Mese: marzo 2018

L’immigrazione da minaccia a progetto sociale di Piero Bevilacqua

L’immigrazione da minaccia a progetto sociale di Piero Bevilacqua

Dal mercato al progetto

Il flusso di immigrati provenienti da vari Paesi del Sud e dell’Est del mondo si iscrive in un vasto processo di destrutturazione demografica, ma anche di mobilità sociale, che ha dimensioni grandiose  e di lunga data. Solo di recente è esploso  in forme caotiche e drammatiche a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che << Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato.>> E i maggiori centri di attrazione erano e sono gli USA, l’Europa e l’Australia. Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa  1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate. 1 Com’è noto, i flussi disordinati e continui di popolazione in fuga da scenari di guerra, dall’ Afganistan, dalla Libia e soprattutto oggi dalla Siria, hanno mostrato la drammatica inettitudine, impreparazione, divisione politica degli stati Europei e delle autorità di Bruxelles.  Un coacervo di risposte contraddittorie e improvvisate, che ovviamente non sorprende. In tutti gli stati del mondo la politica vive alla giornata, senza alcuno sforzo di progettazione strategica che non sia quella della conquista di eventuali mercati, e che bada a incassare consensi immediati e immediatamente spendibili. Comprensibilmente, il ceto politico europeo, di fronte ai problemi organizzativi, ai disagi, ai costi economici che l’arrivo di migliaia di rifugiati e migranti comporta nell’immediato, non riesce a valutare i vantaggi di lungo periodo che esso può invece determinare. Vantaggi demografici, economici, culturali, non dissimili a quelli sperimentati dagli Stati Uniti negli anni Novanta in virtù dell’arrivo di milioni di latinos negli Stati americani.

In questo quadro  europeo confuso e generatore di sentimenti xenofobi,  la sinistra ha, in Italia, la possibilità di indicare una soluzione non contingente e transitoria al problema. Una via difficile, ma  affatto utopica, che  potrebbe addirittura fare da modello anche per altri paesi del continente.  Noi possiamo indicare agli italiani e agli europei, contro la politica della paura e dell’odio, una prospettiva che non è solo di solidarietà e di umano  e temporaneo soccorso a chi fugge da guerre e miseria. Con le donne, gli uomini e i bambini che arrivano sulle nostre terre noi abbiamo l’opportunità di costruire  un inserimento stabile e cooperativo, relazioni umane durevoli, fondate su nuove economie che gioverebbero all’intero Paese. Naturalmente, la soluzione non consiste in una trovata, affidabile a qualche slogan  pubblicitario in cui oggi sembra esaurirsi tutta la creatività di leader e uomini di governo. Si tratta, nientemeno che di realizzare un progetto, un grande piano di  riconversione demografica, economica e ambientale. Un progetto, un disegno realistico, non una bella favola utopica,  un percorso realizzabile in una prospettiva di medio lungo periodo, ma da avviare subito. Per avviarlo occorre rovesciare l’ottica che negli ultimi 30 anni ha annichilito la progettualità politica: la convinzione esplicita, o accettata passivamente, che i fenomeni economici e sociali si realizzano soltanto se mossi dall’energia del mercato. Quasi che gli uomini fossero d’improvviso incapaci di costruire alcunché senza affidarsi alla  regole della domanda e dell’offerta. Per questo, la risposta alla gigantesca questione dell’immigrazione richiede preliminarmente una bonifica mentale: la cancellazione del paradigma neoliberista.

Un grave squilibrio territoriale.

Occorre partire da una considerazione d’insieme relativa alle condizioni dell’Italia dei nostri giorni.

Il nostro paese  soffre di un grave squilibrio nella distribuzione territoriale della sua popolazione. Poco meno del 70% di essa vive insediata lungo  le fasce costiere e le colline litoranee della Penisola, mentre le aree interne e l’osso dell’Appennino, soprattutto al Sud, sono in abbandono.  Secondo indagini del Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione  dell’omonimo Ministero, le aree interne rappresentano circa i 3/5 del territorio nazionale e accolgono poco meno di ¼ della popolazione.2 Com’è noto, da tempo le popolazioni contadine, hanno lasciato le loro terre e solo in poche aree sono subentrate nuove economie. Sempre meno popolazione, in queste zone, fa manutenzione del territorio, controlla i fenomeni erosivi, sicché nessun filtro e protezione – come è accaduto per secoli – si oppone alle alluvioni che di tanto in tanto precipitano con violenza nelle valli e nelle pianure. Oggi nessuno ricorda più ciò che era noto ai tecnici e anche, in parte, agli uomini politici, ancora agli inizi del secolo passato: vale a dire la speciale dinamica che in Italia collega montagna e pianura e dunque il ruolo di regolatore di tutti gli equilibri peninsulari che gioca l’Appennino.  Scriveva nel 1919 Meuccio Ruini – esperto di lavori pubblici, che sarà ministro e presidente del Senato nell’Italia repubblicana  – << contorno e rilievo, clima, abitabilità e comunicazioni, relazioni storiche, ogni cosa insomma della Italia peninsulare è signoreggiata dall’Appennino e ne riceve l’ impronta.>>3

Dunque, mancano oggi  nelle aree tra la dorsale appenninica e le coste, quelle figure  sociali che per secoli hanno mantenuto il territorio nazionale in un difficile e quotidiano equilibrio. Sicché, nella fase storica in cui i fenomeni atmosferici appaiono sempre più estremi4 – tra questi, i i casi di piovosità intense e distruttive –  e mentre la cementificazione senza sosta impermeabilizza i  suoli5 le aree litoranee e le valli appaiono sempre più indifese. E occorre a questo punto rammentare l’ovvio: non è solo la gran parte della popolazione, ma la ricchezza nazionale (città e abitati, aziende, infrastrutture viarie e ferroviarie, edifici pubblici, ecc) che sono sempre più prive,  a monte, di difese e presidi. Ma non  dobbiamo soltanto fronteggiare tale minaccia. Lo spopolamento, l’invecchiamento di popolazione, la denatalità delle aree interne costituisce, in sé, una perdita incalcolabile di ricchezza. Vengono abbandonate terre fertili che erano  state sedi di agricolture, i boschi si inselvatichiscono e non vengono più sfruttati, gli allevamenti di un tempo scompaiono. Al tempo stesso borghi e paesi decadono, perdono i presidi sanitari, le scuole, i trasporti. E in tale progressivo abbandono degradano  case, palazzi edifici di pregio, monumenti, piazze: in una parola un immenso patrimonio di edificato rischia di andare in rovina insieme ai territori rurali.

Ebbene, queste aree non  hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano.Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana.

Un’agricoltura della ricchezza bioagricola

A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per  ridare vita e  nuovi presidi territoriali alle aree interne? Si tratta di uno dei tanti slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un’utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All’obiezione si deve innanzi tutto rispondere  con una considerazione storica. Non  si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l’agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola. Certo, c’era anche – e talora fiorente – l’agricoltura delle pianure, concentrata nella Pianura padana e nelle valli subappenniniche. Ma gran parte di queste aree sono state conquistate con secolari e talora imponenti lavori di bonifica che arrivano fin dentro il XX secolo. L’imperversare  millenario della malaria – questa avversità ambientale caratteristica del nostro paese – ha tenuto a lungo lontano le popolazioni agricole dalle terre potenzialmente più fertili ed economicamente vantaggiose delle pianure. Dunque, dal punto di vista storico, fare agricoltura nelle aree interne non è una novità. Tanto è vero che essa continua a sopravvivere in tante zone collinari e montane in forme più o meno degradate e marginali.

La seconda obiezione, relativa all’economicità di una agricoltura in queste aree  è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all’inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini. L’agricoltura non è qui – e non dovrebbe esserlo mai – quello che è stata per tutta la seconda metà del Novecento: un’industria come un’altra. D’altra parte, rappresenta una conquista della cultura europea degli ultimi decenni la visione e la pratica di una agricoltura come attività multifunzionale. Una brutta parola per indicare che essa non è più una semplice pratica economica, ma costituisce il centro di erogazione di una molteplicità di servizi. E al tempo stesso incarna una esperienza sociale che intrattiene un rapporto complesso e avanzato con la natura,  ispira nuovi stili e condotte di vita.  Infatti, l’agricoltura non è chiamata semplicemente a produrre merci  da piazzare sul mercato, quanto anche a proteggere il suolo dai processi di erosione, ad attivare la biodiversità sia agricola che quella naturale circostante, a conservare il paesaggio agrario, tenere vivi i saperi locali legati ai mestieri e alle manipolazione delle piante e del cibo, a custodire la salubrità dell’aria e delle acque, a organizzare un turismo ecocompatibile, a organizzare forme nuove di socialità, ecc.

Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane ( ma non lontanissime, l’Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viari e commerciali ? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un’attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l’incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola. L’uso del termine millenario non svolge qui un compito di mera retorica. Serve innanzi tutto a marcare l’irriducibile diversità dell’agricoltura rispetto a tutte le altre forme di economia. Questa pratica finalizzata all’alimentazione umana, infatti, continua a esercitarsi su materie naturali che provengono da un lontanissimo passato, originano dalle selezioni genetiche massali delle popolazioni pre-italiche, si sono arricchite con la grande “globalizzazione agricola” dell’Impero romano ( documentata da Columella) e ha ricevuto gli apporti di biodiversità e di saperi dal mondo arabo nel medioevo  e dalle piante provenienti dalle Americhe dopo il 1492. Questa gigantesca accumulazione di varietà e di culture  ha trovato nella  Penisola le condizioni ambientali per insediarsi in maniera stabile e diversificata sin quasi ai giorni nostri6.

Tale straordinaria biodiversità agricola –   frutto dell’originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat che, dalle Alpi alla Sicilia, si ritrovano nella Penisola, –  ha espresso la sua vitalità nell’agricoltura promiscua preindustriale.  Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché è in grado di offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale, rispetto a quelli industriali di massa. In tanti vivai, Istituti di ricerca – e nelle coltivazioni degli amatori – si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, insieme a un vasto patrimonio di germoplasma,ecc.7 Si tratta di sapori scomparsi dall’esperienza sensoriale della maggioranza degli italiani e  dal mercato corrente. Quest’ultimo  offre oggi  al consumatore poche varietà, quelle industrialmente più confacenti, per aspetto, conservazione e trasportabilità, alla distribuzione di massa. Ormai guida e domina il consumo, non la qualità intrinseca del bene (freschezza, sapore, sanità), ma le sue caratteristiche esteriori di merce, la sua durabilità, la sua novità stagionale, il suo basso prezzo.

E invece l’organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell’ ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.

Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture – anche nelle coltivazioni  orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze , ma anche alle nove tecniche come l’agricoltura sinergica– costituisce un antidoto importante contro l’infestazione dei parassiti. E’ nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati – anche se con decrescente efficacia – tramite costosi  e ripetuti trattamenti chimici. La conservazione di un habitat ricco di biodiversità naturale – grazie alle siepi, all’inerbimento del campo, ecc e al bando  dei pesticidi chimici –  costituisce essa stessa un sistema di protezione contro i parassiti, perché ospita gli insetti utili, predatori degli infestanti. Un esempio di come la salubrità  e varietà biologica dei siti non è solo utile alla salute umana, ma anche  economicamente vantaggiosa. A questo proposito, un aspetto da ricordare sono le  microeconomie che si possono ottenere dalle siepi o dalla macchia selvatica. Un tempo avevano una larga circolazione stagionale, nei mercati contadini, i prodotti selvatici del bosco e della macchia mediterranea: sorbe, corbezzoli, giuggiole, cornioli, melograne, nespoli germanici, azzeruoli, ecc. Oggi sono rari e costosi prodotti di nicchia destinati al consumo di pochi intenditori. E invece potrebbero rientrare a pieno titolo nei circuiti economici della nuova agricoltura. Tanto più che alcuni di queste bacche, come la melagrana – ma la riflessione dovrebbe coinvolgere sia i cosiddetti “piccoli frutti”(lamponi, mirtilli, ribes, uva spina, ecc) che le cosiddette piante officinali – conoscono oggi un crescente utilizzo sia nella “cosmesi senza chimica”, che nella ricerca e nella produzione farmaceutica. Tali considerazioni dovrebbero anche investire un problema oggi rilevante in alcune aree- come ad es. la Toscana – dove la macchia selvatica rappresenta una forma di rinaturalizzazione spontanea e disordinata, che consuma sia il bosco di pregio, sia le aree agricole e pastorali, fornendo ai cinghiali, sempre più numerosi, la possibilità di danneggiare gravemente le colture delle aree collinari. E’ evidente che qui occorre un intervento pianificato, che punti a una selvicoltura di qualità sia per il legno che per i prodotti del bosco e del sottobosco. E’ attraverso il ripristino rinnovato di economie antiche ( fra queste spicca il castagneto), che si può avviare anche una  difesa territoriale delle aree agricole secondo meccanismi di coordinamento e cooperazione fra diverse aree ed ambiti produttivi che in queste aree sono stati in funzione per secoli.

Altre economie

Nei frutteti si può molto utilmente praticare l’allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del ‘900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia)8 e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all’azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della fertilizzazione del suolo.  Ma aggiungono all’economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova, i pulcini e la carne di pregio commerciabili tutto l’anno.

Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale – tramite il metodo del cumulo – si può trasformare in utilissimo compost  per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull’agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico,  Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. 9 Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.

Sempre sul piano del risparmio dei costi –  senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l’azienda autonoma sotto il profilo energetico –  una riflessione a parte meriterebbe l’uso dell’acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture  delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l’elettricità è generata da pannelli fotovoltaici  il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l’acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi  se durante l’inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane. Si tratta, ovviamente, di riprendere un sistema antico – in molte aree, come nella Sicilia agrumicola, ancora attivo – che utilizzi cisterne, vasche di raccolta, ecc. Questa cura dell’acqua comporterebbe una nuova visione del territorio e delle risorse circostanti alle singole aziende. E’ evidente che una nuova agricoltura nelle aree interne, dovrebbe far parte di un progetto collettivo di rimodellamento dell ‘habitat  locale, che comporta il controllo delle acque alte, il loro incanalamento ottimale, ma anche il loro utilizzo in punti di raccolta ( tramite acquacoltura, pesca, ecc), capace di combinare conservazione dell’assetto idrogeologico del suolo e pratica economica produttiva. L’agricoltura e le economie connesse che progettiamo, dunque,  comportano un dialogo nuovo e più organico con la ricchezza delle risorse naturali, col mondo delle piante e degli animali,  e  insieme un presidio umano culturalmente più avanzato e complesso sul nostro territorio.

Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi  variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Senza dire che esiste un po’ in tutte le regioni d’Italia una superficie non trascurabile di terreni demaniali, soggetti a usi civici, o appartenenti ai comuni. Ma sia per questi ultimi che per quelli di proprietà privata   si rendono oggi necessarie forme di regolazione e di facilitazione – laddove non esistono già – di accesso alla terra a costi contenuti.

Altro rilevante problema è quello quello degli imprenditori. E’ evidente che non si può lasciare l’iniziativa imprenditiva alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto. Sarà necessaria un’azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali,associazioni, cooperative, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie,ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell’immigrazione. Ebbene in che modo, con che mezzi, con quali forze si può perseguire un così ambizioso progetto ?

Risulta necessario, in via preliminare,  cancellare la legge Bossi-Fini e cambiare atteggiamento di legalità di fronte a chi arriva. Occorre  dare agli immigrati  che vogliono  restare la possibilità di trovare un lavoro in agricoltura, nell’edilizia, nella selvicoltura, nei servizi connessi a tali settori, nel piccolo artigianato.Non si capisce perché i giovani del Senegal o dell’Eritrea debbano finire schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori e non possano diventare coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno altri loro compagni. Ricordiamo che Gli indiani hanno salvato di fatto l’allevamento bovino nel Nord d’Italia.  Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e  saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione. Quanti giovani africani o dell’Est europeo potrebbero essere attratti  dalla possibilità di condurre una piccola azienda agricola, insieme a connazionali o a giovani italiani?  E’ facile immaginare che non si può chiedere al singolo immigrato di recarsi sulla terra  per tornare a zappare.  Perché è’ molto probabile che egli sia fuggito da un condizione nella quale l’agricoltura del suo villaggio coincideva con una realtà di miseria. Per questo occorre affidare la forza di attrazione di questi giovani, ma anche degli italiani, alla ricchezza e complessità del progetto. L’ampiezza della visione che lo ispira  è fondamentale per motivare tutti.Non si chiama il singolo a diventare contadino o boscaiolo ma gli si chiede di far parte di una organizzazione cooperativa  non limitata a produrre beni agricoli o boschivi, ma  impegnata in un vasto disegno di riequilibrio demografico e territoriale, di salvaguardia, ambientale e naturale, dell’intero paese.E’ una rete di attività e al tempo stesso un mondo di relazioni umane.

Certo, il motore politico-istituzionale per avviare l’operazione dovrebbe essere  un vasto movimento di sindaci. Su tale fronte, la strada è  già  stata aperta alcuni anni fa non senza risultati.  Mimmo Lucano e Ilario Ammendola,  sindaci di Riace e Caulonia, in Calabria, hanno mostrato come possano rinascere i paesi con il concorso degli immigrati, se ben organizzati e aiutati con un minimo di soccorso pubblico.I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. E analoga operazione dovrebbero condurre per  il patrimonio edilizio e abitativo. A queste stesse figure spetterebbe il compito di istituire dei tavoli di progettazione insieme alle forze sindacali, alla Coldiretti, alle associazioni e ai volontari presenti sul luogo. Se i dirigenti delle Cooperative si ricordassero delle loro origini solidaristiche potrebbero dare un contributo rilevantissimo a tutto il progetto. Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? E’ la risposta più facile da dare.Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016-2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’ occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate.

E qui le forze della sinistra dovrebbero fare le prove di un modo antico e nuovo di fare politica, mettendo a disposizione del movimento  i loro saperi e sforzi organizzativi, le relazioni nazionali di cui dispongono, il contatto coi media. Esse possono smontare pezzo a pezzo l’edificio fasullo della paura su cui una destra inetta e senza idee cerca di lucrare  le poprie fortune elettorali. L’immigrazione può essere trasformata da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro.Così cessa la propaganda e rinasce la politica in tutta la sua ricchezza progettuale. In questo disegno la sinistra  potrebbe gettare le fondamenta di un consenso ideale ampio e duraturo.

 

da “Alternative per il socialismo”

Il Mezzogiorno in gabbia: come uscirne? di Tonino Perna

Il Mezzogiorno in gabbia: come uscirne? di Tonino Perna

Avevo poco più di vent’anni quando arrivarono  50.000 operai  delle fabbriche grandi e medie del nord Italia. Venivano a Reggio Calabria per solidarizzare con chi si sentiva accerchiato dai boiachimolla, con chi lottava contro il neofascismo montante , con chi , malgrado la sinistra (Pci e Psi) avesse sbagliato tutto in questo territorio,  restava ancora di sinistra.  Il corteo iniziò la mattina alle 11 e si  concluse la sera: molti treni erano stati bloccati dalle bombe e alcuni compagni arrivarono dopo una intera giornata di viaggio quando ormai la manifestazione era finita.  Era il 22 ottobre del 1972.   Un altro secolo, un altro mondo.

La solidarietà tra nord e sud era una cosa concreta, era fatta di ideali comuni e di sacrifici condivisi, ed aveva una valenza biderezionale.  Oggi sarebbe assolutamente impossibile organizzare una manifestazione di quel tipo, con quella passione e a rischio della vita .  Ma, agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, eravamo in pieno clima post-’68 che aveva di fatto unificato il nostro paese , forse come non mai nella sua storia. Era ormai superata la storica alleanza auspicata da Gramsci , tra contadini del sud ed operai del nord, in quanto nel ventennio 1951-71 si erano svuotate le campagne meridionali e chi era rimasto era spesso entrato, per sopravvivere, nella rete tentacolare dei sussidi e sovvenzioni della Comunità Europea.  Ma, il  ’68 aveva coinvolto una intera generazione, attraversando le classi sociali e seminando una visione del mondo aperta, solidale , internazionalista e pacifista, in cui non c’era più spazio per la contrapposizione tra “terroni” e “polentoni”, anche grazie al fatto che gli neo-nordisti (immigrati meridionali al nord) avevano costituito una avanguardia nelle lotte di fabbrica  di quegli anni e si erano guadagnati il rispetto di tutto il movimento operaio e della sinistra, parlamentare ed extra.

Come sappiamo, dagli anni ’80 inizia quel processo di normalizzazione politica e di frantumazione sociale che ha portato alla disintegrazione delle grandi organizzazioni politiche e sindacali che avevano giocato un ruolo di primo piano nel mantenere una visione unitaria dei problemi del nostro paese.  Ancor più, sul piano economico, il Mezzogiorno perdeva progressivamente di ruolo nel modello di sviluppo italiano.  Se negli anni ’50 aveva funzionato da <<serbatoio>> di manodopera a basso costo per le industrie del nord, se negli anni ’60 e ’70 aveva giocato un ruolo importante come mercato di sbocco per la nascente piccola e media impresa della Terza Italia (centro-nord-est), alla fine degli anni ’80 era diventato superfluo, un peso, una escrescenza di cui liberarsi.   La globalizzazione, infatti, aveva reso marginale, per il sistema industriale del centro-nord il mercato meridionale. Basti pensare che, come è stato dimostrato in uno studio dell’inizio anni ’90, un incremento di un punto percentuale nella domanda dei consumatori tedeschi era più importante, per il sistema industriale italiano, che dieci punti di aumento del Pil nel Mezzogiorno!

Senza cadere in un approccio deterministico, non è un caso che proprio in quella fase storica sia nata la Lega Nord di Bossi.  Non un fenomeno folcloristico, come qualcuno aveva pensato e scritto, bensì la traduzione politica sul territorio italiano di un fenomeno mondiale : il delinking, lo sganciamento delle aree ricche del pianeta.   La <<secessione dei ricchi>> come è stata definita  ha prodotto tragedie, come quella della ex-Yugoslavia, o si è conclusa pacificamente, come nel caso della ex- Cecoslovacchia.   In ogni caso è un fenomeno con cui fare i conti.

Finché il Mezzogiorno ha funzionato da serbatoio di voti per le maggioranze di governo, la secessione è stata scongiurata.  Quando la Sicilia ha dato l’ein plein dei voti a Forza Italia, involontariamente ha condizionato il premier a fare i conti con le esigenze dell’isola e della sua classe politica.  Oggi, anche questo ruolo del Mezzogiorno si sta esaurendo.  La crisi economica , da un parte, il federalismo fiscale, dall’altra, hanno messo in ginocchio il territorio meridionale. Nel periodo 2008-2013 l’impatto della crisi sul Mezzogiorno è stato doppio rispetto al Centro Nord, con una perdita del  Pil  di ben 8 punti percentuali ed un tasso di disoccupazione che è schizzato al 22%! Ed ancora una famiglia su due è oggi a rischio di povertà nel Mezzogiorno, contro una su quattro nel Centro-Nord, e potremmo continuare con questi numeri per dimostrare una cosa che aveva già intuito negli anni ’80 Paolo Sylos Labini: la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno.  Un taglio “lineare” della spesa pubblica produce nel territorio meridionale un effetto doppio che al Nord per via del moltiplicatore keynesiano che opera, ricordiamolo sia verso l’alto che verso il basso.

 

Nei prossimi anni, quando i decreti attuativi del federalismo fiscale diventeranno realtà, le regioni meridionali dovranno trovare qualcosa come 20 miliardi di euro per coprire i costi del Welfare e fare funzionare al minino la pubblica amministrazione. Anche i famosi POR , fondi europei per le regioni arretrate ,  finiranno nel prossimo quinquennio, e non ci saranno altre risorse aggiuntive. Ed i giovani del Mezzogiorno che in quest’ultimo decennio sono emigrati “definitivamente” (cioè con il cambio di residenza) nel centro-nord (oltre settecentomila ) avranno sempre più difficoltà a farlo: per la prima volta le regioni ricche avranno un serio problema di disoccupazione che tenteranno di risolvere in parte con un assorbimento nella pubblica amministrazione.

La Crisi Globale che stiamo attraversando non è una crisi congiunturale : il milione di operai ed impiegati nel settore privato che sono usciti dalla produzione difficilmente ci ritorneranno.  I giovani laureati meridionali non saranno più chiamati a colmare i vuoti , non avranno più spazio nel settore pubblico, che ha funzionato da spugna occupazionale.  Risultato: il Mezzogiorno si sta trasformando in una gabbia da cui è difficile uscirne, ma da cui chi può scappa. Se prendiamo in  considerazione il flusso emigratorio “reale”, vale a dire quello di chi parte ma mantiene nel Sud la residenza per un lungo periodo, scopriamo che 2 giovani su 3 tra i 18 e i 32 anni hanno lasciato il Mezzogiorno!  Se questo trend dovesse continuare nel 2030  la popolazione meridionale over 65 raggiungerebbe la metà della popolazione presente, vale a dire che un meridionale su 2 sarebbe un anziano, pensionato, bisognoso spesso di cure e badanti, dato che i figli sono andati via.  Una situazione penosa che  sembra inevitabile se non cambierà la politica economica nazionale.

 

S’impone, pertanto, un nuovo ruolo dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza. Se pensiamo che il solo blocco del turnover ho causato la perdita di 600mila posti di lavoro in Italia, di cui quasi 400mila nel Mezzogiorno si capisce come serve una netta inversione di tendenza. Lo Stato deve riprendere una politica per l’occupazione nella sanità, scuola, alta formazione, ricerca scientifica, Università.  Serve, inoltre, una ripresa di investimenti pubblici in settori strategici quali la difesa del suolo, la messa in sicurezza di scuole e edifici pubblici, un riassetto idrogeologico. Ancora: servirebbe urgentemente un piano di rinascita per aree interne, una Seconda Riforma Agraria che riguarda tutto l’Appennino meridionale e che mettere a frutto qualcosa come il 30% delle terre incolte ed abbandonate.

Per questi obiettivi occorrerebbe una nuova solidarietà nord-sud, una visione nazionale della questione meridionale, una prospettiva diversa del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo.  Un sogno ? Probabilmente sì, ma ci serve per vivere e guardare avanti.

 

 

pubblicato su “il Manifesto” nel marzo 2017

Inseguendo lo sviluppo di Oscar Greco

Inseguendo lo sviluppo di Oscar Greco

La profonda crisi politica, economica e finanziaria di un’Europa a vocazione atlantica, costruita come un’area indifferenziata di libero mercato in cui non trovano spazio le diverse culture, le diverse realtà economiche e sociali, è la spia del fallimento del progetto occidentale di modernità intesa come un fatto antropologico che coinvolge l’intera umanità.

Sta esaurendosi la lunga fase dominata da un ottimismo storico che ha considerato lo sviluppo e il mercato come un gioco libero e aperto nel quale tutti possono entrare con la speranza di partecipare ai suoi benefici, di scalare le posizioni e risalire le gerarchie. Si evidenzia l’illusorietà della concezione acritica della modernizzazione come necessità storica, che ne presuppone un implicito valore assolutamente positivo e progressivo.

Visti sotto tale profilo gli eventi storici, le strategie politiche e le trasformazioni sociali della Calabria del dopoguerra possono considerarsi paradigmatici del fallimento di quel meridionalismo ispirato a quei valori e che, quindi, ha valutato e affrontato i problemi del Mezzogiorno unicamente con il metro di giudizio del mancato sviluppo e del ritardo delle regioni del Sud, da colmare favorendo i processi d’integrazione di queste aree nel sistema capitalistico italiano ed europeo, nella convinzione che l’evoluzione e il benessere delle regioni meridionali dipendevano dalla capacità di favorire non solo un modello produttivo ma anche uno stile di vita identico o comparabile a quello delle regioni industriali.

In virtù di questa ottica la classe dirigente chiamata a governare il Paese dopo la svolta politica del 1948 ha considerato le condizioni economiche e socio-culturali del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, una diversità intollerabile per una nazione che si prefiggeva di rinascere attraverso un processo di industrializzazione e modernizzazione.

Ne è derivato un meccanismo destinato a bollare come arretrate tutte le realtà sociali, tutte le culture che non somigliavano a quelle delle società modernizzate e che non ha saputo cogliere la novità rappresentata dalle imponenti lotte per la terra degli anni Quaranta, veri e propri atti fondativi delle comunità contadine calabresi. Un movimento che, seppur nel suo ingenuo spontaneismo, proponeva un modello di società in cui le esigenze di democratizzazione e di riscatto sociale si coniugavano con le tradizioni culturali e i valori delle comunità e delle famiglie contadine calabresi: un modello diverso dalla tradizionale e arcaica società servile del latifondo ma anche da forme di modernizzazione poco compatibili con la realtà e le tradizioni di una società a vocazione rurale come quella calabrese.

La via scelta per la modernizzazione del Sud è stata quella della politica della ‘crescita’ e dello ‘sviluppo’, di fatto tradottasi «in una ideologia emulativa nello sforzo generale di fare assomigliare le aree ad economie tradizionali a quelle trasformate dalle innovazioni tecniche e produttive e dai mutamenti sociali indotti dal capitalismo trionfante»[1].

Indubbiamente il proposito di eliminare la ‘diversità’ del Sud, attuato con strumenti svariati, quali la Riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno, l’intervento straordinario, le politiche di sviluppo locale e quelle di assistenza, ha prodotto risultati positivi nel tessuto socio-economico calabrese. E’ stato abolito il sistema del latifondo, è aumentata la capacità di spesa delle famiglie, si è ridotto, finché è durato l’intervento straordinario, il divario con le regioni del Nord, sono state ammodernate molte infrastrutture della regione.

Ma i costi umani e sociali sono stati pesanti.

Per decenni la Calabria è rimasta imprigionata nel momento del ‘non ancora’, in quella dimensione a venire che proietta il presente, mai soddisfacente se rapportato ad altre realtà, al di là di se stesso, nell’attesa di un futuro di sviluppo economico, di progresso e di modernità.

La regione è stata indotta a crescere allontanandosi dalle sue radici storico-culturali, dissolvendo forme di aggregazione e di rappresentanza di valori e interessi tradizionali senza trovarne i sostituti.

La società contadina è stata descritta tout court come il “mondo della miseria”[2], che i contadini accettano come qualcosa che non può essere modificato e al quale si può sfuggire solo con l’emigrazione, senza considerare che in quel mondo duro e a volte abbrutito, si sviluppavano anche relazioni affettive, forme di economia di solidarietà, la cultura del dono, i rapporti di vicinato tipiche di quella povertà conviviale, descritta da Majid Rahnema[3], che ha consentito a milioni di esseri umani delle ‘società vernacolari’ di vivere nelle ristrettezze ma con dignità una vita semplice e comunitaria.

La fine di quel mondo dei vinti[4] ha comportato lo svuotamento di molte aree interne della regione, l’abbandono dei luoghi di socializzazione, la scomparsa di antiche lavorazioni, di mestieri familiari e di quelle piccole attività che erano il cuore del tessuto economico e sociale dei piccoli centri. Si sono dispersi quei meccanismi d’integrazione sociale che erano alla base degli altri rapporti e che erano fondamentali per sopravvivere in una realtà rurale povera e precaria. Per la Calabria, è stata una «catastrofe antropologica», come sostengono Vito Teti e Domenico Cersosimo[5], se non addirittura un genocidio culturale[6].

Gli eventi del secondo dopoguerra calabrese descrivono l’affermarsi di un’economia di dipendenza, di assistenza, sostenuta dall’esterno, che ha aumentato il livello dei consumi della popolazione ma non l’autonoma capacità produttiva. Narrano la storia di una regione che ha creduto di crescere, ma si è ritrovata più povera e vulnerabile perché priva dei vecchi punti di riferimento. Indotta a vivere di accattonaggio sui fondi pubblici[7] ha cercato spazi di sopravvivenza, con ogni compromesso, tra le pieghe di un mortificante meccanismo assistenziale e di una realtà degradata figlia di un pragmatismo senza valori.

Il vero protagonista e beneficiario di questa ‘modernizzazione sbagliata’ è stato il nuovo ceto dirigente, i nuovi mediatori come li ha definiti Gabriella Gribaudi[8], esponenti della nuova classe cittadina, funzionari di partito e degli enti locali, che fanno della vita politica una professione e rappresentano al meglio il passaggio dal sistema dei notabili a quello dei professionisti della politica. Questo ceto, che raramente rappresenta i reali bisogni della popolazione calabrese, non sostiene uno sviluppo del Mezzogiorno a partire dalle sue risorse, ma sempre e soltanto uno sviluppo dipendente dal centro. Alimenta tutte le richieste di sovvenzioni e assistenza, per le quali offre le sue capacità mediatorie, per acquisire consenso, per gestire potere, per mero interesse personale, incentivando in tal modo la propensione a vivere di assistenza e la convinzione che nella irredimibile situazione calabrese sia possibile soltanto sfruttare al massimo e con qualsiasi mezzo il flusso delle risorse provenienti dallo Stato e dall’Europa.

La stagione dell’intervento straordinario e del trasferimento delle risorse ha fatto emergere un altro protagonista, che forse più di ogni altro ha saputo sfruttare le occasioni che il processo di modernizzazione della Calabria offriva, la ‘ndrangheta.

Delle vecchie famiglie mafiose che imponevano rispetto e consenso con prevaricazioni e minacce ammantate da pretestuosi valori tradizionali si stanno perdendo le tracce. La ‘ndrangheta oggi manifesta la sua capacità pervasiva imponendosi nel mercato internazionale del crimine con modalità che trascendono la sua antica appartenenza culturale, anche se, in una sorta di sintesi tra locale e globale, con un abile uso esterno della tradizione. Si presenta, infatti, come partner ‘compatto’ e affidabile proprio perché legato ai simboli e alle tradizioni chiuse della sua origine geo-culturale e coglie nei meccanismi di una economia di dipendenza e nei flussi di risorse che giungono dal centro e dall’Europa l’occasione per fare un salto di qualità.

Facendo leva sul rapporto tra carisma mafioso ed economia e sulla garanzia simbolica della sua storia, penetra negli ingranaggi del sistema politico ed economico contribuendo a realizzare un amalgamato sistema di potere che lega amministratori locali e organizzazioni criminose, imprenditori ‘assistiti’ e potenti uomini di governo. In tal modo la ‘ndrangheta rivendica la pretesa di incarnare un ruolo sociale nella gestione di uffici e risorse che sarebbero di pertinenza di altri poteri. Si è così realizzata una singolare mistura di arretratezza e modernità: diventa sempre più evanescente la distinzione tra lecito e illecito e il contesto di ‘legalità debole’ e istituzioni pubbliche poco credibili consente alle organizzazione di ‘ndrangheta di inserirsi nei meccanismi economici e politici della regione quasi come un elemento fisiologico e non patologico.

Tutto ciò ha contribuito a rappresentare i ‘mali’ del Sud in rapporto alla diversità del Nord e in una contrapposizione tra luoghi e comportamenti ideal-tipizzati che schiaccia i tratti specifici della storia del Mezzogiorno sotto una massa eccessiva di elementi metaforici che inevitabilmente occultano parti della realtà.

In questa eterna contrapposizione la Calabria è diventato il luogo simbolico dei problemi che il Meridione pone al Paese, «una insopportabile palla al piede»[9], una periferia sperduta e anonima, un luogo, per usare le parole di Franco Cassano, «dove ancora non è successo niente e dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove»[10]. In una parola il topos del ‘paradiso abitato da diavoli’, che ha accompagnato la sua storia dall’Unità in poi.

Malgrado le trasformazioni intervenute nel corso degli anni, la Calabria continua ad essere ritenuta nell’immaginario collettivo, che attinge all’immenso giacimento dei luoghi comuni sul Sud, come luogo di tutti gli eccessi: una società civile ancora intrisa di tradizioni e credenze arcaiche e irrazionali, divisa qua e là da faide familiari che si trascinano da decenni; una classe dirigente incapace, corrotta e priva del minimo senso civico; un potere mafioso diffuso, arrogante e predatorio che controlla vaste zone del territorio e condiziona la politica. L’immagine prevalente della Calabria che esce da alcune cronache quotidiane, insomma, è quella di una terra bella, ricca di storia e tradizioni, ma devastata dagli interessi particolari, dall’arretratezza culturale, dall’assenza di spirito pubblico, dalla violenza come pratica diffusa.

Gli spunti per giudizi del genere in effetti non mancano.

Ma il giudizio severo sulle vicende della realtà calabrese, pur se fondato su innegabili dati di fatto, grazie all’uso ricorrente di stereotipi e canoni tradizionali raramente riesce a svincolarsi da quel certo modo di pensare il Sud che aveva contribuito a descrivere il Meridione come un “tutto” indistinto e uniforme, irrigidito in uno schema sempre uguale: un approccio grazie al quale il Mezzogiorno è rappresentato immutabile nella sua staticità.

Una maggiore attenzione ai diversi contesti, alle specificità locali, alle condizioni non economiche dello sviluppo potrebbe mettere in evidenza, invece, che il Mezzogiorno si tinge a macchia di leopardo, mostrando dinamiche profondamente diverse a seconda dei singoli segmenti territoriali considerati. Persino una regione tradizionalmente considerata “immobile” e “senza storia” come la Calabria, se guardata con questa lente, presenta diversità e dinamismi insospettati.

Nel corso degli anni, i cambiamenti sono stati tanti e davvero enormi e diventa attuale, pertanto, l’esigenza di procedere a una ricognizione della realtà calabrese, complessa, densa di contraddizioni, passibile di letture molteplici e contrastanti, analizzando quel magma di tradizione e innovazione che la caratterizza. Un approccio critico non preconcetto e un’esposizione non mediatica dei mali della Calabria consente di cogliere, ad esempio, le positive realtà delle Università e dei centri di ricerca, di alcune cooperative giovanili che gestiscono produzioni innovative, di alcune industrie agroalimentari modernissime, delle piccole case editrici di notevole livello, di alcuni centri storici di città ricche di iniziative culturali, degli episodi di accoglienza e di integrazione interculturale. Consente anche di apprezzare le condizioni esistenziali di un luogo che offre, a volte, una qualità di vita gradevole, malgrado le tante difficoltà, grazie alle tante intelligenze, ai vantaggi naturali derivanti delle sue condizioni geoclimatiche, alla permanenza dei legami sociali e comunitari, all’amore per i luoghi, alla persistenza di tradizioni culturali che danno il senso della spiritualità che ha attraversato la regione, come in diverse occasioni ha rilevato Mario Alcaro[11]. Consente infine di non alimentare ulteriormente la serpeggiante mancanza di autostima che toglie spazio alla fiducia, all’impegno, alla speranza.

Un diverso approccio permette, soprattutto, di individuare le radici strutturali, legate a scelte storiche di politica economica e sociale, dei tanti episodi di degrado della realtà calabrese, troppo spesso interpretati superficialmente attraverso la riproposizione di consueti luoghi comuni.

Ne costituisce esempio evidente la vicenda dei fatti di Rosarno del gennaio 2010, da subito considerata da opinionisti e commentatori, non solo del Nord, frutto della strategia della ‘ndrangheta che nell’occasione ha inteso sfruttare le pulsioni xenofobe, se non razziste, che albergano nell’animo dei calabresi. Un’analisi frutto di uno sprovveduto rovesciamento cognitivo che scambia le cause con gli effetti e che, quindi, non è in grado di cogliere le cause economico-sociali della vicenda, tutte da inscrivere nella storia pluridecennale del declino dell’agricoltura calabrese, dell’abbandono di un mondo povero ma che forniva un patrimonio di saperi, di identità e di legami sociali, e in quella più recente dell’uso fraudolento ed illegale degli incentivi per l’agricoltura. La storia dei migranti duramente sfruttati nella raccolta delle arance che entrano in conflitto con la popolazione locale ha in realtà radici ben concrete: la crisi dell’agricoltura della piana, la caduta della domanda delle derrate alimentari e delle arance in particolare, la riduzione dei contributi europei. In questo nuovo contesto i migranti, fino ad allora utilizzati negli agrumeti, sono diventati dapprima eccedenti ed inutili e poi pericolosi vagabondi stranieri da spedire a casa loro[12].

In tanti hanno invece hanno preferito cogliere l’occasione dei fatti di Rosarno per tratteggiare un’anima razzista e xenofoba dei calabresi, ben lontana dalle loro tradizioni, senza nemmeno chiedersi come mai a pochi chilometri di distanza da Rosarno, a Riace (così come in altri paesi della filiera ionica), si stava verificando uno straordinario momento di accoglienza, mediante una politica di ripopolamento e di riempimento di spazi urbani abbandonati, da parte di una popolazione disposta al mutamento e all’integrazione con gli immigrati e i rifugiati[13]. Una storia non comune di convivenza e comprensione reciproca delle diversità, che ha sorpreso l’Italia e l’Europa intera[14].

Questo scenario variegato di una realtà multiforme impone di porre l’accento sulle cause storiche, economiche e politiche che stanno alla base del disagio della realtà calabrese, con un rovesciamento di prospettiva che si rifiuta di considerare le virtù private della popolazione calabrese come causa dei suoi vizi pubblici.

In realtà la fase storica che sta attraversando l’Europa e l’Occidente, oltre a dimostrare, soprattutto con riferimento al Mezzogiorno, il fallimento della grande narrazione dello sviluppo e della modernizzazione, rende ineludibile interrogarsi sul rapporto tra crescita economica e benessere sociale e chiedersi se sia necessariamente la crescita economica la condizione di ogni miglioramento sociale, la sua premessa, il suo strumento.

L’esperienza degli ultimi anni dimostra che dove entra l’economia muore la società.

E’ la ‘miseria dello sviluppo’, per dirla con Piero Bevilacqua[15], nel senso che i meccanismi pervasivi dell’economia globale e di mercato stanno mandando in frantumi la trama invisibile delle relazioni umane, dei legami sociali, dei rapporti interpersonali che costituiscono un modo di essere del vivere collettivo e che nelle società meridionali rappresentano un patrimonio storico e culturale insopprimibile. Il fenomeno di un’economia produttivistica e finanziaria disinserita dal livello sociale apre le porte a una nuova forma di povertà, una ‘povertà modernizzata’[16], una condizione che non è altro che l’agonia di concezioni e abitudini che avevano permesso a tante comunità di vivere nella frugalità riuscendo a combattere la miseria.

Per immaginare un radicale rovesciamento di questa tendenza, che immiserisce la società calabrese anche quando ne aumenta la disponibilità di risorse, occorre un nuovo modo di fare storia, analisi economica e sociologica cogliendo alcuni spunti offerti dal versante tematico del pensiero meridiano[17].

Bisogna ripartire dalle comunità, dai loro rapporti con l’ambiente, dai loro legami sociali, dall’amore per i luoghi, dagli scambi affettivi, dalle loro tradizioni culturali: in una parola da quei ‘marcatori di identità’ delle comunità meridionali che hanno bisogno di riconoscere se stesse e hanno bisogno delle tradizioni, dei simboli e dei luoghi attraverso i quali l’identità comune diventa più forte e può costituire una risorsa.

Per tale via si può andare oltre il mito dello sviluppo, immaginando un modello che rimette al centro del modo di essere dell’economia i valori, i progetti e le aspirazioni delle comunità e delle persone che ne fanno parte. I contributi teorici per un sistema che s’ispiri ad una economia della ‘solidarietà’, della ‘felicità’ o del ‘Bene comune’ non mancano[18]. Nel contesto territoriale del Mezzogiorno si può pensare ad una dimensione economica che non prevarichi sulle condizioni di esistenza, una economia degli affetti, in cui la dimensione conviviale può garantire uno stile di vita semplice ma non disperato, nel quale ciascuno può tentare di migliorare la proprie risorse senza trascurare i valori primari della coesione del tessuto sociale e della vita comunitaria.

Questa prospettiva presuppone un approccio ‘comunitarista’ che valorizzi la peculiarità formale, identitaria e culturale di ogni territorio, non imponendo logiche economiche esogene ed estranee. Bisogna ripartire dai luoghi per immaginare un’economia che faccia leva sui legami sociali, sull’ambiente e sui beni comuni. Perché è proprio nei territori, nelle campagne abbandonate, nei borghi interni, nella piccola dimensione che è possibile opporsi ai processi indotti dal mercato globale, là dove «luoghi e persone, intrecciando le loro presenze, si raccontano storie, formano grovigli di relazione fino a quando gli stessi luoghi entrano a far parte del mondo affettivo degli uomini e ne costituiscono una parte vitale»[19].

Per la Calabria, e forse per l’intero Mezzogiorno, ciò significa un’opera di riequilibrio, anche demografico, che miri a valorizzare vaste aree interne attraverso una possibile nuova economia locale che punti all’agricoltura di qualità, alla selvicoltura, al recupero di vecchi mestieri artigianali, allo sfruttamento delle acque interne, al turismo escursionistico, alla rivitalizzazione dei borghi minori e dei tanti villaggi pittoreschi un tempo pieni di vita, come suggerisce Piero Bevilacqua nel tentativo di prospettare vie d’uscita dalla crisi del sistema economico-sociale capitalistico occidentale[20].

Ma tutto ciò si concilia poco con il modello assunto dall’Unione Europea a forte impronta ultra liberista che nega ogni altra identità, in una dimensione monocentrica che costringe tutte le economie nazionali, regionali e locali ad adattarsi alle esigenze strutturali della globalizzazione e dei mercati. Questa Europa ‘delle banche’ che considera le regioni mediterranee solo aree di consumo, ad economie arcaiche e premoderne, sta implodendo e per i Paesi dell’area mediterranea il sogno europeo si sta trasformando in un incubo.

Solo in una diversa Europa, in un’Europa policentrica, secondo il modello da tempo suggerito Bruno Amoroso[21], che riconosce le diversità e non si prefigge di eliminarle, il Mezzogiorno d’Italia potrà essere immesso in un altro contesto che coniughi il locale con il mondiale e potrà costruire uno specifico modello economico che preservi quello stile di vita in cui il rapporto con il sociale, con l’ambiente, con il clima, con la percezione del tempo costituiscono una peculiarità delle culture e dell’antropologia dell’area geo-politica mediterranea.

Solo in questi termini si può riproporre la questione meridionale «come parte della questione mediterranea»[22].

Il vento che sta scuotendo la sponda sud del Mediterraneo può produrre cambiamenti allo stato imprevedibili, ma può forse essere un’opportunità per l’Europa di cessare di essere la cinghia di trasmissione di una politica economica atlantica e di pensare all’area mediterranea come un luogo in cui instaurare rapporti diversi. Occorre però superare lo stridente contrasto tra l’amplificazione mediatica dell’idea mediterranea, spesso poco più che una moda, e le pratiche di chiusura che si riservano quotidianamente ai popoli del Nord Africa. Occorre inoltre la consapevolezza che un’Europa mediterranea non ha bisogno di ricorrere a forme di narrazione in cui, attraverso il richiamo rassicurante a miti, storie e usi comuni, l’immagine del Mediterraneo non coincide affatto con il Mediterraneo reale.

L’idea del Mediterraneo come modello unitario nella diversità, che ci viene dall’insegnamento di Braudel, non deve farci dimenticare che il Mediterraneo è il mare della complessità, un insieme di sistemi sub-regionali dalle economie, società e realtà diverse; che, come ci ammonisce Predrag Matvejevic[23], non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno ad un solo Mediterraneo, caratterizzate da tratti per certi versi simili per altri differenti e che il resto è mitologia.

Ma se il Mediterraneo è oggi uno stato di cose che non riesce a diventare un progetto è innegabile che poche aree al mondo possono uguagliare la stessa densità storica e la stessa interazione sociale, conseguenze della vicinanza e della mobilità geografica. Malgrado la sua diversità e complessità il Mediterraneo è, quindi, una delle chiavi utili ad interpretare la realtà in cui sono immerse le regioni meridionali d’Europa che possono guardare ai popoli dell’altra sponda senza restare chiusi nei propri recinti.

Tale sollecitazione giunge anche dal Rapporto SVIMEZ del 2011 che coglie l’occasione dei nuovi eventi che si stanno sviluppando nell’area mediterranea per interrogarsi su come possono modificarsi le relazioni interregionali, attraverso nuovi partenariati e nuovi percorsi settoriali specifici, quali la materia ambientale, la ricerca applicata, le comunicazioni, la formazione.

E’ un cambio di prospettiva significativo perché individua il bacino del mediterraneo come una meso-regione, unica scala istituzionale e socio-economica, all’interno della quale un’altra Europa, più conviviale, più umana, più tollerante, fondata su valori mediterranei oggi derisi o rimossi, può realizzare un diverso progetto di società e di modernizzazione, attraverso forme nuove di autorganizzazione, nelle quali le regioni e le comunità del Mediterraneo, in una visione policentrica e nel riconoscimento delle diversità, individuano i beni comuni necessari per il raggiungimento di obiettivi commisurati alla loro storia, alla loro cultura, alla loro vita.

Nel cuore di un’Europa mediterranea che assuma tali obiettivi la Calabria non solo per la sua collocazione geografica ma, forse, ancor più per il suo patrimonio culturale e identitario, pur restando ancorata al flusso della grande storia europea, può svolgere una funzione trainante e può essere un ponte tra culture che una certa concezione dell’Occidente vuole contrapposte in un conflitto insanabile.

Ma per l’adempimento di questo ruolo, per contribuire a costruire con altri Paesi uno spazio di condivisione di culture e rapporti improntati a una concezione del mondo basata sul reciproco riconoscimento, sull’equilibrio e sul senso della misura, la Calabria deve prima di tutto ritrovare se stessa riflettendo in modo critico e autocritico sulla propria storia.

 

 

[1] P. Bevilacqua, Riformare il Sud, in «Meridiana», n. 31 1998, p. 21.

[2] F.G. Friedmann, The World of “la miseria”, in «Partisan Review» n. 20, 1953.

[3] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, p. 165 e ss.

[4] Il riferimento è al bel libro-inchiesta di N. Revelli, Il mondo dei vinti. Einaudi, Torino 1977, che descrive lo spegnersi della vecchia società contadina del cuneese e delle langhe con l’arrivo della industrializzazione.

[5] D. Cersosimo – V. Teti, Editoriale, in «Spola», 2007 n. 2, numero monografico dedicato ai paesi della Calabria, p. 2.

[6] Come ritengono B. Amoroso – S. Gomez Y Paloma, Persona e Comunità. Gli attori del cambiamento, Dedalo, Bari 2007, p. 85 e ss. con riferimento alla civiltà contadina,  richiamando pagine indimenticabili di Pier Paolo Pasolini di Volgar’ eloquio e Scritti corsari.

[7] F. Piperno, Vento meridiano. A mò di introduzione, in ID., (a cura di), Vento del  meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno, Derive Approdi, Roma 2008, p. 13.

[8] G. Gribaudi, I mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Rosemberg & Sellier,Torino 1991.

[9] G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 5.

[10] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 5.

[11] Il riferimento è a Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Economia totale e mondo della vita. Il liberismo nell’era della biopolitica, Manifestolibri, Roma 2003, ai tanti saggi apparsi su  «OraLocale», ora in  M. Cimino (a cura di), Politica e cultura in Calabria. OraLocale (1996-2005), vol. 1 e 2, Cosenza 2006.

[12] Tra i rari commenti dei fatti di Rosarno apparsi nell’immediatezza che abbiano cercato di individuare la cause strutturali della vicenda, va segnalato quello di E. Della Corte – F. Piperno, Rosarno. L’alibi del razzismo e della ‘ndrangheta, in «Il Quotidiano di Calabria» del 24.1. 2010.

[13] Sul fenomeno Riace cfr. M. Ricca, Riace, il futuro e il presente, Dedalo, Bari 2010.

[14] Colpito dalla vicenda di Riace Wim Wenders ha voluto restituire un’altra immagine della Calabria con un film ‘Il volo’ e sostenendo nel summit dei premi Nobel per la pace di Berlino del novembre 2009 che ‘la vera utopia non è la caduta del Muro, ma ciò che sta accadendo in Calabria, a Riace’.

[15] P. Bevilacqua, La miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008.

[16] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, p. 220, cfr. anche M. Rahnema – J. Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano 2010.

[17] Il riferimento è a F. Cassano, Il pensiero…cit.

[18] B. Amoroso, Per il bene comune. Dallo Stato del benessere alla società del benessere, Diabasis, Reggio Emilia 2009; L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni,Città nuova, Roma 2009; Riccardo Petrella, Il bene comune. Elogio della solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia 2003; L. Bruni – S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.

[19] E. Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta, Troina 2007, pp. 50-51.

[20] P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 187 e ss.

[21] B. Amoroso, Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari 2000.

[22] F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, p. 74.

[23] P. Matvejevic, Tra fratture e convergenze, in «L’Agorà del mediterraneo», Fondazione CARICAL, anno 1 n. 2, Cosenza 2011, p. 5 e ss.

Il voto e l’economia debole del sud di Amedeo Di Maio

Il voto e l’economia debole del sud di Amedeo Di Maio

Le riflessioni di Piero Bevilacqua sul successo elettorale del M5S a Sud e quelle di Enzo Paolini sull’autismo post referendum e post elezioni del PD, sono, per me, pienamente condivisibili. Non meriterebbero neanche di essere menzionate quelle tesi autoassolutorie che addebitano il successo del M5S al profondo spirito plebeo e sanfedista del Sud. Un popolo ignorante che il giorno dopo le elezioni si reca nei propri municipi a riscuotere il “reddito di cittadinanza” (evidente fake news) e tuttavia dimenticando che è lo stesso popolo che nel recente passato è stato generoso anche con il PD. Si rimuove il risultato ottenuto in luoghi dove è ancora presente una consapevole classe operaia. Penso a Pomigliano d’Arco, a Taranto e anche a Bagnoli dove la “dismissione” ha creato comitati di lotta per una rinascita ambientalista del quartiere, a zone minerarie in crisi in Sardegna, alla Sicilia deindustrializzata e sicuramente esiste qualche luogo così anche in Calabria. Mi sia consentito, per amor di retorica, accettare l’idea miseranda del nostro Mezzogiorno “accattone” e impostare un ragionamento cinico. Non v’è dubbio che l’elettore medio (e mediano) meridionale è sempre stato condizionato dalla sua condizione di economia debole. E’ per questo che la DC si preoccupava, con metodi sia leciti sia illeciti, di erogare sussidi appunto alla popolazione più debole, quella incapace di emigrare e quella che trovava un rifugio modesto ma sicuro nella pubblica amministrazione. Si trattava di un implicito reddito minimo “di esistenza”, non trasparente ma efficace. Poteva questa sia pure non nobile politica proseguire nel tempo del “patto di stabilità”, della sospensione delle assunzioni nella pubblica amministrazione, delle chiusure delle fabbriche, soprattutto di proprietà estera? Si è allargata la quota di popolazione bisognosa e invece di porre un argine agli effetti sociali delle politiche economiche dell’Unione europea, gli ultimi governi hanno “esodato”, ridimensionato il welfare e precarizzato l’offerta di lavoro attraverso il jobs act, riservando il sostanziale sussidio, al Nord alle banche e alle imprese; al Sud alla parte della popolazione costituita, come nel medio evo, da vassalli, valvassori e valvassini delle baronie politiche. Insomma, si sono aiutati i pochi e abbandonati i molti. Se ad ogni testa un voto, quale altro risultato il PD poteva attendersi? Dato il risultato elettorale, il M5S non potrà cassare il Mezzogiorno dalla sua agenda e tuttavia è, a mio avviso, molto incerto lo scenario prossimo futuro. Essere riusciti a spazzar via vecchi potentati e acuti familismi è un gran merito, tuttavia costituisce, direbbero i logici, condizione necessaria ma non sufficiente per una ripresa economica e sociale del Mezzogiorno. Nel programma del M5S non vi intravedo nulla di organico. Ho eluso fin qui la vera mia domanda. Chi altri, al posto del M5S, avrebbe potuto in tutti questi anni di crisi costruire il medesimo consenso e perché non è accaduto? Non ho la risposta o forse non voglio cercarla.

 

 

Amedeo Di Maio

Non siamo noi i razzisti, sono loro che sono negri di Enzo Paolini

Non siamo noi i razzisti, sono loro che sono negri di Enzo Paolini

Sentire in TV Ettore Rosato (il figurante che ha dato tragicamente il nome alla legge elettorale) dire che evidentemente il lavoro del PD “non è stato apprezzato” perché si sarebbe “rotto il filo della comunicazione con i cittadini” e poi un tale Calderisi affermare, con sommo sprezzo del ridicolo, che il disastro elettorale (per loro) di ieri sarebbe stato provocato dal no del referendum sulla riforma costituzionale, fa riflettere. Perché il punto è proprio questo: nella loro sicumera loro ritengono di aver fatto bene, non pensano minimamente di dover ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa per l’inguardabile abisso morale in cui hanno fatto sprofondare le istituzioni con il caso Etruria, la Consip, le intercettazioni, il Jobs act, la buona scuola, il conflitto d’interessi, le ministre che mentono sulla loro laurea, quelle che si laureano copiando la tesi, l’aereo personale pagato da noi, i vitalizi, le auto blu aumentate, le primarie abolite anzi valide solo per gli altri ma non per loro, il sistema elettorale trasformato in un sistema di nomine di amici e scudieri, le missioni di guerra spacciate per umanitarie, le sovrintendenze a tutela dei beni culturali cancellate, lo scempio del territorio con lo sblocca Italia, la legittima difesa armata consentita in base al tramonto del sole, le intercettazioni decise dal maresciallo intercettatore, la responsabilità dei giudici indiscriminata, il bonus cultura strumentalizzato per comprare voti e consenso, le interferenze dei padri negli affari pubblici, i ministri informatori degli indagati su indagini in corso, il servizio sanitario ridotto ai minimi termini mentre le commesse per gli aerei da guerra F16 prendono il volo, la riforma costituzionale scritta da un presidente di provincia e una praticante avvocatessa di Laterina, l’irrisione al dissenso ed ai professori di diritto costituzionale, l’indifferenza rispetto alla bocciatura sonora ricevuta dagli italiani, gli spot elettorali degni dei cinepanettoni, ecco tutto ciò provoca, nel semplice Rosato, una surreale consolatoria considerazione: non siamo stati apprezzati. Ad essa subito si appiglia il talentuoso Calderisi che ha pronta la soluzione e la spiegazione per il sonoro calcione elettorale che poi è quella di Renzi: non siamo noi ad aver sbagliato tutto, sono gli italiani ad aver provocato il disastro respingendo la nostra riforma costituzionale. Come dire: non siamo noi razzisti, sono loro che sono negri!

 

Enzo Paolini

Carta di Roma di Officina dei Saperi

Carta di Roma di Officina dei Saperi

La Carta di Roma nasce come contributo autonomo degli studiosi raccolti intorno all’Officina dei saperi  alla lotta aperta dall’ Appello per la scuola pubblica redatto da un folto gruppo di insegnanti e sottoscritto da oltre 10.000 cittadini.

1)La scuola non ha il compito di preparare al lavoro, che costituisce solo una delle dimensioni in cui si realizza la vita umana. Tra l’altro il lavoro è destinato a una rilevante riduzione nelle nostre società, sempre più dominate dall’informatica e dai processi di automatizzazione. Tecnologie che chiederanno  sempre più intelligenza e immaginazione  per il loro impiego creativo, che non mera capacità di strumentazione tecnica. 

2)La scuola non deve fornire “competenze” per un futuro mestiere, che configuri precocemente l’individuo lavoratore, ma deve formare la personalità dei ragazzi, arricchire la loro cultura, il pensiero critico, l’attitudine alla ricerca e alla soluzione dei problemi. Deve  anche cercare di fare  emergere negli  allievi  che ne sono dotati, il loro talento manuale, la loro inclinazione al pragmatismo dei mestieri. Pensiamo che in tante abilità della nostra tradizione artigianale si trasmettano saperi che non devono andare perduti.Il gioco può essere un veicolo gioioso di apprendimento. Al tempo stesso la scuola non deve deprimere lo sviluppo della libera creatività, dei   sentimenti, della sfera complessa degli affetti. I nostri ragazzi, le nostre adolescenti non sono scatole da riempire di nozioni, sono esistenze, spesso emotivamente fragili, che l’utilitarismo sempre più spinto del pensiero unico può stritolare. Non è meno importante formare delle personalità positive e stabili che  allievi colti e preparati. La scuola deve  contribuire alla formazione di uomini e donne, non di soldatini di un esercito del lavoro.

3) I ragazzi si possono avvicinare al  mondo delle imprese, non per essere addestrati, ma per arricchire la loro conoscenza della vita reale, per scorgere da vicino le mirabilia della tecnologia produttiva del nostro tempo, e al tempo stesso la fatica degli uomini e delle donne che producono la ricchezza nazionale. Possono accostarsi al vasto mondo dell’artigianato per conoscere la genialità del lavoro manuale e dei mestieri e per scoprire anche proprie attitudini e vocazioni. Possono e debbono entrare nelle aziende agricole per comprendere come funziona la chimica del suolo, come il fiore degli alberi si trasforma in frutto, come il sole e l’acqua agiscono sulle piante, così da vedere ricomposti nell’unità vivente della natura i fenomeni che le discipline scolastiche dividono in chimica, botanica, fisica, ecc. E’ in questo modo che si può apprendere fuori dalle aule scolastiche. Il paesaggio, le campagne, la natura, dunque , come libro vivente  in cui saggiare una modalità diversa di apprendere le scienze, impadronendosi di un’etica nuova della conoscenza.

4) La scuola non deve diventare “adeguata alla società”, intendendo per società il mercato del lavoro e l’universo dei valori consumistici. La scuola deve diventare adeguata ai problemi del mondo complesso in cui viviamo, che non si esaurisce nella sfera della produzione, ma comprende i conflitti che lo agitano, i dilemmi di una natura gravemente vulnerata nei suoi equilibri, le disuguaglianze che lacerano le società umane. La scuola deve diventare adeguata ai saperi umanistici e scientifici che la ricerca più avanzata mette continuamente a disposizione delle istituzioni formative. Essa deve appropriarsi della visione olistica con cui i saperi scientifici, superando le tradizionali divisioni disciplinari, guardano oggi al nostro pianeta: come un tutto unificato da relazioni complesse e spesso invisibili. Occorre ridare unità al sapere e incoraggiamento all’insegnamento di tale sapere.

5) La direzione antistorica sino al grottesco delle recenti riforme, ispirate al compito di piegare gli istituti della formazione alle necessità immediate delle imprese, ha creato dentro la scuola, così come dentro l’università, un’ossessione normativa, un’ansia di controllo dei risultati, che sta soffocando la libertà dell’insegnamento, sta piegando il pensiero umano sotto il calco unidimensionale della prestazione efficiente. Occorre un’opera radicale di smantellamento e di delegificazione, che liberi   la figura dell’insegnante dagli infiniti obblighi di rendicontazione che oggi l’opprimono, che gli restituiscano il tempo per lo studio, per l’insegnamento, per il dialogo con i ragazzi. Una scuola assillata dagli obblighi dei risultati si trasforma in una macchina burocratica che uccide ogni creatività. Creatività: la più rara materia prima per costruire un degno avvenire.

Occorre infine comprendere che I dispositivi elettronici e gli apparati digitali che gli attuali legislatori spacciano quale frontiera dell’innovazione culturale e didattica sono in realtà pura strumentazione tecnologica, che rimane vuota senza i contenuti,   gli interrogativi  fecondanti del sapere. Essa è un mezzo, per quanto utile e importante, non il fine e non può surrogare lo studio, la riflessione, il dialogo.

6) La politica dell’autonomia è in realtà diventata l’occasione per sottrarre risorse pubbliche all’istruzione, costringendo le singole scuole a inventarsi aziende alla ricerca di finanziamenti, di progetti, d’iscrizioni, in concorrenza l’una con l’altra. In questo modo gli svantaggi economici, sociali e geografici di partenza, invece che essere in parte contrastati da una formazione di qualità, diventano motivo di ulteriore svantaggio per gli studenti e le loro famiglie: scuole povere nelle aree povere, scuole ricche nelle aree ricche. Inoltre i carichi burocratico-amministrativi dei nuovi compiti e la loro rilevanza per la vita stessa dell’istituto scolastico hanno creato la separazione tra il gruppo ristretto di docenti a essi assegnati e gli altri che si dedicano solo all’insegnamento. Il rischio concreto sempre più emergente è la perdita di vista dei bisogni educativi e formativi degli studenti, mentre per il docente vede sempre più restringersi la libertà d’insegnamento e   la svalutato del suo lavoro.

7)Occorre una decisa politica d’investimento, indispensabile per mettere davvero al centro la scuola e la ricerca, per invertire la rotta di marginalizzazione del Paese e di esclusione di strati sociali e aree geografiche drammaticamente sempre più estese. Occorre liberare gli istituti scolastici da compiti impropri e gli studenti dall’attuale saturazione dei tempi, mettendoli nella condizione di sperimentare che il tempo dell’apprendere, del creare e dell’immaginare, della meditazione interiore, della consapevolezza di sé, è un tempo disteso, non quello soffocato delle mille cose mordi e fuggi, dei mille addestramenti, dei cento attestati. Tale restituzione alla scuola dei suoi compiti più propri deve ridare all’insegnante una dignità ormai compromessa: dignità nella costruzione di un sapere che docenti e studenti realizzano insieme, in una relazione umana reale, con un impegnativo lavoro quotidiano. Perché lo studio è lavoro. La dignità dell’insegnante si realizza anche potenziando la sua cultura e la sua formazione, fornendo a questa figura l’opportunità di un aggiornamento continuo, grazie a un rapporto  costante con le nostre università, alla possibilità di usufruire di periodi sabbatici di studio e di frequentazione di corsi, tirocini, lezioni.

8)  Occorre abolire la figura del preside manager e ripristinare quella del preside, quale primus  inter pares, ispiratore e coordinatore della comunità di studio e di insegnamento che è la scuola. La modellazione gerarchica e autoritaria dei luoghi della formazione sulla forma azienda è una scelta di grave arretramento culturale e di svuotamento  della dimensione umana, dialogica e dello spirito cooperativo della scuola.

9) La scuola, come vuole la nostra Costituzione, costituisce un fondamento imprescindibile della mobilità sociale. Essa deve essere dunque pensata come strumento per fornire pari opportunità a tutti i ragazzi, indipendentemente dalle loro provenienze familiari. Per questa ragione essa ha bisogno di risorse supplementari per intervenire sul proprio territorio, ridurre la dispersione scolastica, combattere la tendenza che la marginalità sociale ha di trasformarsi in marginalità culturale.

La scuola non può essere pensata fuori dal territorio in cui vive, anche perché dentro di essa precipitano i problemi sociali del nostro tempo. Le grandi migrazioni in atto sconvolgono tutto il nostro quadro sociale. Sempre più nuove culture e saperi e tradizioni di altri popoli si incontrano con la cultura occidentale.   La scuola deve dunque essere messa in condizione di accettare le sfide inedite che le si presentano, aprendosi al dialogo interculturale, creando le basi di un nuovo cosmopolitismo, senza il quale il mondo diventerà una Babele ingovernabile, lacerata da guerre e conflitti.Premessa per l’esercizio di questo compito è che la scuola mantenga e sviluppi la sua funzione di presidio democratico-costituzionale in grado di contrastare in modo diffuso, con efficacia e rigore scientifico e culturale,  ritorni di fiamma di ideologie e mentalità che evocano come salvifico  il passato fascista dell’Italia, mescolando questo richiamo ad ossessivi messaggi xenofobi e razzisti.  Sono chiamate evidentemente a concorrere a questo lavoro di bonifica le discipline umanistiche, a cominciare da quelle storico-filosofiche, e le discipline scientifiche come biologia e genetica .

10) Occorre bandire l’ideologia meritocratica, (che non significa disconoscere il merito), pensata per fabbricare l’individuo competitivo. La nostra società è già divorata da un agonismo economico sempre più spinto, oltre il quale c’è il conflitto armato. Noi dobbiamo realizzare nella scuola la cooperazione educativa, insegnare ai ragazzi la capacità di lavorare insieme, di riconoscere la cultura  e la dignità dell’altro, di costruire già nella scuola la società solidale di cui l’umanità ha una drammatica esigenza. Noi non abbiamo bisogno di sempre più merci e sempre più a buon mercato, di beni che ormai saturano gli spazi quotidiani, non dobbiamo soddisfare bisogni  sempre più indotti e superflui. La nostra necessità, oggi e per il prossimo futuro, è una società cooperativa e concorde, che si prenda cura delle risorse naturali minacciate da una predazione insensata e da una popolazione planetaria crescente. Senza un profondo mutamento dei paradigmi educativi, che guardino alla Natura come un bene comune da preservare, all’umanità come una sola famiglia con pari diritti, l’avvenire probabile sarà una guerra distruttiva di tutti contro tutti.

www.officinadeisaperi.it

Preistoria, o storia di Massimo Veltri

Preistoria, o storia di Massimo Veltri

 

 Se si può affermare che la storia di un territorio, di una comunità, è anche e non residualmente scritta e da scrivere in funzione delle caratteristiche strutturali del suolo e  della sua solidità e delle sue forme, del suo clima, è parimenti  necessario ricordare che, fra gli altri ma qui più significativamente di altri,  Augusto Placanica, sia con Storia della Calabria e sia con Il filosofo e la catastrofe, indica un’utile traccia di ragionamento. Riassumibile,  drasticamente, in due paradigmi: abbandonare fatalismi e rassegnazione; quello che è ci dato e troviamo in natura possiamo se non curvarlo in qualche modo adattarlo agli scopi di una vita dignitosa e civile.

Pentadattilo, le alluvioni del ’56, l’Alto Jonio cosentino, la frana di Cavallerizzo, Corigliano, Soverato, Cosenza, i trasferimenti dei centri abitati (sullo stesso luogo o altrove, come argomentano Vito Teti e Tomaso Montanari), i maremoti, i terremoti devastanti, intere montagne che se ne scendono trascinando persone, cose, affetti e beni, il mare che si mangia tutto, le fiumare pensili del reggino, gli incendi apocalittici di quest’estate… hanno contribuito a scrivere la nostra storia, a definire la nostra stessa identità, se si può dire.

E la stessa, antica e quanto mai attuale, polemica della polpa e dell’osso, del contrasto fra pianura e montagna, della progressiva desertificazione delle aree interne non sono leggibili e non aiutano a capire fenomeni fisici e antropologici legati agli insediamenti umani e tecnici nel tempo e al formarsi di un terreno sempre più fragile ed esposto?

Una storia che è possibile non solo leggere ma scrivere, per noi stessi e per i nostri figli attraverso una individuazione di cause, non solo naturali ma pure e in alcuni casi essenzialmente e sciaguratamente umane, e la messa in agenda di operazioni da compiere. Operazioni che, beninteso, travalichino sia la rassegnazione che l’indolenza rivendicazionista.

Di seguito saranno illustrati, ovviamente con caratteri di sintesi ma mi auguro non di superficialità, elementi che auspico siano utili se pure non risolutivi principalmente lungo quattro direzioni fra loro strettamente e organicamente intrecciate: il rispetto per il suolo il territorio; recuperare politiche di pianificazione  e programmazione; unire responsabilità politiche  e amministrative dell’agire con i saperi tecnici e scientifici; acquisire la coscienza diffusa che non tutto ma molto l’uomo può fare per fronteggiare e limitare insorgere e effetti di fenomeni catastrofici.

L’ANTEFATTO

 

Non si può dire che prima degli anni Settanta degli anni duemila, quando si avviarono e poi conclusero i lavori della Commissione De Marchi, messa in piedi dal Governo dopo il disastro dell’Arno a Firenze del 1966 e  si giunse poi  al varo della legge 183 – ma ci volle il 1989… –  che non si era avvertita l’esigenza, nel paese,  di un approccio sistemico alla soluzione del problema dell’assetto e della manutenzione del territorio, della difesa del suolo: basterà citare quanto ricostruisce diffusamente Giuseppe Barone nel suo libro “Mezzogiorno e Modernizzazione” del 1986, circa il potente e concertato intervento orchestrato da Bastogi, Banca Commerciale e uno stuolo di tecnocrati e di tecnici, per realizzare gli impianti silani in Calabria, a fini prevalentemente energetici, idroelettrici sì, ma inseriti in una logica esplicita di conservazione del suolo, politica di montagna e pianura, bonifica idraulica. Solo che l’idea stessa di intervenire con strumenti pianificatori, per di più intersettoriali, ha stentato ad affermarsi: forse era troppo in anticipo con i tempi.

Poi il susseguirsi con frequenza e intensità crescenti di eventi di portata particolarmente disastrosa,  l’occupazione  generalizzata di suolo e sottosuolo nel boom del dopoguerra, una maturità e una presa di coscienza adeguate, l’invalersi   della cultura della pianificazione, un vento nuovo che soffiava in Italia e che parlava di programmazione, di proiezione verso il futuro, ma aggiungerei pure l’autorevolezza e l’impegno di esponenti della comunità scientifica nelle discipline idrauliche e di scienza della terra, questo coacervo di fattori, insomma, crearono le condizioni perché ‘difesa del suolo’ non rimanesse un concetto confinato a pochi addetti.  E vissuto come particolarmente se non esclusivamente limitativo se non vessatorio. Certo, ci vollero molti anni: da che le conclusioni di Giulio De Marchi si trasferissero in un dettato normativo molta acqua passò sotto i ponti.

E nel frattempo, in un contesto non parlamentare o politico bensì scientifico, accademico, culturale, nacquero il Progetto Finalizzato Conservazione Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Gruppo Nazionale Catastrofi Idrogeologiche, sempre in ambito CNR, nelle università corsi di laurea e materie di insegnamento propri della difesa del suolo, ricerche finalizzate alla gestione e alla previsione di eventi estremi. Sembrava davvero che fosse scoppiata una nuova primavera per la gestione e la manutenzione del territorio. Figuratevi: anche con una sorta di pax fra ingegneri, geologi e agronomi, architetti, pianificatori eccetera sempre pronti in genere ad affermare il loro primato esclusivo ed escludente in materia, e a danno degli altri. Nacquero istituti di ricerca per la protezione idrogeologica, da noi nell’Università della Calabria addirittura dipartimenti universitari come Scienza della terra, Pianificazione territoriale,  finanche… Difesa del suolo.

 LA LEGGE 183

  

Molti e diversi governi nazionali, ebbe il nostro paese, durante la gestazione della legge, così che il risultato finale non può non risentire di orientamenti, equilibri politici, patteggiamenti fra diversi poteri che insistevano sulla struttura del dettato normativo. Le Regioni, il decentramento di una serie di funzioni, la sottrazione di competenze a una istituzione e il conseguente passaggio ad altre – con le immancabili contrarietà, i consueti attriti, le conseguenti paralisi – rappresentano le tortuosità, le viscosità, i compromessi con i quali ebbe a misurarsi il legislatore. Senza tacere il fatto che la superfetazione che ne conseguì, dettata da mediazioni, bracci di ferro, disaccordi e accordi, sfociò nell’impugnativa davanti alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni in materia di conflitti di competenza, e che di fatto frenò se non addirittura bloccò l’applicazione della legge. Legge, che è bene ricordare, è una legge quadro, che rimanda cioè le diverse Regioni a legiferare con norme regionali, all’interno della cornice generale della norma nazionale.

Non era facile, è necessario affermarlo senza falsi infingimenti, misurarsi con la 183: da parte di organi dello stato, amministrazioni, cittadini, tecnici, stake holders: i così detti portatori d’interessi. Una vera e propria ‘rivoluzione’ in cui si andava al di là dei confini amministrativi e l’attenzione era incentrata su quelle porzioni territoriali definite ‘bacini idrografici’, superando così barriere che da sempre avevano delimitato competenze, responsabilità , ‘bacini’ di consenso elettorale.  Prevedere negli organismi di governo dei bacini le ‘Autorità di bacino’ con composizioni che contemplavano dicasteri diversi e poteri locali e non locali di vario tipo rimandava di fatto alla cultura della concertazione, alla multidisciplinarietà, e tutto questo in un quadro legislativo pre-esesitente estremamente complesso in merito a sovrapposizione di norme, di competenze, di procedure autorizzative, di iter da seguire: un groviglio in cui non era facile  orientarsi, che nello stesso tempo depotenziava attribuzioni e, diciamo le cose come stanno, arbitri con i quali si era fino ad allora vissuto.

Né può tacersi per un verso che l’istituto Regione non era pronto a muoversi sul piano dell’adozione di norme che di fatto costituivano una limitazione d’uso del suolo e per altro verso il termine stesso ‘difesa’ che esplicitamente richiama a politiche, o soltanto azioni, limitative e prescrittive quando in Italia stava prendendo piede la cultura della deregulation e della sempre più crescente occupazione indiscriminata di aree pur in presenza di una miriade di piani: regolatori, dei parchi, delle comunità montane, gli Ambiti Territoriali Ottimali a norma della legge così detta Galli… , e il massiccio spostamento verso valle, nelle aree urbane, della vita che prima, in un paese sostanzialmente agricolo contemplava presenze significative in collina e in montagna, proprio laddove si originano i fenomeni di cui tratta la difesa del suolo: frane e alluvioni. Dicevo che non era facile, e infatti non fu facile: fatto sta che fino alla metà degli anni novanta del secolo scorso la legge 183 rimase essenzialmente al palo.

Rimase al palo fino a quando a qualcuno venne in mente di verificare il perché, dopo dieci anni e se pure con lo stop dato dalla Consulta di cui dicevo prima, in Italia le Regioni non avevano provveduto a legiferare nella cornice della legge nazionale né nessuno (in ambito parlamentare ma non solo) si fosse curato di capirne i motivi e sollecitasse l’avvio d’una stagione susseguente, o meglio: conseguente, alla legge. D’altronde non è questo, l’unico caso che si riscontra in cui fatta la legge si ritiene d’aver risolto il problema, quasi miracolisticamente o se si preferisce illuministicamente parlando. Nel frattempo, però, frane  e alluvioni continuavano imperterrite e l’occupazione indiscriminata del suolo era un leit moiv a scala nazionale, non risparmiando nessuno.

Ma veniamo allo specifico: fu instituito, presso il Senato della Repubblica, un Comitato Paritetico Camera dei Deputati-Senato della Repubblica con le finalità di verificare lo stato di attuazione della legge n. 183 del 1989, su tutto il territorio nazionale, individuarne criticità e proporre soluzioni. Conta, nell’attività parlamentare più che in altri ambiti, il background, il retroterra culturale, il know how professionale, e se si riesce a trasferire tutto questo in azioni istituzionali, in contesti di rappresentanza elettiva, senza però – e il punto è decisivo – pensare d’avere in mano bacchette magiche ché le virtù di mediazione, confronto, ascolto, flessibilità eccetera sono l’abicci della cultura politica, dicevo…  beh… può uscirne qualcosa non solo in termini declamatori o demagogici, ma effettivamente utili oltre che autorevoli. Il Comitato Paritetico in meno di un anno ha ultimato i suoi lavori fatti di audizioni, richiesta e raccolta di pareri, atti, proposte. Non  è questa la sede  per richiamare tutti suoi contenuti, ovviamente: chi vuole potrà consultare  i due volumi editi dalla Tipografia del Senato della Repubblica che riportano integralmente i lavori del Comitato, incluso il documento finale – quella che prende il nome di mozione – fatto di venti punti che sintetizzano in termini di operatività più o meno rapida il da farsi in sede parlamentare e governativa per quanto riguarda la ‘manutenzione’ della 183, sia attraverso modifiche legislative che attraverso atti di indirizzo volti alla semplificazione  e alla concertazione. Un documento finale ch’è stato presentato nell’Aula sia del Senato che della Camera nelle sedute di conversione in legge del decreto legge del Governo dopo i tragici fatti di Sarno, ed è stato fatto proprio dal Governo. Documenti e volumi che sono stati per anni oggetto di studio e di interesse da parte di soggetti diversi, ma oggi l’attenzione è pesantemente scemata: vedremo poi anche se succintamente perché. I punti essenziali: previsione e prevenzione esaltati e sottolineati; coniugare il sapere con il fare; promuovere la manutenzione del territorio; superare la ripartizione far bacini regionali, interregionali, nazionali; ridurre drasticamente i soggetti competenti nei bacini idrografici (ne furono conteggiati una cinquantina); abolire tutta una serie di vagli autorizzativi per le procedure esecutive dei progetti; assicurare fondi certi per la difesa del suolo; passare da una pianificazione effettivamente troppo rigida a strumenti di piano magari settoriali ma più snelli e più concretizzabili; prefigurare quanto si avvertiva era già nell’aria con la normativa europea che si percepiva si muovesse secondo certe linee; recuperare insediamenti e stanzialità nelle aree interne sia di tipo umano che tecnico e funzionale.

Ebbene: i due volumi di cui dicevo furono presentati a Palazzo Zuccari a Roma, con massiccio concorso e con convinta adesione del mondo, chiamiamolo così, della difesa del suolo. Alcuni di quelli interessati e richiamati dall’evento, presenti allora, sono qui anche oggi. Le Regioni cominciarono a muoversi, a legiferare, il Governo, attraverso decreti ma mai con leggi ordinarie, modificò la 183 secondo le indicazioni del Comitato Paritetico, e devo dire che l’impianto complessivo che ne uscì fuori era un insieme coerente, snello, poteva funzionare.

 

IN MEDIA RES

 

Poi intervenne Bruxelles, poi la grande attenzione e la grande tensione ch’erano state dedicate all’argomento, si potrebbe dire da ogni dove nel paese, molto si affievolirono e se pure possiamo e dobbiamo dire che tanto fu fatto, siamo in un limbo di indifferenza e di sottovalutazione, oggi, a un livello di  percezione dei fatti, cioè, ché di fatti si tratta, molto bassa, tanto dai responsabili e delle ruling class in generale quanto dei cittadini comuni, tutti attenti solo al ristoro dei danni e esclusivamente al post evento, che ci trovano se non disarmati certamente scoperti al cospetto di un territorio fragile, esposto a eventi gravosi, di un tessuto normativo non adeguato, di un presidio tecnico e amministrativo insufficiente, di un difficoltà persistente nello spendere le risorse finanziarie disponibili, nell’inquadrare sempre e comunque interventi e azioni tanto a livello di scala di bacino quanto e prioritariamente in termini di previsione e di prevenzione. Con per di più eventi atmosferici da un verso – non da ora, e certamente con qualche ragione si parla sempre più insistentemente di mutamenti climatici – inclementi e con manifestazioni di precipitazioni e di deflussi intensissimi sia giornalieri quanto orari, dall’altro in presenza di occupazione senza regole e indifferente a rischi direi oggettivamente conclamati di ogni porzione di suolo disponibile: l’ISPRA che è istituto dello Stato lo ha dimostrato e squadernato a chiare lettere. Niente si percepisce in direzione di un adeguamento antisismico alle costruzioni, dichiarate esposte ad altissimo rischio, le fiamme che quest’estate hanno provocato terre desolate senza distinzione di sorta per tutta la nostra regione, e non solo, hanno agevolato scoscendimenti e frane in uno scenario già di suo predisposto, a fronte di una polverizzazione di presenza umana e di strutture di controllo che rende, ahinoi, tutto più facile ad essere aggredito.

 

Dall’anno 2000 viviamo in una vacatio. La direttiva europea emanata in quell’anno in materia ha abrogato l’esistente, la legge dello Stato n. 183, i bacini, i piani… tutto. Ha introdotto il Distretto Idrografico. Il nostro paese non ha recepito la direttiva, o meglio: l’ha recepita con legge dello stato ma subito dopo questa è stata impugnata davanti la Corte Costituzionale, dichiarata incostituzionale e ancora, ad oggi, non ‘corretta’ in forza della corrispondente sentenza della Consulta, se non per un provvedimento emanato dal governo attuale nel suo ultimissimo periodo di vita, a carattere meramente formale, direi addirittura burocratico. Non abbiamo, cioè, né le Autorità di bacino ex legge 183 e né le Autorità di distretto a norma della Direttiva UE. E’ vero, alcuni compiti e taluni adempimenti sono stati nel frattempo attribuiti ad alcuni organismi in essere in ossequio alla 183, così come numerosi tavoli tecnico-istituzionali sono stati messi in cantiere per assegnare al nostro paese una legge sulla difesa del suolo per così dire europea, ma per intanto non ci siamo ancora. Né mi risulta che a livello parlamentare, oltre che governativo, l’attenzione sulla difesa del suolo sia percepita come prioritaria, se non in termini meramente declamatori in corrispondenza di questo o di quello evento, ed esclusivamente con solenni impegni volti esclusivamente alla ricostruzione e non già all’intervento organico.

In questa vacatio di cui dicevo si è, oggettivamente inserita la Protezione Civile. Con il suo encomiabile lavoro di soccorso alle popolazioni e di operazioni di pronto intervento, ma di fatto perdendo per strada gli altri due piloni della sua identità: previsione e prevenzione. Ma chiediamoci pure: può mai il Dipartimento della Protezione Civile surrogare compiti che attengono ad altre sfere? Può essere il Dipartimento della Protezione Civile l’unico braccio e l’unica mente delle politiche per la difesa del suolo, per le politiche sul territorio? Né può qui sottacersi come l’impianto della legge 183 fosse da tutti ritenuto valido, se pure con le imperfezioni cui si è accennato, in specie se lo si considera dopo le novelle legislative che si sono succedute: eppure il nostro paese non è stato in grado di difendere tale impianto, a Bruxelles, laddove più che proporre una direttiva fotocopia della 183 (non sarebbe stato opportuno, giusto, onesto) avrebbe potuto e dovuto avanzare e difendere scenari fortemente improntati alla nostra legge di riferimento. Perché così non è stato? Scarso interesse per la materia, peso specifico dell’Italia non adeguato? Entrambe le cose, ritengo, e forse pure altro.

 

SCENARI EUROPEI E QUESTIONI CALABRESI

 

Non rinvengo elementi di positività nello spezzettamento in più direttive europee dell’argomento difesa del suolo, territorio e acque, direttive numerose e a raffica, che danno il segno di come una visione per così dire di cornice non rientri più nel radar della percezione del legislatore anche a scala europea.  A me pare che un impianto, una visione, una politica generale non ci sia, appunto, nemmeno a livello europeo, oltre che in Italia: non è un continente keynesiano, il nostro, si potrebbe concludere. Con la conseguenza che abbiamo o meglio si sia scelta la via del riduzionismo, della frammentazione, dell’empirismo induttivo, che si può dire risultino la cifra prevalente del momento storico che viviamo. Oppure, diciamolo: di pianificazione e programmazione – ché in estrema sintesi di questo si tratta –  non  si vuole più sentir parlare. D’altro canto le istituzioni parlamentari sono effetto e specchio di quanto si muove o non si muove nel paese: quale vagìto si avverte da parte delle municipalità, delle comunità scientifiche, dei tecnici, degli imprenditori, dei partiti politici, delle forze sociali? Solo e soltanto richiesta di risorse finanziarie per una generica quanto fallace richiesta di ‘messa in sicurezza’ post-evento, slogan declamatori, ignoranza assoluta del ‘di-che-trattasi’, oscuramento e colpevole dimenticanza di quanto si è prodotto, pensato, realizzato negli ultimi vent’anni, almeno. E’ come se la storia non esista più e si voglia partire sempre da zero. Come se fra rischio zero e deregulation non ci siano tanti spazi intermedi, come se intervenire dopo non costi di più che intervenire prima. Come se risparmiare vite umane non fosse possibile.

Come può intendersi il lavoro di ‘Italia Sicura’, altrimenti? La struttura messa in piedi dal Governo in carica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ha l’esplicito, e meritorio, compito di accelerare, di promuovere, l’apertura dei cantieri per le numerose opere da tempo in posizione di stand by. Ebbene, per diretta ammissione del responsabile di Italia Sicura, è vero: la qualità progettuale non sempre è quella giusta, gli interventi sono invischiati in una rete perversa di procedure burocratiche, bisogna accelerare, accelerare… ma delle norme insufficienti, della politica di piano che non esiste più, di collina e montagne abbandonate non si parla: chi ne parla, chi dovrebbe parlarne? Eppure collina e montagna sono la sede dove originano i processi fluviali, dove insorgono i movimenti di massa, dove si sono bruciati quest’estate ettari e ettari, e se lì il presidio umano e tecnico sì è se non desertificato fortemente ridotto, se il modello di sviluppo è tutto incentrato a valle, come interveniamo, di che cosa parliamo? E ancora: se per aprire i cantieri di un’opera il vaglio, i vagli, durano l’enormità di anni e di timbri, e la qualità progettuale non è sempre una perla fra le perle, non ci si rende conto che la questione delle politiche territoriali va vista, va rivista, dalle fondamenta, a cominciare dalla promozione profonda e robusta della interdisciplinarietà e dal dialogo fra i diversi saperi: altro che baruffe chiozzotte fra i molteplici professionisti.

Da poco è stato pubblicato nell’Aggiornamento della Enciclopedia Treccani la voce Difesa del Suolo ed Eventi Estremi: ho in quella sede sviluppato una traccia di ragionamento improntato alla ricostruzione di un filo storico su quanto finora prodotto a livello istituzionale oltre che scientifico sulla difesa del suolo. Ho, lì, avanzato alcune proposte di recupero di un ethos come condizione necessaria per una inversione di tendenza. Un ethos essenzialmente basato su due parole chiave: responsabilità e modello di sviluppo. La responsabilità non solo delle istituzioni preposte ma anche, e direi soprattutto, dei soggetti competenti. Tecnici, ingegneri, geologi, agronomi, architetti, docenti universitari… sono o no classe dirigente? Intendono riappropriarsi d’un ruolo che ha fatto grande l’Europa, che ha scritto pagine importanti nel nostro paese? I laghi silani di cui parlavo prima si debbono ai costruttori di dighe, sì, ai progettisti di impianti, di turbine eccetera. Ma si debbono pure ed essenzialmente all’ingegnere Omodeo, questo meridionale che non con il cappello in mano, non per chiedere, non per protestare, ma per proporre è riuscito a smuovere banche, governi, imprenditori in una visione da New Deal ante litteram.

 

PER CHIUDERE UNA RELAZIONE E (RI)APRIRE UNA DISCUSSIONE

 

Possiamo, ingegneri e geologi, litigare fra di noi, possiamo, noi tutti, aspettare Godot, un Godot che, se lo aspettiamo soltanto, siamo sicuri per davvero che arriverà?! Godot lo aspettiamo, e va bene… , se però recuperiamo quel senso di partecipazione attiva che ancor più necessita, in tempi non propriamente brillanti. Fuor di metafora: coniugare saperi tecnici con scelte politiche, motivare l’azione in ambito legislativo, impegnarsi in prima persona per dare la nostro paese un sistema moderno e funzionante di difesa del suolo e assetto territoriale, attraverso una chiamata di alto profilo di quanti hanno voce in capitolo, da promuovere senza particolari indugi. Una chiamata che non può che partire dal modello di sviluppo e dagli strumenti d’intervento. Cementificazione, “stra-uso” e “stra-abuso” del territorio, urbanizzazione massiccia, abbandono della se pur minima azione programmatoria devono stare al centro di una riflessione accurata e però non soltanto improntata alla denuncia. Non basta la denuncia: serve la proposta, la proposta sostenibile e praticabile, da offrire alle sfere decisionali. E la proposta, ritengo, uscirà fuori. Non semplice, non immediatamente e di colpo realizzabile, ma uscirà fuori. Ed ovviamente non riguarderà solo la difesa del suolo. Potremmo dire: la difesa del suolo come metafora di un nuovo modello di sviluppo, come recupero dello strumento della pianificazione per il governo del territorio, che contempli una visione di insieme fra città e campagna (come si diceva una volta), di rischi, di limitazioni d’uso ma anche di prospettive reali di crescita. Ché i fondi ci sono, spesso ci si trincera dietro la loro insufficienza, ma ci sono: non si sa – piuttosto – chi deve spenderli, dove, quando e con quale priorità e a quale scala, ma ci sono. E se dopo i tragici fatti di Soverato mi indignai nel leggere la folle richiesta avanzata dalla Regione al Governo nazionale di non ricordo più, dopo quasi ventotto anni, quanti milioni di euro, quando non avevamo ancora recepito la legge 183, quando avevamo autorizzato di tutto e da per tutto, quando si costruiva tutto e da per tutto, poi quella doverosa e scontata indignazione si ebbe modo di tramutarla in altro, in proposta, per questa nostra travagliata terra, al riparo da fatalismi e attendismi.

E in qualche modo bisogna iniziare: cinquanta e più comuni della nostra regione hanno sottoscritto, fatta propria, una proposta di legge regionale sulla valorizzazione dei centri storici calabresi, una proposta redatta da diverse associazioni di cittadini che hanno sede a Cosenza e di cui faccio parte. La proposta è stata formalmente depositata ormai mesi orsono presso la Presidenza del Consiglio, a Reggio  Calabria, ma se pur avendone chiesto e sollecitato, come pure è previsto dallo Statuto regionale, l’avvio della discussione nella competente Commissione a tutt’oggi non ne avvertiamo traccia alcuna. Ma noi aspettiamo e premiamo, continuiamo a premere: perché molto crediamo nella cittadinanza attiva, perché siamo convinti che il problema delle aree interne e dei nostri comuni sia decisivo per la crescita, per la sopravvivenza stessa nostra. Il tutto non estraneo, affatto, al tema della discussione di oggi.

 

 Relazione di Massimo Veltri all’incontro pubblico sul tema “Difesa del suolo e pianificazione del territorio: una questione nazionale, fra rischio zero e deregulation” promosso dall’Associazione degli Ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento Regionale Calabria “P. Poerio” e Associazione fra ex Consiglieri Regionali della Calabria a  Lametia Terme, il 20 gennaio 2018 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Un Sud stellare di Piero Bevilacqua

Un Sud stellare di Piero Bevilacqua

E’ difficile mostrare sorpresa di fronte ai dati generali più o meno definitivi di queste elezioni di tardo inverno 2018. Non sono sorprendenti – sia detto senza alcuna iattanza – per chi segue la vita politica dalle strade della città e non dall’aria condizionata dei palazzi. Per chi ha seguito il rovesciamento strategico del PD di Renzi, da pallido partito socialdemocratico a formazione di destra conclamata.Un partito di governo che ha gettato allo sbando del precariato due generazioni di giovani, ha sottomesso la scuola alle ragioni di Confindustria, affidandola a una sindacalista, ha “risolto” il problema degli immigrati rinchiudendoli nei lager della Libia.E non vale, per quest’ultima notazione, osservare che Salvini ha vinto per le ragioni opposte. E’ il popolo che votava a sinistra che fa mancare il suo consenso per queste scelte. Esistono fedeltà antiche, tra gli elettori, che sopravvivono agli scenari mutevoli della politica politicata. Liberi e uguali, tardiva iniziativa politica, costellata di errori, e apparsa subito come cartello elettorale ( dunque tutta interna alle logiche e ai rituali che spingono gli elettori a disertare le urne, o a votare per le formazioni populiste) è andata peggio del previsto. Ma per questo versante di problemi ci sarà tempo per ragionare.

Quel che era invece imprevedibile, è non tanto la vittoria generale dei 5 Stelle, quanto la sua affermazione totalitaria in tutto il Sud continentale e nelle Isole. Che cosa è accaduto? Perché un tale successo, che si spalma con impressionante regolarità su tutto il territorio meridionale? Le analisi circostanziate dei prossimi giorni ci faranno capire meglio i particolari di questo evento di vasta portata. Ma chi ha una qualche informazione generale sul Sud di oggi può avanzare qualche considerazione non priva di fondamento. I 5 Stelle vincono innanzi tutto perché al Sud gli effetti dello svuotamento della democrazia rappresentativa sono più gravi che altrove. Non è solo perché

da quando esiste il Porcellum, cioé a partire dal 2005, gli elettori non possono più scegliere i propri candidati. O perché, qualunque sia l’esito delle elezioni a cui partecipano da oltre 10 anni, amministrative o politiche, la condizione sociale di un massa crescente di loro non muta, anzi peggiora. Ma il fatto che il ceto politico , soprattutto quello dei governi locali e nazionali, mostra una sovrana inettitudine a cambiare alcunché della loro vita e soprattutto si presenta come una élite che vive immersa in privilegi ed affari, qualunque sia la colorazione politica di appartenenza. Infine, particolare ignoto a chi non segue da vicino i fenomeni politici di questa parte del paese, in malte aree del Sud il voto non è più libero. La disoccupazione perdurante degli ultimi anni ha creato una dipendenza grave e sempre più stretta di una platea estesa di cittadini dai favori e dalle influenza dei detentori di potere grandi e piccoli. Una società civile resa fragile dalle scarse fonti di reddito e occasioni di lavoro, è oggi sempre più assoggettata ai comandi della politica affaristica, quando non della criminalità organizzata.

Se tale quadro ha un minimo di verosimiglianza, è naturale che il movimento 5 Stelle sia apparso con tutte le caratteristiche di un movimento antisistema. E perciò ha finito con l’avere questa forza dirompente. Se ci si riflette bene, la vittoria elettorale di tale formazione appare paradossalmente come un segnale positivo. Esprime la volontà di ribellione e di libertà del nostro Mezzogiorno. Una parte del Paese che non si vuole arrendere a una visione della politica non solo svuotata di ideali (che pretesa!), ma priva di dignità, di una qualche sfumatura morale, piegata in maniera sempre più sordida a logiche di clan. I 5 Stelle non promettevano posti di lavoro, non sono legati a clientele locali, hanno mostrato di praticare una politica anticasta con i rimborsi ( ah, gli idioti che li rimproveravano perché alcuni di loro erano inadempienti!), si battono da sempre per un reddito minimo ( con una formulazione ultimamente discutibile), si presentano soprattutto – ahimé – come angeli senza passato. E questo appare il più grande merito.Perché di fronte alla montagna di fallimenti che è stata la politica nazionale degli ultimi anni, agli occhi di tanti italiani e soprattutto meridionali, la vergine inesperienza dei 5 Stelle è di gran lunga preferibile alla competenza delle vecchie volpi, sempre le stesse, impegnate a conservare presidi di potere di piccolo cabotaggio e a non cambiare alcunché.

Pubblicato sul Manifesto del 6 marzo 2018

La globalizzazione dei migranti di Piero Bevilacqua

La globalizzazione dei migranti di Piero Bevilacqua

Quando la globalizzazione cessa di presentarsi sotto forma di merci e di capitali, e assume l’aspetto di umani individui, addirittura di popoli in fuga, allora il pensiero unico neoliberale precipita in confusione. La libertà della sua assordante retorica riguarda i soldi e le cose, non gli uomini.Per le persone, la libertà di transito non può essere uguale a quella delle merci. E’ faccenda più complicata. E dunque la coerenza teorica viene abbandonata e si passa all’uso delle mani… Di fronte al fenomeno migratorio il ceto politico europeo, salvo rare eccezioni, è caduto negli ultimi mesi assai al di sotto dell’intelligenza normale delle cose, della capacità di cogliere non tanto la sovrastante e incontrastabile potenza di un processo storico. In questo la miseria morale del suo atteggiamento, che ha assunto la faccia truce dell’intransigenza contro i derelitti del mondo, col tempo resterà incancellabile più per il lato ridicolo che per la ferocia. Leader e uomini di governo ci sono apparsi nell’atto di voler svuotare l’oceano con il cucchiaino. Ma segno ancor più rilevante di una mediocrità politica senza precedenti è l’incapacità di rappresentare gli interessi di lungo periodo dei rispettivi capitalismi nazionali, di cui sono i solerti servitori. Ossessionati dalla conservazione del loro potere, con l’occhio sempre fisso ai dati del consenso personale, governanti e politici di varia taglia hanno di mira il solo scopo di vincere la competizione elettorale in cui sono perennemente impegnati contro avversari e sodali. E perciò sono spaventati dalle difficoltà dei problemi organizzativi che l’arrivo dei migranti pongono nell’immediato.La loro campagna elettorale può riceverne solo danno. Se negli ultimi giorni le barriere sono cadute è perché – come è apparso chiaro – la vastità di massa e l’irruenza incontenibile del movimento di popolo poteva, da un momento all’altro, precipitare in un massacro. Rischiava di rappresentare agli occhi del mondo, ancora in Europa, una nuova forma di olocausto nel glorioso terzo millennio.E la Germania, soprattutto la Germania, con il suo passato, non poteva permetterselo.

Ma chi ha la testa sollevata al di sopra della palude della nanopolitica sa che il fenomeno migratorio è di lunga data, è solo esploso a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che << Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato.>> E i maggiori e quasi esclusivi centri di attrazione erano e sono gli USA e l’Europa.Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate. Come potrebbe essere diversamente? Il capitalismo usa due potenti leve per sradicare i popoli dalle proprie terre. La prima è quella dello “sviluppo”, la trasformazione delle economie agricole in primo luogo, la distruzione della piccola proprietà coltivatrice a favore delle grandi aziende meccanizzate, la nascita di poli industriali, lo svuotamento delle campagne, la formazione di megalopoli e di sconfinate bidonville. E lo sviluppo, che in tanti paesi avanza attraverso vasti diboscamenti e la rottura di equilibri naturali secolari, il saccheggio neocoloniale delle risorse, genera anche altre migrazioni: quella dei profughi ambientali, che fuggono da inondazioni o da prolungate siccità.

L’altra leva, sempre più attiva, è il potere incontenibile di attrazione che le società prospere dell’Occidente esercitano sulle menti delle popolazioni immiserite, deportate, segregate che si agitano nei vari angoli del mondo. Occorre tenerlo bene in mente: ogni giorno, anche nel più remoto villaggio africano, grazie a un’antenna satellitare va in onda lo spettacolo della più flagrante ingiustizia che lacera il destino delle genti sul nostro pianeta. Uno spettacolo grandiosamente tragico che i dannati della Terra non avevano mai visto nei secoli e nei decenni passati. I miserabili, gli affamati, gli invalidi, i reclusi, le donne segregate, possono vedere dall’altra parte del mondo i loro simili, uomini e donne come loro, ricchi, sazi, sani, liberi. E questo spettacolo genera due scelte, ormai ben evidenti: l’estremismo terrorista o la fuga di massa.

Ma il ceto politico europeo, che vive alla giornata – non quello governativo americano, che dispone di centri di analisi strategica e di proiezioni di lungo periodo – non comprende, per specifica miseria intellettuale, neppure l’interesse del capitalismo che ha scelto di rappresentare. Dimentica, ad esempio, che l’immigrazione di popolazione “latina” negli USA è stata una delle grandi leve del boom economico degli anni ’90 in quel paese. Ma soprattutto non comprende quali vantaggi una forza lavoro giovane e abbondante procurerà alle imprese europee nei prossimi anni. E qui è evidente che il problema riguarda tutti noi, la sinistra politica, il sindacato. Siamo stati certamente encomiabili nel difendere i diritti dei migranti, il valore di civiltà del libero spostamento delle persone oltre le frontiere. Ma l’arrivo di tanta forza lavoro a buon mercato non solo ci impone di vedere le persone umane, i titolari di diritti intangibili, oltre le braccia da fatica – cosa che in Italia abbiamo ben fatto, anche se solo a parole e senza alcuna mobilitazione – ma di cogliere per tempo la sfida che tutto questo ci pone. Sfida di organizzazione, di proposte, di soluzioni, di politiche. O facciamo un ulteriore salto di civiltà, tutti insieme, secondo le logiche della nuova storia del mondo, o regrediamo tutti insieme. Per strano che possa sembrare, la sinistra, in Italia, ha la possibilità, la possibilità teorica, di fornire delle risposte strategiche con cui affrontare lo scenario turbolento e difficile che si apre.

Il potere dei poveri di Piero Bevilacqua

Il potere dei poveri di Piero Bevilacqua

Il riconoscimento a Mimmo Lucano, sindaco di Riace, da parte del settimanale Fortune, quale personaggio fra i più influenti del mondo, è un gesto paradossale di nobile generosità. Paradossale perché Mimmo è uomo di nessun potere, persona normale di grande coraggio e altruismo, alle prese con i problemi di uno dei tanti paesi poveri della Calabria. Ma dopo Wim Wenders, che con il film Il volo ha reso universale la vicenda di Riace, un’ altro autorità, nel nostro tempo atroce e spietato, esalta la potenza simbolica dell’umana solidarietà che può dischiudersi tra i poveri. E non è solo Riace, è anche Caulonia di Ilario Ammendola, e Lampedusa di Giusi Nicolini, cui Gianfranco Rosi ha dedicato il film Fuocoamare, appena premiato con l’Orso d’oro a Berlino. Ma tali riconoscimenti non devono esaurirsi nell’autocompiacimento. Sono segnali da raccogliere con l’iniziativa politica. Essi indicano alle migliaia dei sindaci italiani che vedono di anno in anno spopolarsi e decadere i propri comuni, spesso borghi di singolare bellezza, la possibilità di una rinascita delle loro terre, di far rivivere economie e luoghi, di far ritornare i bambini, con le loro grida, a spezzare il silenzio dei pochi vecchi che prendono il sole in attesa della morte. Certo, ci vuole un po’ di iniziativa, occorre individuare le terre che si possono far coltivare, le botteghe che si possono riaprire, le case e gli edifici che si possono riparare e riabitare. Certo ci vogliono un po’ di risorse pubbliche, niente di eccezionale, come è accaduto nel caso di Riace e Caulonia. Ma sarebbe forse oggi l’investimento pubblico più carico di potenza politica. Esso indicherebbe che i giovani disperati fuggiti dalle guerre possono diventare i nuovi cittadini di un Pese solidale, che operano per ricrearsi una vita e insieme per realizzare un grande progetto: far rivivere l’Italia interna che sta morendo. Ma perché, nessun leader, a sinistra, prova intestarsi una simile battaglia?

Prime lettere dalla Calabria di Franco Armino

Prime lettere dalla Calabria di Franco Armino

Sono in Calabria e non vedo l’ora che sia giorno per vedere il paesaggio. Mi piace che qui non sia tutto nuovo. Non ci sono venti metri quadrati che siano uniformi, anche un metro di marciapiedi può essere una sorpresa. Se guardi per terra quando sei in Svizzera vedi che è tutto segnato, ogni metro di terra ha il suo compito assegnato. Lugano è l’opposto di Vibo Valentia. Noi dobbiamo stare attenti a non diventare come Lugano. Noi dobbiamo avere un pezzo di giornata in disordine, dobbiamo indugiare ogni tanto in chiacchiere inutili.
Svegliarsi in Calabria mi piace perché qui è in atto una resistenza, ma non la fanno tanto le persone, la fa il paesaggio. E io vengo qui per dare onore a questa resistenza. Che poi è un poco quella di tutto il Sud. Non date retta alle scene degli imbroglioni che anche in questi giorni stiamo vedendo. Il Sud italiano è ancora un luogo che ci può commuovere. Qui lo spazio è conteso dalla miseria spirituale dell’attualità e le tracce nobili del mondo greco e bizantino. Le tracce di un mondo dove lo spazio esterno era il cuore di tutto e le persone contavano per la felicità che potevano dare al mondo, non per la felicità che chiedevano al mondo.

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2.

In Italia esistono tre grandi isole: la Sicilia, la Sardegna e la Calabria. La Calabria non è una penisola perché ha il mare anche a Nord, un mare di montagne, il Pollino.

Bisogna guardare bene l’Italia, bisogna guardarla per quella che è adesso, non per l’abito che le abbiamo confezionato chissà quando.

Ora non è più tanto difficile arrivare in Calabria, l’autostrada è poco affollata ed è anche gratuita: viaggiare da Salerno a Reggio è un viaggio che non stanca.

Molti italiani in pensione potrebbero andare a passare qualche mese in Calabria per esempio nel mese di aprile o di maggio. Fa caldo, si mangia bene, non si può dire che ci sia un clima violento. La criminalità si occupa di altro, non certo di qualche forestiero che si fitta la casa per un mese.

Gli italiani devono andare in Calabria, c’è tanto spazio nei paesi dell’interno e ci sono tante case vuote sulla costa. Qui la modernità incivile è ben presente, ma ha solo poggiato i suo segni, non sono scesi in profondità. La Calabria se gratti un poco ti svela il suo cuore arcaico, ti dice qualcosa che ti fa bene sentire, ti muovi in uno spazio che è pieno di errori e di orrori, ma non sa di finto. In questa regione è come se ci fosse ancora una verità nelle cose e nelle persone.

Io fino a qualche anno fa la Calabria non l’avevo capita. Mi irritava e basta, ma ora la guardo con occhi nuovi. E ogni due minuti mi costringe a cacciare il telefonino per fare qualche foto. In nessun altro posto d’Italia mi capita di fare tante fotografie. È uno spazio in cui il brutto viene immesso in continuazione, ma curiosamente alla fine è un brutto cedevole, capace perfino di farti simpatia. Accade negli spazi esterni e anche in quelli interni. Il calabrese o arreda troppo o non arreda per niente. Qui sembra non ci sia posto per la sintesi, per l’intreccio, il fregio e lo sfregio vengono semplicemente accostati. È una situazione interessante dal punto di vista antropologico, oltre che estetico. Bisogna assolutamente andare in Calabria e guardarla, svuotare la testa da ogni pregiudizio e limitarsi a guardare. Questa regione non produce noia quando tace, quando guardi i suoi muri, il suo mare, i suoi alberi. La noia arriva, come in ogni parte del mondo, quando senti le persone che parlano per l’obbligo di dirsi qualcosa. La parola è essa stessa una cosa e non può essere usata come colluttorio per sciacquarsi la bocca. Ma questo è un altro discorso e non c’entra molto con la Calabria.

 

3.

La Calabria delle case e delle strade sembra molto simile a quella degli arbusti che spuntano a caso in mezzo alla strada. È come se qui l’unico piano urbanistico possibile fosse la primavera. E quando vai in giro solo raramente senti la pressione di un mondo organizzato nei suoi lavori. Si lavora ma c’è tempo per l’indugio. Ognuno anche qui ha le sue traettorie, ma sono meno dritte, a un certo punto le perdi di vista. E poi i calabresi rimasti in Calabria non sono tanti. E a me piacciono i luoghi con poca gente. Mi piace camminare davanti al mare senza vedere nessuno. Quando vedo uno spazio bello che non sta usando nessuno mi pare che questo spazio sia ancora più prezioso. Qui quello che vedi non è frutto di un progetto ma di una smania. La modernità come fioritura selvaggia più che come acquisizione lenta, condivisa. E poi la modernità qui sembra una rivalsa contro l’orografia. Le montagne ci hanno procurato tanta fatica. Ci vendichiamo costruendo tutte le case nelle pianure (che qui hanno la forma che hanno le unghie). Il calabrese ha un sangue forte perché il sangue deve scendere e salire. E la discussione subito si fa accesa, i toni non sono mai moderati. Si procede per sbalzi, scalini. Anche la vita emotiva pare senza progetto, pare una fioritura primaverile. Qui non c’è il clima depressivo col grigio chiaro che ti avvolge nelle grandi pianure. Qui hai un filamento cupo che sta nel fascio dei nervi, come se tra i colori dell’arcobaleno ci fosse anche il nero.

 

 

testi e foto di Franco Armino

p.s.

ne seguiranno altre