Mese: gennaio 2019

Il grande silenzio dei presidenti del Mezzogiorno di Piero Bevilacqua

Il grande silenzio dei presidenti del Mezzogiorno di Piero Bevilacqua

 Lo mostrano studi di singoli e di istituzioni: Veneto, Lombardia e poi le altre regioni del centro-nord, in virtù della distribuzione differenziata delle risorse fiscali, frantumeranno il tessuto unitario.

Nel mirino i servizi pubblici (scuola, sanità, trasporti, assistenza agli anziani, ecc), con l’obiettivo di dissolvere l’unità nazionale. L’anno prossimo le regioni a statuto ordinario compiranno mezzo secolo dalla loro istituzione e paiono intenzionate a celebrare la ricorrenza con il disfacimento della compagine unitaria dello stato repubblicano. E’ del resto con il controllo parlamentare, e quindi unitario e collettivo delle risorse fiscali, che sorge lo stato moderno ed è con il loro uso territorialmente differenziato che lo si dissolve. Si potrebbe anche non fare un dramma di tale prospettiva, se l’Italia, paese cosmopolita sin dalle suo origini, avesse la prospettiva di approdare a una superiore unità europea. Ma è davvero alla portata una tale prospettiva? E’ credibile in questa Europa regredita ai feroci nazionalismi del ‘900? E l’Italia avrà più carte in mano nelle ipotetiche, future trattative europee, presentandosi frantumata nei propri particolarismi regionali?

Come Osservatorio del Sud siamo impegnati a creare iniziative e dibattiti nel territori del Sud per l’8 febbraio, (ma sperando di continuare oltre, come faremo ad esempio a Bologna) con un vari incontri che si svolgeranno a Bari, Caserta, Catanzaro, Cosenza, Palmi, Reggio, Salerno e che avrà un momento importante di riflessione alla Sapienza di Roma, con il presidente dello Svimez, Adriano Giannola, Guido Pescolido, Gianfranco Viesti, Leandra D’Antone,Umberto Gentiloni, Emanuele Bernardi e il sottoscritto. Non mancano, infatti, al Sud, (ma anche al Nord, in condizioni difficili) tra le varie forze, dalla Cgil all’Anpi, dai militanti di Sinistra Italiana e di Rifondazione comunista, a tanti giovani del Pd, alle associazioni culturali, le voci di allarme per quel che accadrà alla sanità meridionale, già in grande affanno rispetto agli standard del centro-nord, alle scuole e alle Università, sempre più sottofinanziate ed emarginate rispetto al resto del Paese. Ma se siamo incoraggiati dalla sensibilità e dall’impegno che ritroviamo in tanti ambiti della società civile, non possiamo tacere su una dato che sino a oggi ci sembra di estrema, incredibile, inaccettabile gravità: il silenzio dei presidenti delle regioni meridionali. Si tratta di un fenomeno politico di prima grandezza, da denunciare all’opinione pubblica nazionale per la sua enormità. Per il passato storico e per le prospettive future.

Per il passato, perché i governi delle regioni meridionali sono responsabili del fallimento storico di una delle più importanti riforme dello stato repubblicano. Il decentramento regionale avrebbe dovuto avvicinare i cittadini allo stato, accorciare le distanze gerarchiche tra governanti e governati. Nel Sud, di fatto, ha avvicinato il ceto politico alle risorse pubbliche, creando fortune clientelari di correnti e capipartito, e contribuendo in parte anche all’erosione dell’etica pubblica dei partiti politici. Essi, insieme per la verità ai governi di tante altre regioni del centro-nord, non solo sono in buona parte responsabili della crescita del nostro debito pubblico, ma hanno mostrato (tranne alcuni casi virtuosi come la Puglia di Vendola e l’Abruzzo) una clamorosa incapacità di gestire le risorse pubbliche all’interno dei nuovi meccanismi di erogazione creati dall’Unione europea. Con grave danno alle popolazioni meridionali.

Oggi, di fronte alla minaccia così grave di una legge che apre prospettive fosche di regressione sociale e civile al nostro Mezzogiorno, di dissoluzione dei vincoli che hanno tenuto unito il Paese, i governati meridionali tacciono. Pensano di avvantaggiarsi incamerando, a loro volta, una maggiore autonomia dallo stato centrale? Sperano di avere mani libere e continuare, con più agio, con maggior potere sui comuni, a perseguire le proprie personali fortune politiche?

 

 

il Manifesto, 31 gennaio 2019

“I migranti nelle case vuote della Piana” Assemblea venerdì 1 febbraio nel Comune di San Ferdinando

“I migranti nelle case vuote della Piana” Assemblea venerdì 1 febbraio nel Comune di San Ferdinando

Continua e si intensifica la preparazione dell’assemblea di abitanti e lavoratori della Piana di Gioia Tauro prevista presso la Sala Consiliare del Comune di S. Ferdinando, venerdì 1 febbraio, alle ore 16.30, per la costituzione del “Comitato per il riutilizzo delle case vuote della Piana da parte dei lavoratori locali e migranti”.

L’iniziativa, promossa da operatori sociali e tecnici, insieme ad Alex Zanotelli e Domenico Lucano, intende favorire la formazione di un attore sociale, tecnico e culturale, che faciliti risposte al grande disagio abitativo esistente nella Piana di Gioia Tauro; particolarmente assurdo e paradossale in una realtà che presenta decine di migliaia di abitazioni vuote ed inutilizzate. In linea con quanto avviene in tutta la regione Calabria, dove le case vuote superano le 450 mila, nonché nella stessa città metropolitana di Reggio dove se ne contano più di 180 mila. Un enorme spreco economico e ambientale che lascia un bene come la casa all’abbandono e al degrado. Rendendo particolarmente inaccettabili le condizioni di migliaia di lavoratori, calabresi e migranti, che in zona dimorano in situazioni di forte precarietà e insicurezza.

Il riutilizzo del bene casa è diventato un’urgenza a cui è necessario provvedere; compiendo tra l’altro operazioni di pubblica utilità per l’intera Piana di Gioia Tauro. A questo proposito la Regione Calabria in questi giorni ha ribadito di avere riservato e finalizzato opportune risorse finanziarie per tali azioni di recupero sociale delle case inutilizzate e invita i comuni interessati ad attrezzarsi per usufruirne.

Il comitato che si costituirà a S. Ferdinando intende appunto svolgere un’azione di stimolo ma anche di ausilio per le amministrazioni locali. All’iniziativa stanno aderendo molte associazioni e movimenti sociali, sindacali, culturali e ambientalisti. All’assemblea è prevista la partecipazione, oltre che di dette organizzazioni, della Regione Calabria, della Città Metropolitana, di Sindaci e Amministratori della Piana, nonché degli stessi Zanotelli e Lucano.

Appuntamento presso il Comune di S. Ferdinando, 1 febbraio, alle ore 16.30.

 

…..e anche le badanti lasciano il Sud di Tonino Perna

…..e anche le badanti lasciano il Sud di Tonino Perna

 C’è un fenomeno sociale poco conosciuto e sottovalutato che rappresenta una possibile chiave di lettura della situazione drammatica che vive il Mezzogiorno oggi. Non lo troverete nelle statistiche, così come non trovate il dato reale dell’emigrazione giovanile: Svimez, Istat ecc. registrano solo i cambiamenti di residenza quando è noto che la gran parte dei giovani in fuga dal Sud cambiano la residenza dopo molti anni che hanno abbandonato la terra d’origine. In questo caso ci riferiamo al movimento lento, ma costante, ad un fuga che avviene fuori dai riflettori dei mass media: le badanti straniere stanno lasciando la gran parte delle città meridionali per recarsi al Nord.

Chi sono queste badanti straniere di cui nessuno parla? Secondo stime credibili ammontano a circa 1,2 milioni di persone, per la stragrande maggioranza donne, anche se esistono badanti maschi, soprattutto per funzioni secondarie (come dog-sitter). In grandissima maggioranza provengono dai paesi dell’est – rumene, ucraine, georgiane, moldave, ecc.- ma anche dalle Filippine e, in misura minore, da qualche altro paese asiatico (come il Bangladesh) o dell’America Latina (Equador soprattutto). Sono veramente rari i casi di badanti dell’Africa Sub-sahariana, per diversi motivi, non ultimo il colore della pelle. Sono un esercito silenzioso, che vive nell’ombra, stanno 24 ore su 24 nelle case delle persone anziane (per lo più non autosufficienti) ed hanno diritto per contratto a sole due uscite a settimana, il pomeriggio dalle 15 alle 20. Senza di loro sarebbero saltati molti equilibri familiari e centinaia di migliaia di anziani non autosufficienti sarebbero finiti in ospizi o abbandonati, dato che la maggior parte delle famiglie non dispone di un reddito tale da mantenerli in centri per anziani adeguati.

Nel Mezzogiorno fino a pochi anni fa le badanti straniere erano circa 400-450mila, una percentuale, rispetto alla popolazione, leggermente superiore a quella del Nord. Molteplici i motivi: la carenza di centri per anziani convenzionati con le Regioni, una sorta di “riprovazione sociale” rispetto all’allontanamento del genitore dalla sua abitazione, la facilità con cui, fino a qualche anno fa, si trovavano badanti straniere che accettavano di lavorare per pochi soldi e senza essere registrate.

Negli ultimi anni la situazione sta rapidamente cambiando: molti stranieri provenienti dall’est europeo stanno tornando a casa, soprattutto giovani che hanno messo da parte un po’ di denaro risparmiato, ma anche donne che facevano le badanti. Hanno iniziato otto anni fa i polacchi, seguiti dai rumeni e dagli albanesi, per cui si sta riducendo l’offerta di “serve” a tempo pieno. Il peggioramento della situazione economica italiana e il relativo miglioramento nei paesi d’origine fa sì che questi andamenti continueranno nei prossimi anni. Ma, mentre nel Nord Italia la risposta è stata quella di aumentare il salario delle badanti, al Sud non ci sono state variazioni di rilievo a livello di retribuzioni e di condizioni di lavoro: 600-700 euro al mese contro le 900-1000 delle grandi città del Nord Italia.

Pertanto le badanti straniere se ne vanno via dal Mezzogiorno e vengono sostituite solo parzialmente dalla forza-lavoro locale, in quanto è difficile trovare una donna meridionale che si sacrifichi tutto il giorno e che rimanga costantemente la notte a casa di un estraneo. Avveniva una volta, quando le giovanissime figlie dei contadini venivano mandate presso le case dei “Gnuri” per svolgere questo ruolo, ed in cambio quando diventavano adulte veniva loro regalato un corredo matrimoniale. Dagli anni ’60 del secolo scorso questa tradizione servile è finita, per fortuna, e le donne meridionali non sono più disponibili a questi lavori servili, in cui sei a disposizione del padrone/a giorno e notte.

Se questo trend verrà confermato gli anziani appartenenti al ceto medio meridionale, che è il più colpito dall’emigrazione dei figli, si troveranno in una condizione grave di abbandono e desolazione. Una situazione che ci porta a fare alcune riflessioni e proposte per i prossimi anni.

Innanzitutto è chiaro, anche nel Sud del “familismo amorale” come l’aveva definito Banfield, la famiglia allargata è scomparsa da tempo (rimangono delle testimonianze nelle aree interne) e quella nucleare è entrata in una crisi profonda. L’emigrazione di massa ha accelerato questi processi e ora ci porta di fronte a delle scelte ineludibili: o si trovano nuove strade per il welfare che organizzi dei servizi collettivi adeguati o lasceremo una gran parte della popolazione. Gli anziani soli e abbandonati che hanno una pensione dignitosa potranno seguire i figli che sono emigrati, per gli altri non ci resta che piangere. Salvo che i corpi intermedi della società meridionale non reagiscano, a partire dai sindacati che dai pensionati ricevono il maggior contributo economico, e si costruisca un’altra struttura di welfare adeguata ai nuovi bisogni.

 

Se la sperequazione tra Nord e Sud aumenta di Gianfranco Viesti

Se la sperequazione tra Nord e Sud aumenta di Gianfranco Viesti

 

Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna hanno un PIL complessivo superiore ai 700 miliardi di euro, poco più del 40% del totale italiano. Negli ultimi anni hanno avuto una crescita economica migliore di quella media: delle altre regioni del Nord e dell’intero Centro-Sud; (anche se molto più modesta rispetto alle più avanzate regioni europee); sono aumentate così le disparità fra queste regioni e il resto del paese. Sono però le stesse, in particolare le prime due, nelle quali si sono levate più forti le voci a favore di un’autonomia differenziata molto spinta, che consenta di trattenere nei rispettivi territori una quota cospicua del cosiddetto “residuo fiscale”. Più a me; meno a te. Si tratta di una richiesta inaccettabile per la comunità nazionale, sia per motivi politico-economici che strettamente economici.

I residui fiscali regionali sono una stima, calcolata sottraendo dalla la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale complessivo generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. L’uso di questo concetto ipotizza che l’azione dello Stato redistribuisca esplicitamente risorse fra le regioni. Così non è. Ciò avviene esclusivamente per le politiche “per la coesione” (in attuazione del quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione), dirette principalmente – ma non solo – a favore del Mezzogiorno e per la verità sempre più modeste. La redistribuzione operata dall’azione pubblica è forte; ma non è fra territori, bensì fra individui. La massima parte della conseguente redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato di grandi scelte pubbliche, anch’esse in attuazione della Costituzione, che hanno come beneficiari i cittadini (in base all’età, alla salute, al reddito) prescindendo dall’area di residenza, e che sono finanziate con una tassazione che incide di più sui cittadini a maggior reddito. Il residuo fiscale regionale dipende semplicemente dal fatto che in alcune regioni ci sono cittadini più agiati e in altre meno. Non può essere un criterio da utilizzare per la realizzazione delle politiche pubbliche e per una eventuale loro diversa intensità fra regioni. Lo ha chiaramente affermato anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza 69/2016: perché significherebbe trattare cittadini uguali in modo diverso solo perché abitano in regioni diverse.

Ma ci sono anche motivi strettamente economici per non farlo. Redistribuire la spesa pubblica secondo il residuo fiscale significa aumentarla in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto (e in misura minore in Piemonte e Toscana) e ridurla nel resto del paese. Fortemente nel Mezzogiorno e in Umbria. Per Liguria e Marche l’impatto sarebbe modesto; per il Lazio l’effetto può essere anche molto diverso a seconda di come si effettua il calcolo; e in quel caso bisognerebbe attentamente riflettere sugli effetti di un forte decentramento sul ruolo di Roma. Cioè significa operare per accrescere ulteriormente le disparità interne al paese. Ma questo non solo non è opportuno per l’unità sostanziale dell’Italia; ma è anche molto dubbio che convenga, a lungo andare, anche per le regioni più forti.

In un paese così diverso come l’Italia, all’azione redistributiva fra i cittadini del bilancio pubblico, che sposta risorse da Nord a Sud, fa riscontro un notevole flusso di beni e servizi prodotti al Centro-Nord, ed in particolare al Nord, e consumati nel Mezzogiorno. Le diverse parti dell’economia italiana sono profondamente interdipendenti. Sulle modalità dello sviluppo del paese ha inciso il ritardo del Sud: l’industria e i servizi delle aree più forti, hanno da sempre potuto godere di un mercato, di oltre venti milioni di abitanti, con una modesta concorrenza locale. Tutte le stime mostrano che la spesa nel Mezzogiorno, in particolare quella per investimenti, ha un effetto di traino; genera acquisti dalle regioni più forti; redistribuisce i suoi benefici su tutto il paese. Mentre non accade il contrario: maggiore spesa nelle regioni più forti tende a concentrare esclusivamente in quei territori il proprio impatto, non diffonde effetti sull’intero paese (motivo per cui sono totalmente ingiustificate le affermazioni secondo cui una autonomia differenziata spinta farebbe bene all’intero paese).

Con la crisi, si è diffuso molto l’egoismo territoriale, non solo in Italia (si pensi alle assai simili vicende della Catalogna); l’orizzonte si è accorciato sul breve periodo. Ma sono prospettive di corto respiro. Una regione non cresce se “si tiene i suoi soldi” – come nel gretto pensiero mercantilista del XVII secolo. Cresce, come è noto agli studiosi di economia quantomeno dalla fine del XIX secolo, se è inserita in una più ampia comunità nazionale, ed europea. Nella quale, grazie a profondi legami di interdipendenza, la crescita di ogni parte favorisce quella delle altre.

MESSAGGERO E IL MATTINO

5.1.2019

Gianfranco Viesti

Se la priorità è la questione settentrionale di Gianfranco Viesti

Se la priorità è la questione settentrionale di Gianfranco Viesti

La questione settentrionale pare la prima, forse l’unica, priorità del paese. Più vicende sembrano giustificare questa impressione. C’è la questione dell’autonomia delle regioni del Nord, in questi giorni sotto traccia ma pronta a scoppiare quando il Governo mostrerà le carte e se ne potranno capire tutte le conseguenze negative per il resto del paese. C’è la rappresentazione insistita del disagio “del Nord” per alcune delle misure di politica economica, con le iniziative delle associazioni territoriali e l’immagine del “Partito del PIL” che rappresenterebbe l’Italia che si dà da fare, lavora, investe e contesta l’”assistenzialismo”; e sta tutta ad una certa latitudine. C’è, naturalmente, l’azione politica della Lega, che rimane un partito che ha molto più a cuore gli interessi dei suoi tradizionali territori di insediamento rispetto al resto del paese, e che interviene su ogni misura per assicurarsi che il suo impatto territoriale sia favorevole; a fronte di un Movimento 5 Stelle che non sta certamente usando i moltissimi voti raccolti al Sud alle ultime elezioni per controbilanciare queste tendenze.

E c’è la vicenda dalla TAV Torino-Lione. Che certo balza all’attenzione delle cronache per i contrasti nel governo. Ma che assume una valenza prioritaria proprio perché viene vista e presentata come un’opera del Nord e per il Nord. Prova ne è l’idea del referendum, da attivare nel caso il governo decida negativamente sull’opera. Il Presidente della Regione Piemonte ha dichiarato “chiederò al Consiglio regionale di indire un referendum consultivo. Se lo riterranno, potranno unirsi i colleghi di Veneto, Lombardia, Valle d’Aosta, e Liguria, in modo da avere una giornata in cui tutto il Nord Italia si pronunci sulla Tav”. Subito sostenuto dal Presidente della Lombardia, così come dallo stesso Vicepresidente del Consiglio Salvini.

Curioso no? Specie se si considera che il costo della TAV verrebbe comunque sopportato da tutti i contribuenti italiani, e non solo da quelli del Nord. Ma l’eventuale potere di decidere sulla realizzazione dell’opera – a spese di tutti – starebbe solo a loro. Forse perché sono più seri, più capaci: non è chiaro. Un tempo le classi dirigenti italiane sostenevano che i valichi alpini erano della grandi opere di valenza nazionale, certamente non locale: per mettere in collegamento l’intero paese con il resto dell’Europa. Per permettere alle merci di risalire la penisola, ancor più a partire dalle aree più lontane dalle Alpi, e trovare sbocchi di mercato nelle grandi economie continentali. Per permettere ai passeggeri di poter viaggiare attraverso tutto il Continente. Come i grandi porti del Mediterraneo. Argomenti che sembrano appartenere ad un’altra era politico-culturale.

D’altronde non sono questioni nuove. Se si compara la mappa dell’alta velocità ferroviaria italiana con quella spagnola, francese, tedesca balza subito all’occhio una fondamentale diversità. In Spagna e in Francia le reti disegnano sostanzialmente una grande raggera, che parte dalla capitale e copre tutto il paese; in Germania un disegno molto fitto, che collega tute le città, a Nord e a Sud, ed Est e a Ovest. Solo in Italia ha la forma di una T: un asse verticale che sale da Napoli a Milano, e un asse orizzontale, in completamento, da Torino a Venezia. Tutto ciò che è a Sud di Napoli, o ad Oriente dell’Appennino, non conta. E la priorità è completare i collegamenti verso il Veneto (per un risparmio di tempi modesto, ad un costo molto alto), e verso Genova. Quest’ultima decisione assai opportuna, per collegare una città in gravissima difficoltà. Ma che non vale per tante altre città del paese: perché, non sono nell’Italia “seria”, quella di serie A. Senza parlare naturalmente dell’Italia – da questo punto di vista – di serie C: dove servono sei ore per andare da Ragusa ad Agrigento e quattro per andare da Cagliari ad Olbia.

Sembra che lo sguardo di una parte rilevante delle classi dirigenti politico-economiche del Nord (ben al di là del perimetro leghista) si sia decisamente accorciato. Interessa e conta solo ciò che si fa qui: siano le Olimpiadi invernali o lo Human Technopole o la Torino-Lione. Posizione assai miope, sia consentito dirlo. Non solo per motivi di equità, ma anche di efficienza. Se non si rilancia l’intero paese, se non si investe in tutte le sue città e in tutti i suoi territori, le stesse aree più forti ne soffriranno. Tenderanno a ridiventare, come in un passato non così lontano, piccole economie satelliti di quella germanica; e non la parte più avanzata di un grande paese.

Gianfranco Viesti

L’indignazione non basta di Gianni Festa

L’indignazione non basta di Gianni Festa

No, non ci casco. Non mi accodo agli indignati che reagiscono alle offese ai meridionali, definiti “Terroni e spreconi”.

E’ storia primordiale assegnare il luogo di nascita all’occupazione del potere. Se anche così fosse, bisognerebbe indicare i benefici, che in virtù della località di nascita, ricavano i territori interessati. E non mi pare, riflettendo sulle condizioni attuali del Mezzogiorno, che qualcosa sia cambiato. E allora perchè ogni tanto si tira fuori dal cilindro l’antimeridionalismo inzuppato di rancore? Troppo evidenti, a me sembra, sono i motivi degli insulti dell’ultimora. Uno su tutti.

 

La sporca guerra che Lega e M5s portano avanti nel nome della divisione del Paese. Salvini pretende di dare l’autonomia alle regioni settentrionali (Veneto e Lombardia) e Di Maio rivendica la concessione del reddito di cittadinanza, destinato per gran parte alle regioni meridionali.

Questa, a me pare, è la partita che si gioca sul campo del compromesso al ribasso della compagine governativa. Si tratta di misera tattica, senza una strategica visione unitaria del Paese. Questo dovrebbero capire i soloni del meridionalismo che, accettando le provocazioni, trasformano la realtà in un conflitto di parole. La risposta, a mio avviso, dovrebbe essere non l’indignazione, ma la scoperta nel Sud, dal Sud e per il Sud di una nuova stagione dei doveri.

Solo attraverso una politica dei fatti che veda protagonisti i meridionali si possono annullare i motivi degli insulti.

L’avvento di questa alba nuova ci sembra ancora molto lontana. In questa direzione è emblematica l’affermazione di Di Maio che coglie al balzo l’occasione dei sostenitori della Lega minacciandoli di fare giustizia eliminando i contributi per l’editoria. Caduta di stile. Non solo. Al Sud l’editoria è debole.

Le grandi testate sono tutte nel Centro Nord. Nel Mezzogiorno invece resistono coraggiosi che danno vita a testate locali, che sono sentinelle di democrazia del territorio. Questo Di Maio non lo sa.

 

il Quotidiano del Sud, 13 gennaio 2019

L’Osservatorio del Sud contro la Secessione del Nord

L’Osservatorio del Sud contro la Secessione del Nord

L’Osservatorio del Sud è nato, su ispirazione ed impulso di Piero Bevilacqua, meno di un anno fa. Ha come scopo principale quello di porre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica i gravissimi problemi dell’Italia meridionale superando   retoriche e recriminazioni del passato, a volte persino neoborboniche, e privilegiando analisi circostanziate e multidisciplinari per trarre il Sud fuori dalla coltre degli stereotipi che lo deformano.

L’Osservatorio -che ha un Comitato scientifico composto, fra gli altri, da Salvatore Settis, Gianfranco Viesti, Tomaso Montanari, Tonino Perna, Mimmo Cersosimo, Battista Sangineto, Enzo Scandurra e Vito Teti- vuole non solo mettere insieme le intelligenze meridionali disperse nella Penisola ed in Europa, ma ha anche l’ambizione di elaborare idee, progetti e proposte, che aiutino le forze migliori a trovare la strada di un impegno corale di trasformazione sociale ed economica e di emancipazione civile.

L’Osservatorio è, coerentemente ai suddetti scopi e principî, del tutto contrario alla legge sull’autonomia della Regione Veneto che nasce dalla volontà, da parte della Lega, di trattenere una quota molto maggiore del gettito fiscale regionale, sottraendolo allo Stato nazionale e quindi alla redistribuzione in favore di tutti gli altri cittadini italiani. Quella che viene chiamata “autonomia regionale”, è, invece, una vera e propria secessione dei ricchi. Il divario Nord/Sud, già allargatosi durante la recente recessione economica, si trasformerebbe in abisso facendo venir meno il principio costituzionale della parità di trattamento di tutti i cittadini italiani.

L’Osservatorio del Sud, in prossimità della discussione della legge che dovrebbe tenersi il 10 febbraio, promuove, pertanto, una giornata nazionale di discussione sulle sorti del Mezzogiorno e dell’Italia che si terrà l’8 febbraio prossimo in alcune città: a Roma presso l’Università la Sapienza, a Bari, a Cosenza ed a Catanzaro. L’Osservatorio sarà, anche, un punto di riferimento, pubblicando le date ed i luoghi delle iniziative per mezzo del suo sito web e della sua pagina fb, per tutti coloro i quali –Associazioni, Sindacati etc.- hanno a cuore l’unità dell’Italia e vogliono promuovere iniziative e dibattiti pubblici su questo tema, anche prima della giornata dell’8 febbraio.

https://www.osservatoriodelsud.it/; https://www.facebook.com/osservatoriodelsud/ osservatoriodelsud@gmail.com

 

Il Manifesto

12.1.2019

Una giornata per il Sud (e per il Paese) di Piero Bevilacqua

Una giornata per il Sud (e per il Paese) di Piero Bevilacqua

Dei punti programmatici nell’agenda dell’attuale governo di certo il più gravido di conseguenze, per l’avvenire del Paese, è quello relativo all”autonomia regionale del Veneto.Un forma camuffata di secessione territoriale qual era nelle aspirazioni originarie della Lega di Bossi. Si tratta di un progetto di ristrutturazione istituzionale che trascinerrebbe immediatamente nello stesso percorso le altre regioni del Nord e che porterebbe innanzi tutto a una frantumazione dei servizi, vale a dire il tessuto effettivo di uno stato-nazione. Avremmo una regionalizzazione della sanità, della scuola, delle grandi reti energetiche e infrastrutturali, perfino dell’Istat. Ma tale autonomia inaugurerebbe un regime di fiscalità speciale destinata a rendere le regioni ricche sempre più ricche e quelle deboli sempre più deboli. E’ la stessa ratio che premia il cosiddetto “mercato” e che in realtà lascia la dinamica sociale alla logica delle forze in campo, così che il più forte diventa sempre più forte, generando il meccanismo delle disuguaglianze che lacera le società del nostro tempo. Il Mezzogiorno sarebbe la più grande vittima di un tale stravolgimento.Una larga area del Paese, a cui oggi vengono offerti servizi pubblici che, per risorse rese disponibili dallo stato e per standard qualitatitivi, sono di gran lunga peggiori rispetto a quelli del resto d’Italia.

Voci autorevoli si sono levate contro questo nefasto progetto.Istituzioni come l’Istat e lo SVIMEZ, intellettuali come Gianfranco Viesti, estensore di un appello che ha raccolto migliaia di firme, Massimo Villone, che ne ha illustrato i tratti di incostituzionalità su questo giornale (Il Manifesto       21/12 2018), l’Osservatorio del sud, che ha fatto circolare un appello manifesto sulla rete e in qualche città del Sud.

La legge in agenda del governo è di quelle destinata a creare meccanismi a catena di egoismi territoriali, innescando una dinamica di disgregazione che diventerà irrevresibile. Da essa non si tornerà più indietro, anche perché in un’ epoca in cui gli uomini sono diventati piccoli, non si vede all’orizzonte un padre della patria che possa mettere insieme i cocci. Ma questa è davvero, per chi ha almeno una superficiale memoria della storia d’Italia, un’avventura pernciciosa, che ci trascinerà nel passato e che ci perderà. Già stentiamo ad avere in Europa il ruolo e l’influenza che ci competerebbe. Diventeremmo più forti con un paese frantumato in regioni, ciascuna dietro le proprie logiche economiche e i propri interessi, con un potere pubblico centrale logorato nello sforzo quotidiano di tenere insieme le più eterogenee spinte centrifughe? Ma davvero nell’epoca dei giganti istituzionali, delle grandi aggregazioni sovranazionali, la strada è quella dei puzzle regionalistici?

Ma ci sono un alcuni elementi di riflessione che devono allarmare anche la borghesia del Nord.L’emarginazione ulteriore del Sud indebolirebbe l’intero sistema Paese, quello che ha permesso le fortune delle regioni del Nord.E in tale sistema un ruolo di primo pianno hanno avuto e continuano ad avere le intelligenze formate nelle scuole e nelle Università meridionali. Se l’industria settentrionale oggi ha una grande proiezione nei mercati esteri, non viene certo meno per essa l’importanza strategica di uno stabile mercato interno. Ma la rottura della coesione sociale nel Sud ha ormai effetti nefasti lungamente sperimentati: essa estende l’area di influenza e di riproduzione delle mafie.Le quali, fenomeno ormai conclamato, nel Sud hanno le proprie retrovie e i centri strategici e di insediamento territoriale, ma trovano sempre più nel Nord le economie ricche dove riciclare il danaro sporco dei traffici internazionali.

Di fronte all’ estrema gravità delle prospettive che si preparano per il Mezzogiorno e per il Paese, come Osservatorio del Sud – un’associazione di semplici cittadine e cittadini, insegnanti, intellettuali, sindacalisti – vogliamo lanciare una giornata di riflessione non solo sulle potenzialità eversive di questa legge, ma anche sulle condizioni e le prospettive del nostro Sud. Quest’area del paese può diventare il laboratorio di una grande riconversione ecologica dell’economia italiana. A cominciare dalla riconversione delle sue industrie novecentesche, quelle impiantate, come già Bagnoli, nelle aree paesaggistiche fra le più suggestive della Penisola, da Taranto a Manfredonia, da Brindisi a Siracusa, da Gela a Milazzo. Si tratta di riprogettare economie , che vedano nel territorio, non più il luogo devastabile delle attività produttive, ma il valore più rilevante da mettere al centro di nuove forme di produzione di ricchezza e benessere. Un progetto al quale chiamare la gioventù italiana, con le sue energie e cratività, oggi messa ai margini da una ottusa gerontacrazia. Una giornata, fissata per l’ 8 febbraio durante la quale, chiediamo ai presidenti di Regione, ai sindaci, alle forze politiche, ai sindacati, all’Anpi, alle associazioni culturali, di organizzare iniziative in cui si ponga al centro del dibattito il destino del Sud e del Paese di fronte alla minaccia che incombe. Una giornata-simbolo per preparare la quale verrebbero impegnati ovviamente tutti i giorni che ci separano da essa.

 

Il Manifesto

12.1.2019