile, un modo innovativo e solidale per far rinascere i nostri borghi. Scontrandosi con l’ottusità della burocrazia e con politici attenti al loro tornaconto personale. Nel frattempo, Marco Minniti, dopo avere avuto tutto (e di più) dal suo partito, si è seduto sul comodo treno della Fondazione Leonardo. Mimmo, invece, se l’è dovuta vedere con magistrati che invece di perseguire l’illegalità mafiosa hanno acceso i riflettori sui suoi reati. Commessi con la convinzione di fare del bene. Era l’unico modo per salvare vite, per fare andare avanti una vera integrazione, per sbloccare situazioni impigliate nei meandri della burocrazia e o ritardate da leggi inadeguate.

Mimmo Lucano è un «fuorilegge», ha agito in difformità di leggi ingiuste o sbagliate che non gli permettevano di agire a favore degli immigrati e degli abitanti di Riace. Non è certo un ladro o un criminale, come ce ne sono tanti anche in doppio petto. Questa condanna è una vergogna. Una grave ingiustizia. Chi non accetta le ingiustizie e si batte per il cambiamento non ha che schierarsi con lui, mostrando che non è solo e isolato, ma un punto di riferimento. Il voto del 3-4 ottobre è l’occasione. È il modo per esprimergli, non solo a parole, solidarietà.

da “il Manifesto” del 3 ottobre 2021

Mimmo Lucano colpevole di reato di umanità.-di Tonino Perna

Mimmo Lucano colpevole di reato di umanità.-di Tonino Perna

La sentenza del tribunale di Locri, che condanna Mimmo Lucano alla pena di 13 anni e due mesi, lascia esterrefatti, indignati, increduli. Quella parte del nostro paese che ancora crede nella democrazia e nell’amministrazione della giustizia ne resta sconcertata.

Se la richiesta del Pubblico ministero, di una pena di 7 anni, già sembrava una mostruosità, con questa sentenza il giudice ha giocato al raddoppio andando al di là di ogni possibile appiglio giuridico.

Conosco Mimmo Lucano dall’autunno del ’98 quando venne a Badolato, dove il Cric (una Ong molto attiva in quel periodo) aveva realizzato il primo progetto di accoglienza degli immigrati, con la finalità di far rinascere un borgo antico abbandonato.

Mimmo con la semplicità e spontaneità che lo ha sempre contraddistinto ci disse che voleva fare la stessa cosa nella sua Riace: «Mi date una mano?». Così nacque il progetto-Riace, grazie ad un prestito importante di Banca Etica e, soprattutto, alla solidarietà di decine di associazioni, italiane e straniere, a partire dalla comunità anarchica di Longo mai che oltre all’aiuto in denaro organizzò un flusso di centinaia di turisti solidali.

Per non parlare di Recosol, la rete del Comuni Solidali che per quasi vent’anni ha sostenuto in tanti modi questa esperienza, diventata un progetto collettivo.

Mimmo Lucano ne rappresenta l’icona, avendogli dedicato tutta la sua vita da adulto, fino a rinunciare alla propria famiglia per occuparsi dell’accoglienza dei migranti. Colpirlo in questo modo significa colpire il modello Riace, conosciuto in tutto il mondo come simbolo concreto e veicolo formidabile di un’altra immagine della Calabria e dell’Italia, capace di dimostrare l’esistenza di una alternativa reale alle baraccopoli, ai ghetti, alle politiche di respingimento di esseri umani che chiedono solo di poter vivere con dignità.

Non solo. Il modello Riace, per fortuna ripreso da diversi comuni calabresi e di altre regioni, è stata e resta la strada maestra per il recupero delle aree interne abbandonate e degradate, offrendo una risposta efficace ai rischi ambientali di smottamenti, frane, alluvioni, in gran parte dovuti proprio a questo drammatico, progressivo abbandono di territori vasti e preziosi per il futuro sostenibile del paese.

Ma, cosa ha fatto di così grave Lucano per meritare una pena che viene comminata ad assassini incalliti, a mafiosi, a trafficanti internazionali di droghe, a stupratori seriali, a terroristi? L’ex sindaco di Riace viene accusato di favoreggiamento di immigrazione clandestina per aver consigliato ad una donna immigrata, disperata perché stava per essere respinta nel suo paese, di sposare un uomo anziano.

Chi di noi in queste circostanze non si sarebbe sentito di suggerirlo come stremo rimedio? E in ogni caso, se è un reato celebrare un matrimonio tra una giovane donna immigrata e un anziano italiano allora annulliamo migliaia di matrimoni e arrestiamoli tutti.

L’altra pesante e incredibile accusa che gli viene contestata è quella di clientelismo a fini elettorali, di truffa, peculato e abuso d’ufficio, ma non un euro gli è stato trovato nelle sue tasche, né esiste alcuna prova che si sia appropriato di denaro pubblico in qualche modo.

La verità, scomoda, molto scomoda, è una sola: Lucano è accusato di «reato d’umanità» per aver accolto decine di migliaia di immigrati, che la Prefettura gli inviava come ultima spiaggia. Per aver cercato di farli lavorare dignitosamente, per aver fatto rinascere un paese totalmente abbandonato, Lucano è diventato un dei più pericolosi delinquenti in circolazione.

Le sue lacune amministrative, l’avere poca dimestichezza con le regole burocratiche gli hanno fatto commettere errori amministrativi, dove tuttavia non c’è dolo, appropriazione di denaro, tangenti o associazioni a delinquere, ma solo ingenuità, superficialità e, se vogliamo, faciloneria di chi non sopporta i vincoli della nostra farraginosa burocrazia.

Con questa sentenza il tribunale di Locri inserisce, di fatto se non di diritto, il «reato d’umanità» nel panorama giuridico del nostro paese, creando un precedente inquietante. È un ennesimo segnale che ci mostra la crisi profonda che attraversa la nostra magistratura, e quindi le istituzioni democratiche. Ne prendiamo atto, ma non ci arrendiamo perché non vogliamo finire nella terra di Erdogan.

E per salvare la nostra democrazia e la nostra stessa società, già oggi si terrà una manifestazione a Riace in suo sostegno. Naturalmente non ci fermeremo qui, puntando sul fatto che in Appello si possa smontare questa sentenza incredibilmente iniqua.

da “il Manifesto” del 1 ottobre 2021