Mese: luglio 2019

Mi hanno rubato il paesaggio e so chi è stato di Battista Sangineto

Mi hanno rubato il paesaggio e so chi è stato di Battista Sangineto

          Una domenica sera sono tornato dalla mia casa di famiglia, affacciata sulla costa tirrenica calabrese, con la sensazione che mi avessero portato via una cosa alla quale tenevo, ma che non ero in grado di ricordare e di descrivere con esattezza. Doveva essere una di quelle cose che non si usano quasi mai, ma che sai che esistono e che stanno, da sempre, in quello stesso posto dove le hai lasciate l’ultima volta che ne hai avuto bisogno.  La sensazione s’è tramutata, man mano che passavano le ore e i giorni, in una convinzione profonda che mi procurava un sottile, tagliente senso di angoscia che nessuna delle normali occupazioni riusciva non solo a rimuovere, ma neanche a lenire.  Oggi ho, finalmente, capito cos’era: era scomparso il paesaggio, il paesaggio dei miei ricordi infantili e adolescenziali; erano scomparse le montagne ed i promontori coperti da orrendo e inutile cemento armato; era scomparso il mare che, bambino, vedevo dal terzo o quarto tornante della vecchia strada che, negli anni ’60, si doveva percorrere, dalla città, per arrivare sulla costa. Quel mare che prometteva lunghe, assolate, libere giornate di vacanza e di gioia pura trascorse a giocare su spiagge enormi fatte prima di sabbia finissima e poi, via via che ci si avvicinava alla battigia, di sassolini sempre più grandi a testimonianza, geologica, dell’infrangersi e del ritrarsi delle onde nel corso dei millenni. L’acqua era d’un blu venato del verde scuro dei monti dell’Appennino che, incombenti, si specchiavano nel mare e dalla spiaggia si vedevano solo il paese adagiato su un basso promontorio e, lontane, le poche case costruite sulla costa.

Quell’angoscia che sentivo era, dunque, di quel particolare tipo che Ernesto De Martino chiamava “angoscia territoriale” che altro non è che il disagio, la vertigine, l’angoscia, appunto, di chi è sottratto ai propri punti di riferimento nativi o, peggio, di intimo rifiuto estetico di questi ultimi. È esattamente quel che mi accade e che credo accada a molti di quanti stanno leggendo: la scomparsa dei paesaggi e del mare ha scardinato i nessi fisici ed emotivi che ognuno di noi aveva con quei luoghi. Era questa, dunque, la sensazione che ho provato in questi ultimi giorni: mi avevano sottratto quei luoghi, quelle montagne precipiti sul mare, quella spiaggia. Sono stati cancellati, cementificati, dalla mano dell’uomo negli ultimi decenni compromettendo la stabilità degli spazi geografici e dei paesaggi che garantisce alle società un senso di perpetuità in grado di conservare la memoria individuale e quella collettiva, l’identità. Una percezione di perennità data dallo spazio geografico che, secondo Halbwacks, è la sola dimensione capace di permanere, perché i luoghi, di solito, cambiano più lentamente degli uomini che li abitano. In Calabria, nel tempo brevissimo di trenta o quaranta anni, i territori sono stati, invece, letteralmente stravolti, annientati, cementificati, inquinati e, persino, contaminati. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha certificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri. Una recente indagine della magistratura ha appurato che tutti i depuratori delle città o dei paesi calabresi non funzionano o sono insufficienti alla bisogna.  Il mare non solo è, come è evidente a chiunque non sia il sindaco di un paese marittimo, indicibilmente sporco e inquinato, ma, temo, anche contaminato, forse radioattivo. Se così non fosse perché non affidare ad un Ente di ricerca indipendente, che non abbia nulla a che vedere con la Calabria, un’indagine conoscitiva a tappeto delle acque di tutte le coste calabresi? Perché ci si è fidati, o si è fatto finta di fidarsi, di frettolose esplorazioni ministeriali che soddisfacevano sia il Governo centrale, non troppo interessato alla vicenda, sia le amministrazioni locali che, invece, hanno il terrore di compromettere le stagioni turistiche? Perché non dare seguito alle ricerche e alle indagini sul mare calabrese con tutto il carico di dubbi e di perplessità coraggiosamente manifestate, da alcuni anni, da questo giornale?

Ho scritto tante volte che la responsabilità non è solo, però, delle Amministrazioni e della classe dirigente politica, ma anche dei calabresi che hanno devastato e devastano queste terre disseminandole di orribili edifici non-finiti con una totale assenza di civismo e con la consapevolezza di rimanere impuniti, perché c’è sempre un condono alle viste. Stupisce leggere che, addirittura, c’è qualcuno che non solo assolve questi comportamenti illeciti con la trita, e non più sopportabile, giustificazione dell’edilizia di necessità, ma, addirittura, attribuisce ai responsabili una consapevole e diffusa volontà di resistenza alla cultura dominante, che imporrebbe il rispetto dei luoghi e dei paesaggi, alla quale essi, indomiti abitanti di questa terra, si sono orgogliosamente opposti colando fiero cemento calabro.

Mi sia consentito di dire, tuttavia, che la responsabilità maggiore della scomparsa del paesaggio ricade sulle spalle di tutti gli Amministratori comunali, provinciali e regionali che hanno governato e che erano tenuti a far rispettare le leggi, anche per mezzo della persuasione culturale, ma che, ora, debbono intervenire con durezza prima che avvenga l’irreparabile. Finché siete ancora in tempo -ammesso che ve ne sia, di tempo-  non lasciate che scompaia tutto, non permettete più che il mare, le colline, i boschi, le montagne, i centri storici vengano inghiottiti dal nulla, non tollerate più che le nostre campagne e le nostre coste assomiglino ad una sconfinata periferia anonima e spaesante di una inesistente città. Gli Amministratori della cosa pubblica -il Presidente Oliverio per primo, dato che non ha approntato il Piano paesaggistico regionale come da D.L. del 22.01.2004, n. 42 ai sensi dell’art. 10 della legge 6.07.2002, n. 137- abbiano un sussulto di orgoglio e di amore per la natura e la cultura di questa regione, perché, finora, non l’hanno avuto.

 

Il Quotidiano del Sud

27 luglio 2019

Contro un governo che disprezza la vita umana

Contro un governo che disprezza la vita umana

 Appello. Ci opponiamo a un governo che mostra un assoluto disprezzo per la vita e la dignità umana, come mai nessun altro nell’intera storia della Repubblica Continua inarrestabile, certifica l’Istat, la diminuzione di popolazione in Italia. Tale continua perdita dovuta in piccola parte all’emigrazione, è soprattutto il frutto della diminuzione costante della natalità: meno 4% l’anno scorso, una delle più alte della nostra storia. Si tratta di un tendenza che dura da anni, dovuta soprattutto alle condizioni di precarietà in cui è stata gettata la nostra gioventù. Una tendenza che significa perdita di classi scolastiche (quest’anno ne abbiamo perso 2000 tra medie ed elementari) e quindi diminuzione di occupazione per gli insegnanti. Ma significa aumento del grave squilibrio generazionale delle composizione della popolazione italiana: sempre più vecchi in pensione, bisognosi di cure e assistenza, e sempre meno giovani che lavorano, in grado di mantenere in equilibrio il sistema previdenziale italiano. Di questo passo il sistema pensionistico crollerà.
MA MENO BAMBINI e meno giovani significa paesi che si spopolano, vaste aree del nostro Paese che rimangono senza presidi umani. Ricordiamo che lItalia è un Paese di antichissima antropizzazione, interamente rifatto dall’uomo e che i suoi equilibri territoriali si reggono sulla presenza umana. Senza popolazione il suolo frana, gli edifici decadono, le strade vanno in rovina, i boschi si inselvatichiscono. Perdiamo le aree interne della Penisola e la popolazione si ammassa nei piani e nelle valli dove le alluvioni non più “filtrate” nelle alture diverranno sempre più distruttive.
RAMMENTIAMO INOLTRE che settori fondamentali della nostra economia, lallevamento del bestiame, il lavoro di semina e di raccolta dei prodotti agricoli, vale a dire la materia prima del cibo italiano, sarebbe impossibile senza il lavoro (spesso servile) degli operai extracomunitari. E lo stesso dicasi per lassistenza domiciliare agli anziani. Noi ci opponiamo da sempre alla politica, non solo migratoria, di Salvini, che viola apertamente, ad ogni passo, la nostra Costituzione e che mostra un assoluto disprezzo per la vita e la dignità umana, come mai nessun altro uomo di governo nella storia della Repubblica. Ma in questo appello intendiamo mostrare come nel repertorio delle menzogne di questo ministro rientri anche quella di maggior successo: «prima gli italiani».
NOI MOSTRIAMO INFATTI come il respingimento dei migranti, in grandissima parte giovani provenienti da varie aree del mondo, da parte del governo italiano e in primo luogo da Salvini, costituisce un danno gravissimo all’economia e alla società italiana. Il divieto di dare prospettive di lavoro (complice anche una legge criminogena come la Bossi Fini) ai tanti giovani di cui lItalia ha drammatico bisogno, si configura come un suicidio programmato del nostro Paese e un inganno alle nostre popolazioni aizzate con la politica della paura.
DI FRONTE A TALI INQUIETANTI prospettive noi denunciamo all’opinione pubblica internazionale e alle autorità dell’Unione Europea, il governo Italiano e in particolare il ministro dell’Interno, quale responsabile dell’accelerazione del processo di declino demografico dell’Italia, dell’arretramento economico complessivo del Paese, di un danno forse irreparabile alle future generazioni che non potranno più godere di un sistema pensionistico sostenibile e di un welfare dignitoso. Danni che si rifletteranno sull’intera economia europea. MA NOI ANNUNCIAMO che ovunque ci sarà possibile, in tutti i luoghi pubblici, nei media dove troveremo ascolto, nella rete, nei social, ricorderemo agli italiani che ogni voto dato alla Lega costituirà la costruzione di un gradino in discesa verso il declino irreversibile dell’Italia. Essi devono sapere che il loro consenso sarà un assenso al suicidio dellItalia e alla cancellazione di ogni speranza per le prossime generazioni.
* Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari, Tonino Perna, Battista Sangineto, Enzo Scandurra, Giuseppe Saponaro, Raffaele Tecce, Alfonso Gianni, Officina dei saperi, Osservatorio del Sud, Vito Teti, Enzo Paolini, Giuseppe Aragno, Mario Fiorentini, Laura Marchetti, Velio Abati, Paolo Berdini, Marta Petrusewicz, Graziella Tonon, Giancarlo Consonni, Alessandro Bianchi, Franco Novelli, Cristina Lavinio, Francesco Cioffi, Luigi Vavalà, Luisa Marchini, Piero Di Siena, Francesco Cioffi, Alberto Ziparo, Lucina Speciale, Daniela Poli, Massimo Veltri, Romeo Salvatore Bufalo, Franco Mario Bisaccia Arminio, Luisa Marchini, Rossano Pazzagli, Francesco Trane, Carlo Cellamare, Alfonso Gambardella, Peppino Buondonno, Gianni Speranza, Franco Blandi, Luigi Pandolfi, Francesco Santopolo, Marisa DAlfonso, Guido Viale,Vezio De Lucia, Armando Vitale,Camillo Trapuzzano. Simonetta Garavini.
Le altre adesioni devono essere inviate a: osservatoriodelsud@gmail.com
IL MANIFESTO 7.7.2019
Questa autonomia non si migliora, va fermata di Massimo Villone di Massimo Villone

Questa autonomia non si migliora, va fermata di Massimo Villone di Massimo Villone

Fino al 20 luglio, termine ultimo per un voto dopo l’estate, il regionalismo differenziato procederà col passo del gambero: uno leghista avanti, uno M5S di lato. È quel che serve a palazzo Chigi e in questa linea si colloca anche l’ultimo, affollato, vertice di maggioranza. Di sicuro non serve al paese. Nella confusione, alcuni punti rimangono irrinunciabili.

Il primo, sul metodo. Emendabilità delle intese, sì o no? Pare che Salvini abbia parzialmente aperto alla possibilità che sulle intese intervengano le commissioni di merito. Una soluzione comunque inaccettabile, se esclude una piena emendabilità, in commissione come in aula. L’articolo 116 comma 3, si impernia su una legge cui in tutto si applica il procedimento legislativo disegnato dall’art. 72 della Costituzione, che non può considerarsi bypassato dal richiamo alla previa intesa. Da tale richiamo non può discendere un procedimento legislativo che in Costituzione non esiste. Quindi, piena emendabilità anche in aula. Come corollario, il dettaglio delle intese deve essere scritto nella legge, che non può limitarsi a generici principi da attuare successivamente a trattativa privata, nei comitati paritetici tra ministero delle autonomie e singole regioni.

Il secondo punto, sulle competenze da trasferire. Bisognerà pur dire, prima o poi, che le richieste delle regioni almeno in parte vanno respinte. La richiesta avanzata da una regione non comporta alcuna accettazione automatica. Si delimiterà così il campo della trattativa possibile. Ad esempio, sulla scuola si può ben dire che non si tratta alcunché. Davvero si pensa a sistemi regionali di istruzione? Per insegnare la storia veneta o lombarda? Per giungere a un esame di stato veneto e ad uno pugliese? O a studenti capaci e meritevoli suddivisi per territorio?

Ci sono poi materie geneticamente non trasferibili se non in profili marginali. Tale, ad esempio, è il caso delle infrastrutture: porti, aeroporti, autostrade, ferrovie, produzione e distribuzione nazionale dell’energia devono rimanere strumenti di politiche nazionali, se ha ancora un senso la nozione di paese unito. Regionalizziamo l’Autostrada del sole, o l’alta velocità? Lo stesso vale per i beni culturali: è vero o no che Fontana insiste per mettere le mani della Lombardia sull’Ultima cena di Leonardo e la Pinacoteca di Brera? E come eviteremmo il Colosseo della Regione Lazio?
Innovazioni di tale portata non si fanno solo per una o due regioni. Il processo, una volta avviato, sarebbe inevitabilmente contagioso. Bisogna invece ritrovare nella lettura dell’art. 116 la dimensione regionale dell’interesse, legando il trasferimento di potestà legislative e funzioni amministrative a dimostrate specificità del territorio, e non solo a una maggiore efficienza gestionale, peraltro affermata apoditticamente, ed anzi smentita dalla prospettiva di un disordinato moltiplicarsi di apparati pubblici.

Il terzo punto è sulle risorse. Per molti versi siamo a zero. Rimane valida l’obiezione (di Tria) che il quadro dei costi non può essere determinato prima di sapere cosa si trasferisce. Lo stesso può dirsi per i fabbisogni standard, che però è acquisito non saranno stabiliti prima dell’approvazione delle intese. Quindi, si consolidano intese, potenzialmente non reversibili, senza sapere quanto costano e a chi? Partendo dalla spesa storica, che ormai una ampia documentazione prova in danno al Sud? Con privilegi fiscali e una prescrizione di invarianza di spesa per cui il guadagno di alcuni è fatalmente pagato da altri? Una operazione verità sui conti si impone prima di approvare le intese, non dopo.

La smettano Di Maio e Conte di dichiararsi a parole garanti della coesione nazionale, dell’unità del paese, del Sud. Perché non tirano le carte fuori dai cassetti blindati della ministra Stefani, consentendo una pubblica discussione? Si evince dall’appunto del Dipartimento affari giuridici e legislativi reso a Conte, e da anticipazioni di stampa, che le ultime bozze sono pessime non meno delle precedenti. Le pretese delle regioni non calano, e si conferma il separatismo nordista. E quindi Di Maio non parli di un piano per il Sud come se potesse bilanciare il regionalismo differenziato. Gli ricordiamo che i piani – come i governi – passano. Le riforme strutturali restano.

 

Il Manifesto

5.7.2019

Gli attacchi al Mibac e l’interesse Lega-Pd di Tomaso Montanari e Salvatore Settis   di Tomaso Montanari e Salvatore Settis 

Gli attacchi al Mibac e l’interesse Lega-Pd di Tomaso Montanari e Salvatore Settis   di Tomaso Montanari e Salvatore Settis 

In un articolo dal titolo particolarmente spiacevole (Beni culturali, è guerra per bande) apparso ieri su Repubblica, Sergio Rizzo ha ritenuto di dare amplissimo spazio alle feroci censure del soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, contro il suo superiore gerarchico diretto, il direttore generale per le Belle Arti, Archeologia e Paesaggio, Gino Famiglietti, e contro il Segretario generale Panebianco e il ministro Bonisoli. L’oggetto del contendere è la riforma del Mibac, appena approvata dal Consiglio dei ministri e che entra ora in fase di attuazione. Prosperetti attacca la norma che riporta nelle competenze del direttore generale l’apposizione dei vincoli: “Neanche il ministro fascista Bottai aveva osato tanto… la posta in gioco della nuova riforma è lo Stato di diritto, niente di più, niente di meno”. E, aggiunge Rizzo in una frase particolarmente misteriosa, “c’è perfino chi si spinge ad argomentare come questo passaggio possa generare un conflitto costituzionale, aprendo una contraddizione tra l’articolo 9, che tutela il paesaggio, e l’articolo 42 che garantisce la proprietà privata”. I cosacchi, insomma, starebbero per far abbeverare i loro cavalli nei ruscelli della Val di Susa o nei, salmastri, canali di Venezia. Ora, questa riforma non è certo esente da difetti, anche seri. Tra questi va annoverata, per esempio, la scelta di togliere l’autonomia alla Galleria dell’Accademia di Firenze non per sostenere (con i suoi introiti, legati alla presenza del David di Michelangelo) il Polo museale della Toscana, ma per accorparla agli Uffizi, in un monstrum elefantiaco di dubbio fondamento storico e di difficile governo. Invece, Prosperetti si scaglia proprio contro il principale punto di forza della riforma: riportare al centro le decisioni cruciali per la tutela di paesaggio e patrimonio. Il soprintendente di Roma e il suo intervistatore hanno un vuoto di memoria: i vincoli sono sempre stati in capo all’amministrazione centrale, fin dal 1909. Più esattamente spettavano al ministro stesso fino al 1993, e poi al direttore generale. Quando è che questa facoltà così delicata passò alle periferie? Il 20 ottobre 1998, e cioè l’ultimo giorno della permanenza di Walter Veltroni alla guida del ministero: quando fu varata una riorganizzazione che la assegnò alle testé create soprintendenze, e poi direzioni, regionali. Era il momento di maggior sudditanza culturale del centrosinistra alle istanze secessioniste della Lega, e infatti tre anni dopo passava l’orribile riforma del titolo V della Costituzione scritta dagli esponenti del futuro Pd. Basta questo per far capire quale è la posta in gioco dell’attuale partita dei Beni culturali. Non sappiamo quali saranno le conseguenze, in questo campo, della scellerata autonomia differenziata che fa leva sul il titolo V di quell’infelice riforma, e che è ora l’oggetto del principale braccio di ferro tra i due contraenti del contratto di governo. Ma quasi ogni giorno Salvini dice che vuole mettere le mani sulle soprintendenze del Nord: ed è evidente che la “raffica regionalistica” che Concetto Marchesi paventava in Costituente fin dal 1946 potrebbe presto diventare realtà. Da siciliano, Marchesi sapeva bene cosa significava: la sua regione aveva avuto un’autonomia specialissima addirittura prima della Costituzione, e infatti lì, dal 1975, le soprintendenze saranno sottoposte al potere politico regionale, con i devastanti risultati ambientali che chiunque oggi può constatare. Salvini dice anche che vorrebbe poter nominare il direttore di Brera: e la riforma Franceschini era arrivata a un passo dal permettere che i musei autonomi si costituissero in fondazioni di diritto privato con dentro gli enti locali, sul modello equivoco dell’Egizio di Torino. Come in molti altri casi, Lega e Pd si trovano dunque perfettamente d’accordo nella politica del consumo del territorio: un partito unico che ha il suo simbolo nel Tav e nel rifiuto di ogni controllo terzo, come quello delle odiate soprintendenze. Purtroppo il Movimento 5 Stelle è stato finora incapace di resistere adeguatamente all’“autonomia” secessionista di marca leghista mettendo in campo una chiara visione alternativa: ma bisogna dare atto al ministro Bonisoli di star provando a difendere il territorio (riportando i vincoli al centro) e i musei (annullando i cda dei musei autonomi) dalla balcanizzazione che rischia di far sparire il concetto stesso di ‘patrimonio della Nazione’, enunciato in un principio fondamentale della Carta. Quanto al ventilato conflitto tra articoli 9 e 42, bisogna ricordare che quest’ultimo prevede che la proprietà privata sia limitata per legge “allo scopo di assicurarne la funzione sociale”: è esattamente ciò che fanno i vincoli. Certo, il partito del cemento ha nel lavoro di Famiglietti e nello spirito di questo pezzo di riforma due fieri nemici: ma a noi questa sembra un’ottima notizia.

 

il Fatto Quotidiano

29 Giugno 2019