Mese: gennaio 2023

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023
Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260

Lettera aperta al Ministro Sangiuliano sul Museo di Alarico e sulla statua ‘Brettia’ a Cosenza.

Lettera aperta al Ministro Sangiuliano sul Museo di Alarico e sulla statua ‘Brettia’ a Cosenza.

LETTERA APERTA AL MINISTRO SANGIULIANO SUL MUSEO DI ALARICO E SULLA STATUA ‘DONNA BRETTIA’ A COSENZA.

I sottoscritti ritengono che l’attuale Amministrazione comunale di Cosenza commetta un grave errore nel continuare l’opera dell’ex Sindaco Occhiuto non opponendosi alla costruzione del Museo di Alarico già fermata nel novembre 2018 da un provvedimento dell’allora direttore generale del Mibac, Gino Famiglietti, che revocava, in autotutela, il permesso paesaggistico concesso, all’epoca, dal Soprintendente ABAP di Cosenza Mario Pagano.

I sottoscritti chiedono che l’Avvocatura dello Stato -su impulso del Ministro e della competente Soprintendenza- si appelli presso il Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar Calabria che, nel dicembre 2022, ha annullato il suddetto provvedimento del Mibac dando sostanzialmente il via libera alla costruzione del sunnominato Museo di Alarico.

I sottoscritti si chiedono cosa spinga a voler costruire un Museo -in totale assenza della più piccola testimonianza materiale alariciana e per un costo fra i 7 e i 10 milioni di euro- dedicato ad un invasore che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C. -secondo un racconto del solo Iordanes, uno scrittore vissuto 150 anni dopo i fatti- muore, per caso, nei pressi di Cosenza.

I sottoscritti segnalano, inoltre, che all’inutile e costosissima erezione di un Museo alariciano si è, di recente, aggiunto un altro tentativo di falsificazione della Storia costituito dal posizionamento nei pressi del Centro storico cosentino, da parte dell’Amministrazione comunale, di una discutibile opera bronzea, alta circa 2 metri, che raffigurerebbe, nelle intenzioni della scultrice e dei committenti privati, un mitico personaggio femminile la cui esistenza non è mai stata provata. ‘Brettia’ è una figura leggendaria dalla quale alcune mitopoietiche ricostruzioni vorrebbero far discendere non solo l’etnonimo degli abitanti di gran parte della Calabria di età ellenistica, ma persino l’ancor più fantasiosa fondazione di Cosenza.

I sottoscritti ritengono che questi due elementi facciano parte di uno stesso offuscamento della coscienza collettiva e della conoscenza della Storia e che esso conduca all’estrema e perversa conseguenza di una pericolosa e manipolatoria invenzione identitaria che, peraltro, poggia su basi palesemente false.

I sottoscritti sono convinti che solo il restauro complessivo e capillare -che deve necessariamente comprendere gli edifici privati e non, come l’attuale Amministrazione comunale sta facendo, solo gli edifici di proprietà pubblica- della Cosenza storica potrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso nel quale la “redditività” del patrimonio culturale cosentino e calabrese non risiederebbe solo nella sua commercializzazione e nel turismo che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo ed indispensabile senso di appartenenza e di cittadinanza ispirato dalla propria Storia e dai valori simbolici ad essa collegati.

I sottoscritti chiedono, dunque, al competente Ministro, Gennaro Sangiuliano, di usare gli strumenti a sua disposizione -amministrativi, di governo e anche di impulso legislativo- per impedire la costruzione del Museo di Alarico ed il posizionamento su suoli e locali pubblici della statua della cosiddetta “Donna Brettia” e auspicano, invece, il restauro degli edifici pubblici e privati del Centro storico di Cosenza che permetterebbe di restituirlo ai cosentini, prima che un acquazzone un po’ più forte lo porti via.

Carla Maria Amici archeologa, Università del Salento
Alessandra Anselmi storica dell’arte, Università di Bologna
Pier Giorgio Ardeni storico, economista, Università di Bologna
Pino Ippolito Armino ingegnere nucleare, Politecnico di Torino
Paul Arthur archeologo, Università del Salento, presidente S.A.M.I.
Domenico Belcastro già Soprintendenza della Calabria
Piero Bevilacqua storico, Università La Sapienza Roma
Vittorio Cappelli storico, Università della Calabria
Club Telesio associazione, Cosenza
Comitato Piazza Piccola associazione, Cosenza
Massimo Covello sindacalista, dirigente CGIL Calabria
Mariafrancesca D’Agostino sociologa, Università della Calabria
Giovanna de Sensi Sestito storica, Università della Calabria
Massimo di Salvatore storico, Como
Lucia Faedo archeologa, Università di Pisa
Amedeo di Maio economista, Università l’Orientale Napoli
Mario Fiorentini giurista, Università di Trieste
Pier Giovanni Guzzo archeologo, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte
Donatella Loprieno costituzionalista, Università della Calabria
Maria Teresa Iannelli archeologa, Soprintendenza della Calabria
Marta Maddalon linguista, Università della Calabria
Mauro Francesco Minervino antropologo, ABACatanzaro
Tomaso Montanari storico dell’arte, Università per stranieri Siena
Enzo Paolini avvocato costituzionalista
Tonino Perna economista, Università di Messina
Maurizio Pistolesi archeologo, Cosenza
Edina Regoli archeologa, Rosignano Marittimo (LI)
Mimmo Rizzuti sindacalista, Osservatorio del Sud
Battista Sangineto archeologo, Università della Calabria
Francesco Santopolo agronomo, Università La Sapienza Roma
SeminAria cultura associazione, Cosenza
Enzo Scandurra urbanista, Università La Sapienza Roma
Salvatore Settis archeologo, Scuola Normale Superiore Pisa
Nicola Siciliani de Cumis pedagogista, Università La Sapienza Roma
Roberto Spadea archeologo, Soprintendenza della Calabria
Lucinia Speciale storica dell’arte, Università del Salento
Mara Sternini archeologa, Università di Siena
Armando Taliano Grasso archeologo, Università della Calabria
Vito Teti antropologo, Università della Calabria
Giovanni Turone
John Trumper linguista, Università della Calabria
Alberto Ziparo urbanista, Università di Firenze

foto di Ercole Scorza
per adesioni all’appello: osservatoriodelsud@gmail.com

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Da quando è scoppiata questa maledetta guerra in Ucraina si è percepita subito una nuova dimensione del conflitto giocato oggi su più piani, che sempre più spesso troviamo sulla stampa con la qualificazione di «guerra ibrida». Significa una guerra che si conduce non solo sul piano militare, ma anche su quello della propaganda, diventata un’arma ugualmente letale, ed anche sull’uso degli hackers e della cyberwar che mettono fuori gioco interi sistemi logistici e possono mettere in ginocchio un paese più delle armi.

Nella letteratura scientifica sono stati pubblicati alcuni testi su questa nuova categoria della guerra ibrida. Ne è nato un dibattito a livello accademico, partito da alcuni studiosi di Oxford, sulla definizione di Hybrid warfare dove sono analizzate tutte le possibili strategie di guerra che non appartengono ai sistemi tradizionali caratteristici de i conflitti nel secolo scorso.

C’è da dire che la propaganda è stata un’arma ampiamente usata anche in passato, da quando sono nati e si sono diffusi i moderni mezzi di comunicazione di massa.

Certamente non lo era al tempo dei Romani o nel Medio Evo, ma già con la nascita dei quotidiani il potere politico ha messo tutte e due le mani sull’informazione in tempo di guerra. Oggi i social network sono uno strumento potente di diffusione delle notizie che è diventato prevalente nell’ultimo decennio. La novità consiste nel fatto che mentre prima ogni governo in guerra tempestava la propria popolazione con informazioni manipolate, sui danni al nemico e sulle proprie perdite, così come sulle ragioni del conflitto, oggi grazie alla tecnologia digitale un governo può usare i social dell’avversario per diffondere fake news a volontà. In altri termini, riesce a fare la sua propaganda sul terreno dell’avversario.

Anche le immagini catturate durante il conflitto non costituiscono più una prova al cento per cento, possono essere manipolate a piacere e seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. In sostanza, la guerra ibrida fa emergere un fatto di cui dobbiamo prendere atto: la prevalenza della costruzione politica della realtà. Nell’era della scienza e della tecnica in cui l’umanità sembrava essersi liberata da magie e superstizioni, una sfida ben più grande si pone per chi vuole conoscere la Verità, non in astratto ma rispetto ad un conflitto come quello in Ucraina in cui muoiono migliaia di persone e non se ne vede la fine.

In un tempo in cui siamo bombardati letteralmente da un’infinita di informazioni non sappiamo, per esempio, quanti sono stati i militari ucraini morti in guerra, mentre sappiamo, forse, che quelli russi sono centomila. Come mai, ci domandiamo, non esiste un dissenso rispetto a continuare questa guerra suicida da parte del popolo ucraino? Una parte del popolo russo ha protestato i primi mesi contro questa guerra e l’ha pagata duramente, ma non sappiamo quanti sono fuggiti per non essere reclutati e, dall’altra parte, quanti giovani ucraini sono scappati per non finire al fronte. O sono tutti eroi? E che fine hanno fatto ministri e generali rimossi da Putin o le migliaia di dissidenti incarcerati?

Si può dire con un grande filosofo che «non esistono fatti ma solo interpretazioni», ma così si cade in un relativismo assoluto che impedisce qualunque pensiero critico o iniziativa politica. Ed invece abbiamo bisogno per agire di capire, di farci un’idea più chiara delle partite che si stanno giocando in questa tremenda guerra ibrida.

Come la sordida guerra tra le valute, che non si può lasciare agli analisti finanziari, ma che ha ricadute politiche importanti come l’uscita del dollaro dagli scambi commerciali e finanziari tra Russia, Cina e India.

Una informazione indipendente è fondamentale in questa fase storica. Per questo sostenere questo giornale e gli altri pochi spazi di informazione libera costituisce un atto politico di primaria importanza. Certo, sappiamo che è una lotta impari contro gli oligopoli/piattaforme dell’informazione ma non abbiamo alternative se non vogliamo rinunciare a pensare con la nostra testa. La campagna abbonamenti per sostenere il manifesto, con la bella foto di Luciana Castellina, non poteva cadere in un momento storico più cruciale.

da “il Manifesto” dell’11 gennaio 2023
Foto di Дмитрий Буханцов da Pixabay

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

Il ministro Calderoli ha tradotto il termine spacca-Italia – giudizio indiscutibilmente politico – in una offesa alla sua onorabilità. Minaccia addirittura le vie legali.

Per quanto ci riguarda, del suo onore non dubitiamo affatto. Ma nemmeno dubitiamo che il suo progetto di autonomia differenziata sia dannoso per il paese. Un danno che si produce su due versanti.

Il primo. Il ministro ha infilato nella legge di bilancio una decina di commi sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Sembrerebbe cosa buona e giusta, perché l’art. 117.2, lett. m), affida i Lep alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla pari con politica estera, difesa, sicurezza e altro ancora. Un presidio apparentemente fortissimo.

Ma nei commi in questione non troviamo quali sono le materie Lep, quali gli ambiti, quali le risorse, quali i tempi. C’è solo una via tecnico-burocratica per la definizione, per di più in una dichiarata assenza di risorse. Un percorso che vede l’adozione con decreti del presidente del consiglio dei ministri e la marginalità del parlamento, nonostante il presidio dell’art. 117.2. I Lep sono sottratti di conseguenza anche al controllo del capo dello Stato in sede di promulgazione della legge e della corte costituzionale nel giudizio di legittimità. Si aggiunga che mettendo i Lep nella legge di bilancio il ministro sottrae il relativo procedimento anche al referendum abrogativo ex art.75. Un “pacco”.

Il secondo è la legge di attuazione. Un altro “pacco”. È consegnata all’eternità della rete una dichiarazione di Calderoli di aver ritenuto inizialmente la legge (legge-quadro o di attuazione è lo stesso) non necessaria, potendosi stipulare le intese anche in mancanza. Poi ha cambiato idea. Peccato, perché era buona la prima.

La legge di attuazione è inutile, perché non è sovraordinata alla legge che concede maggiore autonomia. Ad esempio, se anche la legge di attuazione escludesse la regionalizzazione di scuola, infrastrutture strategiche, lavoro, energia, porti, aeroporti, autostrade, ferrovie o altro ancora, la legge sulla maggiore autonomia di una o più regioni potrebbe ugualmente concederla. Lo stesso vale per il caso di mancata determinazione dei livelli essenziali nelle materie Lep.

Un referendum abrogativo della legge di attuazione Calderoli sarebbe ammissibile, ma inutile, perché non precluderebbe la stipula di singole intese con singole regioni. Mentre la legge recante la maggiore autonomia per la singola regione ai sensi dell’art. 116.3 sarebbe – quella sì – sottratta a referendum abrogativo in quanto legge “rinforzata”, secondo una antica giurisprudenza della Corte costituzionale. Al tempo stesso, la maggiore autonomia acquisita attraverso l’art. 116.3 è potenzialmente irreversibile, perché la modifica successiva dovrà comunque essere fatta con lo stesso procedimento.

Quindi, in base a nuova intesa con la regione, che potrebbe ovviamente negarla. Né infine è credibile che una maggiore autonomia conseguita con trasferimento di risorse umane, organizzative, strumentali, finanziarie si cancelli o si riveda agevolmente, Un paese non si governa con apparati pubblici in fluttuazione costante.

La legge di attuazione è una cortina di fumo. Nel modello Calderoli la vera scommessa è sulla concertazione tra esecutivi, e cioè sulla trattativa con i ceti politici regionali e locali, potenzialmente interessati a frattaglie di potere. Là si cerca il consenso. Rimane invece necessario emarginare il parlamento, popolato di soggetti che nella gran parte nulla guadagnano personalmente dalla cannibalizzazione delle strutture statali.

Non se ne abbia a male Calderoli. Il paese non si mantiene ragionevolmente unito ed efficiente quando ogni componente territoriale definisce a trattativa privata il proprio regime economico e giuridico in modo potenzialmente irreversibile. Il danno c’è, e non si diffama nessuno evidenziandolo. Certo, non è tutto imputabile a lui. Ha ragione quando dubita del neurone che ha scritto l’art. 116.3. Non a caso, raccogliamo le firme su una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a una modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Intanto, Meloni farà bene a frenare la voglia leghista di spacchettare l’Italia in tante repubblichette. Ricordiamo il Nenni della stanza dei bottoni. Al suo capo eletto direttamente Meloni una stanza potrebbe anche darla. Ma con l’autonomia differenziata scomparirebbero i bottoni.

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

«Per spiegare l’assurdità di un progetto di autonomia differenziata come quello del ministro Calderoli basta dire che, su un tema fondamentale come quello dell’istruzione il Sud subirebbe un taglio di 1,4 miliardi di euro a vantaggio delle regioni del Nord – sostiene il segretario generale della Cgil Puglia Pino Gesmundo – Ed è solo un esempio di una riforma complessiva irricevibile, anche perché sottratta al confronto del paese, della comunità scientifica, dello stesso parlamento».

Lo studio citato da Gesmundo è un articolo di Marco Esposito ripreso da Il Mattino, uno di quelli che hanno provocato la « scomposta» minaccia di «querela» da parte del ministro agli affari regionali e alle «autonomie», il leghista Roberto Calderoli. Così hanno definito le sue parole i comitati di redazione de Il Mattino e de Il Messaggero. «Si utilizzano le querele temerarie – hanno aggiunto – come arma di pressione contro la libera stampa, per tentare di “imbavagliare” ogni legittima forma di critica» . Il testo è stato ripubblicato sul sito Roars.it, punto di riferimento online sia della critica alla scuola e all’università trasformate dalle riforme neoliberali degli ultimi trent’anni che della «secessione dei ricchi».

Nella simulazione riportata nell’articolo il taglio di cui parla Gesmundo sarebbe la conseguenza dell’adeguamento della spesa attuale per l’istruzione al «costo standard» inteso come media nazionale previsto dalla riforma di Calderoli. Attualmente la spesa per gli studenti al Sud risulta essere più alta rispetto a quelli del Nord. In Lombardia e in Veneto la spesa statale per studente è di circa 3.800 euro all’anno. In Campania aumenta a 4.500, in Sicilia circa 4.900, in Basilicata 5.600. La media italiana, cioè lo standard, è 4.346 euro. Se si applicasse questa media a tutte le regioni allora il Sud perderebbe 1,4 miliardi.

Allo stesso tempo la Lombardia riceverebbe 820 milioni euro in più, il Veneto 340 milioni euro, per realizzare il loro sistema scolastico «regionalizzato». Ma perché, oggi, c’è questa sproporzione tra scuole del Nord e del Sud? Davvero al Sud si «sprecano» risorse? Perché, in primo luogo, al Sud vivono e lavorano docenti con un’anzianità maggiore, mentre quelli più giovani sono costretti a «emigrare» a Nord e, in base al sistema della progressione di carriera, percepiscono uno stipendio inferiore. Uno stipendio, va ricordato, già modesto e inferiore alla media dei paesi Ocse paragonabili al nostro, a cominciare da Germania o Francia. Questo è l’effetto di un sistema disfunzionale, e malconcepito, che produce attualmente oltre 200 mila precari cheogni anno permettono alla scuola di funzionare. E che sarebbe fatto ulteriormente a pezzi da una «regionalizzazione» scolastica che potrebbe essere uno degli obiettivi dell’«autonomia differenziata».

L’istruzione scolastica e universitaria copre il 13 per cento della spesa regionalizzata dello stato, ed è una delle voci più ricche della partita dell’«autonomia differenziata» che le destre al governo vogliono scambiare con il «presidenzialismo». «Se non venissero stabiliti i fabbisogni standard, l’aliquota della compartecipazione Irpef sarebbe del 61% per la Puglia. Un salasso a danno dei cittadini della regione che suo malgrado ha il più alto indice di povertà relativa, che colpisce il 27,5% dei residenti. Mentre ne beneficerebbero proprio le regioni che hanno firmato le intese per le autonomie – osserva Gesmundo – Un trasferimento di risorse da Sud verso Nord, tutto il contrario dell’impegno dell’Europa che ha assegnato all’Italia oltre 200 miliardi di euro per spingere alla coesione territoriale».

Quanto alle «querele» di cui ha parlato Calderoli a proposito dei giornalisti, il sindacalista ha aggiunto: «Correremo il rischio della querela ma continuiamo ad affermare che quel disegno di autonomia ha un portato egoistico e divisivo. Il progetto è vessatorio nei confronti di territori dove non è garantita uniformità nell’esigibilità di diritti costituzionali, dalla salute all’istruzione alla mobilità, cosa che dovrebbe prescindere da dove si nasce o si sceglie di vivere».
Dalla Sicilia ieri è arrivato sostegno alla «ribellione» dei 55 sindaci del Sud che hanno scritto a Mattarella. «In materie come scuola, sanità, infrastrutture e trasporti non occorrono livelli essenziali di prestazione ma livelli uniformi – sostiene il segretario della Flc Cgil Palermo Fabio Cirino – Chiediamo a tutti una risposta di attivismo civico».

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023
Foto di Cole Stivers da Pixabay

Perché una Costituzione della Terra?.- di Gianfranco Amendola

Perché una Costituzione della Terra?.- di Gianfranco Amendola

Anno nuovo, vita nuova. Speriamo, anche per la nostra Costituzione, che compie 75 anni ma non li dimostra, grazie alla lungimiranza dei nostri padri fondatori. Un esempio emblematico è costituito dall’art. 9 che tra i principi fondamentali ha inserito a sorpresa (siamo nel 1948) la “tutela del paesaggio”, aprendo la strada, così, alla (allora sconosciuta) tutela dell’ambiente.

Di modo che, sin dagli anni 80, la Corte costituzionale ha potuto affermare che esiste anche, come “va l o r e primario e assoluto” un “diritto alla protezione dell’ambiente. E, ancor più significativamente, un anno fa è proprio dall’art. 9 che il nostro Parlamento ha preso le mosse per meglio specificare l’ampiezza di questo valore, precisando che la Repubblica tutela “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”; e aggiungendo nell’art. 41, che la iniziativa economica privata, pur restando “libera ”, non può svolgersi in contrasto non solo, come già prescritto, con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ma anche “alla salute e all’ambiente”.

Completando, infine, queste importanti novità demandando alla legge ordinaria il compito di disciplinare “i modi e le forme di tutela degli animali” e quello di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali “e ambientali”. E, sia chiaro, non si tratta di modifiche senza conseguenze. Perché, dopo il loro inserimento in Costituzione, tutte le leggi vigenti devono essere lette, interpretate ed applicate in conformità ovvero, se questo non risulti possibile, occorre rivolgersi alla Corte costituzionale. E questo vale non solo per i giudici ma anche per tutte le istituzioni, nazionali e locali.

Eppure, diciamo la verità, finora non sembra sia cambiato niente. Continuiamo, citando a sproposito la “sostenibilità”, ad applicare leggi che privilegiano il profitto di pochi senza alcun riguardo per le attuali e future generazioni (basta vedere le scandalose vicende dell’Ilva, più volte sottoposte all’attenzione della Corte costituzionale); si programmano grandi opere senza neppure porsi il problema dei loro riflessi sulla biodiversità e sugli ecosistemi, specie in concomitanza con l’avanzare dei mutamenti climatici.

Emblematica, in questo senso, è la vicenda dell’inceneritore a Roma prospettato dall’attuale sindaco come la panacea contro l’invasione di rifiuti, dimenticando che, anche per la normativa comunitaria, il ricorso ai cd. “t e r m o valorizzatori ” viene al terzo posto, dopo riduzione alla fonte e riciclo, proprio in considerazione che i rifiuti che oggi vorrebbe bruciare sono le risorse cui dovranno attingere le future generazioni man mano che le materie prime si esauriscono. Sembra, invece, che l’unica novità provocata dalla riforma costituzionale sia quella di avere messo i fautori del paesaggio contro i fautori dell’ambiente come se si trattasse di valori tra di loro incompatibili e non di facce di uno stesso valore.

L’importante è, invece, leggere, valutare ed applicare la riforma nel suo insieme. E, quindi, dando dell’ambiente un valore ampio che comprenda in sé sia gli aspetti naturalistici sia quelli sociali e culturali, avendo come fine l’interesse delle future generazioni. Riecheggia, a questo punto, quel “diritto alla felicità”, inserito già nel 1776 dagli Stati Uniti nella dichiarazione di indipendenza, sfociato poi nella “giornata dedicata alla felicità” dall’Assemblea generale dell’ONU nel giugno 2012, sul presupposto che “la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, e riconoscendo un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone”.

Lo ha detto bene Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si'”: “Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso…. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso”.

da “il Fatto Quotidiano” del 4 gennaio 2023

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile posta da un’antica saggezza napoletana: «Acquaiolo, l’acqua è fresca?».

Certo, non sono mancati passaggi di puro godimento intellettuale. Ad esempio quando ha argomentato la flat tax a 85000 euro in termini di equità sostanziale per riequilibrare un vantaggio fin qui concesso ai lavoratori dipendenti a danno degli autonomi. Ma nel complesso Meloni ci ha dato una ampia rassegna di quelli che sono e saranno i topoi della destra al governo. Che serviranno a poco, come a poco sono serviti in passato quelli della sinistra.

Tra i luoghi comuni troviamo le riforme istituzionali. Meloni ha confermato che il presidenzialismo è una sua priorità, perché «consente di avere stabilità e di avere governi che siano frutto di indicazioni popolari chiare». Anzitutto, quale presidenzialismo? Il modello francese è profondamente diverso da quello statunitense, e in ogni caso è l’intera architettura dei poteri pubblici che va disegnata, considerando anche l’impatto sul sistema politico e dei partiti. Per Meloni invece, va bene qualunque cosa, purché rechi l’etichetta del presidenzialismo. E va bene qualunque modo di arrivarci – bicamerale, disegno di legge governativo, percorso parlamentare. Nemmeno a parlare, poi, di una riflessione se i mantra di un tempo in tema di presidenzialismo siano ancora validi nel mondo e nelle società di oggi. Nessun dubbio stimolato dalle ultime esperienze dei paesi da sempre assunti a termine di paragone, come gli Stati Uniti o la Francia.

È poi davvero singolare che nelle tre ore di conferenza stampa non sia stata detta una sola parola sull’autonomia differenziata, pur essendo evidente che il presidenzialismo è ancora fermo ai blocchi di partenza, mentre l’autonomia è in piena corsa. Anzi, quando ha recitato il suo copione Meloni era certamente già informata della trionfalistica comunicazione di Calderoli sull’aver mantenuto l’impegno assunto di arrivare in consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, avendo consegnato a Palazzo Chigi il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma. Quindi dobbiamo vedere nel silenzio di Meloni il significato politico di una presa di distanza.

La mossa di Calderoli è stata da più parti definita come forzatura, blitz, fuga in avanti. Vero per una parte, ma per altro verso solo un pezzo di teatro, visto che la consegna a Palazzo Chigi, nella cui struttura il suo ministero senza portafogli è inserito, più o meno equivale a far scivolare un foglio sotto la porta dell’ufficio accanto. Altra cosa è arrivare a una deliberazione in consiglio di ministri, che richiede lo svolgimento di un percorso tecnico e politico. Ma è un fatto l’inserimento in legge di bilancio di norme sui livelli essenziali di prestazione (Lep) che lasciano intravedere diritti dipendenti dal codice di avviamento postale, in un paese spacchettato in repubblichette semi-indipendenti a trattativa privata tra esecutivi, sotto la regia del ministro delle autonomie. Con la ragionevole certezza che divari territoriali e diseguaglianze rimangano, perché mancano le risorse che diversamente sarebbero necessarie.

I commi 791 e seguenti della legge di bilancio servono solo a Calderoli per affermare di avere risolto il problema dei Lep, e aprire la porta alle intese con le regioni. Meloni fa finta di niente. Ma prima o poi dovrà ufficialmente prendere atto che c’è una sceneggiata sul tema dell’autonomia, soprattutto legata al voto regionale prossimo e alle turbolenze in casa Lega. L’ultima cosa seria che Meloni ha detto sull’autonomia la troviamo nel suo intervento al Festival delle regioni, in cui richiama le «storture» del titolo V, che «su molte materie ha aumentato la conflittualità, con tutto quello che comporta in termini di lungaggini ed efficienza» (Corriere del Veneto, 6 dicembre 2022).

Concordiamo. Per darle una mano, il Coordinamento per la democrazia costituzionale raccoglie le firme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a modificare gli articoli 116.3 e 117. Può firmare con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it. Se lo facesse, potremmo anche chiudere un occhio sul fatto che mai nella storia delle conferenze stampa di fine anno si parlò così tanto per dire così poco.

DA “IL nANIFESTO” DEL 2 GENNAIO 2023

O l’Europa o la Nato, o la pace o la guerra.- di Piero Bevilacqua

O l’Europa o la Nato, o la pace o la guerra.- di Piero Bevilacqua

Come comincia esser noto, la questione ambientale è inseparabile dall’attuale assetto dell’ordine mondiale, dai rapporti e dai conflitti tra gli stati, dalla libertà eslege delle potenze finanziarie private, dallo scatenamento competivo e bellico che oggi domina i rapporti internazionali.I nostri sforzi di contenere il riscaldamento climatico saranno vani se non accompagnati da un progetto di equilibrio multilaterale che metta fine allo sfruttamento selvaggio della della Terra e alle guerre.

Come ha ricordato Luigi Ferrajoli, in Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022), è “del tutto inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, fino alla sua inabitabilità”.

Senza dire che proprio il progredire della distruzione delle risorse naturali, l’abbattimento della foreste, il disseccamento dei fiumi, l’inquinamento dei mari, la perdita di terre fertili tenderà a esacerbare la logica dell’accaparramento selvaggio di ciò che resta da parte dì tutti contro tutti. Per tale ragione il perseguimento della pace, al di là delle sue nobili ragioni ideali, della necessità odierna di porre fine alle sofferenze del popolo ucraino,( e di tanti altri popoli), ai danni inflitti all’economia mondiale, si presenta come una necessità ineludibile per il futuro del pianeta. E non solo per i suoi possibili esiti apocalittici.

Da tempo si conoscono non solo i danni all’ambiente che le battaglie sul campo producono in termini di inquinamento chimico dei suoli e delle acque, incendi di boschi, uccisione di animali selvatici, distruzione di ecosistemi, devastazione dei paesaggi. Ma è la stessa macchina militare che in tempo di pace costituisce una fonte gigantesca di distruzione ecosistemica e di alterazione del clima. In una vasta ricerca a più mani di 12 anni fa (Militarization and the Environment: A Panel Study of Carbon Dioxide Emissions and the Ecological Footprints of Nations, 1970–2000 in Global Environmental Politics 2010) i ricercatori ricordano che per realizzare i test sulle armi i militari usano un’ampia gamma di diluenti, solventi, lubrificanti, sgrassanti, carburanti, pesticidi e propellenti come parte del funzionamento quotidiano e della manutenzione delle attrezzature militari. Di conseguenza, concludono gli autori, “producono la maggior quantità di rifiuti pericolosi al mondo”.

Non è difficile crederlo, visto che gli americani mantengono circa 800 basi militari sparse in 60 paesi nei vari angoli del pianeta. Ma rammentiamo che tali dati non tengono conto del crescente impegno militare USA dell’ultimo dodicennio. Secondo i rapporti del Congressional Reaserch Service, aggiornati al 2021, le operazioni militari effettuate da questo paese tra il 1945 e il 1999, cioè in 54 anni, sono stati 100. Ma tra il 1999 e il 2021, in soli 22 anni, ne sono stati condotti ben 184. Cifre che denunciano il crescente impatto ambientale degli impegni militari statunitensi, ma al tempo stesso una linea di strategia geopolitica che oggi appare in tutto il suo colossale conflitto con le sorti del pianeta. Perché il Paese più ricco della terra che, con il 4% circa della popolazione mondiale, divora il 30% delle risorse ed è il principale agente di alterazione del clima planetario, continua una politica di potenza come a perpetuare l’egemonia del ‘900, in spregio degli interessi universali?

Bisogna porsi tale domanda per rovesciare la narrazione dominante che si è imposta per rappresentare la guerra in Ucraina, e per capire il futuro a cui tendono i gruppi che oggi detengono il potere negli USA. Ormai appare evidente da una consistente letteratura internazionale: la guerra iniziata il 24 febbraio con l’invasione russa è stata lungamente perseguita dagli americani con una mirata strategia . Oggi persino Angela Merkel ammette che gli accordi di Minsk tra l’Ucraina e la Russia erano solo un pretesto per prendere tempo e consentire a Kiev di completare il suo armamento sostenuto dagli USA (intervista a Die Zeit del 7 dicembre).

Del resto tutta la storia successiva al 1989 non è che una conferma di questo disegno: l’allargamento a est della Nato, l’aver circondato l’ex nemico di basi missilistiche collocate nei paesi confinanti, non rispondeva solo al fine di un’ ovvia espansione della potenza americana, ma era la premessa per un risultato futuro più sostanzioso: muovere guerra alla Russia, senza rischiare troppo e per conto terzi, col sangue altrui. Grazie alle rivalità interetniche e territoriali tra due nazionalismi contrapposti, l’Ucraina offriva l’occasione più propizia. Ricordiamo che quella strategia ha conseguito vari risultati già prima della guerra. Intanto ha impedito una evoluzione in senso democratico della Russia dopo il crollo dell’URSS. Non c’è modo migliore di favorire il consolidamento al potere di un autocrate che minacciare la sicurezza del suo popolo. Putin è in fondo il risultato della politica americana, che aveva bisogno di un nemico, per giunta odiabile come un tiranno, e della incommensurabile pochezza delle élites dirigenti europee, che avevano un interesse enorme ad attrarre la Russia nella propria orbita, non solo economica.

Per capire l’insostenibile politica imperiale degli USA in un mondo di fatto multipolare, occorre tener presente la sua storia. America first non è una novità. Gli Usa hanno messo sempre i propri interessi davanti a qualunque altro valore, a cominciare dalla democrazia di cui si fanno paladini ingannando l’intero Occidente. Basta chiedere alle madri argentine, ai socialisti cileni, a tutti i democratici dell’America Latina. Ma anche il liberalismo è stato subordinato alle convenienze della propria economia. Un grande storico, Paul Bairoch, definiva gli USA “il paese più protezionista della storia”.

Lo mostra ancora Biden con la Inflation Reduction Act in barba a ogni regola di concorrenza. Ma c’è una vicenda recente meno nota che spiega, (ma non giustifica come necessaria), la politica espansionistica americana. Lo illustra una acuta analisi, condotta da un punto di vista cinese, ma su scala mondiale, quella di Qiaio Liang, L’arco dell’impero (Leg edizioni, 2021) curato e con una densa e informatissima prefazione di Fabio Mini. Negli ultimi decenni gli USA hanno perduto le loro manifatture, fonte di ricchezza reale e di occupazione, puntando sull’alta tecnologia, civile e militare e sulla finanza. Il dollaro staccato dall’oro dopo la fine della sua convertibilità, nel 1971, ha portato i gruppi dirigenti americani a fare della stampa di carta verde, insieme alle armi, uno strumento di sfruttamento delle economie altrui.

Sempre più il deficit commerciale è utilizzato per scambiare ricchezza reale da tutti i paesi del mondo in cambio di carta colorata. E la guerra è uno strumento di espansione del potente settore militare-industriale, ma al tempo stesso di dominio politico che legittima il dollaro e di rastrellamento dei capitali. Laddove arriva la guerra, o anche solo tensioni politiche, i soldi volano via, molti capitali americani tornano a casa e altri vengono attratti. E’ quello che stanno facendo gli USA incoraggiando i movimenti separatisti a Taiwan, a Hong Kong, e in varie altre provincie, con le continue esercitazioni militari nel Mar della Cina, con le promesse di Biden di difendere con le armi l’autonomia dell’ l’isola di Taiwan,ecc.

Queste mosse americane verso la Cina continuano dunque il vecchio copione. Lo sfiancamento economico e l’isolamento della Russia (comunque si concluderà la guerra in Ucraina), prelude a una nuova partita di aggressione per mettere nell’angolo il loro più potente concorrente.

Dunque che cosa è accaduto e accadrà all’Europa? Quando sarà terminato lo slancio di solidarietà ( ma anche di stolido bellicismo) nei confronti dell’Ucraina, riusciranno le élites europee a comprendere la trappola in cui sono stati trascinati insieme alla Russia ? L’Europa impoverita, che perde un grande partner economico come la Russia, obbligata ad accrescere le spese militari, con l’Ucraina distrutta, migliaia di militari e di civili uccisi ( e di soldati russi), e una prospettiva prossima di tensioni internazionali e di nuove guerre?

Un futuro di espansione militare che spinge paesi amici e nemici a incrementare gli armamenti e che, come abbiamo visto, infliggono al pianeta danni di prima grandezza anche in tempo di pace. Allora nessuna politica ambientale dell’UE sarà più credibile, nessun Next Generation UE, nessuna Cop avrà più legittimità, se resta in piedi la Nato, strumento di dominio americano e di conflitti perpetui. La sua permanenza non è compatibile con gli interessi dell’Europa e con il futuro stesso dell’umanità.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay