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Gelmini suona la carica. Ma c’è l’art.119 e il Pnrr.- di Massimo Villone Autonomie differenziate

Gelmini suona la carica. Ma c’è l’art.119 e il Pnrr.- di Massimo Villone Autonomie differenziate

La ministra Gelmini in audizione il 26 maggio presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale ci informa che riparte il circo dell’autonomia differenziata, e che ha istituito a tal fine commissioni e gruppi di studio. Sarà riproposta con aggiustamenti la legge-quadro già messa in campo dal suo predecessore Boccia, si definiranno i livelli essenziali delle prestazioni e i fabbisogni standard in vista dell’attuazione del federalismo fiscale.

Il tutto con le opportune concertazioni per evitare dissensi e contrasti. L’accoglienza in Veneto è stata trionfale (Corriere del Veneto, 30 maggio, e Nuova Venezia, 31 maggio). Celebra la ripartenza anche Zaia sul Corriere della Sera di ieri, con accenti che potremmo persino definire in qualche punto minacciosi.

Abbiamo già ampiamente censurato la proposta Boccia di legge-quadro, oltre che più in generale il metodo seguito sul regionalismo differenziato. Non ci ripeteremo. Cogliamo invece una novità. Nell’audizione la sen. Ricciardi (M5S) chiede lumi sulla perequazione a livello comunale di cui all’art. 119 Cost. per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Nell’art. 119 uno dei cardini è che l’ente locale disponga di risorse sufficienti al finanziamento integrale delle funzioni.

Ma nel 2015 la perequazione a livello comunale viene arbitrariamente limitata al 45.8%, come riferisce Marco Esposito nei suoi libri Zero al Sud e Fake Sud. La senatrice – alcuni parlamentari meritoriamente studiano – chiede come e quando si arriverà al 100%. La stupefacente risposta è: probabilmente mai, a causa del necessario rispetto degli equilibri di bilancio.

E il finanziamento integrale di cui all’art. 119? Ci chiediamo se la ministra Gelmini abbia letto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che dovrebbe essere voce primaria dell’indirizzo di governo. Sul punto parla di un processo in corso, senza porre tetti arbitrari all’attuazione. Conta, altresì, quel che dice per il federalismo fiscale a livello regionale. È “in corso di approfondimenti da parte del Tavolo tecnico istituito presso il Mef. Il processo sarà definito entro il primo quadrimestre dell’anno 2026”.

Ma allora di cosa parla la Gelmini? Come si può far ripartire il regionalismo differenziato, che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse, se il contesto di riferimento non sarà definito prima del 2026? E come – per ampliare il tema – inciderà la riforma fiscale, altro punto cruciale nel rapporto con la Ue? È ovvio che con essa potrà essere modificata la riferibilità ai territori dei proventi tributari, con ricadute a cascata sull’assegnazione delle risorse. Un momento meno opportuno per rilanciare il regionalismo differenziato non potrebbe davvero esserci.

La domanda è: qual è l’indirizzo di governo sul regionalismo differenziato e il suo rapporto con il Pnrr? Lo vogliamo segnalare a Letta, che nel suo libro Anima e cacciavite sottolinea il fallimento della tesi della locomotiva del Nord, cara agli economisti contigui ai circoli economici e finanziari: “non sto dicendo che la locomotiva deve essere depotenziata, rallentata, per ragioni di uguaglianza. Sto dicendo che la priorità è rendere forti prima di tutto i vagoni, altrimenti è tutto il treno che deraglia”. Sembra di leggere un testo Svimez – per l’occasione declassata dalla stampa veneta prima citata a “ufficio studi” – sul Sud come secondo motore del paese in una prospettiva euromediterranea, per il rilancio dell’Italia tutta. Ma il segretario ha un problema in casa, di nome Bonaccini.

Un consiglio a Letta, pur non richiesto. Non sprechi energie su temi di poco o nessun rendimento reale, come i regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, o la sfiducia costruttiva. Si concentri sull’essenziale: un buon sistema elettorale proporzionale, una solida legge sui partiti politici, e magari una clausola di supremazia statale, che copra anche il regionalismo differenziato, nel Titolo V della Costituzione.

Invece, investa sul Mezzogiorno. Là si vincerà o si perderà il confronto con la destra, presto o tardi che venga. Lanciare oggi un progetto forte e chiaro, impostato sul rilancio produttivo, sulla seconda locomotiva per il paese e sull’eguaglianza dei diritti potrà far uscire il Pd e il centrosinistra dalla stagnazione dei consensi in cui vivacchiano. Diversamente, la traversata nel deserto sarà lunga, e nessuno starà sereno.

da “il Manifesto” del 3 giugno 2021

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

C’è un vero e proprio progetto politico in linea con la storia del capitalismo. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro all’epoca della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII.

Nei libri di scuola, ed anche all’Università, viene raccontata come la semplice introduzione delle macchine (tra cui la famosa spoletta volante di John Kay) nel settore tessile che permise all’Inghilterra di diventare leader in questo settore a livello mondiale. Quello che raramente viene spiegato è che l’introduzione delle macchine arrivò più di un ventennio dopo la loro scoperta e che fu preceduta da profonde riforme legislative, nonché da una tolleranza rispetto a pratiche fraudolente che riguardavano gli articoli di esportazione (adulterazione delle stoffe).

In un voluminoso saggio dal titolo Prometeo liberato (Einaudi 1978), lo storico statunitense David Landes mostrò come fosse determinante l’abolizione di tutta una serie di regole che stabilivano quanto doveva essere larga la stoffa, i colori, il peso, il broccato, ecc. E’ dal tempo di Dante, e ancor prima, che le Corporazioni di arti e mestieri regolavano con estrema cura, quasi ossessiva, ogni tipo di produzione di beni, impedendo la concorrenza sul prezzo (era vietata) e dando ampie garanzie al cittadino (per esempio ogni artigiano doveva svolgere il proprio mestiere davanti alla finestra…).

L’innovazione di prodotto quanto di processo erano rare e difficili, dovendo combattere contro il potere delle Corporazioni. Solo cancellando una parte importante di queste regole il capitalismo, che era nato con le prime banche nel XIII secolo, poté dare vita a alla “rivoluzione industriale”.

Non diversamente oggi la digitalizzazione del tessuto sociale, la nascita delle smart city, e la ripresa degli investimenti su larga scala sarà possibile solo abbattendo quelli che già un governatore della Banca d’Italia definiva “lacci e lacciuoli”. Abbattere i vincoli burocratici e velocizzare la giustizia civile e penale rappresentano la conditio sine qua non del rilancio del modello di sviluppo capitalistico vincente su scala mondiale.

Questo comporterà certamente una crescita dell’economia, in particolare dell’economia criminale, della presenza delle imprese a capitale mafioso, come denuncia Libera e una parte dei sindacati, ma è difficile opporsi se non c’è un modello alternativo realizzabile. Mi spiego meglio con un esempio. Da quando la magistratura, dopo la morte di Falcone e Borsellino, ha ingaggiato una lotta contro le mafie in tutto il Mezzogiorno, con relativa confisca di beni immobili e imprese, i capitali mafiosi sono fuggiti dal Sud e si sono trasferiti nel Nord Italia ed all’estero.

Nel settore edile è diventato difficile portare avanti un’opera per le interdittive della Prefettura a cantieri aperti. Magari dopo che la stessa impresa aveva ricevuto un certificato antimafia. A questo si aggiunga l’atavica gestione neoborbonica della Pubblica Amministrazione che nessuna riforma è riuscita finora a contrastare. In breve, il Mezzogiorno è caduto in una progressiva stagnazione negli ultimi vent’anni proprio a causa di tutti questi vincoli.

E quindi? Dobbiamo sperare che l’economia criminale prenda il sopravvento in nome dello sviluppo? Certamente no. Allo stesso tempo, la lentezza della giustizia civile, la farraginosità delle procedure burocratiche creano un malessere crescente nella stragrande maggioranza della popolazione. Non è facile uscire da questo dilemma, ma non si può smettere di cercare una soluzione alternativa, praticabile, che non può non passare da una reale partecipazione popolare ai processi decisionali, a partire dagli enti locali.

Ma, anche, da una lotta per spostare gli investimenti verso la cura del territorio, verso i servizi sociali, il recupero delle terre abbandonate, delle aree interne, verso una riduzione degli sprechi e dei consumi di suolo. Una vera rivoluzione ecologica non può non accompagnarsi con una forte spinta democratica da basso. Che si traduce in una maggiore resistenza alla penetrazione dell’economia criminale.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2021
Foto di MonikaP da Pixabay

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

La prima: una spietata guerra si sta svolgendo sulla pelle dei cittadini calabresi. Nel vero senso della parola, dal momento che il commissariamento del servizio sanitario (cioè di tutto ciò che muove soldi in Calabria insieme alle opere pubbliche) a tutto guarda tranne che alla salute dei calabresi.

NESSUNA IDEA sul potenziamento (o meglio sull’adeguamento, non pretendiamo la luna) dei servizi di emergenza urgenza e sull’efficientamento di quelli territoriali (ambulatori, medici di famiglia, laboratori, specialistica), nessun sussurro sul riassetto della rete ospedaliera, non diciamo nuovi ospedali o eccellenze assolute ma livelli qualitativi sufficienti dei reparti normali; nessuno, proprio nessuno, (solo il Presidente Spirlì, che non è poco, ma nel settore non può fare più di tanto) dice niente, non uno straccio di idea su come far rimanere in Calabria i soldi ed i malati che sono volontariamente e consapevolmente e dolosamente espulsi, mandati a curarsi in altre regioni per prestazioni che potrebbero essere rese in Calabria a costi ridotti e senza disagi per viaggi (ancora) della speranza. Una vergogna che costa ai calabresi 320 milioni all’anno.

È LA QUESTIONE – gravissima – del ceto politico e dirigenziale della Regione, perché non è vero che in Calabria ci sono medici inadeguati in un sistema di livello; al contrario c’è una organizzazione amministrativa e politica inadeguata (nel migliore dei casi, o criminale, nel resto) che mortifica medici bravi ed ottime strutture.

Ed il commissariamento non risolve alcun problema semplicemente perché il rientro dal debito (cioè il deficit che ha prodotto e produce un servizio sanitario siffatto) non è un problema ma è solo una parte di esso e la sua soluzione (cioè l’atto – l’acta – cui è preposto il Commissario) non può essere raggiunta se non si mette mano anche – e contestualmente – a tutti gli altri settori di cui ho detto prima.

In questo sfacelo istituzionale al Commissario sono stati assegnati invece tutti i compiti che spetterebbero al Consiglio regionale, i cui componenti sono evidentemente ritenuti così poco affidabili ed incompetenti da indurre il Governo ad espropriarne le funzioni che assegna loro quel libretto che si chiama Costituzione.

E qui comincia la seconda storia. La rinascita di un popolo, quello calabrese, paradigma di un Paese in ginocchio, passa solo attraverso la riqualificazione della propria classe dirigente che ha perso ogni contatto con i cittadini ed i loro problemi quotidiani.
Alcuni occupanti le Istituzioni sono finanche seri, onesti e preparati, ma è il sistema che non funziona ed ha raggiunto ormai un livello di decozione politico-morale da renderlo scollato dalla realtà.
Da cosa dipende?

APRIAMO GLI OCCHI. Dalla legge elettorale che ha scientemente spezzato, reciso ogni legame tra elettori ed eletti, creando il sistema dei nominati e consolidato un ceto politico autoreferenziale che risponde dei suoi atti e delle sue scelte non ai cittadini ma ai sedicenti capipartito del momento. La Corte Costituzionale con sentenza 1/2014 ha già dichiarato incostituzionale una prima legge elettorale (il Porcellum) invitando il Parlamento a farne un’altra che tenesse conto della necessità di rispettare la connessione tra l’espressione di voto ed il sistema di elezione (in poche parole, preferenze e rappresentanza proporzionale, senza abnormi premi di maggioranza).

Allora il Parlamento dei nominati ne ha fatta un’altra, peggiore, l’Italicum. E qui la Consulta interviene con una nuova dichiarazione di incostituzionalità (sent. 35/2017). Ma siccome il sistema è questo, gli occupanti abusivi del Parlamento hanno spudoratamente prodotto l’ennesima legge elettorale che premia e consolida lo sconcio delle nomine. Il Rosatellum.

INSOMMA, per chiudere, il vecchio sistema proporzionale puro con le preferenze assicurava un contesto istituzionale stabile e controllabile dagli elettori (ed infatti ha condotto l’Italia alla crescita del dopoguerra, alla stagione delle grandi riforme ed alla sconfitta del terrorismo).

Questo attuale papocchio, ci porta – per tornare da dove sono partito – a tollerare, senza un plissé, che un organo istituzionale come un Consiglio regionale sia ridotto al silenzio ed alla inutilità da dieci anni, e alla sua sostituzione con Commissari provenienti ora dalla Guardia di Finanza, ora dall’Arma dei Carabinieri, e attualmente dalla Polizia di Stato i quali, giustamente e conformemente alle loro professionalità, fanno indagini per scovare il malaffare. E lo trovano. Il che, ovviamente, non vuol dire governare il sistema sanitario.

Verrebbe da domandare: le elezioni sono una farsa, le Istituzioni mortificate, serpeggia un certo razzismo, si affermano gli uomini soli al comando, precisamente di quale secolo parliamo? Scherzi a parte: occorre adesso una resistenza organizzata che respinga questo pericolosissimo attacco alla democrazia.

da “il Manifesto” del 23 maggio 2021
Foto di David Mark da Pixabay

La politica non parla più di Napoli e del Sud.-di Massimo Villone

La politica non parla più di Napoli e del Sud.-di Massimo Villone

Sappiamo da sempre che il voto amministrativo nelle grandi città ha un rilievo politico. Così sarà anche questa volta, e forse persino in misura del tutto particolare. Lo apprendiamo da Letta, che nella direzione Pd di venerdì scorso ha delineato un cambio di strategia nazionale che trova diretta origine in quel che accade sul fronte locale.

Nell’assemblea della sua investitura aveva sostanzialmente annunciato la stagione di un nuovo Ulivo, con alleanze strategiche pre-elettorali supportate da un sistema elettorale maggioritario. Era un disegno ambizioso di ritorno al bipolarismo. Si è infranto, al momento, sulla difficoltà di allearsi nel voto amministrativo. Se si va in battaglia frontale oggi, è davvero difficile pensare domani in vista del voto politico a una alleanza strategica e strutturata. Si ritorna allora a un modello multipolare, in cui con un sistema elettorale proporzionale ognuno corre per sé. Le alleanze per il governo si costruiscono dopo il voto, in parlamento.

Letta aveva sottovalutato le convulsioni che attanagliano M5S, in parte originate proprio nella politica regionale e locale. Accade anche a Napoli. Colpisce, però, che nessuno parli di questioni di merito, di progetto, di futuro della città. Invece, è colluttazione permanente su alleanze e persone. Sappiamo di Catello Maresca, candidato tuttora non-candidato che però è già di fatto in campagna elettorale, e ha dato luogo a perplessità per la funzione ricoperta. Sappiamo dei tormenti di Fico che M5S – ma non tutto – vorrebbe candidato. Sappiamo di Manfredi, della sua attesa per alcune telefonate cruciali, e di condizioni da lui poste. Sappiamo che Amendola è in ribasso.

Sappiamo delle 24 liste che il segretario Pd Sarracino mette intorno a un tavolo, e speriamo che almeno lo faccia da remoto. Sappiamo di Bassolino, candidato e da tempo in campo. Sappiamo di una fine che potremmo definire ingloriosa della sindacatura de Magistris, e della debole candidatura della Clemente. Sappiamo di un consiglio comunale ormai moribondo, che non ha nemmeno la forza di esalare l’ultimo respiro. E potremmo continuare.

Al di fuori delle candidature, l’attenzione della politica sembra concentrarsi sui vaccini, sui ricoverati, sui defunti, da un lato, e sulle riaperture più o meno progressive e auspicate dall’altro. Eppure, qui e ora ci giochiamo una parte importante del futuro. Consegnato a Bruxelles il testo definitivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), avremmo ritenuto indispensabile e urgente che i soggetti politici e le assemblee elettive avviassero un approfondimento dei contenuti e delle conseguenti iniziative.

Per quel che sappiamo, almeno per il momento non accade. Eppure, da discutere c’è, e molto. Per una parte, il Piano dipenderà da come verrà concretamente attuato, e su questo si potrà cercare di incidere. In qualche caso già le cifre sono significative. Ad esempio, se si guarda agli stanziamenti per l’Alta velocità sbandierati come cruciali per il Mezzogiorno, si nota che la gran parte delle risorse nei primi anni è destinata al Nord. Per il Sud – sull’asse Salerno-Reggio Calabria – vanno fondi in prevalenza dopo la chiusura del 2026.

Questo significa che i fondi al Nord sono garantiti dalle strette condizionalità poste dall’Europa. Quelli al Sud rimangono affidati alla volatilità della politica nazionale del dopo Piano. Tutto dipenderà da quale paese avremo nel 2026. Quale destino si prefigura per Napoli? La risposta non è certo un carcere a Bagnoli. Né basta colluttare sul debito pregresso. Ad esempio, cosa fare di Napoli Est? Su queste pagine il presidente dell’Unione industriali vede l’area come centrale nella transizione energetica, in cui la Campania ha un ruolo primario per eolico, idrogeno e mare.

È una prospettiva non banale. Cosa ne pensa la politica? E cosa pensa di quel che il Piano dice sui porti e retroporti nel Mezzogiorno? Basta a configurare un sistema Sud proiettato come piattaforma logistica nel Mediterraneo per tutto il paese? In caso contrario, si può recuperare tale vocazione? E come?

Il rilancio del Mezzogiorno come sistema produttivo alla pari con il resto del paese è un obiettivo da non perdere mai di vista. Il Sud non può vivere solo di turismo e cultura. E ancor meno sopravvivere solo con il reddito di cittadinanza. Vediamo in campo molte meritorie iniziative di approfondimento da parte di associazioni, studiosi, esperti. Ma non bastano. Sono indispensabili le voci della politica e delle istituzioni. Sempre che abbiano voglia di ritrovare il ruolo che ogni giorno di più sembrano dimenticare.

da “la Repubblica Napoli” 16 maggio 2021
Foto di pixel1 da Pixabay

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Nel libro XII dell’Odissea, Circe mette in guardia Ulisse sui pericoli che dovrà affrontare nell’attraversare lo Stretto, non solo dalle sirene, ma anche dai due mostri Scilla e Cariddi.

“… E poi i due Scogli: uno l’ampio cielo raggiunge con la cima puntuta: e l’avviluppa una nube livida; e questa mai cede, mai lume sereno la sua vetta circonda, né autunno, né estate; né potrebbe mortale scalarlo, né in vetta salire… A metà dello Scoglio c’è una buia spelonca… Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando… L’altro Scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini l’uno all’altro. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie: e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe!“.

Per molto tempo il tratto di mare fra Scilla e Cariddi è stato teatro di eventi magici, funesti e misteriosi, ma il mito ha raccontato e spiegato agli uomini antichi i furori, le grandezze e le tragedie della natura.

Il racconto mitico, trasformandosi, è durato per secoli, come testimoniano le leggende nate sulle due sponde, siciliane e calabresi, secondo le quali l’unico uomo in grado di attraversare senza subire danni e di scendere nelle profondità dello Stretto era stato Colapesce o Nicolau o Pescecola. Un’altra persistenza mitica delle sirene omeriche è la leggenda, forse di epoca normanna, della fata Morgana che, secondo la tradizione popolare ancora viva a tutt’oggi, viveva in un castello nelle profondità del mare e traeva in inganno i naviganti con un miraggio facendoli naufragare.

Il ponte che, di nuovo, si vuole costruire decreterebbe la fine del mito perché unirebbe ciò che gli dèi, in questo caso Poseidone, avevano diviso, distinto, separato per sempre. Contravvenire al volere divino oltre che un sacrilegio, sarebbe stato considerato, nell’antichità, un atto di hýbris, di superbia dell’uomo che non vuole piegarsi all’inconoscibile e smisurata potenza degli dèi e della natura.

La ragione e la tecnica ci hanno allontanati dal mito e resi capaci di vincere la natura, ma in questo caso, oltre alle fondate perplessità tecniche sulla fattibilità, sulla tenuta e sulla durata di una simile opera umana in un’area sismica per antonomasia (come ha da poco scritto Tonino Perna su questo giornale https://ilmanifesto.it/il-famigerato-ponte-della-retrocessione-ecologica/), è necessario dire anche quanto sia, banalmente, brutto e vecchio questo ponte.

Deturpare irreversibilmente lo scenario di un mito del quale si sono nutrite generazioni di calabresi, siciliani ed europei avrebbe dovuto consigliare, perlomeno, la progettazione e la costruzione di un manufatto che imprimesse, in quei luoghi, un segno architettonico di mirabile bellezza.

È così difficile capire che per la costruzione di un ponte così poco utile e di così vecchio e disarmonico disegno sarà necessario sfigurare orribilmente il paesaggio dell’estremo lembo della penisola con le ciclopiche opere di fondazioni necessarie per la stabilità strutturale di un tale mostro di cemento e acciaio?

Se si aggiungono le vaste servitù territoriali come le rampe per l’accesso ed il deflusso, su entrambe le sponde, del traffico su ruote e su rotaie – alcune delle quali insisterebbero, peraltro, su aree archeologiche- si capisce facilmente quanto sia devastante costruirlo.

Questa ulteriore cementificazione del territorio non farebbe che accelerare l’eclissi dei paesaggi in regioni, come la Calabria e la Sicilia, già sfigurate dall’insensato e vorace consumo del suolo e dall’abusivismo. I meridionali vivono già nella bruttezza, non ci fanno più caso, vivono in un paesaggio nel quale la natura è stata brutalmente violentata, cancellata e sostituita con colate di asfalto, di cemento armato e di case non-finite.

L’abitudine alla bruttezza genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. La bruttezza produce assuefazione all’assenza di regole estetiche ed etiche, producendo un’immoralità diffusa che genera ‘ndrangheta e mafia.

Se si vuole investire in opere pubbliche in Italia e, specialmente, nel Mezzogiorno, si faccia quel che fece F.D. Roosevelt che, nel momento di maggiore crisi economica, diede mano ad un’enorme e capillare restauro del paesaggio degli Stati Uniti impiegando tre milioni di giovani dal 1933 al 1942.

Il governo, se fosse davvero interessato alla rinascita del Sud, dovrebbe destinare i circa 10 miliardi di euro che costerebbe questo obsoleto ponte, ad un poderoso e capillare progetto strutturale di “Restauro dei paesaggi storici e naturali” che provi, con l’aggiunta di altri 10 miliardi del Pnrr, a restituire integrità, sicurezza idrogeologica, senso ed armonia ai paesaggi rurali ed urbani del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 12 maggio 2021

La scommessa di De Magistris nella terra più sfortunata del Paese.-di Piero Bevilacqua

La scommessa di De Magistris nella terra più sfortunata del Paese.-di Piero Bevilacqua

Nel 1926, in un saggio per più versi geniale, Gramsci definiva il Mezzogiorno «una grande disgregazione sociale». Quell’espressione – che forse già allora sottovalutava il peso e il ruolo delle città – oggi è la definizione che meglio di tutte descrive la condizione attuale della Calabria, la regione più povera e male amministrata d’Italia. E il concetto di disgregazione consente di cogliere alcune ragioni fondative della sua condizione materiale presente e della debolezza delle sue classi dirigenti. La Calabria è già in origine una terra disgregata per la sua conformazione fisico-geografica. Non è certo un caso se per secoli, sotto il Regno di Napoli, si è avvertito il bisogno di definirla al plurale, Calabrie, e di compartirla in Calabria Citra e Ultra e poi dividerla, con ulteriore segmentazione, in Calabria Ulteriore Prima e Seconda. A differenza di quasi tutte le altre regioni del Sud non ha mai goduto di un polo aggregatore, una vera città capoluogo, in grado di connettere le sparse membra di un territorio disarticolato, difficile e disperso, in un organismo dotato di una qualche omogeneità e unità.

Reggio Calabria, la città più antica, più grande e dinamica, posta sulla punta dello stivale, era proiettata verso la Sicilia e il Mediterraneo, più che verso l’interno della regione. Mentre Catanzaro e Cosenza hanno vissuto storie separate e la prima, posta al centro del territorio, era economicamente troppo debole per svolgere funzioni egemoniche aggregative. Ricordo che negli anni ’60 e ’70, perfino il partito più coeso e unitario d’Italia, il Partito Comunista Italiano, risentiva di questa frantumazione (che comportava diversità di culture locali, legami con il passato greco o con quello latino o addirittura albanese, difformità di dialetti, tradizioni politiche, ecc) al punto che le tre Federazioni provinciali apparivano tre mondi separati.

Né questa frantumazione territoriale, sociale e politica è stata superata nel corso del secondo ‘900. L’assenza di un sviluppo economico omogeneo, ma per isole, non ha dato vita a un ceto sociale dotato di sufficiente omogeneità di caratteri, in grado di costituire l’intelaiatura unitaria che alla Calabria manca drammaticamente. Questo spiega molte cose dell’attuale disastro politico e amministrativo in cui la regione è stata inghiottita.

Una ragione evidente è che ad ogni tornata elettorale, chi ambisce a diventare presidente, non può contare su una omogenea base sociale – magari resa culturalmente autonoma da un lavoro stabile e dall’indipendenza economica – ma deve trovare accordi con la miriade dispersa dei «grandi elettori», portatori di voti raccattati nei territori, con cui mettere insieme una maggioranza.

Sicché, una volta diventato presidente, il suo compito verrà in gran parte assorbito dalla necessità di rispondere alle richieste delle varie e frantumate clientele che gli hanno consentito il successo elettorale. Mai quindi un grande progetto capace di invertire la disgregazione storica originaria, ma solo piccoli interventi di assistenza, volti a placare soprattutto, con pratiche affaristiche, la grande fame di lavoro della gioventù.

È per questo che, alcuni mesi fa, ad apertura della campagna elettorale, quando seppi che Luigi De Magistris intendeva presentarsi quale candidato, ne fui sorpreso e lieto. Non pochi calabresi, anche di sinistra, appresero la notizia con contrarietà, sentendo la candidatura come l’invasione di campo di un forestiero, come se i precedenti presidenti calabresi avessero compiuto miracoli e se ne sentisse la nostalgia.
Ora, a parte il fatto che De Magistris estraneo alla Calabria non è poi così tanto, avendovi svolto il ruolo di magistrato per alcuni anni. Ma quella «estraneità», o per meglio dire quella «esternità», costituirebbe una risorsa preziosa per il futuro del governo regionale.

La popolarità, il carisma di De Magistris, il fatto – che dovrebbe pesare nel giudizio di tutti i democratici del nostro Paese – di essere stato confermato sindaco a Napoli, la città più difficile d’Italia, dovrebbe garantirgli la possibilità di vincere la partita senza sottostare ai patti con la miriade dei grandi elettori, senza dover assecondare i loro minuti interessi, e poter governare liberamente, secondo progetti ambiziosi di trasformazione strutturale.

Un uomo esterno ai partiti (aggregati di gruppi elettorali, nel migliore dei casi), un ex magistrato in una terra funestata da illegalità e criminalità, un amministratore dotato ormai di una lunga esperienza di governo locale, sarebbe una fortuna per la Calabria.

De Magistris da mesi sta conducendo un’azione che dovrebbe costituire un modello per tutti i politici: sta battendo la regione per ascoltare chi ha da esprimere bisogni, chi è in grado di fornirgli consigli. Ricordo infine un aspetto che oggi – di fronte alla devastante prova data dalle regioni italiane in tempi di pandemia – andrebbe sottolineato, l’attiva posizione che De Magistris ha preso contro l’autonomia differenziata. Non lo hanno fatto né Emiliano né De Luca. Per questo il Partito Democratico (quello calabrese, ma anche quello nazionale) deve assumersi tutta la responsabilità di far riuscire o far fallire questa possibilità e questa speranza per la regione più sfortunata d’Italia.

da 2il Manifesto” 30 aprile 2021
foto dalla pagina fb:Luigi de Magistris Presidente per la Calabria
https://www.facebook.com/dema.calabria/photos/a.104456624317449/472593024170472

Dalla pandemia un no all’autonomia differenziata.-di Massimo Villone

Dalla pandemia un no all’autonomia differenziata.-di Massimo Villone

Il Documento di economia e finanza (Def) da ultimo presentato dal governo Draghi include tra i collegati al bilancio un disegno di legge “per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116, 3 comma, Cost.”. In fondo, potevamo aspettarcelo, da un esecutivo che ha nella sua maggioranza la Lega, prima sostenitrice dell’Italia delle repubblichette, e che vede alle autonomie una ministra come la Gelmini, già alfiere del separatismo in salsa lombarda. Ma la pandemia e la crisi sanitaria ed economica suggeriscono un ravvedimento operoso almeno per tre motivi essenziali.

Il primo. È del tutto evidente che un vero sistema sanitario nazionale, come era evocato dalla legge 833 del 1978, non esiste più. Abbiamo un patchwork di sistemi regionali, con devastanti differenze tra territori. Il più fondamentale dei diritti – la salute – è tutelato in modo del tutto precario e ineguale. E conclamate eccellenze, come la Lombardia, si sono rivelate fallimentari.

Una intollerabile cacofonia autonomistica, in specie da ultimo per le vaccinazioni. Da più parti si è affermato che l’assistenza sanitaria va ricondotta nelle mani dello Stato. In specie considerando che il contagio da Covid 19 durerà nel tempo e potrà diventare endemico, mentre in futuro è probabile che si presentino altri virus, liberati dalla globalizzazione e dallo sfruttamento esasperato delle risorse naturali. Persino in Germania – stato federale – il Bundestag ha da ultimo centralizzato la lotta alla pandemia, per porre fine alla babele generata dai Lander.

Il secondo. La necessità di un ripensamento sull’autonomia differenziata non si manifesta solo per la sanità. Per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) le priorità variamente dichiarate – come transizione ecologica, digitalizzazione, giovani, donne, Mezzogiorno – richiedono la definizione di obiettivi strategici nazionali e la capacità di formulare e implementare politiche nazionali forti volte a realizzarli. Su questo va attentamente misurata la compatibilità delle autonomie, in specie se declinate come nel separatismo soft di Lombardia, Veneto e in buona misura anche Emilia-Romagna.

Ad esempio, ampie competenze regionali in tema di ambiente metterebbero o no a rischio la transizione ecologica? E che dire della digitalizzazione, e degli interventi necessari per il riequilibrio nel sistema scolastico e per le università, essenziali per evitare le migrazioni di giovani qualificati dal Sud al Nord, e dall’Italia verso l’estero? Una estesa regionalizzazione di strade, autostrade, ferrovie, aeroporti sarebbe compatibile con una strategia di riequilibrio a favore del Mezzogiorno dell’alta velocità e più in generale dei trasporti e della mobilità? Un’autonomia regionale sui porti favorirebbe o ostacolerebbe un rilancio del sistema portuale del Sud come base logistica nello scacchiere euromediterraneo?

Il terzo. Si sente dire spesso, e autorevolmente, che dalla crisi non deve uscire la stessa Italia, con qualche toppa a riparare la crisi che ci ha duramente colpito. Deve uscire un’Italia nuova e diversa. È giusto. Ma dall’autonomia differenziata ex art. 116.3 può rivelarsi difficile, o persino impossibile, tornare indietro, per come è disegnata nella norma costituzionale. Se si attuasse in modo sbagliato nel corso dell’attuazione del PNRR, potrebbe bene essere la pietra tombale sul Piano. Allora bisogna vedere quale Italia esce dalla crisi, e solo dopo eventualmente riprendere qualsiasi discorso sull’autonomia differenziata. Per fortuna, l’inserimento tra i collegati indica in principio una priorità nell’indirizzo di governo, ma non garantisce di per sé che all’approvazione del ddl si giunga in un tempo dato, o mai. Auspichiamo una serena dipartita.

Abbiamo sempre sostenuto che l’autonomia differenziata non può avere ingresso alcuno in materie strategiche per l’unità o l’identità del paese, come ad esempio la scuola. Oggi la pandemia evidenzia una Italia sofferente perché troppo diseguale. L’ultima cosa di cui il paese ha bisogno è che il peso delle diseguaglianze aumenti. C’è una indiscutibile allergia tra pandemia e autonomia. In specie se differenziata.

da “il Manifesto” del 25 aprile 2021

DEF 2021: è stata prevista l’Autonomia Differenziata! Comunicato stampa. Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

DEF 2021: è stata prevista l’Autonomia Differenziata! Comunicato stampa. Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

Ha, cioè, riproposto al Parlamento – e Camera e Senato hanno accettato, ratificando il DEF 2021 lo scorso 22 aprile (ed è la terza volta consecutiva!) – di riservare un iter legislativo privilegiato ad una proposta di legge che ratifichi l’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario, con il rischio aggiuntivo che, qualora intervenisse – modificandoli – sui capitoli di bilancio 2022-2024, essa potrebbe essere sottratta a qualsiasi richiesta di referendum abrogativo.

Tale fatto politico non può essere considerato né una pura distrazione né una mera concessione alla Lega ed ai sostenitori dell’autonomia differenziata per tenere unita la maggioranza.

Si tratta di una provocazione irresponsabile.

Non si può riaprire la strada politico legislativa, seppure nel prossimo futuro, a velleitarie prassi secessioniste e autarchiche, mentre la epidemia pandemica Covid-19 sta imperversando ancora sul popolo italiano in tutte le regioni del Nord, del Centro e del Sud e continuano a realizzarsi diseguaglianze nell’accesso ai vaccini tra i cittadini e le cittadine delle diverse regioni.

Non sono bastate tutte le pessime prove che le amministrazioni regionali hanno fornito nella pretesa di definire autonomamente (e velleitariamente) norme e regole in ambito di sanità, scuola, trasporti, beni culturali?

Non sono bastati i morti e gli effetti disastrosi sull’economia sulla convivenza civile e sociale, in particolare per le fasce deboli e non protette della società, in cui le epidemie producono i loro effetti più gravi?

Purtroppo, anche il governo Draghi (in continuità con il Conte bis e quindi ancor più colpevolmente) non ha voluto ricorrere:

– all’art. 120 della Cost. comma 2°: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni (omissis) quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”,

– all’art. 117 comma 2 lettera q, che prevede la profilassi internazionale tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, richiamata dalla Corte Costituzionale con comunicato del Comunicato del 24 febbraio 2021.

– all’art. 6 della Legge 833/78, che recita: “Sono di competenza dello Stato le funzioni amministrative concernenti: (omissis) b) la profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie e le epizoozie”.

Ci rifiutiamo di credere che il Parlamento voglia assumersi la responsabilità storica di aggravare disastri già provocati dalla prima regionalizzazione attuata in applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.

Proprio ciò che è successo e sta succedendo in conseguenza di quella riforma, compresi gli scontri tra Stato e regioni, dimostra che un solo passo in più sulla strada dell’autonomia regionale aprirebbe scenari inquietanti di vera frantumazione della Repubblica, di balcanizzazione del Paese.

Ciò di cui ha bisogno il Paese è di fermarsi, non di procedere ulteriormente nella divisione.

Da parte nostra, non staremo a guardare e ci mobiliteremo, anche con petizioni popolari, per fermare questo scempio.

Non lasceremo le proteste di piazza alle destre.

Già abbiamo iniziato: dal il prossimo 25 Aprile si aprirà in Emilia-Romagna la raccolta di firme per una petizione per il ritiro della richiesta di autonomia differenziata avanzata nel 2018 dalla regione Emilia-Romagna.

Perseguiremo lo stesso obbiettivo in tutte le regioni a statuto ordinario.

Lo faremo nel nome della Resistenza, nel nome della Costituzione, nell’interesse del mondo del lavoro e delle componenti fragili della società; ci batteremo perché la Repubblica rimanga una e indivisibile, per garantire uguaglianza dei diritti e ottemperanza ai doveri, contro vecchie e nuove diseguaglianze.

Lo faremo con quanti – cittadine e cittadini, associazioni, sindacati, partiti, personalità, organi di stampa e mass media – condividono le ragioni di questa lotta e l’impegno per tenere unito il Paese.

Il Parlamento e le Regioni abbandonino una volta per tutte e per sempre ogni tentazione di autonomia regionale differenziata!

***comitato stampa contro qualunque autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti

Franco Cassano e l’attualità del pensiero meridiano.- di Tonino Perna

Franco Cassano e l’attualità del pensiero meridiano.- di Tonino Perna

Ho conosciuto Franco Cassano negli anni ’90 quando era uscito da poco il saggio che l’ha reso famoso nel mondo: Il pensiero meridiano. Il testo che poi è diventato oggetto di culto per più generazioni, non solo meridionali, un approccio con cui il Sud del mondo può guardare al suo futuro senza restare succube del modello capitalistico dell’Occidente industrializzato.

Una svolta nel pensiero meridionalista che faceva i conti con la modernità senza nostalgie retoriche, ma evitando i luoghi comuni sul Mezzogiorno che doveva inseguire, secondo la vulgata, la stella polare del Nord.

“Pensiero meridiano” significa andare oltre, è una filosofia del vivere (non a caso molti hanno detto che Franco Cassano sia stato più un filosofo che un sociologo) che parte dal sentire dei popoli che si affacciano su questo grande lago che chiamiamo Mediterraneo.

Un modo per scoprire il limite che il mare ci pone, ma anche la forza della sua massa liquida che ci connette e ci interroga. Un modo per dire che il Sud d’Italia come i Sud del mondo devono pensare a costruire il proprio futuro senza farsi colonizzare da modelli esterni, senza inseguire mete che li snaturerebbero, come purtroppo è in gran parte avvenuto.

Un modo per scavalcare il muro decrepito del meridionalismo piagnone, quanto per rigettare l’inseguimento dei vincitori, senza cadere nella trappola del Sud contro il Nord, della secessione meridionale, come quella auspicata da Pino Aprile e dai suoi seguaci neoborbonici.

Il “pensiero meridiano” ha ispirato decine e decine di iniziative, di gruppi culturali, artistici, che sono stati conquistati da questo modo di guardare al mondo, persino in campo enogastronomico con importanti chef e esperti che si sono fatti guidare da questo magnete.

Ma, quello che è mancato finora è chi, a livello politico raccogliesse la forza di questa elaborazione intellettuale per tradurla in una serie di proposte politiche concrete.

Franco ci ha provato, anche con il suo impegno politico in prima persona, ma è stato fagocitato da un partito, il Pd, che ha perso la bussola e non la cerca più.

Il fatto che il “pensiero meridiano” sia ancora attuale e entusiasmi le nuove generazioni mi fa ben sperare che il seme gettato da Franco Cassano farà germogliare altre piante ricche di frutti.

Grazie Franco per la tua umanità, la forza delle tue idee, e per la fortuna che ho avuto di godere della tua amicizia.

da “il Manifesto” del 25 febbraio 2021

Il Sud nella servitù del Nord.-di Tonino Perna

Il Sud nella servitù del Nord.-di Tonino Perna

Molte testate giornalistiche hanno commentato la nascita di questo governo mettendo in evidenza la matrice settentrionale, in base alla provenienza anagrafica dei ministri.

È una visione parziale e qualche volta distorta. Ci sono stati nella storia italiana dei ministri e addirittura dei premier che erano di origine meridionale ma che hanno fatto gli interessi del Nord. Valga fra tutti il caso di Francesco Crispi, palermitano, che usò i dazi doganali per proteggere l’industria nascente nel triangolo industriale, provocando una reazione, soprattutto della Francia, che colpì l’export meridionale di materie prime e beni alimentari.

La questione, dunque, non è tanto quella delle radici anagrafiche del governo quanto della sua strategia di politica economica, di visione del paese, di come deve collocarsi all’interno della divisione internazionale del lavoro.

Alla fine della seconda guerra mondiale l’Italia doveva risorgere dalle macerie, fisiche e politiche (uscita dal fascismo), doveva essere ricostruita e ripensata. Quello spirito, più volte richiamato in questi giorni, portò ad una unità d’intenti di tutte (o quasi) le forze politiche e a scrivere una delle più belle Costituzioni del mondo.

Ma, dopo le elezioni politiche del 1948, si arrivò alla inevitabile divisione tra destra e sinistra e vinse, come sappiamo, la Democrazia cristiana che governò per quarant’anni il nostro paese. Anche allora fu varato un piano per la ricostruzione che favorì la ripresa dell’industria al Nord e penalizzò il Mezzogiorno.

Ci fu, come ricordava l’indimenticabile Augusto Graziani nel suo saggio su Lo sviluppo dell’economia italiana dalla ricostruzione alla moneta unica, un grande dibattito su dove dovessero essere concentrati gli investimenti.

Le grandi città del Nord erano state duramente bombardate e molte fabbriche distrutte, mentre al Sud (con qualche eccezione), i bombardamenti degli angloamericani furono limitati perché i nazisti fuggirono prima a Cassino per poi attestarsi con tutte le loro forze sulla linea gotica.

Quindi, per logica, sarebbe stato più economico ripartire dal Sud, almeno per alcune industrie di base in cui lo Stato aveva un peso rilevante. Ed invece, come sappiamo, prevalse la linea di concentrarsi sullo sviluppo industriale del Nord-ovest e il Mezzogiorno fu compensato con la Riforma Agraria e la Cassa per il Mezzogiorno.

Questa formula comunque portò negli anni ’50 e fino alla prima congiuntura del 1963, al famoso «miracolo economico italiano». Che non si fermò al triangolo industriale, ma negli anni ’60 e ’70 si estese alla cosiddetta «Terza Italia», il Centro-Nord est, dove si affermò un interessante modello di sviluppo fondato sui distretti industriali, la piccola e media impresa, e un ruolo promozionale degli enti locali.

E il Mezzogiorno? Non solo rimase fuori, ma subì un pesante processo di deindustrializzazione.

Malgrado la crescita dell’occupazione nei famosi «poli di sviluppo», inquinanti e funzionali alle industrie del Nord, complessivamente nel periodo 1951-71 si registra un saldo negativo di oltre 17.000 Pmi, mentre nel Centro-Nord-est si ha un saldo positivo di circa 110mila imprese, quasi tutte nei settori dell’industria leggera (alimentari, abbigliamento, legno e mobilio, ecc.).

Le Pmi meridionali non avevano retto all’impatto del mercato nazionale e mondiale, determinato dai nuovi mezzi di comunicazione e abbattimento delle tradizionali barriere naturali.

Dagli anni ’70, il Mezzogiorno assunse il ruolo principale di serbatoio di voti per il partito di maggioranza relativa. La Cassa del Mezzogiorno, che pure aveva svolto un ruolo positivo negli anni ’50, travolta dagli scandali venne sciolta e nient’altro la sostituì.

Con la caduta del muro di Berlino, e la relativa globalizzazione del mercato capitalistico, le imprese del Centro-Nord non ebbero più bisogno della domanda interna e puntarono all’export verso i nuovi mercati dell’est unitamente ad una massiccia delocalizzazione verso questi paesi a bassissimo costo della forza-lavoro.

Restava al Mezzogiorno solo il ruolo di serbatoio di voti legati alle clientele e all’assistenza pelosa, con il passaggio dalla Dc a Forza Italia.

Col nuovo secolo scomparve totalmente la «questione meridionale» dall’agenda politica del nostro paese. Crebbero emigrazione, emarginazione e rabbia tra le popolazioni meridionali. Questo «ri-sentimento» fu colto da Grillo, che non a caso partì dalla Sicilia, per il suo travolgente tour che portò la sua creatura a raggiungere nel 2018 il 32 per cento dei voti alle elezioni politiche, con una base nettamente più larga nel Mezzogiorno (oltre il 40 per cento).

Il resto è la cronaca di questi anni e l’arrivo del Salvatore della patria. Nella sua alchimia della composizione del nuovo governo emerge, da una parte, la scelta di un uomo che riporta la Lega alle sue origini padane, e dall’altra, l’abbandono del Sud nelle mani di Forza Italia, cioè di una forza politica in via di estinzione.

Il destino delle popolazioni meridionali è segnato. Solo una grande mobilitazione potrebbe cambiare questo scenario. Ma dove sono le forze politiche o sindacali capaci ancora di compiere questo miracolo?

da “il Manifesto” del 16 febbraio 2021
foto di Battista Sangineto: Rovine industriali di Saline Joniche (RC)

Prima il Sud, ma solo a parole.- di Massimo Villone

Prima il Sud, ma solo a parole.- di Massimo Villone

Nel discorso di Conte alle Camere per la fiducia il Mezzogiorno c’è o no? È una domanda ineludibile, perché Conte ha disegnato un percorso e un programma con la dichiarata ambizione di arrivare a fine legislatura. In realtà, è esattamente questa la scommessa politica che ha messo in campo, con l’obiettivo di ampliare la maggioranza. Se il tentativo avrà successo, da qui al 2023 si faranno scelte cruciali per tutto il paese, ed in specie per il Mezzogiorno.

Nella Camera dei deputati Conte ha rivendicato i risultati conseguiti dall’esecutivo. Ma al Sud ha dedicato solo poche parole, sulla fiscalità di vantaggio. A seguito di qualche contestazione venuta nel dibattito, ha poi ripreso il tema nella replica. Ha affermato che il Sud «è in cima alle priorità dell’agenda di Governo», e non per ragioni ideologiche. Solo facendo correre il Sud «potrà correre il Nord e tutta l’Italia».

Sembrerebbe una piena accettazione della tesi per cui far partire il Sud come secondo motore del paese è l’unica vera possibilità di rilanciare l’Italia nel suo complesso. Sulla sponda opposta chi invece vorrebbe rilanciare la sola “locomotiva del Nord”. Fin qui siamo alle parole. Molti un Mezzogiorno in cima alle priorità dell’esecutivo proprio non lo vedono. Ma Conte va oltre. Ci informa che con il Recovery Plan «si concentreranno gli investimenti, secondo alcune stime, le risorse per circa il 50 per cento nel Sud, se consideriamo tutti i progetti che si dispiegano anche in modo trasversale». Richiama anche 15 miliardi per infrastrutture ferroviarie, e 2.3 miliardi specificamente per le infrastrutture in Calabria. Cita il piano Sud 2030 e altre misure, segnalando in particolare che le iscrizioni negli atenei del sud sono aumentate del 7,5%.
Il discorso in Senato è stato un remake di quello della Camera.

Nessuna sostanziale novità. Il punto è che in entrambe le Camere oltre alle generiche affermazioni di principio il premier non è andato. Nessuna indicazione precisa sul come giungere a ridurre o azzerare il divario strutturale che spacca il paese.
Nemmeno sul terreno di diritti fondamentalissimi come la sanità e l’istruzione, in cui la pandemia ha drammaticamente evidenziato diseguaglianze crescenti.
Il punto allora è se sia credibile o no lo scenario delineato da Conte di un Sud in cima alle priorità del governo, e addirittura destinatario di un 50% delle risorse disponibili per il Recovery.

Dalle analisi svolte sulle bozze di piano via via disponibili vengono considerazioni di altro segno. Ricordiamo tutti la lettera dei presidenti delle regioni meridionali a Conte, anche se non è dato sapere se ci sia stato un seguito, o sia rimasta una mossa puramente di teatro per i fan. Come non sappiamo in quale modo Conte giunga alla valutazione di un 50% del Recovery destinato al Sud. Sembra però di poter trarre dal richiamo alla “trasversalità” che si tratti di progetti non specificamente volti al Mezzogiorno, ma all’intero paese. In tal caso, quanti e quali benefici ne verranno alle regioni meridionali rimane da vedere.

Sono già emerse polemiche, ad esempio, sulla effettiva ricaduta di risorse destinate ad agevolazioni per il lavoro nel Sud, e sulla strategia che il Recovery Plan delinea per i porti italiani. Si ritaglia per quelli del Sud un ruolo – ovviamente minore servente alla vocazione turistica del territorio. Conte non ci ha convinto. Bisognerà mantenere alto il livello di attenzione e cercare di incidere qui e ora, nel passaggio parlamentare promesso dal premier. Una volta concluso l’iter con un voto e con l’approvazione Ue, i giochi saranno fatti, e non si potrà correggere in corso d’opera l’errore di oggi. Che dalla parte più forte del paese venisse una pressione per avvantaggiarsi nella destinazione delle risorse Ue era prevedibile.

Ora, la vicepresidente e assessore lombarda Moratti vuole un vantaggio addirittura sui vaccini. Più Pil, più vaccini. E gli altri muoiano in pace. C’è un leghismo genetico che infetta il Dna di una parte del paese. L’abbiamo visto già all’origine dell’autonomia differenziata, quando i famigerati preaccordi del 28 febbraio 2018 tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni avrebbero inteso commisurare il diritto all’assegnazione di risorse pubbliche alla capacità fiscale dei territori. Più ricchezza, più risorse. Il mantra del leghismo. Sarà difficile sconfiggere egoismi territoriali.

da “la Repubblica Napoli” del 20 gennaio 2021
Foto di Ulf-Angela da Pixabay

Dopo la crisi una nuova politica per il Sud.- di Massimo Villone

Dopo la crisi una nuova politica per il Sud.- di Massimo Villone

Sul grande schermo della politica abbiamo visto nella giornata di mercoledì succedersi tutti gli scenari possibili. Al momento, siamo alla crisi che ancora non c’è, perché dimissioni formali dell’esecutivo non sono state presentate. Al tempo stesso, è chiaro che non si può continuare come se nulla fosse accaduto.

Certamente Palazzo Chigi ha commesso degli errori, sui quali ben si poteva chiedere correzioni. Ad esempio, la prima proposta di governance sul Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) – tre ministri, sei supermanager e trecento esperti – sostanzialmente commissariava la stessa maggioranza. Una soluzione inaccettabile, poi cancellata per le pressioni di tutti. Sembra però che la richiesta di Matteo Renzi per un cambio di rotta gli sia alla fine sfuggita di mano. È certo difficile per l’opinione pubblica capire perché si vuole a tutti i costi far cadere un governo mentre si è pronti a votarne i principali provvedimenti. Delle ragioni di quanto è accaduto non appassiona discutere. Importa invece capire su cosa alzare argini a difesa. Il Pnrr rimane una scommessa cruciale per il futuro del paese, e in particolare per il Mezzogiorno.

Questo non cambierà, quali che siano gli esiti del passaggio parlamentare che si mostra al momento probabile, e gli scenari a seguire. Una critica alla prima stesura del Pnrr era che la nuova Italia cui si dichiarava di voler puntare non poteva uscire da un assemblaggio di vecchie carte tirate per l’occasione fuori dai cassetti. In particolare, mancava del tutto l’obiettivo strategico di vedere nel Mezzogiorno il secondo motore dell’economia italiana, da riavviare perché indispensabile per il rilancio del paese nel suo insieme.

Abbiamo invece ascoltato negli ultimi mesi economisti di vaglia – di cui ho dato conto su queste pagine – affermare la incapacità del Sud di trarre vantaggio dall’afflusso di risorse pubbliche.

Argomento decisivamente contrario a un Pnrr attento al rilancio del Mezzogiorno, che può solo avvenire con forti investimenti pubblici. Così diventano invece applicabili al Pnrr tutti i luoghi comuni che erano già stati alla base della spinta per l’autonomia differenziata. E che possono sintetizzarsi nella tesi per cui il bene del paese si trova nel far ripartire la locomotiva del Nord, non nella riduzione del divario Nord – Sud.

Nel dibattito sulle correzioni del Pnrr è emersa un priorità Mezzogiorno. Ma cosa cambia davvero?
Claudio De Vincenti e Stefano Micossi – certo non sospetti di estremismo sudista neoborbonico – notano sul Sole24Ore (12 gennaio) che a infrastrutture e investimenti sulle reti sono destinati solo 28 miliardi. In specie, risultano sacrificati con soli 4 miliardi gli investimenti in logistica e portualità, che “costituiscono la via maestra per consentire all’Italia, e in particolare al Mezzogiorno, di essere protagonista degli scambi europei e mediterranei”.

E certo fa impressione leggere nel Pnrr (pag. 100) che si punta a “una valorizzazione del ruolo dei Porti del Sud Italia nei trasporti infra-mediterranei e per il turismo” (corsivo aggiunto). Mentre si guarda ai porti dell’Alto Tirreno e Alto Adriatico (Trieste e Genova) per i rapporti con l’Europa del Nord. Porti di serie A e di serie B? Si può temere che la priorità per il Sud dichiarata dal Pnrr “trasversale a tutte le missioni” rimanga alla fine un flatus vocis.

Questione di soldi, e non solo. Il Sud come secondo motore in concreto non lo vediamo ancora. Adriano Giannola ( Quotidiano del Sud, 12 gennaio) avverte che con la pandemia si avvicina “un baratro che coinvolge le regioni settentrionali accomunate dalla prospettiva di progressiva meridionalizzazione”. La conferma viene da La Stampa (12 gennaio). Dopo anni di crisi e crescita rallentata “la grande paura del Nord è risvegliarsi alla fine dell’incubo della pandemia e scoprire di non essere più il motore del Paese. E ritrovarsi lontano dalle locomotive d’Europa”.

Appunto. Bisogna vigilare, e mantenere alta l’asticella del dibattito. La locomotiva del Nord non è bastata finora a frenare il lento declino dello stesso Nord. Ancor meno potrà in futuro. Scommettere oggi sul Sud con il Pnrr è indispensabile, ed è nell’interesse anche del Nord. Questo è il punto che va mantenuto, in qualsiasi scenario.

Lo dice persino Natale Mazzuca, vicepresidente di Confindustria: è tempo di “un’unità vera nella quale il Mezzogiorno deve rappresentare il secondo motore per far ripartire il Paese” ( Mattino, 12 gennaio). Bene. Ma è l’opinione sua, imprenditore calabrese, o il pensiero ufficiale e convinto di Confindustria?

da “Repubblica Napoli” 15 gennaio 2020

Calabria sussidiata-di Domenico Cersosimo

Calabria sussidiata-di Domenico Cersosimo

Il Covid-19 ha acutizzato la piaga congenita dell’economia e della società calabrese: la dipendenza dai sussidi pubblici.
La pandemia, come nel resto del paese e del mondo, ha determinato una drastica contrazione della produzione regionale, dell’occupazione, dei redditi da lavoro, dei profitti aziendali. Una compressione asimmetrica, selettiva. I prezzi più alti li hanno pagati e continuano a pagarli le imprese più piccole e destrutturate, le attività interessate al lockdown, le imprese della filiera turistica e dei trasporti.

Più di 40 imprese su 100 prevedono di chiudere l’esercizio 2020 in perdita (17% nel 2019); circa 28 mila imprese hanno fatto ricorso a prestiti garantiti (per quasi un miliardo di euro) nei primi nove mesi dell’anno, contro rispettivamente 2.000 e 245 milioni nell’intero 2019 (dati Banca d’Italia). E’ crollato verticalmente il settore dei trasporti: gran parte dei voli commerciali sono stati cancellati e il numero di passeggeri da e per la Calabria si è ridotto del 70%; regressioni simili hanno interessato anche le strutture ricettive regionali, in special modo per la forte caduta dei turisti stranieri.

Uno shock letale per l’economia calabrese, che si sovrappone alle perdite dolorose della grande recessione post-2007, non ancora assorbite alla comparsa del virus. Tra il 2008 e il 2014 il Pil calabrese ha subito una decrescita cumulata del 14,3% (più del doppio della perdita registrata dalle regioni del Nord-est); nel quinquennio successivo ha sperimentato una crescita appena accennata (0,7% cumulato, a fronte del 2,5% nel Mezzogiorno, del 6,1% nel Nord-est e del 9,3% nella media dei 28 paesi EU) (dati Svimez).

Dal 2008 l’occupazione totale si è ridotta di 40 mila unità, la gran parte nel settore industriale, aggravando il suo cronico sottodimensionamento; il valore aggiunto del secondario si è contratto di oltre due miliardi di euro (-37%), mentre il valore del Pil si è abbassato di quattro miliardi e mezzo di euro (-12,3%) e quello pro-capite di circa 2.000 euro (-10,6%). Nel frattempo, la disoccupazione è schizzata dal 9 al 21% e quella dei giovani tra 15 e 24 anni dal 34 al 49%. Una stagnazione lunga, segnata da crescita lenta, bassa produttività, nuove disuguaglianze economiche e civili tra individui e luoghi, tra aree interne e aree urbane, tra città e nelle città.

Un nucleo di imprese, meno di un quinto del totale, ha retto l’onda devastante della pandemia. Non solo quelle più consolidate dei comparti cosiddetti essenziali (agroalimentare, chimica, logistica, e-commerce), ma anche quelle più resilienti, le imprese dotate delle risorse cognitive e non, per reagire allo shock pandemico attraverso ammodernamenti e nuovi investimenti.

Moltissime imprese e attività sono ancora in vita grazie ai ristori pubblici, ai tamponi finanziari e fiscali. Molte sono diventate “imprese zombie” (zombie firms), così etichettate nel recente rapporto 2020 del G30, coordinato da Mario Draghi e Raghuram Rajan, unità tecnicamente non fallite ma che una volta terminati i sussidi non saranno in grado di sopravvivere con le loro forze oppure vivranno periodi di stenti finanziari cronici e di inefficienza allocativa.

Diverse di queste saranno costrette a persistere per mancanze di alternative, trasformandosi in “imprese di necessità”: per racimolare un reddito familiare, per non azzerare investimenti pregressi, per continuare ad avere un’occupazione quotidiana, per non licenziare i propri dipendenti, per alimentare una speranza di improbabile ripresa. Più in generale, gli impatti del Covid-19 hanno messo in forte evidenza l’eterogeneità e le differenziazioni crescenti tra le imprese, configurando sempre più un “dualismo orizzontale” anche tra imprese con le medesime caratteristiche dimensionali, settoriali, territoriali.

La crisi sanitaria ha avuto effetti altrettanto devastanti nel mercato del lavoro, in particolare per i lavoratori autonomi, quelli con contratti a termine, del turismo e della ristorazione, gli artisti e gli operatori del variegato mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento e delle filiere sottostanti. Svantaggiati moltissimo i giovani e le donne, già in forte sofferenza ben prima del coronavirus, i lavoratori irregolari e senza tutele del Sud. Blocco dei licenziamenti e ricorso alla cassa integrazione hanno impedito il tracollo dell’occupazione e dei salari dei lavoratori dipendenti.

Da gennaio a settembre le ore autorizzate di Cig hanno sfiorato i 26 milioni (meno di 2.400 nel 2019), a cui bisogna aggiungere altri 11 milioni di ore di integrazioni salariali erogate dal Fondo di solidarietà (solo 265 nel 2019); nel solo primo semestre l’Inps ha deliberato più di 170 mila bonus da 600 euro, pari ad un numero di sussidi che copre il 12,2% della popolazione regionale tra 15 e 70 anni; da gennaio a luglio, sempre l’Istituto di previdenza, ha erogato circa 20 mila Redditi di emergenza a famiglie in stato di necessità (il 2,5% delle famiglie residenti), per un importo medio mensile di 560 euro (per tre mensilità); le erogazioni di Reddito o Pensione di cittadinanza nei primi nove mesi sono state circa 92 mila (il 12% delle famiglie residenti, il 5,5% nella media italiana e il 10,5% nel Mezzogiorno), un aumento di quasi 19 mila unità rispetto al 2019 (dati Banca d’Italia).

Una montagna diversificata di sussidi, come nelle altre regioni, necessaria per lenire le ferite, per proteggere i soggetti economici e sociali più fragili, per dare ossigeno pubblico alle imprese e agli imprenditori, e che accentua il profilo della Calabria come società sussidiata.

Nell’anno che sta per chiudersi, si stima per la Calabria un arretramento del 10% circa della ricchezza complessiva, pari in valore assoluto ad oltre tre miliardi di euro (in media una perdita di 1.500 euro procapite). Una cifra enorme in sé (la metà dell’intero Pil del Molise), ma ancor più preoccupante se si considera la strutturale asfissia della base produttiva locale.

D’altro canto, il rimbalzo economico atteso nel 2021 si annuncia per la regione ben più contenuto di quello medio meridionale e centrosettentrionale (0,6% a fronte rispettivamente dell’1,2 e del 4,5%), a ragione della modesta elasticità della struttura produttiva locale agli stimoli della domanda. Con il rischio che il canonico andamento a “V” del ciclo economico possa assumere in Calabria una forma simile alla “L”, ossia che alla caduta rapida della decrescita segua una lunga fase di stagnazione e di crescita lenta, lentissima.

E’ tutta qui la questione: l’incapacità della Calabria e dell’intero sistema nazionale a cicatrizzare la ferita del sottosviluppo, a sconfiggere la refrattarietà sociale all’autonomia produttiva. Non c’è verso. La Calabria rimane, sotto questo aspetto, l’eccezione nazionale, il caso più estremo di “modernizzazione passiva”.

Di assorbimento rapido – per gocciolamento, imitazione o induzione – di standard e stili comportamentali sociali tipici delle società sviluppate non basati però su processi di crescita di mercato bensì mediante trasferimenti di risorse finanziarie esterne, per lo più pubbliche. Consumiamo senza produrre, o meglio, consumiamo, in valore, molto di più di quanto produciamo. Sicché, la qualità della nostra vita, decorosa o meno, dipende in proporzioni “patologiche” dalla spesa pubblica, ossia dalla politica, che in Calabria più che altrove si configura come il vero e unico “grande tutto”.

Intendiamoci. Gli aiuti pubblici alle aree in ritardo di sviluppo sono del tutto fisiologici, null’altro che una forma di redistribuzione della ricchezza nazionale dai cittadini più ricchi a quelli più poveri. Il problema è il denominatore, la ricchezza autoprodotta, non il numeratore, i trasferimenti. E’ il livello troppo basso e stagnante del prodotto a rendere patologico l’incidenza della spesa pubblica, anche quando, come è accaduto in questo primo ventennio del XXI secolo, ha subito un forte decremento.

A maggior ragione, poi, quando si tratta di aiuti che non aiutano a emanciparsi, seppure gradualmente, dalla loro erogazione, e che finiscono per accentuare la condizione di dipendenza della società regionale. Una vera e propria “trappola da sottosviluppo”: i gruppi dirigenti, piccoli e grandi, locali e centrali, che avrebbero convenienza a modificare lo status quo sono sopraffatti da classi dirigenti “estrattive”, ovverossia da un blocco sociale composito che dal sottosviluppo estrae benefici, potere, privilegi. Una trappola paradossalmente sostenuta dall’exit – sotto forma di fuga dalla regione, di rassegnazione e adattamento passivo, di immersione e occultamento nel privato – da parte di ceti che potenzialmente avrebbero interesse e spesso le capacità per invertire la rotta e ridurre progressivamente l’ostilità del contesto regionale.

Di fatto, da tempo, nei precari equilibri al ribasso della società regionale prevalgono i rentiers dello status quo, strateghi e accoliti della “guerra di posizione”, del mantenimento dei poteri consolidati. Non una società cristallizzata e immobile, al contrario una società in un continuo “movimento di adattamento”, tutto interno ai ristretti circuiti dei poteri dominanti – politici, economici, criminali. Latitano i “contromovimenti”, i gruppi sociali che aspirano e agiscono per un ribaltamento degli assetti di potere consolidati, anche se non mancano esperienze, casamatte e testimonianze eccellenti, altere ma puntiformi, innovative ma autocontenute.

Il porto transhipment di Gioia Tauro, i cui traffici sono cresciuti in questo anno orribile del 25%, rimane ancora oggi un corpo estraneo alla società locale; la stessa Università della Calabria, un’altra modernizzazione “dall’alto” della Calabria del dopoguerra, a 50 anni dalla sua nascita stenta ancora a diventare un vero corpo sociale. Un’altra connotazione sedimentata della regione: frammentarietà sociale e territoriale e connessioni rarefatte, a maglie troppo larghe, gelatinose, il che inibisce effetti di tracimazione delle esperienze di successo dai propri perimetri.

Il futuro è in salita, ripida, aspra. Prima di tutto per le ragioni socio-politiche prima dette. Non si scorge una domanda diffusa di sviluppo, né si intravedono alleanze di ceti e gruppi sociali e politici che non solo sventolano la bandiera della crescita autonoma ma che intraprendono azioni, politiche e decisioni concrete, coerenti, sostenibili, misurabili, di potenziamento e trasformazione dell’esile struttura economica regionale. Forse sarebbe necessario un “destabilizzatore” esterno, un soggetto centrale – lo Stato, l’Europa – che incoraggi e sostenga gli innovatori regionali, che valorizzi e aggreghi le “eccellenze” locali, che raccolga e coordini le conoscenze locali e quelle esterne.

Un soggetto in grado di destabilizzare l’equilibrio da sottosviluppo, ad esempio imponendo precise condizionalità ai trasferimenti finanziari in termini di chiara identificazione dei risultati attesi, dei tempi di realizzazione, degli attori coinvolti e delle loro inderogabili responsabilità, dei processi di valutazione (ex-ante, in itinere e ex-post), dell’erogazione a stadi di realizzazione effettiva e soprattutto della trasparenza informativa, del coinvolgimento e della partecipazione attiva dei cittadini. A mostrare le realizzazioni raggiunte, il loro valore tangibile per i cittadini e gli scarti rispetto agli obiettivi di partenza.

A pensarci bene, le tre grandi modernizzazioni della Calabria di questo secondo dopoguerra – Riforma agraria, Università della Calabria e porto di Gioia Tauro –, che con più intensità hanno contribuito a trasformare assetti sociali e rappresentazioni simboliche della regione, sono l’esito di forti intenzionalità “esterne”, di spinte determinanti di soggetti istituzionali e imprenditoriali centrali.

Un soggetto esterno non per penalizzare, controllare e bypassare i soggetti regionali, come ad esempio è finora avvenuto con il commissariamento della sanità, bensì un soggetto con la specifica missione di affiancare, sostenere, incoraggiare e rinnovare le istituzioni locali, per irrobustirle con adeguate infrastrutture tecniche e relazionali. L’infragilimento istituzionale e sociale della Calabria è giunto ad un punto così critico che non è più realistico pensare che le forze endogene da sole siano in grado di avviare la risalita. Né sono sufficienti, come la storia dell’ultimo trentennio insegna, le sole risorse finanziarie, per quanto ingenti, a determinare la svolta.

Per rimarginare la piaga è necessario uno sforzo cooperativo di lungo periodo tra forze esterne e forze interne, di coerenti e integrati interventi dall’alto e dal basso, di politiche e azioni rivolte al risanamento civile e alla crescita economica. Della migliore polizia urbana e dei migliori maestri. Senza un primo e un dopo. Non si vedono alternative né scorciatoie possibili.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 gennaio 2021

Le misure per il Sud spia dello sguardo miope della manovra.- di Alfonso Gianni

Le misure per il Sud spia dello sguardo miope della manovra.- di Alfonso Gianni

Habemus legem. Quella di Bilancio verrà approvata entro la fine dell’anno, malgrado fosse stata presentata in parlamento con inconsueto ritardo, evitando così il temutissimo esercizio provvisorio. Non sarebbe stato un buon biglietto da visita per Bruxelles in attesa dei fondi del Recovery.

Gli esponenti della maggioranza hanno voluto sottolineare che il testo del governo è stato arricchito da una discussione bipartisan in cui finalmente il Parlamento ha potuto dire la sua, dopo un anno passato a convertire decreti del governo e a subire ripetuti voti di fiducia. Vero, ma solo per un ramo del Parlamento. La Camera ha discusso, il Senato ha ratificato. Lo stesso Presidente della Repubblica, che avrebbe secondo la Costituzione un mese per farlo, promulgherà la legge nell’attimo di un sospiro.

In sostanza si è realizzata una sorta di monocameralismo di fatto, distorto e distorcente, oppure, se si preferisce, di un’anticipazione della entrata in vigore della riduzione di un terzo dei parlamentari infierendo particolarmente sul funzionamento del Senato ridotto a un moncherino.

Certo, non viviamo in tempi normali, solo che l’eccezione è diventata regola. E’ un anno che si vive di provvedimenti di natura finanziaria, questo è il nono. E non è finita, poiché oltre al tradizionale Milleproroghe a gennaio andrà in scena un altro scostamento di bilancio per finanziare un nuovo “ristoro”. A dimostrazione della fallacia del pareggio di bilancio inserito a suo tempo in Costituzione.

Secondo l’Istat, rispetto al secondo trimestre 2019 gli occupati sono calati di 841.000 unità, di cui quasi la metà under 35 e ieri l’ufficio studi della Confcommercio ha stimato che il tasso di mortalità delle imprese, rispetto al 2019, risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio (dal 6,6% all’11,1%) e più che triplicato per i servizi (dal 5,7% al 17,3%).

Ma guardando l’insieme dei provvedimenti economici lungo l’anno non si scorge che il tentativo di venire incontro all’emergenza.

Difficile non concordare con la tagliente definizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio che definisce questa legge “un coacervo di misure senza disegno”. Ove al tradizionale assalto alla diligenza e alla logica dispensatrice neocorporativa – la pioggia dei bonus, dagli occhiali agli smartphone, alcuni persino più ridicoli che scandalosi – si è aggiunta anche una qualche attenzione ai problemi sociali, tra conferme e novità.

Come i 267 milioni destinati all’assegno di ricollocazione esteso ai disoccupati Naspi e Discoll da oltre 4 mesi e ai cassaintegrati per cessazione di attività; la proroga di 12 settimane di Cig (ma senza oneri per le imprese); le facilitazioni per lo scivolo verso la pensione; la nona salvaguardia per gli esodati; l’istituzione di un fondo di 1 miliardo per il 2021 per l’esonero dai contributi previdenziali per le partite Iva con calo di un terzo del fatturato.

Viene da chiedersi come tra tante provvidenze non sia riuscito a trovare posto il rinvio del taglio del fondo per l’editoria. Domanda retorica, essendo la risposta già nota con la vaga promessa che forse se ne riparlerà nel Milleproroghe.

Mentre per il Sud si ricorre alla solita scelta dello sgravio contributivo per le aziende del 30% fino al 2029. Ma proprio questa norma mostra il fiato corto e lo sguardo miope della manovra. Come diceva lo storico Rosario Romeo la mancata ripresa del Sud – sempre più a fondo in questa crisi – compromette la ripresa nazionale.

Ed è un problema che riguarda i vari sud dell’Europa. Ci penseranno i fondi del Recovery? C’è da dubitarne, visto il modo con cui si stanno preparando i progetti, ostaggio di una lotta scriteriata che vede Renzi protagonista per imporre un Conte ter, ovviamente senza passaggio elettorale che per l’uomo di Rignano sarebbe la disfatta.

Il tema lavoro si riproporrà in termini esplosivi quando finirà il blocco dei licenziamenti il 31 marzo, peraltro già bucherellato da precedenti normative. Lo riconosce lo stesso Conte quando afferma che sulle politiche del lavoro bisogna fare di più e che non si può affrontare l’anno entrante con la legislazione vigente e gli stessi ammortizzatori sociali.

Ma i buoni propositi non fanno una politica. La partita del come utilizzare i fondi europei non si gioca a tavolino, indipendentemente da chi vi è seduto. Senza un conflitto sociale articolato mosso da una proposta alternativa di sviluppo – dalla conversione energetica (ove il tema dell’idrogeno verde è strategico) alla rinascita del Sud, passando per il lavoro e l’universalizzazione del welfare e del reddito di cittadinanza – quella partita è persa.

da “il Manifesto” del 30 dicembre 2020

Il sogno industriale quarant’anni dopo.- di Annarosa Macrì Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Il sogno industriale quarant’anni dopo.- di Annarosa Macrì Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Un evento televisivo, domani mattina, alle 7.30, su Raitre: la replica, quarant’anni dopo, di una delle sette puntate di Calabria ’80, la prima, e ultima, ricognizione per immagini sul sistema produttivo calabrese (industria, agricoltura, turismo e terzo settore), che Tonino Perna ed io realizzammo per la Terza Rete calabrese, allora appena nata.
Sabato 2 gennaio, alla stessa ora, la seconda parte.

Avete presente quando di un allievo che “si applica ma non rende”, si dice: è volenteroso, ma non ha le basi? Ecco, le sette puntate di Calabria ’80, ne (ri)vedrete due, di mezz’ora ciascuna su Raitre il 26 dicembre e il 2 gennaio alle 7,30, rappresentarono per me le “basi” di conoscenza e di analisi del territorio che mi furono indispensabili, nei quarant’anni successivi, per raccontare la Calabria, enigmatca e complessa com’è.

Ebbi il privilegio di avere accanto un compagno di avventure funambolico e rigoroso come Tonino Perna, economista e sociologo, che di quel programma fu l’autore (io ne curai la regia), così quei quattro mesi di sopralluoghi, riprese, incontri e interviste on the road per la regione, dal Pollino all’Aspromonte, dal Tirreno allo Jonio, e poi i tre mesi in moviola che seguirono (il programma fu girato in pellicola da un maestro della fotografia che troppo presto ci lasciò, Tonino Arena), furono la mia seconda università, che mi laureò, davvero!, in “Calabriologia”.

Nessuno prima di noi, e prima di Calabria ’80 (e nessuno dopo, devo dire) aveva realizzato una ricognizione per immagini così attenta e capillare del mondo produttivo calabrese, in un momento topico della storia di questa regione, quando erano passati venti anni dal boom economico (dalle nostre parti, in realtà, niente di più che un’eco fievole se n’era sentita) e dieci anni da quel “Pacchetto Colombo” che c’era piovuto addosso per provare a riempire il baratro di ribellione e disperazione che si era aperto coi fatti di Reggio, e che già manifestava inconguenze, sprechi e fallimenti.

Girammo chilometri di strade, paesi, città e campagne, girammo chilometri di pellicola e realizzammo sette puntate di mezz’ora. Due dedicate all’Industria – un po’ di manufatturiero e di agroalimentare ancora “tirava”, in mezzo ad un cimitero, già!, di deserti e di cattedrali -, due all’Agricoltura – sospesa tra eroica primitività e pionieristica innovazione -, due al Turismo – quello “indigeno” all’epoca appena balbettante, più invasivo, invece, quello dei villaggi turistici e grandi gruppi colonizzatori – e una al Terzo Settore, che cominciava, proprio in quegli anni, a coprire, come poteva, vuoti ed emergenze sociali.

Più imparavo – paesaggi, persone, manufatti, belli, brutti o così così – più li sentivo parte della mia storia e del mio vissuto, roba che mi apparteneva, di cui dovevo farmi carico, perché aveva attraversato le speranze, le sofferenze, le sconfitte e la fatica della mia gente.

La Calabria, dove ero nata, ma dove, anche nell’infanzia, avevo vissuto pochissimo, e che avevo lasciato per andare a studiare a Milano, prima di Calabria ’80, come quasi tutti quelli della mia generazione, praticamente non la conoscevo.

Non era allora il luogo “circolare” che è oggi, grazie anche alle università, che hanno rimescolato saperi, amori ed esistenze, ma, assai più di oggi, era arroccato, e frammentato, nei paesi e nei particolarismi, nelle città e nei campanilismi, che si guardavano, a distanza, – anche ora accade, figurarsi quasi mezzo secolo fa – con diffidenza circospetta se non con malcelato razzismo.

Chi viveva a Reggio, per dire, andava più facilmente a Roma (o a Messina) per studio o per compere, piuttosto che a Catanzaro o a Cosenza, e un catanzarese magari andava a teatro al San Carlo di Napoli, ma non al Rendano di Cosenza o al Cilea di Reggio.

Imparai a conoscerla scoprendola, questa regione, con lo sguardo sorpreso della neofita, che, devo dire, non mi ha più abbandonato; scoprendola, imparai ad amarla, e, dopo quarant’anni, di più la amo. Non solo le sue cose e le sue persone belle (quelle son bravi tutti ad amarle); io m’innamorai pure di quelle brutte e di quelle così così. E, amandola, imparai a raccontarla. Ché, senza amore, non si può.

All’inizio degli anni ottanta, il clima culturale del Paese era quello, irripetibile, della riscoperta delle identità locali, delle tradizione e dei dialetti, contro la società di massa. Il regionalismo amministrativo era ancora bambino e quello culturale era frammentato in mille Calabrie, quando la Rai decise di riaccendere le lucciole periferiche che Pasolini piangeva spente per sempre, una per ogni regione, e nacque la Terza Rete decentrata; investì un bel po’ di risorse sui territori e, dal nulla o quasi, impiantò, anche in Calabria, un piccolo centro di produzione, che non solo realizzava e metteva in onda i primi telegiornali, ma anche inchieste, documentari, talk-show, fiction.

A Cosenza fu reclutato un piccolo esercito di operatori dell’informazione (e io tra di loro, e, con molti di loro, rientrai “dal Nord”): giornalisti, registi, operatori di ripresa, tecnici, autisti, elettricisti. Quasi cento ragazzi, età media 25 anni, competenze certe, concorsi “veri”, assunzioni a tempo indeterminato. Ci era richiesta una grande preparazione culturale, ma nessuno di noi aveva mai visto una telecamera, così imparammo a fare la televisione “facendola”, come un bambino impara ad usare un giocattolo giocandoci; l’entusiasmo era alle stelle, alimentato dalla consapevolezza di essere dei pionieri e dalla accoglienza straordinaria dei Calabresi, specialmente quelli delle aree interne: era una festa quando arrivava “la Televisione” in luoghi così “lontani” e dimenticati, in cui magari non c’era neanche il segnale di trasmissione, e che venivano raccontati per la prima volta: persone senza voce che diventavano importanti, luoghi dimenticati a cui si restituiva la memoria…

Calabria ’80 nacque in questo irripetibile clima e, rivederne adesso due mezz’ore (grazie alla pervicacia del Direttore della Sede di Cosenza Demetrio Crucitti) vuol dire ripercorrere un pezzo fondamentale della storia di questa regione, quando tutto pareva dover (ri)nascere, la Regione, l’Università, l’economia…

Il ritmo lentissimo del montaggio (“allora” per percepire un fermo-immagine avevamo bisogno, da telespettatori, di un “tempo”, quattro secondi!, eterno per gli standard frenetici di oggi) vi darà il senso, guardando Calabria ’80, dell’andamento pigro di una storia che, con fatica, con brusche frenate e affannate ripartenze, nonostante tutto, andava allora e ancora, fiaccamente, va.

Buona lenta visione. Sabato 26 dicembre e sabato 2 gennaio, Raitre, ore 7.30. Calabria ’80. Quarant’anni dopo.

dal Quotidiano del Sud del 24 dicembre 2020
foto wikipedia pontile ex Sir

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Nel febbraio del 1980 iniziai a girare, in lungo e largo, nella nostra regione con un team di Rai 3 per realizzare un programma che si intitolava “Calabria ‘80” ed aveva l’obiettivo di indagare sulle attività economiche, sociali e culturali della nostra Regione. Soprattutto di guardare al presente puntando alle prospettive future di questa terra, già allora considerata come irrecuperabile da una buona parte della stampa nazionale.

Da nord a sud, da est ad ovest, incontrammo piccoli e medi imprenditori, aziende localizzate in borghi antichi e sconosciuti, monumenti storici e siti archeologici abbandonati (uno per tutti il castello di Roccella dove pascolavano le pecore), scoprimmo attività impensabili (come la coltivazione del riso a Sibari, o la nascita di una azienda “Internet” a Piano Lago), e i primi timidi tentativi di attrarre i turisti in Calabria.

Girammo per cinque mesi da febbraio a maggio, con l’occhio attento di Tonino Arena, indimenticabile fotografo e prezioso cineoperatore, producendo decine di chilometri di pellicola che poi, con la regia di Annarosa Macrì, montammo nel mese di agosto in una piccola stanza della Rai di Cosenza. Ricordo ancora la quantità di granite che prendevo ogni giorno per vincere un caldo infernale, e lo stress nel decidere i tagli con la forbice della pellicola, il punto giusto, con la paura di sbagliare e perdere un fotogramma definitivamente. Grazie alla competenza, intelligenza e granitica costanza di Annarosa portammo a termine l’operazione in quattro giorni. Alla fine ne ricavammo sette puntate che andarono in onda tra ottobre e novembre del 1980: due dedicate all’industria, due all’agricoltura, una al turismo, una alle cooperative e al Terzo Settore, last but not least alla cultura.

Oggi, dopo quarant’anni, rivedere queste immagini può risultare un utile esercizio per capire cosa è cambiato e cosa è rimasto, dove ci sono stati miglioramenti e dove invece abbiamo solo rimpianti. Una cosa è certa: prenderemo coscienza che la storia non viaggia in linea retta, che il cambiamento c’è stato, in chiaro scuro, con netti miglioramenti in diversi campi, industria-agricoltura-turismo, e peggioramenti nel paesaggio che scriteriate colate di cemento hanno deturpato e nelle relazioni umane, dove si è persa quella gratuità che ci caratterizzava in passato.
Forse, da questa comparazione ne ricaveremo una iniezione di fiducia in noi stessi, in un momento come questo in cui ne abbiamo tanto bisogno. Questo è l’augurio che faccio ai calabresi e a me stesso.
RAI 3 sabato 26 Gennaio e sabato 2 Gennaio ore 7,30.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 dicembre 2020