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Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

«Per spiegare l’assurdità di un progetto di autonomia differenziata come quello del ministro Calderoli basta dire che, su un tema fondamentale come quello dell’istruzione il Sud subirebbe un taglio di 1,4 miliardi di euro a vantaggio delle regioni del Nord – sostiene il segretario generale della Cgil Puglia Pino Gesmundo – Ed è solo un esempio di una riforma complessiva irricevibile, anche perché sottratta al confronto del paese, della comunità scientifica, dello stesso parlamento».

Lo studio citato da Gesmundo è un articolo di Marco Esposito ripreso da Il Mattino, uno di quelli che hanno provocato la « scomposta» minaccia di «querela» da parte del ministro agli affari regionali e alle «autonomie», il leghista Roberto Calderoli. Così hanno definito le sue parole i comitati di redazione de Il Mattino e de Il Messaggero. «Si utilizzano le querele temerarie – hanno aggiunto – come arma di pressione contro la libera stampa, per tentare di “imbavagliare” ogni legittima forma di critica» . Il testo è stato ripubblicato sul sito Roars.it, punto di riferimento online sia della critica alla scuola e all’università trasformate dalle riforme neoliberali degli ultimi trent’anni che della «secessione dei ricchi».

Nella simulazione riportata nell’articolo il taglio di cui parla Gesmundo sarebbe la conseguenza dell’adeguamento della spesa attuale per l’istruzione al «costo standard» inteso come media nazionale previsto dalla riforma di Calderoli. Attualmente la spesa per gli studenti al Sud risulta essere più alta rispetto a quelli del Nord. In Lombardia e in Veneto la spesa statale per studente è di circa 3.800 euro all’anno. In Campania aumenta a 4.500, in Sicilia circa 4.900, in Basilicata 5.600. La media italiana, cioè lo standard, è 4.346 euro. Se si applicasse questa media a tutte le regioni allora il Sud perderebbe 1,4 miliardi.

Allo stesso tempo la Lombardia riceverebbe 820 milioni euro in più, il Veneto 340 milioni euro, per realizzare il loro sistema scolastico «regionalizzato». Ma perché, oggi, c’è questa sproporzione tra scuole del Nord e del Sud? Davvero al Sud si «sprecano» risorse? Perché, in primo luogo, al Sud vivono e lavorano docenti con un’anzianità maggiore, mentre quelli più giovani sono costretti a «emigrare» a Nord e, in base al sistema della progressione di carriera, percepiscono uno stipendio inferiore. Uno stipendio, va ricordato, già modesto e inferiore alla media dei paesi Ocse paragonabili al nostro, a cominciare da Germania o Francia. Questo è l’effetto di un sistema disfunzionale, e malconcepito, che produce attualmente oltre 200 mila precari cheogni anno permettono alla scuola di funzionare. E che sarebbe fatto ulteriormente a pezzi da una «regionalizzazione» scolastica che potrebbe essere uno degli obiettivi dell’«autonomia differenziata».

L’istruzione scolastica e universitaria copre il 13 per cento della spesa regionalizzata dello stato, ed è una delle voci più ricche della partita dell’«autonomia differenziata» che le destre al governo vogliono scambiare con il «presidenzialismo». «Se non venissero stabiliti i fabbisogni standard, l’aliquota della compartecipazione Irpef sarebbe del 61% per la Puglia. Un salasso a danno dei cittadini della regione che suo malgrado ha il più alto indice di povertà relativa, che colpisce il 27,5% dei residenti. Mentre ne beneficerebbero proprio le regioni che hanno firmato le intese per le autonomie – osserva Gesmundo – Un trasferimento di risorse da Sud verso Nord, tutto il contrario dell’impegno dell’Europa che ha assegnato all’Italia oltre 200 miliardi di euro per spingere alla coesione territoriale».

Quanto alle «querele» di cui ha parlato Calderoli a proposito dei giornalisti, il sindacalista ha aggiunto: «Correremo il rischio della querela ma continuiamo ad affermare che quel disegno di autonomia ha un portato egoistico e divisivo. Il progetto è vessatorio nei confronti di territori dove non è garantita uniformità nell’esigibilità di diritti costituzionali, dalla salute all’istruzione alla mobilità, cosa che dovrebbe prescindere da dove si nasce o si sceglie di vivere».
Dalla Sicilia ieri è arrivato sostegno alla «ribellione» dei 55 sindaci del Sud che hanno scritto a Mattarella. «In materie come scuola, sanità, infrastrutture e trasporti non occorrono livelli essenziali di prestazione ma livelli uniformi – sostiene il segretario della Flc Cgil Palermo Fabio Cirino – Chiediamo a tutti una risposta di attivismo civico».

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023
Foto di Cole Stivers da Pixabay

Perché una Costituzione della Terra?.- di Gianfranco Amendola

Perché una Costituzione della Terra?.- di Gianfranco Amendola

Anno nuovo, vita nuova. Speriamo, anche per la nostra Costituzione, che compie 75 anni ma non li dimostra, grazie alla lungimiranza dei nostri padri fondatori. Un esempio emblematico è costituito dall’art. 9 che tra i principi fondamentali ha inserito a sorpresa (siamo nel 1948) la “tutela del paesaggio”, aprendo la strada, così, alla (allora sconosciuta) tutela dell’ambiente.

Di modo che, sin dagli anni 80, la Corte costituzionale ha potuto affermare che esiste anche, come “va l o r e primario e assoluto” un “diritto alla protezione dell’ambiente. E, ancor più significativamente, un anno fa è proprio dall’art. 9 che il nostro Parlamento ha preso le mosse per meglio specificare l’ampiezza di questo valore, precisando che la Repubblica tutela “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”; e aggiungendo nell’art. 41, che la iniziativa economica privata, pur restando “libera ”, non può svolgersi in contrasto non solo, come già prescritto, con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ma anche “alla salute e all’ambiente”.

Completando, infine, queste importanti novità demandando alla legge ordinaria il compito di disciplinare “i modi e le forme di tutela degli animali” e quello di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali “e ambientali”. E, sia chiaro, non si tratta di modifiche senza conseguenze. Perché, dopo il loro inserimento in Costituzione, tutte le leggi vigenti devono essere lette, interpretate ed applicate in conformità ovvero, se questo non risulti possibile, occorre rivolgersi alla Corte costituzionale. E questo vale non solo per i giudici ma anche per tutte le istituzioni, nazionali e locali.

Eppure, diciamo la verità, finora non sembra sia cambiato niente. Continuiamo, citando a sproposito la “sostenibilità”, ad applicare leggi che privilegiano il profitto di pochi senza alcun riguardo per le attuali e future generazioni (basta vedere le scandalose vicende dell’Ilva, più volte sottoposte all’attenzione della Corte costituzionale); si programmano grandi opere senza neppure porsi il problema dei loro riflessi sulla biodiversità e sugli ecosistemi, specie in concomitanza con l’avanzare dei mutamenti climatici.

Emblematica, in questo senso, è la vicenda dell’inceneritore a Roma prospettato dall’attuale sindaco come la panacea contro l’invasione di rifiuti, dimenticando che, anche per la normativa comunitaria, il ricorso ai cd. “t e r m o valorizzatori ” viene al terzo posto, dopo riduzione alla fonte e riciclo, proprio in considerazione che i rifiuti che oggi vorrebbe bruciare sono le risorse cui dovranno attingere le future generazioni man mano che le materie prime si esauriscono. Sembra, invece, che l’unica novità provocata dalla riforma costituzionale sia quella di avere messo i fautori del paesaggio contro i fautori dell’ambiente come se si trattasse di valori tra di loro incompatibili e non di facce di uno stesso valore.

L’importante è, invece, leggere, valutare ed applicare la riforma nel suo insieme. E, quindi, dando dell’ambiente un valore ampio che comprenda in sé sia gli aspetti naturalistici sia quelli sociali e culturali, avendo come fine l’interesse delle future generazioni. Riecheggia, a questo punto, quel “diritto alla felicità”, inserito già nel 1776 dagli Stati Uniti nella dichiarazione di indipendenza, sfociato poi nella “giornata dedicata alla felicità” dall’Assemblea generale dell’ONU nel giugno 2012, sul presupposto che “la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, e riconoscendo un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone”.

Lo ha detto bene Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si'”: “Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso…. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso”.

da “il Fatto Quotidiano” del 4 gennaio 2023

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile posta da un’antica saggezza napoletana: «Acquaiolo, l’acqua è fresca?».

Certo, non sono mancati passaggi di puro godimento intellettuale. Ad esempio quando ha argomentato la flat tax a 85000 euro in termini di equità sostanziale per riequilibrare un vantaggio fin qui concesso ai lavoratori dipendenti a danno degli autonomi. Ma nel complesso Meloni ci ha dato una ampia rassegna di quelli che sono e saranno i topoi della destra al governo. Che serviranno a poco, come a poco sono serviti in passato quelli della sinistra.

Tra i luoghi comuni troviamo le riforme istituzionali. Meloni ha confermato che il presidenzialismo è una sua priorità, perché «consente di avere stabilità e di avere governi che siano frutto di indicazioni popolari chiare». Anzitutto, quale presidenzialismo? Il modello francese è profondamente diverso da quello statunitense, e in ogni caso è l’intera architettura dei poteri pubblici che va disegnata, considerando anche l’impatto sul sistema politico e dei partiti. Per Meloni invece, va bene qualunque cosa, purché rechi l’etichetta del presidenzialismo. E va bene qualunque modo di arrivarci – bicamerale, disegno di legge governativo, percorso parlamentare. Nemmeno a parlare, poi, di una riflessione se i mantra di un tempo in tema di presidenzialismo siano ancora validi nel mondo e nelle società di oggi. Nessun dubbio stimolato dalle ultime esperienze dei paesi da sempre assunti a termine di paragone, come gli Stati Uniti o la Francia.

È poi davvero singolare che nelle tre ore di conferenza stampa non sia stata detta una sola parola sull’autonomia differenziata, pur essendo evidente che il presidenzialismo è ancora fermo ai blocchi di partenza, mentre l’autonomia è in piena corsa. Anzi, quando ha recitato il suo copione Meloni era certamente già informata della trionfalistica comunicazione di Calderoli sull’aver mantenuto l’impegno assunto di arrivare in consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, avendo consegnato a Palazzo Chigi il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma. Quindi dobbiamo vedere nel silenzio di Meloni il significato politico di una presa di distanza.

La mossa di Calderoli è stata da più parti definita come forzatura, blitz, fuga in avanti. Vero per una parte, ma per altro verso solo un pezzo di teatro, visto che la consegna a Palazzo Chigi, nella cui struttura il suo ministero senza portafogli è inserito, più o meno equivale a far scivolare un foglio sotto la porta dell’ufficio accanto. Altra cosa è arrivare a una deliberazione in consiglio di ministri, che richiede lo svolgimento di un percorso tecnico e politico. Ma è un fatto l’inserimento in legge di bilancio di norme sui livelli essenziali di prestazione (Lep) che lasciano intravedere diritti dipendenti dal codice di avviamento postale, in un paese spacchettato in repubblichette semi-indipendenti a trattativa privata tra esecutivi, sotto la regia del ministro delle autonomie. Con la ragionevole certezza che divari territoriali e diseguaglianze rimangano, perché mancano le risorse che diversamente sarebbero necessarie.

I commi 791 e seguenti della legge di bilancio servono solo a Calderoli per affermare di avere risolto il problema dei Lep, e aprire la porta alle intese con le regioni. Meloni fa finta di niente. Ma prima o poi dovrà ufficialmente prendere atto che c’è una sceneggiata sul tema dell’autonomia, soprattutto legata al voto regionale prossimo e alle turbolenze in casa Lega. L’ultima cosa seria che Meloni ha detto sull’autonomia la troviamo nel suo intervento al Festival delle regioni, in cui richiama le «storture» del titolo V, che «su molte materie ha aumentato la conflittualità, con tutto quello che comporta in termini di lungaggini ed efficienza» (Corriere del Veneto, 6 dicembre 2022).

Concordiamo. Per darle una mano, il Coordinamento per la democrazia costituzionale raccoglie le firme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a modificare gli articoli 116.3 e 117. Può firmare con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it. Se lo facesse, potremmo anche chiudere un occhio sul fatto che mai nella storia delle conferenze stampa di fine anno si parlò così tanto per dire così poco.

DA “IL nANIFESTO” DEL 2 GENNAIO 2023

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

L’ultimo intervento della Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni sulle autonomie differenziate segue il metodo della contraddizione: cioè affermare azioni contrastanti, in modo da soddisfare richieste contrastanti. Meloni ha usato questo metodo con i suoi primi provvedimenti di governo. Infatti mentre è venuta incontro alle esigenze sentite da tutti per l’aumento delle bollette energetiche, d’altro lato ha tacitato le aspettative degli elettori di destra aumentando il tetto al contante, come peraltro hanno sempre desiderato gli evasori, ed eliminando il reddito di cittadinanza e il superbonus al 110%.

Altrettanto ha fatto per le autonomie differenziate affermando la necessità di una cooperazione tra Stato e Regioni accontentando così chi tiene all’unità d’Italia e sottolineando nello stesso tempo l’importanza di valutare le specificità dei vari territori accontentando così chi vuole le autonomie. Questo spirito contraddittorio diventa purtroppo mera menzogna quando politici della Lega affermano che le autonomie differenziate promuovono l’unità d’Italia, non lasciano indietro altre regioni e addirittura attuano l’articolo 5 della Costituzione, che pone il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica.

E’ tutto falso poiché le autonomie differenziate, che si risolvono nell’attribuire alle Regioni una potestà legislativa assolutamente libera ed esclusiva e sottratta all’obbligo di rispettare gli interessi nazionali e quelli delle altre Regioni, come era previsto dall’art. 117 del testo originario della Carta costituzionale e soppresso dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 relativa alla riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione, rompono l’unità economica, giuridica e politica dell’Italia rendendola priva di un patrimonio pubblico demaniale capace di far fronte agli stati di necessità, come avvenuto per la pandemia e per la guerra in Ucraina e debole sul piano europeo e internazionale, finendo per diventare preda di altre Nazioni. Si tratta dell’ultimo colpo contro il Popolo italiano, voluto dal neoliberismo, che esalta l’individualismo e distrugge la solidarietà portando, prima o poi, tutti alla rovina.

Finora siamo sopravvissuti ai danni maggiori apportati dalla riforma del titolo V della Costituzione, ispirata al più estremo regionalismo, per l’opera benemerita della giurisprudenza costituzionale la quale, con le sue sentenze, è riuscita a mantenere vivo l’”interesse nazionale” sancito dai “principi fondamentali ”e a salvare così l’unità giuridica e politica del nostro Paese mentre, purtroppo, nulla ha potuto contro la eliminazione dell’unità economica, che è stata distrutta dalle micidiali “privatizzazioni” realizzate da tutti i governi dell’ultimo trentennio, rendendoci schiavi delle multinazionali e della finanza.

Ed è da notare che le autonomie differenziate sono previste dall’art. 116 dello sconcertante Titolo V della Costituzione e che, per salvare l’Italia, è proprio questo articolo che dovrebbe essere abrogato, magari con una legge costituzionale di iniziativa popolare, oppure annullato dalla Corte costituzionale. Siamo arrivati al punto nevralgico dell’attuazione del pensiero neoliberista poiché, se sono attuate con legge (è in giro una scorrettissima bozza Roberto Calderoli sull’argomento) le autonomie differenziate, il tentativo di ricostruire l’unità d’Italia, conquistata eroicamente dal Risorgimento e dalla Resistenza diverrà difficilissimo, se non impossibile. Siamo, per così dire, alla linea del Piave e abbiamo il dovere inderogabile di compiere ogni sforzo affinché questa insulsa attuazione delle autonomie differenziate non abbia luogo.

da “il Fatto Quotidiano” del 9 dicembre 2022

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

1. Il disastro di Ischia non deve considerarsi evento eccezionale, legato alla presenza di iper cementificazione abusiva e alle caratteristiche ambientali dell’isola. Tantissimi contesti territoriali di quello che era considerato “il Belpaese” infatti sono destabilizzati da diffusione insediativa, consumo di suolo, urbanizzazione eccessiva spesso autorizzata, che ne hanno stravolto gli ecosistemi ; con degradi e dissesti già gravi, che diventano esiziali per le ricadute della crisi climatica. Gli eventi tragici che si susseguono sempre più ravvicinati inon sembrano però scalfire l’agenda politica : si urla per qualche giorno, poi la transizione ecologica torna ad essere per lo più una chiacchiera.

2. Pochi dati bastano a fornire i contorni del dissesto diffuso da impatti della cementificazione. L’italia dovrebbe avere , considerando abitanti residenti e presenti( compresi neonati e immigrati senza permesso), per fornire comodamente un tetto a tutti, circa 7 miliardi di metri cubi di volumi abitativi. Secondo i datascape ISTAT, se ne è costruito quasi il doppio; con un effetto di clamoroso sfascio economico e ambientale. Il suolo consumato seguita a crescere. Oggi è pari a circa il 10% del territorio nazionale. L’ISPRA ammonisce che tutto ciò significa il 94% dei comuni italiani a rischio frane o alluvioni, con ripartizione pressoché uniforme da nord a sud del Belpaese e 3,5 milioni di famiglie interessate del fenomeno.

L’Osservatorio “Città- Clima” di Legambiente sottolinea ancora gli effetti ormai quotidiani della crisi ecologica, testimoniati dagli “eventi estremi” degli ultimi dodici anni che superano quota 1500, con un incremento del 27% di quest’anno rispetto al precedente. E con crescenti sofferenze dei territori, i cui suoli sono “esasperati e stressati” del succedersi di fenomeni intensi quanto opposti: prolungate ondate di calore e connessa siccità, interrotte da precipitazioni copiose fino alle “bombe d’acqua”.

3. Già una decina di anni fa il MISE- non un centro studi di ecologisti radicali- stimo l’entità della spesa necessaria a mettere in sicurezza il paese dai rischi: sismico , idrogeologico , da incendi , inquinamenti : essa ammontava a ca 190 milardi di Euro. Si proponeva un programma pluriennale con voce permanente in Finanziaria. Renzi da presidente del consiglio sulla base di questo lanciò il programma “Casa Italia”. Che si bloccò e fu dimenticato dopo pochi mesi . Probabilmente quando ci si accorse che servivano soprattutto tanti piccoli progetti “a grana fine ”di ripristino e riterritorializzazione. Non le Grandi Opere dal sicuro effetto politico-mediatico.

L’agenda politica infatti ignora quasi completamente tali problemi, aldilà di dichiarazioni e annunci. Come dimostra il PNIAC , Piano Nazionale di Azione Climatica, pronto in bozza fin dal 2016, ma mai approvato. Lo stesso PNRR da questo punto di vista rappresenta un’enorme occasione sprecata; se si pensa che sono destinati al risanamento del territorio appena 4,5 miliardi di Euro, il 2% ca del totale spendibile. Un paradosso a fronte dei 31 miliardi di euro dedicati ad alta velocità e grandi opere ad alto impatto ambientale, che diventano 81 con il Collegato Infrastrutture.

4. Proprio Il PNIAC, insieme al Green Deal europeo e agli SDG (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’UNEP forniscono i criteri per le azioni di risanamento e consolidamento dei territori rispetto alla crisi ambientale. In Italia poi c’è l’ulteriore vantaggio di annoverare nei nostri quadri programmatici ordinari uno strumento già orientato a tutela e riqualificazione, il Piano Paesaggistico. Come previsto dal piano per il clima, i ministeri interessati, specie Ambiente, Cultura e Infrastrutture , di concerto con le Regioni, promuovono “task-force” di risanamento e restauro . Esse possono assumere come Linee Guida per l’azione di medio-lungo periodo proprio i piani Paesaggistici.

L’emergenza climatica – come è evidente in queste ore- richiede però azioni rapide, incisive già subito o nel periodo medio-breve. Per questo bisogna introdurre le strategie recenti, promosse da Green Deal e UNEP , legate ai Programmi di Adattamento Climatico ed ai Progetti di Resilienza, già realizzati in molte grandi città e contesti territoriali internazionali(tra cui Oslo, Copenaghen, Amsterdam, Singapore), ma solo a Bologna , tra i capoluoghi italiani. Essi sono costituiti da progetti integrati di gestione dei fenomeni legati agli andamenti meteoclimatici di contesto e relative ricadute critiche, già registratesi e prevedibili. La particolarità di tali azioni è che muovono dal “ripristino di ciò che l’ipercementificazioneha distrutto, ovvero l’ecofunzionamento naturale degli habitat”. Il primo elemento di consolidamento di un ambito è l’azione di aggiustamento, restauro degli apparati paesistici. La prima azione urgente in pressoché tutti i 92000 comuni italiani è quella di ripristinare le vie di fuga dell’acqua, nonché la continuità dell’armatura dei collettori idrologici e paesistici. Azioni semplici da fare subito.

5. È necessaria una svolta reale quanto drastica nelle politiche ecologiche e territoriali. Siamo scettici che questo possa accadere per improvvise “illumininazioni” di un ceto Politico-istituzionale bloccato da incapacità e soprattutto interessi sostanzialmente estranei a questi temi. Appare necessaria l’azione diretta, ove possibile, altrimenti di pressione critica sui decisori , di quelle numerosissime soggettività che anche nel Belpaese lavorano ogni giorno per la tutela di ambiente e territorio, ma anche per produrre ricchezza da beni autosostenibili; e costituiscono ormai una realtà economica da decine di miliardi di euro all’anno. La transizione che urge parte da loro.

da “il Fatto Quotidiano” del 5 dicembre 2022

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale.-di Enzo Paolini

Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale.-di Enzo Paolini

Quello della governabilità è un concetto dannoso ed infatti non c’è nella Costituzione.
E’ stato introdotto con subdola demagogia – e sublimato dalla “narrazione” berlusconrenziana – per giustificare il sistema elettorale dei nominati e dei voti obbligatoriamente spalmati sulle liste congiunte indipendentemente dalla volontà degli elettori, per spalmare impunente premi di maggioranza, espliciti o nascosti per poter rispondere stucchevolmente il ritornello suggestivo, dei vincitori la sera delle elezioni, del chi vince prende tutto.-

L’esatto contrario della democrazia, che prevede l’incontro tra le forze politiche per formare i governi dopo le elezioni; dopo cioè, che si è verificato cosa, come e chi vogliono gli italiani.-

Le elezioni sono fatte per fotografare il paese e tradurre la rappresentanza nelle aule parlamentari. Per organizzare la traduzione del consenso in leggi parlamentari la Costituzione prevede altri organismi: i partiti.-

Ma se i parlamentari non sono eletti in base al consenso bensì in base alla indicazione dei capi allora i partiti non hanno più motivo di esistere.Ed infatti sono morti.

Il nostro sistema non è più fondato sul consenso, sul legame sociale tra elettore ed eletto quanto piuttosto sul rapporto fiduciario tra nominante e nominato. Un rapporto tra pochi che restringe il campo del dialogo sociale e crea di fatto una oligarchia. E provoca il fenomeno dell’astensionismo.E’ quello che avviene oggi nel nostro Paese. Dove una classe dirigente che tutti definiscono inadeguata ma che sarebbe più rispettoso definire semplicemente non legittimata propone la più sgangherata ed autoritaria delle riforme, quella della autonomia differenziata.-

Come una responsabilità del genere possa essere consentita ed anzi affidata ad un sedicente legislatore che ha devastato il Paese con una legge elettorale che ci ha condotto sin qui e che nonostante i ripetuti moniti della Corte Costituzionale (e gli inutili gargarismi di tutti i politici a parole contro ma nei fatti a favore) non si riesce ad estirpare, è un fatto che appare incredibile ma ha una sua logica.

La semina dell’odio sociale nasce da lontano, è stata sopita e dominata per tanto tempo dalle grandi scuole politiche del dopoguerra, per esplodere nel momento in cui le forze illiberali del mercatismo e dell’iperliberismo hanno preso il sopravvento: prima con il programma “Rinascita” di Gelli e poi con quello scritto da J.P Morgan ed interpretato da Renzi.

Ambedue apparentemente sconfitti, è vero, l’uno dalla Magistratura l’altro dal popolo referendario, ma presenti ed infettanti, eccome, grazie al cavallo di Troia della legge elettorale, l’arma che ha spezzato ogni tipo di connessione politica e sociale tra il paese reale ed il paese legale, che ha creato il Parlamento che conosciamo, dimezzato ed irrilevante sul piano della rappresentanza, rilevantissimo su quello del potere obbediente. Che non è un ossimoro ma la triste realtà.

Per questo, ora più che mai occorre aderire a due progetti di Legge di iniziativa popolare che possono invertire la direzione che hanno preso le cose nel nostro Paese e che suscitando la discussione possono essere portati in aula sostenuti da un movimento d’opinione.

E’ l’unica cosa veramente rivoluzionaria che possiamo fare: sostenere Massimo Villone sulla autonomia differenziata e Felice Besostri sulla legge elettorale.

Stiamo con loro, diffondiamo le loro idee, facciamoci alimentare dal loro spirito sinceramente democratico. Perché è il patrimonio politico del nostro popolo. E non ha prezzo. In tutti i sensi.-

da “il Manifesto” del 29 novembre 2022

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Una sorta di accanimento terapeutico, puntuale a ogni cambio di governo di centro-destra. Il Ponte sullo Stretto come panacea, che risolverà tutti i mali del Sud. La questione meridionale è fuori dall’agenda politica e dalle vere priorità dei governi della Repubblica dagli anni ’90 del secolo, quando divenne il centro del dibattito politico la “questione settentrionale” con l’emergere della Lega Nord di Bossi.

Ancora il Ponte anche se si sa che lo Stretto di Messina è un territorio fragile, che Sicilia e Calabria si staccano di un centimetro ogni 5 anni (per questo c’è chi ha pensato persino ad un ponte elasticizzato),che siamo in una delle zone sismiche più pericolose del mondo, dove nel 1908 morirono centomila persone, il numero di vittime più alto nel secolo scorso.

Non c’è ancora un progetto definitivo, non si sa quanto costa e chi ci mette i soldi, ma in compenso escono i numeri al lotto su alcuni organi di stampa: 7 miliardi dieci anni fa e quattro miliardi adesso, alla faccia dell’inflazione. Nessun privato è disposto a rischiare un soldo su un opera con questi gradi di incertezza e Bruxelles ha fatto già sapere che non si può attingere alle risorse del Pnrr perché l’opera dovrebbe essere completata entro il 2026. Ovviamente non è possibile: per l’ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria ci son voluti trent’anni.

Soprattutto, nessun progetto finora si è visto che consenta solo di immaginare come si colleghi il Ponte alle autostrade e stazioni ferroviarie sulla sponda calabrese e siciliana. Tutti i mass media presentano da anni una foto- rendering (sempre la stessa) che poggia il Ponte sulle due sponde. Bellissimo. Ma come ci si arriva? Dalla parte siciliana la ferrovia arriva a sud della città e Ganzirri, dove dovrebbe sorgere il pilone portante, è situato nella parte opposta a circa 20 km. Per portare i binari a 90 metri in quota bisognerebbe rifare un bel pezzo di tracciato ferroviario e passare sopra la testa delle case sulla collina o scavare gallerie in un terreno di sabbia pura che procura da diverso tempo danni alle abitazioni esistenti, con frequenti smottamenti.

Ugualmente dalla sponda calabrese, la ferrovia dovrebbe ripartire da Gioia Tauro e passare dentro le montagne di Palmi, Bagnara, Scilla per sbucare sulla testa degli abitanti di Cannitello. Per non parlare dell’autostrada. Un costo enorme, un impatto ambientale spaventoso, una pura follia.

Il Ponte sullo Stretto è diventato una possente “arma di distrazione di massa” come la definì Alessandro Bianchi, ex ministro dei Trasporti e Rettore della Università Mediterranea agli inizi di questo secolo. Purtroppo, non sono solo le forze politiche del centro-destra ad essere dei fan del Ponte, ma anche una parte del Pd è favorevole, e non da adesso. Ricordo quando durante la campagna elettorale del 2001 l’allora candidato del centro-sinistra Giorgio Rutelli intervenendo nella Facoltà di Scienze Politiche a Messina dichiarò: Il Ponte lo farò io e verrò qui ad inaugurarlo nel giugno del 2011.

Quello che mi stupisce è il silenzio dei presidenti delle altre Regioni meridionali. Nel momento in cui stanno tentando di espellere dal welfare italiano il Sud, dandogli il colpo di grazia con l’autonomia fiscale differenziata, stanno scippando in silenzio le risorse del Pnrr che l’Ue ci ha dato proprio per il basso reddito pro-capite e alta disoccupazione del Mezzogiorno, la classe politica meridionale sembra si sia svegliata solo ora con la proposta di legge Calderoli, quando erano chiarissime le priorità di questo governo.

Il Ponte sullo Stretto come suprema opera di regime, come simbolo del primo governo di destra-destra della Repubblica italiana, come specchietto per le allodole meridionali: non potete lamentarvi, vi stiamo per regalare un’opera che farà decollare il Mezzogiorno, che porterà milioni di posti lavoro e miliardi di turisti. E i sindacati? O meglio Cgil e Uil perché la Cisl è diventata la ruota di scorta del governo. Non si rendono conto delle condizioni del Mezzogiorno, di come siano peggiorate negli ultimi anni! Basterebbe guardare i dati dell’inchiesta di Italia oggi sulla “qualità della vita” nelle province italiane: nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, le prime migliori 64 province sono del centro-Nord, non ce n’è una sola del Mezzogiorno. Ugualmente rispetto ai tassi di disoccupazione: si passa dal 2-3% di Pordenone, Bergamo, Livorno ai 22% di Messina, Napoli, Crotone (ben ultima), con le prime migliori 60 province tutte del Centro-Nord.

L’autonomia differenziata sarà irreversibile. Cari partiti, abbiate coraggio e ammettete l’errore.

da “il Manifesto” del 22 novembre 2022
Immagine da:https://www.breakinglatest.news/business/messina-strait-bridge-giovannini-we-need-a-connection/

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

L’ultimo report IPCC/UNEP sui cambiamenti climatici lo aveva previsto: gli effetti catastrofici della
crisi ambientale sono entrati pesantemente nel nostro quotidiano, e lo stiamo sperimentando
soprattutto sotto forma di ondate di calore accompagnate da incendi, o di temporali con “bombe
d’acqua” che innescano disastri franosi e alluvionali.

Certo, si sapeva che l’ipercementificazione del nostro Paese avrebbe causato sofferenze particolari al
suo territorio. E si conoscevano anche i principali fattori di rischio, in questo caso soprattutto idro-
geologico ma anche sismico, di incendi, inquinamenti od obsolescenza e inadeguatezza del patrimonio
costruito. Il risanamento e la riqualificazione di un territorio troppo “consumato” dovevano figurare tra
i primi punti di qualsiasi programma di mitigazione della crisi ambientale: se le grandi politiche di
contenimento degli inquinanti e dei fattori di alterazione eco-climatica richiedono strategie globali, le
ricadute sui territori attengono alle politiche locali, comunali o d’area vasta, regionali e nazionali.
Con la formulazione del Green Deal, l’Europa ha dettato le linee programmatiche per la transizione
ecologica, quindi predisposto, con il NGEU e i relativi Recovery Plans, le azioni progettuali e gli
interventi necessari a supportarla.

Con il suo PNRR l’Italia dispone – tra prestiti e fondi trasferiti – di oltre 200 miliardi di euro da
utilizzare in tal senso. Appare quindi ovvio che, a parte il contributo nazionale alle grandi politiche cui
si è accennato sopra, una quota rilevante degli investimenti doveva essere destinata a mitigare gli effetti
territoriali della crisi ambientale, con azioni di risanamento, riqualificazione e restauro del territorio.
La copertura finanziaria di tali azioni poteva anche essere non troppo problematica: qualche anno fa,
difatti, il MISE – non certo un’organizzazione ambientalista o un centro di ricerca di ecologia radicale –
aveva quantizzato in un importo di poco inferiore al totale messo a disposizione dal PNRR, 190
miliardi di euro, l’investimento necessario a una prima messa in sicurezza dei territori nazionali rispetto
ai rischi ricordati, sempre più enfatizzati dall’acuirsi di una crisi ecologica che ha ormai carattere di
emergenza.

Lo stesso MISE, per attuare il programma necessario, proponeva un progetto poliennale (decennale
o anche ventennale) da avviare però immediatamente. Pena l’esasperazione degli effetti catastrofici sul
territorio che già si registravano, ma che erano chiaramente destinati a intensificarsi con tempi di
ritorno sempre più ravvicinati.

Nel 2015 l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche in base a queste previsioni MISE,
lanciò il programma “Casa Italia” per il risanamento e la messa in sicurezza del territorio abitativo e
urbanizzato. Se ne parlò solo per qualche mese: probabilmente si decise di non farne più nulla quando il
premier e il suo entourage vennero a sapere che si trattava di una serie di piccole azioni di risanamento
(rinaturalizzazione, riterritorializzazione, ripristino ecosistemico, disimpermeabilizzazione,
consolidamento delle alberature, messa in sicurezza della fauna, ecc.) e non di un numero esorbitante di
grande opere di altrettanto grande impatto mediatico e finanziario.

A sei anni di distanza e con una pandemia (più o meno) alle spalle, il PNRR rappresentava dunque
una grande occasione per avviare un progetto di risanamento tanto ampio quanto urgente.
In realtà, a fronte degli oltre 200 miliardi disponibili in totale, e degli oltre 61 espressamente destinati
alla “transizione ecologica”, le risorse investite in programmi di risanamento territoriale ammontano a
meno di 4,5 miliardi di euro, poco più del 2% dell’importo complessivo. I disastri, le alluvioni, gli
allagamenti, le frane, gli incendi, i crolli, che pure non sono mancati proprio mentre i dirigenti
ministeriali competenti scrivevano il piano, non hanno spostato nulla a favore di azioni che, più che
necessarie, erano urgentissime.

La maggior parte delle risorse del PNRR si è usata invece per “dare una
mano di verde” a operazioni vecchie, già obsolete ma gestite da grandi imprese e grandi interessi
finanziari, che anziché contrastare finiranno per accentuare ulteriormente l’attuale stato di crisi.
Così, a fronte dei (comparativamente) pochi spiccioli spesi per risanare il territorio, abbiamo 31
miliardi per Alta Velocità e Grandi Opere; che diventano quasi 80 con il Collegato Infrastrutture –

stesse agevolazioni procedurali e finanziare del Recovery – con cui si recupera gran parte delle opere
previste dalla (già definita “criminogena”) Legge-Obiettivo di berlusconiana memoria.
D’altra parte le contraddizioni del PNRR non si fermano a questo: p.es., la più parte delle risorse
investite per la “transizione energetica” serve in realtà ad alimentare una sorta di “transizione
intrafossile” dal carbone e dal petrolio al gas naturale. Mossa che si è rivelata quanto mai avveduta con
lo scoppio della guerra in Ucraina e i conseguenti tagli del gas russo. I quali a loro volta, piuttosto che
rappresentare un incentivo a una reale conversione alle rinnovabili, sono usati per giustificare nuove
trivellazioni, escavazioni, realizzazioni di opere già in partenza obsolete (leggasi metanodotto per
Foligno) che accentueranno la nostra dipendenza anziché attenuarla. Mentre per le energie alternative
continuano a presentarsi “problemi autorizzativi”.

Questi peraltro sarebbero facilmente superabili se operatori pubblici e privati, abbandonando la
logica affaristica dei “grandi impianti”, si limitassero a seguire le direttive dei Piani paesaggistici, che
spesso dicono esattamente dove e in che quantità si possono realizzare pannelli fotovoltaici o
aerogeneratori. O se si incentivassero autentiche comunità energetiche che, ab initio, progettino gli
insediamenti secondo i caratteri ecosistemici e culturali dei luoghi.

C’è oggi tutto un fiorire di attori locali che curano, tutelano e valorizzano i territori portando avanti
“dal basso” opzioni di sostenibilità sociale ed ecologica, a volte anche in contrasto con le grandi
istituzioni finanziarie e programmatiche. È una realtà produttiva che vale diversi miliardi di euro l’anno,
e che promuove azioni che vanno dalle comunità energetiche alla conversione bio-ecologica
dell’agricoltura, dall’eco-turismo esperienziale alla produzione di beni immateriali (conoscenza,
educazione, ricerca…), dal recupero del patrimonio territoriale alla sua reimmissione in circuiti di
produzione di valore. È a questi attori che potevano e dovevano essere destinate le risorse che il PNRR
decentra alle Regioni: la transizione ecologica vera ha bisogno della loro forza visionaria.

da “il Fatto Quotidiano” del 17 ottobre 2022
Foto di Hans da Pixabay

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Mettere al centro della propria riflessione la felicità può facilmente apparire, di primo acchito, occuparsi del godimento effimero, dell’edonismo individualistico che domina l’epoca. Fraintendimento a cui sfugge subito chi un po’ ricorda l’origine storica di questo lemma e soprattutto chi conosce l’autore che ne tratta. Domenico De Masi nell’agile e denso libretto La felicità negata (Einaudi), fuga subito il possibile equivoco, mostrando come il termine sia figlio dell’Illuminismo. Esso compare nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 quale diritto di tutti gli uomini alla «vita, la libertà, la ricerca della felicità».

Sappiamo peraltro che la felicità civile di cui parla De Masi diventa lo scopo del buon governo nelle teorizzazione degli illuministi napoletani, da Galiani a Filangeri e si ritrova nella Costituzione giacobina del 1793 in Francia. Ma l’autore la rintraccia addirittura nel 1759, addirittura in Adam Smith. Il fondatore dell’economia politica, che per decenni è stato evocato da migliaia di politici e intellettuali orecchianti per nobilitare il più sfrenato mercatismo, considera virtuosa la ricerca della felicità. Come fa nella Teoria dei sentimenti morali, dove tuttavia considera vera virtù solo la ricerca della felicità comune, mentre «il meno virtuoso… è quello che non tende ad altro che alla felicità di un individuo». Quale grandezza in questa borghesia del Settecento, di fronte alla famelica ottusità di quella dei nostri anni.

In questo testo arioso, scritto con il nitore narrativo di chi ha lunga familiarità con i temi trattati, l’autore compie a mio avviso un’operazione compositiva geniale, che contiene alla fine una critica dirompente al sistema capitalistico giunto a questa fase estrema di sviluppo. Un’apertura di orizzonte di cui dovrebbero impossessarsi e trasformare in discorso corrente la politica radicale, le nuove generazioni. De Masi, dopo una breve introduzione in cui elenca tutte le conquiste grazie alle quali potremmo essere tutti felici, ricostruisce la vicenda di due grandi e contrapposte scuole di pensiero: la Scuola di Francoforte e la Scuola austriaca, che da cui è nato neoliberismo. Seguono due capitoli, uno dedicato al lavoro, com’era e come è diventato, e un altro all’ozio, nel quale l’autore offre 5 soluzioni possibili per risolvere il problema della sua crescente rarefazione del lavoro nella società postindustriale e per il conseguimento della felicità civile.

Non mi soffermerò sulla vicenda delle due scuole nelle quali il lettore, oltre a una ricostruzione agile ma circostanziata, troverà un vero repertorio di notizie particolari, che rendono l’analisi ricca di sorprese. A dispetto della vasta letteratura accumulatasi su queste due grandi correnti che hanno attraversato il Novecento, De Masi rende nuova questa pagina storica soprattutto grazie alla sua competenza e al suo sguardo di osservatore dei nostri anni. Egli può mostrare le ragioni per cui il rinnovato marxismo incarnato dalla Scuola di Francoforte, portatore di originalissimi contributi di analisi dei fenomeni culturali della società capitalistica, abbia avuto scarsa efficacia politica.

Fatta eccezione per l’annus mirabilis 1968 e la fine di quel decennio, in cui Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, diventarono testi sacri per una intera generazione, il resto della produzione non ebbe l’ influenza che arrise alla scuola avversaria. Intellettuali della statura di Theodor Adorno, Max Horkheimer, autori di un testo memorabile come Dialettica dell’illuminismo, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Walter Benjamin che ancora gettano luce sul nostro tempo, non andarono oltre una influenza di natura intellettuale. Ma quasi tutti i grandi studiosi che diedero vita all’Institut für Sozialeforschung fondato nel 1923, erano ricchi borghesi che fecero poco o nulla per diffondere le loro idee e per imprimere ad esse efficacia politica.

Diversamente da come operarono Böhm Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e altri economisti, che nella Vienna tra fine Ottocento e primi del Novecento (formidabile crogiolo intellettuale prima del tramonto), diedero vita a quella corrente che verrà chiamata neoliberismo. Costoro, anch’essi ricchi borghesi, erano intenzionati a combattere il socialismo e la classe operaia e misero in piedi circoli per diffondere le loro idee, entrarono nei consigli delle banche, delle imprese, nelle università, nelle redazioni delle riviste più prestigiose. Insomma misero in piedi, sul piano culturale, una esplicita lotta di classe. Alcuni di loro guardarono con favore perfino al nazifascismo.
De Masi ricostruisce la fortuna di questa scuola che negli ultimi decenni si è trasformata nel pensiero unico dell’umanità, la «nuova ragione del mondo» e ci regala anche una pagina storica di applicazione di quel pensiero all’economia italiana: la svendita del patrimonio industriale pubblico da parte di Mario Draghi.

Ma il messaggio più profondo e dirompente del libro, in pagine ricche di analisi in cui splendono i pensieri di Marx, di Keynes, di Simon Weil è che l’infelicità presente, il disorientamento psichico e morale dell’epoca è frutto dello sfruttamento sempre più totalitario del lavoro. Sfruttamento e disoccupazione strutturale che, come dice André Gorz, «è anche un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese». Uno strumento di ricatto con cui il potere non contrastato del capitale distrugge per cieca ricerca del profitto la società e saccheggia le risorse della Terra. Eppure, ricorda l’autore: «Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero al lavoro un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità».

Noi potremmo consentirci, grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, la possibilità «di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria». La felicità civile è a portata di mano ma l’enorme squilibrio nei rapporti di forza fra capitale e lavoro, ha come esito una società ingiusta, frenetica, fonte di alienazione e malessere. Eppure, luminoso messaggio affidato alle parole di Marx, può esserci felicità anche nella lotta, nell’impegno a migliorare la vita degli altri: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, egoistica, limitata, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».

da “Left” del 27 agosto 2022
immagine: La risata, Umberto Boccioni

I doni avvelenati della destra al Mezzogiono.-di Pino Ippolito Armino

I doni avvelenati della destra al Mezzogiono.-di Pino Ippolito Armino

I sondaggi dicono che il Mezzogiorno è l’area del Paese nel quale più ampio sarà il successo della coalizione delle destre il prossimo 25 settembre. Secondo l’Istituto Cattaneo, che ha stimato la possibile distribuzione, a questa coalizione andrebbero infatti 44 dei 50 seggi da assegnare con uninominale alla Camera e addirittura 24 su 25 al Senato. I restanti seggi, inoltre, ad eccezione di Napoli dove si profila una possibile vittoria del centrosinistra, sono considerati contendibili (Istituto Cattaneo, 9 agosto 2022). A cosa si deve questo eccezionale risultato? È l’ultimo dei paradossi cui ci ha abituati la storia del nostro Mezzogiorno perché i tre alfieri delle destre portano ciascuno il proprio dono agli elettori meridionali. Ma sono doni avvelenati.

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e aspirante presidente del Consiglio, promette l’abolizione del reddito e della pensione di cittadinanza con qualche guarentigia per i disabili, le persone con oltre 60 anni di età, le famiglie senza reddito e con minori a carico. Attualmente i nuclei beneficiari di queste prestazioni sono 1,15 milioni e coinvolgono in totale 2,46 milioni di persone. Di queste 1,69 milioni (69%) risiedono al Sud o nelle Isole. La regione che più ne beneficia è la Campania (22% del totale delle prestazioni erogate), a seguire la Sicilia (19%) (Report Inps, luglio 2022).

Silvio Berlusconi, padre padrone di Forza Italia e aspirante presidente della Repubblica, ha da sempre il suo cavallo di battaglia elettorale nella riduzione delle tasse da attuarsi, in spregio alla Costituzione e a ogni elementare criterio di equità sociale, con flat tax estesa a tutti i contribuenti. Ad avvantaggiarsene, come già sappiamo, sarebbero i redditi più alti. Il 78% dei redditi al di sopra dei 26.000 euro annui si trova al Centro-Nord e solo il 22% è a Mezzogiorno dove risiede il 34% della popolazione italiana.

Ma il dono che dovrebbe risultare più indigesto ai meridionali viene dalla Lega. Matteo Salvini, che è capolista al Senato in Basilicata, Puglia e Calabria, vuole portare a compimento il progetto di autonomia differenziata avanzato da Lombardia, Veneto ed Emila Romagna che il 28 febbraio del 2018 hanno siglato una pre-intesa con l’allora governo Gentiloni.

L’intesa prevede, in estrema sintesi, la distribuzione della spesa pubblica con il criterio della spesa storica che già oggi premia largamente il Centro Nord e contemporaneamente sottrae di fatto al parlamento la possibilità di legiferare, con uniformità per tutto il territorio nazionale, su temi di particolare rilevanza come la sanità, l’istruzione, l’ambiente, le infrastrutture. Il solo vincolo sarebbe quello della definizione dei livelli essenziali di prestazione ma anche qualora venissero infine stabiliti e soprattutto rispettati, cosa tutt’altro che scontata considerata la gravissima disparità territoriale già in essere fra le regioni meridionali e il resto d’Italia, si riferirebbero a un nucleo ridottissimo di garanzie sociali. Sarebbe la fine dello stato unitario. Un risultato pervicacemente perseguito dalla Lega sin dalla sua nascita e che avrebbe esiti catastrofici per tutta l’Italia, questo stentano a capire i dirigenti leghisti, e non per il solo Mezzogiorno.

In conclusione le tre proposte flag della destra (abolizione del reddito di cittadinanza, flat tax e autonomia differenziata), se attuate, comporterebbero un trasferimento netto di risorse dalle aree più povere a quelle più ricche del Paese, dal Sud al Nord dell’Italia. Negli ultimi trent’anni il reddito pro-capite dei meridionali si è ridotto a poco più del 50% di quello del Centro Nord, restituendosi ai livelli dell’immediato dopoguerra. Un nuovo record potrebbe presto essere raggiunto ma i meridionali, se bene informati, possono ancora impedirlo.

da “il Manifesto” del 26 agosto 2022

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere.-di Piero Bevilacqua

La gigantesca questione morale che, a sinistra, non si può più eludere.-di Piero Bevilacqua

Un segnale di quanto sia profondo e stratificato, il distacco del ceto politico dal comune sentire dei cittadini è la sottovalutazione del loro sentimento morale, della considerazione che una vasta platea di essi conserva per la coerenza delle idee, dell’attaccamento ai principi, ai valori del comportamento umano.

Vivendo in una vera e propria bolla, in una sorta di sopramondo in cui sembra che tutto sia lecito, i nostri uomini di partito, parlamentari, leader di varia taglia credono di superare indenni il giudizio dei cittadini se un giorno sostengono una tesi e un mese dopo il suo contrario, se militano in un partito e dopo un anno si trasferiscono in altro raggruppamento, se votano una legge considerata ingiusta e sbagliata per l’ambito di valore che orienta il campo elettorale che lo ha eletto. Immaginano che il loro cinismo travestito da Realpolitik sia lo stesso dei loro elettori.

Vero è che dopo decenni di devastazione dello spirito pubblico, dopo l’umiliazione storica del Parlamento italiano, che ha riconosciuto in una giovane in cerca di fortuna la nipote di Mubarak – per dirne una – il senso morale in Italia si è gravemente deteriorato. Tra politica ed etica pubblica si è aperto un evidente divorzio. La sensibilità per la dignità e l’onore che la Costituzione pretende dai parlamentari è stata in buona parte corrotta. E in tale opera di dissoluzione dei vincoli etici, che dovrebbero limitare la condotta pubblica degli uomini politici, una parte rilevante ha avuto anche la nostra stampa e soprattutto la televisione.

Io sono convinto che se non fosse stato per gli ostacoli frapposti dalla legge, per l’ergastolo e il 41 bis, i talk show della Tv pubblica e privata avrebbero fatto a gara per una intervista esclusiva a Totò Riina in prima serata. Non ignoro la potenza neoliberistica della competizione.

Resta da aggiungere per la verità che le varie leggi elettorali maggioritarie degli ultimi anni non hanno consentito ai cittadini elettori di scegliere i propri candidati, ancora oggi selezionati dalle segreterie dei partiti. Entrando nelle urne non hanno potuto premiare o sanzionare i loro rappresentanti in base alle scelte compiute. Nessuno può sapere, ad esempio, se gli elettori del Partito democratico avrebbero riconfermato Marco Minniti dopo che questi, con iniziativa di governo, ha affidato alla guardia costiera libica il compito di dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo.

E tuttavia è esattamente allo sdegno morale dei cittadini più sensibili, insieme alle reiterate delusioni, ai tradimenti delle speranze e delle aspettative, che bisogna guardare per spiegare la crescita vertiginosa del non voto, l’altra faccia della luna dell’astensione.

Esiste ancora, soprattutto nell’ambito degli elettori di sinistra, una moltitudine di cittadini che hanno letteralmente abbandonato l’interesse per la politica a causa di alcune scelte dei propri leader. Lo hanno fatto in seguito al varo di alcune leggi, per scelte di politica interna o estera: atti che talora hanno creato ferite non rimarginabili nell’animo delle persone.

Credo che migliaia di italiani abbiano sperimentato lo stesso sentimento di rabbia, delusione, incredulità che ho sperimentato io nel 2006, quando Romano Prodi autorizzò il governo Usa ad allargare la base militare di Vicenza

In quel caso un governo, capeggiato da G.W. Bush, che aveva appena condotto una guerra di invasione contro l’Iraq, uccidendo centinaia di migliaia di iracheni (vedi collateral murder di Wikileaks ndr), che già possedeva centinaia di basi in tutto il mondo, Italia compresa, chiedeva di espandere la propria presenza militare nel nostro territorio. E il governo di centro-sinistra disse sì. Da allora i miei convincimenti sono stati sconvolti e io ho cominciato a guardare a quell’ambito politico come a un potenziale avversario dei ceti popolari del nostro Paese. La storia ha confermato la mia lettura di allora. Attraverso scelte meno gravi sul piano simbolico, ma simili, o più dirompenti sul piano sociale, la sinistra si è allontanata dai suoi tradizionali insediamenti operai e popolari perdendo il suo elettorato storico.

L’Italia, tuttavia, non dimentichiamolo, è un grande Paese. A dispetto degli arretramenti degli ultimi tempi e nonostante le vaste aree di corruzione e di malaffare che ne condizionano la vita, il cinismo di gran parte dei suoi gruppi dirigenti, possiede al suo interno formidabili anticorpi. Conserva presidi di democrazia e di senso morale nel mondo della cultura, dell’informazione, nella scuola, nel volontariato, in una vastissima area di cittadini comuni. Dunque, contrariamente a quanto immaginano gli stessi analisti che si occupano della politica italiana, il senso morale che ancora perdura in milioni di cittadini orienta anche il loro comportamento elettorale.

Esiste una vasta area di consenso potenziale tra milioni di italiani nei confronto delle forze politiche eticamente intransigenti. Si fanno illusioni i dirigenti di Sinistra italiana se credono di uscire indenni, agli occhi dei loro militanti ed elettori, dalla prova poco onorevole che hanno fornito nei giorni di apertura della campagna elettorale.

Che si voglia credere o no, una condotta intransigente sotto il profilo della fedeltà ai programmi annunciati, della coerenza di comportamento dei dirigenti, può favorire la crescita nel tempo di un partito come Unione Popolare, capeggiato da un ex magistrato come Luigi de Magistris.

Da qui potrebbe partire una inversione storica nel costume civile degli italiani: i partiti che tornano ad essere anche educatori, formatori di una consapevolezza di cittadinanza. Il ruolo che per alcuni decenni hanno svolto i partiti usciti dalla Resistenza, fondatori della Costituzione repubblicana.

da “Left” del 23 agosto 2022
Immagine: Francesco Lena

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico.

Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone.

Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

da “Left” del 10 agosto 2022

Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione.-di Felice Besostri e Enzo Paolini

Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione.-di Felice Besostri e Enzo Paolini

Ormai l’hanno capito tutti che il Rosatellum non è il nome di un buon vino giulian-friulano, ma di una pessima legge elettorale, che blocca non solo le liste elettorali ma anche la libertà e la personalità di voto nei collegi uninominali, con il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità. Un obbrobrio non previsto dal Mattarellum, che alla Camera consegnava 2 schede e al Senato scorporava per la parte proporzionale i voti utilizzati per eleggere i candidati uninominali maggioritari.

Se non si aveva la forza numerica e la volontà politica di modificare la legge elettorale, come promesso in caso di taglio dei parlamentari, sarebbero bastate queste due piccole modifiche per rendere costituzionalmente potabile il Rosatellum: non ci hanno nemmeno provato.

La ragione è, come ha ben scritto Gian Giacomo Migone sul manifesto, nell’articolo “Quel Rosatellum che piace a tutti i partiti”, che fa comodo nominare i parlamentari, per aggirare di fatto l’art. 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo, in attesa di introdurlo con modifiche dei Regolamenti parlamentari di Camera e Senato e pertanto sottratte al controllo della Corte Costituzionale.

Altro vantaggio del Rosatellum è che assegna, in caso di coalizione, al partito egemone della coalizione, il diritto di proporre, in caso di vittoria, al Presidente della Repubblica il nome del/della presidente del consiglio dei ministri, sempre che non scattino veti informali europei o atlantici.
Il Rosatellum va bene anche alla coalizione arrivata seconda, che avrebbe il monopolio dell’opposizione, perché decide chi ammettere come lista minore della coalizione.

Se lo scopo è quello di salvare la Costituzione, come ha suggerito Gaetano Azzariti, non si possono mettere paletti programmatici: la coalizione deve essere aperta a tutti, a cominciare dal M5S e dalle liste rosso-verdi di ogni ispirazione socialista, comunista e ambientalista. La nostra Costituzione prevede il voto, oltre che segreto, eguale, libero, personale e diretto: il voto utile non è una prescrizione costituzionale, ma una scelta politica, una coalizione larga con scopo limitato ad impedire che il centro-destra prenda il 70% dei seggi uninominali. Diventa un voto utile, ma se è una coalizione con un ruolo politico e programmatico privilegiato per Calenda, senza un’apertura a soggetti di sinistra, è inutile perché non competitiva per vincere i collegi uninominali maggioritari.

Alle votazioni partecipa appena il 28% delle classi popolari e più sfavorite, quel voto va recuperato altrimenti non c’è partita, come non è seria un’alleanza elettorale col solo scopo di far eleggere un paio di leader politici, garantiti dal Pd.
Infine per mettere in salvo la Costituzione basta chiedere fin da subito a tutti i partiti un impegno per un Ddl costituzionale, che ogni modifica della Parte Prima della Costituzione, della forma di governo e della elezione e composizione degli organi costituzionali debba essere approvata con referendum, anche se approvata con i 2/3 dei membri del Parlamento.

In questo scorcio di legislatura si è approvata con decreto-legge (art. 6 bis d.l. 41/2022 una norma in materia elettorale che esenta dalla raccolta firme liste coalizzate che avessero raccolto almeno l’1% alle elezioni del 2018: una norma che viola gli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione, perché esclude liste non coalizzate che hanno raccolto la stessa percentuale di voto sia alla Camera, che al Senato. O si rimedia con urgenza ovvero si chieda l’assoluta neutralità del governo in caso di ricorso: è possibile e urgente prima della scadenza del termine per la presentazione delle liste.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2022