Mese: maggio 2024

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo? Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano.

A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale. Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori. Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti (Italo Calvino).

Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno.

Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano gia’ venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria.

Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.

Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi.

Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica. Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno.

Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia.

Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza. Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo?

Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato l’esatto contrario però.

Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni.

Esse non potevano avere più le finalità proprie dell’impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato. Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare.

Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori.

Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!

da “il Quotidiano del Sud”.

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto

L’editoriale di Massimo Razzi ha avuto il merito di aprire un dibattito sull’unificazione dell’area urbana di Cosenza e sul consenso e sulle criticità che questa operazione comporta, interpretando il suo ruolo di direttore di un giornale regionale nel modo più alto ed esemplare.

Voglio dir subito che le supposte economie di scala e i presunti maggiori finanziamenti che si otterrebbero unificando, solo quantitativamente, i tre o quattro Comuni in una città più grande e popolosa non credo che siano davvero decisivi, ammesso che si concretizzino davvero. Quel che più mi preme è capire se la costituzione di una città unica della Media Valle del Crati possa migliorare lo spazio e la vita dei cittadini che vi abitano.

Credo che non sia possibile progettare l’unificazione -né da un punto di vista urbanistico, né da un punto di vista sociale, economico e culturale-prescindendo da una visione più ampia di quella che si può avere dai singoli campanili. La città dovrebbe esser governata avendo un’idea complessiva di tutta la Media Valle del Crati, di come possa armonicamente svilupparsi, di quali interventi strutturali ed infrastrutturali abbisogna e di quali improrogabili ricuciture e restauri necessiti questo vasto territorio.

L’unificazione, senza un’opera preventiva di armonizzazione e risanamento del paesaggio urbano, servirebbe solo ad aumentare quantitativamente quello che Rem Koohlaas (2001) definisce lo spazio-spazzatura, lo junkspace inutilizzabile dai cittadini, ma, con il tempo, eventualmente edificabile.

Non è discutibile che il centro di questo territorio sia la città di Cosenza perché senza di essa non sarebbe stato storicamente possibile che si sviluppassero gli altri paesi e casali. È evidente che non può che essere Cosenza il centro della conurbazione e che quest’ultima debba chiamarsi nello stesso modo. Cosenza ha, del resto, una antica storia di primazia perché, dal IV fino al II secolo a.C., è stata la capitale di questa parte del territorio dei “Brettii” e, più tardi, come colonia augustea e ‘municipium’ è stata il centro dell’”ager Consentinus”, esteso lungo la media valle del Crati.

Cosenza ha continuato, poi, ad essere non solo la capitale della Calabria Citeriore fino “aujord’hui”, essendo stata la città dell’Accademia cosentina e di Telesio, ma, in particolar modo, una città non infeudata e, quindi, a differenza di molte altre città meridionali, formalmente autonoma e indipendente.

La città è cresciuta, soprattutto nel secondo dopoguerra, per mezzo di apporti di popolazioni provenienti da tutta la provincia. Prendendo in considerazione tutta l’area urbana si è passati, grossomodo, da 40.000 a 110.000-130.000 abitanti in pochi decenni. I cosentini da più di tre generazioni sono, ormai, una esigua minoranza.

Chi scrive è l’esempio archetipico dell’abitante dell’area urbana: nato a Cosenza da un padre sanlucidano e una madre fuscaldese e, appena sposato, andato a risiedere in uno dei quartieri nuovi di Rende. Quando mi si chiede di dove sono rispondo, senza esitazione, che sono cosentino così come la maggior parte dei miei amici e conoscenti che ha, più o meno, la mia stessa storia. I quartieri nuovi di Rende, Castrolibero e, ora, anche Montalto sono abitati da vecchi cosentini, da neo-cosentini e da mai-cosentini che sarebbero diventati neo-cosentini se avessero trovato casa nel territorio del Comune capoluogo.

È del tutto evidente che il repentino, tumultuoso e disordinato inurbamento ha creato, e crea, notevoli difficoltà identitarie ai cittadini vecchi e nuovi, ma soprattutto ai mai-cosentini. L’unificazione formale dell’area urbana accompagnata da una radicale riprogettazione urbanistica condivisa con i cittadini potrebbe dare, forse, la possibilità che si formi un’identità riconosciuta e riconoscibile per i tanti cittadini che abitano in questo ampio territorio.

La città che vorrei dovrebbe essere costituita da un’area urbana che avesse come centro direzionale, culturale ed identitario Cosenza con il suo Centro storico restaurato e rivitalizzato, il suo Teatro, i suoi Musei, le sue biblioteche, i suoi antichi palazzi, i suoi uffici, le sue vie di negozi, le sue piazze antiche e moderne rivitalizzate.

Vorrei anche che- così come il Centro storico e le colline intorno alla città- tutta l’area otto-novecentesca di Cosenza sia sottoposta a tutela paesaggistica dal Ministero della Cultura e che lo siano pure le due rive del Crati, in tutto il suo percorso urbano, per impedire che si continui a consumare suolo. Sarebbe, inoltre, necessario che scompaiano le ‘perequazioni edilizie’ favorite dall’adottato, ma non ancora approvato, Psc che furbescamente si sostiene essere a “consumo di suolo zero”.

L’area urbana di Cosenza ha già, è vero, nel proprio territorio una città urbanisticamente ben disegnata come quella di Rende Nuova, verdeggiante d’alberi, con i suoi palazzi residenziali e i relativi servizi. Una città che contiene anche un polo propulsivo e innovativo rappresentato dall’Università, ma anche da aziende a tecnologia avanzata, magari spin-off dell’Unical che si sono insediate e che possono insediarsi nella sua zona industriale. Una città che, negli ultimi anni, ha subìto un evidente depauperamento del verde, si pensi ai tagli delle decine e decine di alberi ad alto fusto sani lungo le strade cittadine, e una preoccupante crescita del cemento armato che stava per essere aumentata dal nuovo Psc.

Per realizzare compiutamente ed armonicamente quest’area urbana, però, ci sarebbe bisogno, come “conditio sine qua non”, di porre termine alla colata cementizia che ha inghiottito l’antica campagna ovunque: nei territori di Cosenza, di Rende, di Castrolibero, di Montalto risalendo ad est fino alle pendici della Sila, Rovito, Celico, a sud fino a Donnici, ad Ovest fino a S. Fili.

Una metastasi cementizia che ha lasciato dietro di sé, oltre che una edilizia perlopiù corriva e dimenticabile, una sparsa moltitudine di segmenti residuali che non sono adatti né per l’agricoltura, né per abitarvi, una cementificazione che ha prodotto una terra di nessuno, il “terzo paesaggio” evocato da Gilles Clement (2005). Si poteva realizzare, come ha teorizzato Rem Koolhaas (2020) per l’Olanda, un “intermedi-stan” o terra intermedia, possibilmente alberata, e contemporaneamente provare a fare una paziente e laboriosa opera di rattoppo fra le città e le periferie, le città e le campagne.

Ho già scritto su questo giornale che, secondo gli ultimi dati Istat (2023), la Calabria ha il 42,2% di case vuote e che la cosiddetta area urbana cosentina ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza il 20,7%, Rende il 17%, Montalto Uffugo il 14,4%. In questa area urbana, dunque, se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero ci sono 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole -grazie ai PSC (ora si chiamano così i Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende- colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

L’unificazione di questa area urbana così complessa, frammentata e diseguale da un punto di vista urbanistico, sociale ed economico non può esser fatta, ‘ex abrupto’, per legge, ma dovrebbe essere l’esito finale, di un processo lungo, laborioso e faticoso di armonizzazione frutto, anche, di un raccordo fra tutela paesaggistica e Psc municipali.

Sarebbe meglio che l’unificazione iniziasse, per esempio, con l’Unione dei Comuni sperimentando la gestione unica dei servizi più importanti: i trasporti, la viabilità, i rifiuti, il welfare e la scuola. Si deve, inoltre, tener conto dell’equilibrio finanziario fra i Comuni interessati perché se sappiamo che Rende ha un patrimonio di oltre 250 milioni a fronte di circa 40 di debiti, non sappiamo, invece, a quanto ammonta il patrimonio di Cosenza che ha circa 400 milioni di debiti.

Una fusione come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto costringerebbe i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini:
1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione
2) l’unificazione non può avvenire prima della scadenza del mandato, prefettizio e quindi governativo, dei commissari e prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala renderebbe l’espressione del voto dei cittadini rendesi democraticamente più debole.

Sono i cittadini che devono essere al centro della progettazione della città, sono i cittadini che devono riappropriarsi del diritto alla città (Lefebvre 1968 e Harvey 2012). Il diritto di ripensare la città risponde alla sfida più radicale e democratica: rilanciare la centralità del cittadino assicurando alle nuove generazioni dignità sociale e pieno sviluppo della persona (Settis 2014).

da “il Quotidiano del Sud” del 13 maggio 2024

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo?

Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano. A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale.

Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori.
Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

In tutta Italia sta emergendo una critica incessante e capillare alla diffusione delle energie rinnovabili, in particolare rispetto al solare e all’eolico. Paradossalmente, questa critica proviene in questo momento storico proprio da una parte significativa del mondo ambientalista. È come se persone impegnate da tanti anni in difesa dell’ambiente avessero dimenticato che dobbiamo uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili che ancora rappresentano nel nostro Paese oltre la metà della produzione di energia, pari al 56 per cento del totale dell’energia prodotta.

Certo, l’Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni nel campo delle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolico. Ma, dobbiamo ancora avanzare nella sostituzione dei combustibili fossili, che vergognosamente ricevono notevoli contributi pubblici, anche per gli impegni presi a livello internazionale ed europeo.

Le critiche mosse da una parte del movimento ambientalista, da alcuni noti intellettuali, hanno un fondamento che non va sottovalutato. Questa crescita degli impianti eolici e solari è avvenuta molte volte senza un criterio, sfruttando incentivi e la mancanza di una pianificazione territoriale. Importanti estensioni di terreno sono state sottratte all’agricoltura per essere utilizzate da una miriade di pannelli solari.

Così come impianti eolici in località che hanno una particolare valenza paesaggistica sono stati installati senza tenerne conto. Va detto con chiarezza: non bisogna fermare la crescita degli impianti solari ed eolici, ma bisogna che questo sviluppo avvenga all’interno di una pianificazione sul piano regionale. I pannelli solari vanno messi sugli edifici, ad iniziare da quelli pubblici (scuole, ospedali, ecc.) e vanno collegati (questo è uno scandalo di cui poco si parla, frutto della sciatteria di alcuni enti locali, e di cui potrei fornire un vergognoso elenco).

Gli impianti eolici vanno impiantati dopo uno studio attento e possibilmente, là dove ci sono le condizioni, vanno messi off shore. Chi scrive, in qualità di presidente del Parco Nazionale Aspromonte promosse il primo parco eolico in Italia all’interno di una area protetta, dopo aver avuto il supporto delle principali associazioni ambientaliste, infischiandosene dei soliti Sgarbi, Ripa di Meana e compagnia blasé che nelle pale eoliche avevano visto i mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia.

Infine, vanno moltiplicate le iniziative che vanno nella direzione del risparmio e della gestione migliore dell’energia da fonti rinnovabili come avviene con le “Comunità energetiche”, che andrebbero promosse dovunque come giustamente affermava su questo giornale l’ingegnere Piero Polimeri qualche giorno fa.

E veniamo al dibattito che si è sviluppato in Calabria nell’ultimo anno. Diversi interventi critici sull’avanzata degli impianti solari ed eolici hanno sottolineato il fatto che la Calabria consuma meno energia di quella che produce, e quindi non avrebbe senso continuare a installare impianti per le rinnovabili. Intanto va subito chiarito che questo surplus energetico è dovuto alla presenza della centrale termoelettrica di Rossano, senza la quale dovremmo importare energia dalle altre regioni.

Pertanto, se vogliamo essere veramente indipendenti dal petrolio dobbiamo aumentare la produzione di energia rinnovabile. Ma, soprattutto, ragionare in questo modo fa il paio con chi sostiene l’autonomia differenziata, ovvero guardare al proprio territorio fregandosene del contesto nazionale. Il Mezzogiorno nel suo complesso produce oggi oltre il 90% dell’energia eolica che viene messa in rete e intorno al 45% dell’energia solare. In una logica di autonomia differenziata si dovrebbe dire basta: non mettiamo più pale eoliche nel territorio meridionale.

Se invece superiamo la logica dell’egoismo territorialista allora possiamo far pesare questo grande contributo alla transizione green che sta dando il nostro Sud, rivendicando una logica nazionale anche per la sanità, la scuola, ecc. O siamo un Paese con obiettivi condivisi e camminiamo nella stessa direzione dando a tutti i cittadini gli stessi diritti fondamentali o ritorniamo agli statarelli già condannati dal “grande fiorentino”: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2024

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Dopo il Molise, l’Abruzzo; e poi la Basilicata. Certo, ogni regione ha la sua storia, e c’è stata la Sardegna; i risultati si inquadrano in dinamiche nazionali.Ma non si sfugge: le forze del centro-sinistra, e in particolare il Pd, non riescono ad offrire agli elettori del Sud, che pure sono più mobili nelle proprie scelte di quelli del resto d’Italia, forti motivazioni per il voto.

La tendenza era già visibile alle politiche: se nel 2018 solo 11 elettori meridionali su cento si erano recati alle urne per votare Pd e Avs/Leu (il dato tiene naturalmente conto anche degli astenuti) nel 2022 la percentuale era scesa al 9 (17% al Centro-Nord), nonostante il fortissimo declino dei 5 Stelle.

Quelle forze politiche avevano perso, nel 2018-22, il 19% dei voti (il 10% al Centro Nord). Il Pd non riesce a recuperare voti al Sud; ma, senza quei voti, non si potrà mai determinare una vittoria delle attuali forze di opposizione alle elezioni politiche generali.

Perché? A mio avviso per due ordini di motivi: perché il Pd, ormai da tempo, ha “divorziato” dal Sud; perché il Pd, in particolare al Sud, “non esiste”.

Gli elettori meridionali non riescono a vedere proposte politiche del Partito Democratico che possano influire sulle loro vite, sulle loro opportunità e speranze. Dagli esponenti di quel partito vengono declamazioni assai generiche; e proposte di interventi principalmente per destinare più incentivi alle imprese perché investano e assumano al Sud.

Poco, molto poco, quasi niente, che possa migliorare concretamente la loro vita: proposte per potenziare i servizi di istruzione per chi frequenta la scuole (mense/orario prolungato) o le ha abbandonate; per migliorare i livelli di assistenza in sanità, tanto nella fondamentale prevenzione, quanto nei servizi territoriali e ospedalieri; per accrescere e sviluppare qualitativamente il welfare locale, che al Sud ha dimensioni infinitesime, e che inchioda la condizione di molte donne negli obblighi di cura; per garantire ragionevoli servizi di mobilità a corto e medio raggio ai ragazzi e agli anziani prigionieri in piccoli comuni interni.

Un filo rosso lega questi temi: attengono tutti alla disuguaglianza nelle condizioni di vita fra i cittadini; disuguaglianza che non dipende solo dalle caratteristiche socioeconomiche degli individui (età, genere, ceto, lavoro) ma anche dalla situazione dei luoghi in cui essi vivono. E che non si combatte con piccole provvidenze speciali destinate “al Sud” ma con politiche nazionali di ampio respiro ispirate al perseguimento di una maggiore uguaglianza. Che partono dalla definizione e quantificazione di quell’insieme di diritti di cittadinanza di cui ogni italiano dovrebbe godere indipendentemente da dove vive (che pur previsti in Costituzione non sono mai divenuti realtà) e che da essi traggono principi e criteri per tutte le politiche pubbliche, correnti e di investimento.

Insomma, quello che si sta dicendo è che il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno perché ha abbandonato il perseguimento della lotta alle disuguaglianze come grande riferimento della sua proposta politica. Ma vi è di più. È anche da esponenti di quel partito che è venuto un forte sostegno a scelte che hanno significativamente aumentato quelle disuguaglianze.

Dalle politiche di “contrazione cumulativa e selettiva” del sistema universitario italiano, che hanno esplicitamente favorito la migrazione di studenti da Sud a Nord (quanti sanno che dal 2013 la possibilità di reclutare docenti dipende anche dall’ammontare delle tasse universitarie e quindi è maggiore per gli atenei con gli studenti che provengono da famiglie più abbienti?) all’assenza della “deprivazione sociale” come criterio allocativo del fondo sanitario nazionale, pur previsto dalla legge.

Non è un caso che sia stato l’attuale presidente del Pd ad aprire in misura decisiva la strada alle richieste di autonomia regionale differenziata (la “secessione dei ricchi”); lo stesso esponente politico il 5 aprile scorso ha lamentato che il criterio di riparto del Fondo Sviluppo e Coesione sia “troppo sbilanciato sul Sud e poco sul Nord”.

Al Sud il Pd si presenta come una coalizione di singole personalità, ciascuna con il proprio seguito di consenso. Non è organizzato con una rete di comunità, presenti sul territorio, che mirano ad allargarsi, ad avvicinare altri cittadini; che discutono di politica, che perseguono obiettivi comuni su base locale o nazionale. Eppure, il tessuto associativo al Sud è molto più ricco di quanto si possa immaginare: ma molto raramente si tratta di gruppi che si caratterizzano con le insegne del Pd. Se si vuole fare politica non si va in un partito.

Si dirà che questo caratterizza più forze politiche, più luoghi del paese. È vero. Ma per il Pd al Sud si tratta di un tratto fondamentale, dirimente. I suoi due maggiori esponenti, i presidenti di Campania e Puglia, hanno una rete di consenso di carattere strettamente personale; le loro scelte di governo sono innanzitutto finalizzate al mantenimento e all’allargamento di questa rete. Come si è visto dalle recenti vicende giudiziarie pugliesi, questo porta a includere nel perimetro della propria coalizione altri esponenti politici, non per le loro idee, ma in quanto portatori di ulteriori “pacchetti” di sostenitori. Anche indipendentemente dai modi usati per metterli insieme.

Non si aderisce al Pd: si entra nella cerchia di De Luca o di Emiliano. Nel recente caso lucano, le elezioni regionali sono state vinte dal centrodestra (con un Presidente che non risiede nemmeno in Basilicata) perché alcuni esponenti già del Pd sono trasmigrati da quel lato, portando con sé il proprio, cospicuo, “pacchetto” personale di sostenitori.

Una eccellente classe dirigente di origine popolare o diessina caratterizzava tutta la Basilicata: era tenuta insieme da valori comuni, le assicurava un governo locale e regionale di qualità, garantiva un consenso da regione “rossa”. Si è liquefatta nell’ultimo decennio a seguito di una lotta senza quartiere fra singole personalità del Pd. Fino all’incapacità di scegliere un candidato presidente a pochi giorni dalla presentazione delle liste. Si dirà, giustamente, che il quadro a destra non è certo molto differente. Ma, forse, se si vuole riportare alle urne gli Italiani che non votano più, è anche dal segnare questa diversità che si può ricominciare.

Sinora, l’azione della nuova Segretaria si è rivelata, purtroppo, impalpabile. Si guardi la recentissima proposta sulla sanità a firma Schlein: non affronta il tema delle disuguaglianze nel diritto alla vita esistenti in Italia; della circostanza che, specie in Calabria e in Campania, si muore di tumori curabili perché il diritto allo screening preventivo non è garantito e li si affronta quando è troppo tardi. Si leggano le cronache: sugli assetti del partito, sulle giunte, sulle candidature. Cambiare il Pd non è certo una passeggiata. Ma, continuando così, la Basilicata rischia di diventare la regola e la Sardegna l’eccezione.

da “il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2024