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La secessione leghista, il sudismo ed il Sud - L'opposizione "differenziata" del PD ed il silenzio dei 5stelle - di Battista Sangineto

La secessione leghista, il sudismo ed il Sud - L'opposizione "differenziata" del PD ed il silenzio dei 5stelle - di Battista Sangineto

L’Osservatorio del Sud, già il 24 ottobre 2018, metteva in guardia, con un Appello, l’opinione pubblica riguardo alla strisciante secessione da parte del Nord, da parte dei ricchi. L’appello, pubblicato su “il Manifesto” e su “il Quotidiano del Sud”, è stato firmato da decine di intellettuali ai quali si sono aggiunte centinaia di cittadini, professionisti, giornalisti, insegnanti, sindacalisti, parlamentari, impiegati, segretari di partito, docenti e studenti universitari. L’Osservatorio ed i suoi membri hanno tenuto alta, in questi mesi, l’attenzione sul “Regionalismo differenziato” pubblicando decine di articoli sul sito web dell’Associazione e su “il Manifesto”, “il Mattino”, “il Messaggero”, “il Quotidiano del Sud” etc.

In un paese assai differenziato per storia e realtà locali e regionali come l’Italia, ma anche così diseguale nei livelli di reddito fra i suoi territori, le scelte relative al decentramento devono essere attentamente valutate perché non si trasformino, come di fatto sta avvenendo, in secessionismo, in secessionismo dei ricchi, come scrive Viesti. Il secessionismo, il separatismo non è un’utopia politica romantica identitaria, ma è un attacco in piena regola al nucleo più importante della garanzia di cittadinanza, cioè lo stato di diritto. Secondo il filosofo spagnolo Fernando Savater, il separatismo è da intendere come un’aggressione deliberata, calcolata e organizzata contro le Istituzioni democratiche e contro i cittadini che le sentono proprie. Non a caso il diavolo è, secondo una etimologia, il separatore, dia-ballo, colui che separa e rompe i legami stabiliti, e separare coloro che vivono insieme è il misfatto antiumanista per eccellenza. Il difetto diabolico del secessionismo è proprio questo: seminare la discordia, dividere gli uomini e gli animi… Ed è in questa temperie socio-economica e cultura che la Lega, negli ultimi 25-30 anni, ha talmente insistito che il centrosinistra di governo, nel 2001 (governi D’Alema-Amato), l’ha inseguita fino a modificare, negli ultimi giorni della legislatura, in modo orrendo e frettoloso il Titolo V della Costituzione. Le attuali richieste leghiste sono conseguenza diretta di quella sciagurata modifica fatta dal centrosinistra al governo.

Alle rivendicazioni egoistiche e separatistiche della Lega devo registrare che, in questi ultimi anni, si è aggiunto, anche a sinistra purtroppo il sudismo (penso alle improbabili coalizioni rivendicazioniste vagheggiate da De Magistris ed Emiliano). Il sudismo è un sentimento auto-consolatorio, speculare alle rivendicazioni leghiste, che asseconda e rafforza l’idea che i colpevoli sono gli altri, che sono altrove, che sono al Nord, ma non i meridionali che hanno solo subìto la repressione e lo sfruttamento (ne ho scritto io, ma ne ha appena scritto Vito Teti).

Per chiudere in maniera definitiva, spero, con queste rivendicazioni neoborboniche, con queste retrotopie (direbbe l’ultimo Zygmut Bauman) mi piace riportare un passo di Antonio Gramsci tratto da “La Questione meridionale” (Roma 1966, p. 159): “La Italia unificata aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola, meridionale e settentrionale, che si riunivano dopo più di mille anni. L’invasione longobarda aveva spezzato definitivamente l’unità creata da Roma, e nel Settentrione i Comuni avevano dato un impulso speciale alla storia, mentre nel Mezzogiorno il regno degli Svevi, degli Angiò, di Spagna e dei Borboni ne avevano dato un altro. Da una parte la tradizione di una certa autonomia aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d’Europa, propizia allo svolgersi ulteriore del capitalismo e dell’industria. Nell’altra le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva”.

La conclusione, ancora attuale, alla quale giunge Gramsci è che sarebbe stato impossibile il riscatto del Mezzogiorno italiano senza la formazione e la maturazione della borghesia, dei ceti urbani meridionali, del proletariato e la loro trasformazione in classe dirigente. Dalle reazioni suscitate dall’inaugurazione del Museo della Ferriera di Mongiana, per esempio, e da molti altri sintomi antistoricamente filo-borbonici, emerge con chiarezza che questa maturazione, a 150 anni dall’unità, non c’è stata e che una vera e seria classe dirigente meridionale non si è ancora formata. Il filo-neoborbonismo è un sentimento del tutto contrario alla necessaria, secondo il mio avviso, assunzione di responsabilità e di incapacità che i meridionali ed i calabresi, dopo settant’anni di libere elezioni, devono prendersi: non siamo stati in grado di uscire dal sottosviluppo economico, sociale e culturale.

Il filosofo spagnolo Fernando Savater (in Contro il separatismo, Laterza, 2018) sottolinea gli effetti negativi che ha avuto la regionalizzazione dell’istruzione in Spagna su “l’unità democratica fra i cittadini”. Per Savater, il peccato fondamentale del nazionalismo è quando si trasforma in separatismo. “L’attaccamento alla propria terra, questa specie di orgoglio narcisista un poco infantile per il proprio gruppo di appartenenza, può anche essere tollerabile, ma non quando diventa la tentazione di umiliare i propri vicini o di sfasciare un paese”. Il pamphlet enumera puntigliosamente sette motivazioni contro il separatismo, che è: antidemocratico, retrogrado, antisociale, dannoso all’economia, destabilizzante, crea amarezza e frustrazione, crea un pericoloso precedente. Dice, testualmente: “Volevo sottolineare un punto importante: le democrazie non appartengono ai territori, ma ai cittadini. Sono gli stati che concedono la cittadinanza. Tornare di nuovo ai territori come concessori di cittadinanza vuol dire tornare indietro”.

Le somiglianze fra le recenti vicende della Catalogna, stigmatizzate da Savater, e quelle delle tre regioni, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, sono assai maggiori di quanto comunemente si ritiene.

E’ vero che anche in Italia ci sono Regioni e Province a statuto speciale, ma le 5 che, al momento della richiesta di autonomia, godevano di regimi speciali erano aree periferiche (per insularità o prossimità ai confini nazionali), con un’economia debole, e la loro richiesta di forme speciali di autonomia era motivata essenzialmente dalla tutela della propria specifica identità storico/ culturale e dalla preoccupazione di emarginazione da parte dello Stato centrale. Il federalismo differenziato dei giorni nostri nasce, e cresce, in un contesto tutto diverso.

La maggioranza degli studi scientifici prodotti in questi ultimi anni, dimostra come il decentramento, soprattutto se particolarmente ampio, possa favorire processi di divergenza economica, sociale e culturale fra i diversi territori all’interno di un paese. I risultati, secondo Viesti, sono diversi da caso a caso; ma certamente l’evidenza a nostra disposizione non consente di sostenere, al contrario, che un maggiore decentramento favorisca la convergenza economica fra le regioni.

Il 28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni generali del 4 marzo, il Governo Gentiloni, per tramite del Sottosegretario di Stato Gianclaudio Bressa (di Belluno; allora del PD, ora è nel gruppo SVP-Autonomie) ha concluso con ciascuna delle tre regioni succitate una Pre-Intesa sul regionalismo decentrato. Vale la pena sottolineare che la Regione Emilia-Romagna è a guida Pd, presidente Stefano Bonaccini, e che i Consiglieri regionali del Pd di Veneto e Lombardia hanno votato a favore del “regionalismo differenziato” della Lega.

Quando nella nuova legislatura è entrato in carica il governo Lega Nord-Movimento 5 Stelle, nel “contratto di governo” da essi sottoscritto si legge al punto 20 che è “questione prioritaria nell’agenda di Governo l’attribuzione, per tutte le Regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione.   La delega per la materia è stata attribuita alla Ministra Erika Stefani” (di Vicenza, della Lega Nord). Nell’autunno la Stefani ha dichiarato di aver predisposto le bozze delle Intese con le tre regioni, pronte per l’approvazione in Consiglio dei Ministri, inizialmente ipotizzato per il 22 ottobre, ma slittò. A seguito del Consiglio dei Ministri tenutosi il 21 dicembre 2018 è stata annunciata la firma delle Intese, da sottoporre successivamente al voto parlamentare per il 15 febbraio 2019, senza possibilità di discussione in Aula.

Ma qual è il punto principale delle pressanti richieste da parte di queste tre Regioni? Naturalmente gli sghei, come direbbero i veneti e, per l’esattezza il cosiddetto residuo fiscale.

Il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo. La stima viene fatta sottraendo dalla spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa, quel territorio riceve meno spesa rispetto alle tasse versate; ciò significa che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore (Viesti). I dati indicano un residuo fiscale certamente negativo, in ordine di dimensione, per cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana.

I Padri costituenti hanno voluto che il bilancio pubblico in Italia determini una redistribuzione tra territori che, per la quasi totalità, avviene senza che vi sia un obiettivo esplicito di redistribuzione territoriale, ma come semplice conseguenza della eterogeneità della distribuzione nelle varie aree degli individui secondo le caratteristiche rilevanti per l’erogazione della spesa (età, stato di salute, condizione lavorativa, reddito, ecc.) e il suo finanziamento (il reddito, i consumi, la ricchezza, ecc.).

Il criterio al quale i nostri Padri costituenti si sono ispirati è quello dell’equità orizzontale (trattare individui uguali in modo uguale), che implica che il residuo fiscale (il saldo tra i benefici ricevuti dalla spesa pubblica e il contributo al finanziamento della spesa) sia lo stesso per individui che si trovano nella stessa posizione riguardo alle caratteristiche ritenute rilevanti (reddito, età, stato di salute, ecc.). Questo criterio è stato adottato non solo in Italia, ma in tutti i paesi, e sono tanti, nei quali vi sono norme costituzionali che stabiliscano l’accesso ad alcuni diritti di cittadinanza indipendentemente dal reddito dei singoli.

Con la modifica del principio costituzionale sopra citato si creerebbero, invece, italiani di serie A e di serie B, fra le regioni, all’interno delle regioni (Milano ed il resto) all’interno delle città (il centro storico ed il resto) e via via fino al singolo individuo secondo l’ideologia individualista corrente.

Grazie alla crisi che ha colpito pure il Nord, si è creata, nelle regioni più ricche, la convinzione che sia molto più importante promuovere la competitività delle aree già più forti del paese, invece di puntare ad un rilancio dell’intera economia nazionale. I veneti, per esempio, vorrebbero i 9/10 delle tasse raccolte nel proprio territorio vi rimanessero, sottraendoli, così, alla fiscalità nazionale e sancendo, di fatto, la secessione dei ricchi.

Rapportare il finanziamento dei servizi al gettito fiscale significa stabilire un principio incostituzionale ed estremamente pericoloso: i diritti di cittadinanza, a cominciare da istruzione e salute, possono essere diversi fra i cittadini italiani; maggiori laddove il reddito pro-capite è più alto, minore dove è più basso.

Le ulteriori autonomie concesse dal “regionalismo differenziato” da un lato indeboliranno le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni, dall’altro accentueranno iniquità e diseguaglianze disgregando definitivamente l’universalismo, per esempio, del SSN, perché le risorse trasferite alle Regioni, insieme alle competenze aggiuntive, potrebbero intaccare le fonti di finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale

Come scrive Enzo Paolini, negli atti preliminari ed accompagnatori al regionalismo differenziato, si afferma che l’obiettivo sarebbe quello di “una maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione limitatamente agli assistiti residenti nella regione”… poi per “la selezione della dirigenza sanitaria”…. “per l’organizzazione della rete ospedaliera” e per “assistenza farmaceutica”, superando i “vincoli di bilancio nell’equilibrio economico – finanziario”.

La traduzione di Paolini è la seguente: “siccome il gettito fiscale delle Regioni del nord deve rimanere in gran parte sul territorio occorre che a deciderne la spesa sia la politica locale e che ad usufruire del servizio sia solo la popolazione ivi residente. Dunque, un padovano o un modenese potranno avere livelli di assistenza più estesi, potranno accedere ad una rete ospedaliera più moderna ed efficiente, ed avranno una assistenza farmaceutica maggiore di quella attuale. Gli ospedali delle loro città e della loro regione potranno avere rimborsi maggiori e comunque godere di sostegni finanziari non condizionati dalle ripartizioni negoziate nella conferenza Stato- Regioni e potranno assumere più medici ed ottenere servizi accessori di maggiore qualità”.

Benefici che saranno riservati solo ai cittadini residenti nelle regioni “ad autonomia differenziata” tanto che il calabrese, o il lucano, sarà sempre meno assistito nella sua regione, la quale potendo contare solo sul gettito fiscale dei propri cittadini, sarà sempre più povera e sempre meno in grado di assicurare i LEA (livelli essenziali di assistenza), di costruire e mantenere ospedali degni e di assicurare cure efficienti (al netto delle ruberie e nonostante il valore e l’eroismo dei suoi medici). E se vuole curarsi a Milano (cioè in una regione che tutela solo i propri residenti) dovrà pagare la differenza tra il piccolo rimborso che sarà possibile alla Regione Calabria e quanto prevede per la spesa sanitaria pro-capite la Regione Lombardia.

Tra pochi giorni, dunque, grazie al governo gialloverde verrà cancellata una delle grandi conquiste di civiltà del nostro paese: “il Servizio Sanitario Nazionale improntato ai principi di universalità e solidarietà in base al quale tutti i cittadini italiani, indipendentemente dalle loro origini, dalla loro residenza, dal censo sono curati allo stesso modo con oneri a carico dello stato, mediante il prelievo fiscale su base proporzionale. Si chiamava perequazione fiscale e grazie ad essa le classi più ricche pagavano più tasse per aiutare quelle più povere a curarsi, ad istruirsi, ad avere i servizi di base”.

Facciamo un altro esempio ancora: la Regione Veneto vuole, persino, legiferare in materia di tutela dell’ambiente, di tutela e valorizzazione dei Beni Culturali, di governo del territorio, sulla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione, su collocamento e servizi per l’impiego, sui rapporti internazionali e con l’Unione Europea. Il Veneto chiede la stessa manovrabilità sui tributi regionali e locali chiedendo il trasferimento delle funzioni amministrative delle Sovrintendenze per i Beni culturali, violando in questo modo persino l’articolo 9 della Costituzione (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

Le ville venete, dunque, saranno meglio tutelate e valorizzate, mentre l’antica Sibari continuerà ad allagarsi.

La competenza più gravida di conseguenze a lunga scadenza richiesta dalle tre Regioni è, però, l’istruzione. La Regione Veneto, come la Lombardia, richiede, infatti, che le “norme generali sull’istruzione” divengano oggetto di legislazione regionale, concorrente, fra l’altro, nella disciplina delle finalità, delle funzioni e dell’organizzazione del sistema educativo regionale, e nella disciplina dell’organizzazione e del rapporto di lavoro del personale delle scuole. Chiede, inoltre, che le venga attribuita una competenza legislativa residuale con riferimento, tra l’altro, alla disciplina della programmazione dell’offerta formativa integrata e dei contributi alle istituzioni scolastiche paritarie; che debba spettare alla legge regionale disciplinare sia l’istituzione di ruoli per il personale delle scuole, sia la determinazione della sua consistenza organica, e stipulare contratti collettivi regionali (Viesti). Tutto il personale della scuola passerebbe, quindi, alle dipendenze della Regione ed i programmi non saranno più quelli ministeriali uguali per tutti, ma saranno dettati dalle Regioni. Via libera, dunque, ai dialetti, alle storie riscritte o revisionate, alle opere letterarie dialettali e così via. Gli insegnanti saranno solo quelli residenti ed i nostri laureati meridionali saranno, con tutta probabilità, sottoposti a regolamentazione da ricattatorî “flussi migratori” come i lavoratori extracomunitari.

La Regione Lombardia richiede anche la regionalizzazione del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università con lo scopo, evidente, di vederlo sensibilmente aumentare per i propri atenei (e corrispondentemente diminuire per gli altri). Una Università è virtuosa se l’indicatore spese personale è sotto l’80 per cento e se l’Isef (indicatore di sostenibilità economica e finanziaria) è sopra l’1. Nel complesso il calcolo tiene conto dell’impatto delle spese ordinarie (spese del personale, oneri, fitti) sulle entrate fisse che sono rappresentate dal fondo di finanziamento statale e dalle tasse degli studenti. La quantità di tasse è, ovviamente, più grande negli atenei settentrionali, dove si incassa di più perché maggiore è il gettito fiscale, potendo contare su famiglie mediamente più ricche e con un Isee più alto. Per fare un solo esempio, all’Unical, dove insegna chi scrive, le tasse sono inferiori alla media nazionale, e i due terzi dei nostri studenti sono nella no tax area, ci dovremo accontentare di un turn over pari solo all’80 % o addirittura del 70% ed un taglio dei fondi destinati alla ricerca del 30 o 40%, come è già parzialmente avvenuto con l’ultima Legge finanziaria.

Si tratta di una vera e propria regionalizzazione della scuola e dell’Università che determinerebbe, ancor più in assenza della determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni da garantire sull’intero territorio nazionale, una crescente sperequazione nell’istruzione fra i giovani italiani; disparità negli aspetti normativi ed economici dei docenti; l’intrusione delle autorità regionali nelle finalità stesse della scuola.

L’autonomia differenziata regionale così intesa modifica il funzionamento del paese, frantuma alcuni fondamentali servizi pubblici e determina, dunque, differenti diritti di cittadinanza in base alla residenza.

Bisogna, dunque, opporsi con tutta la forza e la determinazione di cui siamo capaci per evitare la regionalizzazione della sanità e della scuola perché minano le fondamenta della vita civile di questa nazione. Bisogna combattere e sconfiggere gli egoismi, gli individualismi ed i localismi generati da un modello economico, sociale e culturale ultraliberista. Bisogna ricostruire un fronte comune che ci faccia riguadagnare questi elementari diritti di eguaglianza ed equità.

In un libro appena uscito, Mario Tronti sostiene che l’unica strada per la ricostruzione di una sinistra antiliberista ampia e di popolo, in Italia, è quella della riforma dei soggetti collettivi, di lotta e di consenso, di rappresentazione e di azione, sindacati e partiti, con intorno nuove forme solidaristiche di movimento e di cooperazione, di mutuo soccorso sociale e di pratiche politiche di base. La rilegittimazione della politica passa attraverso la restaurazione di un rapporto di fiducia tra il basso e l’alto, tra popolo ed élite. Un’impresa ardua allo stato delle cose, ma l’unica forse in grado di riaprire un processo rigenerativo, direi redentivo, dello spirito pubblico ora in agonia.

Questa è una buona occasione non solo per provare a stare insieme per conseguire un risultato importante per il Sud, ma che potrebbe anche essere solo l’inizio di una possibilità di stare insieme per costruire un progetto, un’idea di Mezzogiorno che non sia basato su inutili e antistorici rivendicazionismi, ma su proposte concrete e realizzabili.

Ricordo, ancora una volta, che uno dei primi atti del “New Deal” di Franklin Delano Roosevelt fu quello di progettare e finanziare un gigantesco piano di restauro del territorio che impegnò, a partire dal 1933, alcune centinaia di migliaia di ragazzi fra i 18 e i 25 anni. Negli anni che seguirono due milioni di giovani lavoratori, chiamati “L’armata degli alberi di Roosevelt”, piantarono 200 milioni di alberi, rifecero gli argini dei torrenti, allestirono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe e strade di collegamento, scavarono canali per l’irrigazione, gettarono ponti, combatterono le malattie degli alberi, ripulirono spiagge, terreni incolti e monumenti. Bernie Sanders, insieme alla giovane neoparlamentare Alexandria Ocasio-Cortez, ha lanciato, dalle colonne del “The New Yorker” del 7 febbraio, un nuovo Green New Deal proponendo un progetto di conversione radicale ad una economia non più inquinante, un rafforzamento della politica antitrust, la protezione del diritto dei lavoratori ad organizzarsi, la garanzia di assistenza sanitaria di alta qualità per ogni americano, un piano di costruzione o rigenerazione di alloggi economici, sicuri e adeguati per tutti. La proposta più ambiziosa e perequativa è, però un grandioso programma di lavoro per tutti: ogni americano avrà un’opportunità di lavoro legata al progetto di transizione dell’America verso un’energia pulita e sostenibile. Questo Green New Deal sarà finanziato, come quello di Roosevelt, con il debito pubblico, dallo Stato.

Ecco cosa ci vorrebbe per il Mezzogiorno: un New Deal fondato sul restauro dei paesaggi naturali e storici, dei paesaggi agrari e urbani; un New Deal dei paesaggi nel quale la redditività del nostro patrimonio storico e naturale non risieda solo nella sua commercializzazione, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che creerebbe la ricomposizione materiale e immateriale dei luoghi, dei paesaggi.

 

Le radici e i pretesti della secessione del Nord di Vito Teti

Le radici e i pretesti della secessione del Nord di Vito Teti

 All’inizio degli anni Novanta – in un contesto mondiale e nazionale profondamente mutati (il crollo del Muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, guerre “locali”, razzismi e xenofobie che esplodono nell’ex Iugoslavia, Tangentopoli, la fine della prima Repubblica, le stragi mafiose e l’uccisone di Falcone e Borsellino) ecc.) si verifica (dopo una lunga sedimentazione) la grande affermazione politica ed elettorale della Lega lombarda. Le posizioni antimeridionali e razziste della Lega vengono allo scoperto, illustrate dai suoi maggiori esponenti politici, tradotti in slogan duri, fastidiosi, efficaci. Diverse scritte, rilevate e fotografate in quel periodo di trionfo elettorale, che evidentemente rendeva sicuri e arroganti anche quanti prima mormoravano a bassa voce, sono emblematiche per comprendere gli umori alimentati dai dirigenti leghisti.

«Negri sì Terroni no»; «Il terrone accettalo…con l’accetta»; «I meridionali in toga I nostri figli in tuta»; «Aspromonte ano d’Italia»; «Napalm sull’Aspromonte»; «Stato ladrone Stato terrone»; «Terrone usa il sapone»; «O la Mafia o La Lega»; «I Bresà en Fonderia – I Terù a L’Inps»; «Terroni go home»; «La mafia non è povertà ma una mentalità»; «State in Africa»; «Forza Etna»; «Benvenuti in Italia» (negli stadi nelle partite con il Napoli, l’Avellino, ecc.); «Giustizia terrona Giustizia cialtrona»; «Giudici lombardi in Lombardia» (su un manifesto della lega Nord); «Lisciotto Terrone torna in Meridione» (con riferimento al Procuratore Capo della Repubblica di Brescia).

Maledizione, bruttezza, degenerazione, barbarie, sporcizia: il vocabolario dell’antropologia positivista serve ormai a dare voce a un nuovo risentimento e solidità a una forza politica, che intercetta il malessere di ceti popolari insicuri. Vengono augurati ed auspicati terremoti, pena di morte, cancellazione del Sud dalla carta geografica.

L’ostilità, la diffidenza, il rancore antimeridionale, di cui abbiamo avuto un variegato e significativo panorama su molta stampa nazionale in occasione di catastrofi naturali (come l’alluvione a Crotone) hanno radici lontane e profonde. Esse riaffiorano soprattutto ogni qual volta i ceti dominanti del Nord vedono messa in discussione i loro interessi, la loro capacità egemonica e forza espansiva. Mafie, ceti politici corrotti e clientelari, professionisti collusi con la criminalità si rendono protagonisti di episodi inquietanti e di vicende cruente che finiscono con portare acqua al mulino dell’ideologia leghista. Alimentano e servono a implementare lo stereotipo.

 

Il nuovo paradigma razzista dell’inferiorità dei meridionali

La novità della devastante di quella ondata di «antisemitismo italiano», sempre presente anche se in maniera sotterranea e quasi mai esplicitata nelle scelte economiche e politiche dei ceti dominanti (e non solo) del Nord, con il sostegno e la complicità di un ceto politico corrotto, clientelare, “illegale” del Mezzogiorno, consisteva nel fatto che, dall’inizio degli anni novanta, diventa sentimento strutturato, organizzato, diffuso, teorizzato e utilizzato nella battaglia politica. Il Nord, una parte politica del Nord, molto semplicemente, se ne voleva andare, desiderava «separarsi». Eppure era facile accorgersi che le due entità geografiche, culturali, morali erano ormai mescolate ed erano l’esito di un processo unitario di oltre un secolo. Difficilmente potevano essere “divise”, sia nei successi che nelle responsabilità, sia nelle conquiste che nelle degenerazioni. Bene e male, inferno e paradiso, bellezze e rovine convivono e fanno parte dell’intera nazione.

Il Sud ridiventa la causa della mancata crescita delle regioni del Nord e i meridionali sono i responsabili del degrado dell’Italia, della corruzione imperante, del sistema delle tangenti.

Tornavano in auge, con qualche modesto, non sostanziale, aggiornamento, le posizioni razziste del periodo positivista: adesso non c’erano più i grandi e lucidi “meridionalisti” e nemmeno forze politiche credibili, capaci di rispondere con argomenti credibili. Gianfranco Miglio, lontano dalle cautele e dalle preoccupazioni elettorali dei dirigenti leghisti (a votare Lega, com’è noto, sono stati anche numerosi meridionali emigrati al Nord) dichiara, in maniera dura e chiara, di non «amare i meridionali». L’ideologo della Lega, al quale oggi molti sindaci del Carroccio intitolano strade o edifici, come si fa con i padri della patria, con un chiaro gioco delle parti con i Bossi e i Moroni, il giovanissimo Salvini, afferma di basare il suo rifiuto su considerazioni di tipo antropologico.

Miglio, come dichiara a molti giornalisti, che diffondono il suo credo senza alcun commento critico, è impegnato, in quegli anni, assiduamente in un’opera di preparazione e scrittura della Costituzione delle popolazioni dell’Italia meridionale, adatta al loro temperamento e alle loro caratteristiche culturali. L’ideologo leghista sostiene che nel Sud esiste ancora una cultura che rimpiange la «civiltà classica» e non sa vivere nella società moderna.

Miglio riprende tutte le invenzioni e le descrizioni degli antropologi positivisti, senza tenere conto delle risposte e delle analisi dei meridionalisti, degli autori e degli scrittori meridionali, di un secolo di storia che aveva cambiato il volto dell’Italia e nel corso del quale i meridionali sono diventati protagonisti della vita economica e sociale del Nord e hanno introdotto pratiche lavorative, organizzative, operosità in grado di sconfessare il luogo comune del meridionale ozioso. Le riflessioni «antropologiche» di Miglio sono la riproposizione aggiornata di consolidati luoghi comuni e antichi stereotipi.

Il passato non passava: era importante reiterare che l’affermarsi di posizioni “razziali” e razziste anche senza razza, questa volta ha come obiettivo non più il federalismo tra entità territoriali diverse, ma la separazione di entità che si sono, sia pure faticosamente, con dualismi permanenti, uniti. Il neorazzismo culturale aveva ragioni economiche e motivazioni politiche.

Nel 1993 ne La razza maledetta segnalavo il rischio che alle tendenze secessioniste del Nord, il Sud potesse rispondere, come ricordava Giovanni Russo, con miti e nostalgie filoborbonici, scendendo sul terreno «separatista» prediletto dai leghisti (I nipotini di Lombroso, 1992). Isaia Sales (Leghisti e sudisti, 1993) temeva che in Italia ci si dividesse in «leghisti» e «sudisti». A distanza di un ventennio, possiamo costatare come quei rischi fossero concreti e del tutto fondati. Alla lunga sono affiorate, al Sud, accanto a risposte serie e aperte, posizioni localistiche funzionali al sentimento antiunitario della Lega. Nel tempo, la Lega ha occultato il razzismo antimeridionale con la xenofobia anti-immigrati, che spesso ha contagiato anche il Sud. Come scrivevo in vari saggi e articoli tra il 2011 e il 2014, i localismi al Nord e al Sud sembravano trovare una sorta di incontro in nome di una presunta difesa dell’Occidente dalle invasioni degli stranieri. Qualcuno sottovalutava i discorsi razzisti che sono proliferati nelle nostre campagne e nei nostri paesi contro immigrati e stranieri. Non ci si accorgeva che chiusure anguste, difese d’ufficio di un’inesistente identità pura e incontaminata, gruppi xenofobi e localisti, organizzazione criminale e pensiero filondranghetista potrebbero trovare una convergenza di interessi concerti e di rassicurazioni e garanzie (a proposito di retorica di uno pseudogarantismo complementare e funzionale alla retorica, di segno contrario, dell’antimafia) nella Lega “nazionale” di Salvini, sempre meno interessata alla Padania, ma interprete di tutte le forme di opposizione allo straniero e agli altri inserite in una cornice nazionale, come è avvenuto per il lepenismo in Francia. E così nata come movimento politico antimeridionale e separatista, la Lega si è trasformata, nel tempo, in movimento anti-immigrati che mette assieme i tanti localismi, le paure, le ansie, le xenofobie, le retoriche identitarie presenti ovunque in Italia, anche nel Sud, e, come sappiamo, nel resto di Europa. L’Italia non viene più pensata e unita per guardare, in maniera autonoma, all’Europa e al mondo, ma viene unificata nel nome di localismi, separatismi, distinzioni contro un nuovo nemico esterno.

La possibile penetrazione (che è ormai avvenuta, ma così prevedevo nel 2014) leghista anche nel Meridione e nelle isole segnala le responsabilità e le ingenuità, la “cattiva coscienza”, di tanti commentatori che si sono rinchiusi in proclami con le insegne logore del localismo meridionale, della lamentela identitaria sul buon tempo antico, del revisionismo più retrivo e scadente. Il tutto attraverso la negazione subdola di quella cultura meridionale illuminata, illuminista, risorgimentale, meridionalista che è quanto di più originale e innovativo e oppositivo abbiano prodotto dalla fine del Settecento ai nostri giorni le élites pensanti e critiche del Meridione o amiche del Meridione.

La secessione subdola e occultata.

Adesso, con il federalismo fiscale, nei modi e nelle forme voluti da Veneto e Lombardia (per questi aspetti rinvio a contributi di Viesti, Bevilacqua, Cersosimo, Perna, Sangineto, Abruzzese e tanti altri che fanno parte dell’Osservatorio del Sud), in maniera miope sostenute da gruppi e forze politiche, localistiche e anguste del Sud, quel separatismo e quella secessione che non erano riusciti a realizzare la Lega di Bossi e Miglio, sembra potersi attuare nel momento in cui non si fa che proclamare “L’Italia agli italiani”. In realtà il paradosso di questi slogan elettoralistici non fanno altro che sottrarre alcune regioni del Nord e del Sud all’Italia e concorrono ad aumentare una separazione Nord-Sud che, se andasse in porto, ci restituirebbe tanti piccoli, poveri, irrilevanti piccoli Stati, incapaci di affermare un’Europa diversa, profondamente diversa, da quella finora conosciuta, ma anzi alimentatori e moltiplicatori di conflitti che potrebbero portare di nuovo a una catastrofica guerra che, pure con tutti i suoi difetti e le sue storture, l’Europa unita, almeno l’idea e il sogno dell’Europa unita, avevano scongiurato per oltre settant’anni. Il Sud – le istituzioni pubbliche, i Comuni, le Regioni, il sindacato, la Chiesa, i partiti, i movimenti, gli intellettuali – anche con una diversità di posizioni non possono restare muti e silenti dinnanzi a una prospettiva non tanto remota che renderebbe ulteriormente le nostre terre luoghi desolati, oppressi da mafie e corruzione, con paesi vuoti e giovani che fuggono.

Non esistono più alibi. Non basta dare la colpa sempre agli altri. Non serve autoassolverci o autodemolirci. Non serve tornare a retrotopie neoborboniche, a rimpianto di un Eden mai esistito, a rivendicazioni localistiche e separatiste di segno contrario a quello delle ricche regioni del Nord (ricche grazie anche alle risorse del Sud, ai meridionali emigrati). Non servono piccoli interventi provvisori e senza un respiro futuro; ben vengano sostegni e contrasti alla povertà, ma non si pensi a creare una massa di giovani amorfi e senza lavoro, che darebbero l’ennesimo pretesto alla regioni del Nord per rivendicare un’autonomia contro il solito Sud assistito, ozioso, in attesa di sostegni esterni. La partita si gioca qui ed ora. A livello politico, economico, culturale.

C’è bisogno di un grande progetto antagonista, in controtendenza, di un piano di lunga durata, per il Sud, i suoi paesi, le sue citta, le sue montagne, le sue marine. Ognuno, con la sua capacità, le sue capacità, le sue posizioni – con una pluralità di voce – deve decidersi. Siamo chiamati ad affermare una nuova soggettività, a costruire un’identità aperta, inclusiva. Valgono ancora i versi amari di Franco Costabile:

Prima dell’acqua
la Corte d’Assise.
Prima del sole
… la mosca olearia.
E giorno fu.
Ecco,
io e te, Meridione,
dobbiamo parlarci una volta,
ragionare davvero con calma,
da soli,
senza raccontarci fantasie
sulle nostre contrade.
Noi dobbiamo deciderci
con questo cuore troppo cantastorie.

 

Caro Emiliano, ti scrivo di Piero Bevilacqua

Caro Emiliano, ti scrivo di Piero Bevilacqua

Caro presidente Emiliano,

come ben sa, il governo in carica, sotto l’impulso del partito della Lega, è in procinto di varare una legge che assegnerà alla regione del Veneto autonomie in ben 22 due materie e soprattutto uno   regime fiscale privilegiato. Quanto questo passo sia gravido di conseguenze per le regioni del Mezzogiorno, e per la tenuta futura dell’intera impalcatura del Paese, è stato denunciato da più parti. Anche da istituzioni autorevoli e indipendenti come l’ Istat e lo Svimez. Dunque non entrerò analiticamente nel merito di questa proposta che lei certamente ben conosce, né delle tante prevedibili conseguenze della sua applicazione. Anche se è il caso di rammentare che forse solo in Italia, tra i Paesi UE, accade un così singolare pervertimento di un dogma del pensiero liberista,   disciplinatamente seguito, negli anni, da tutti i governi della Repubblica. Vale a dire la ritirata dello Stato da ogni ingerenza nella vita economica, da lasciare, senza lacci e laccioli, come diceva qualcuno, alle libere forze del mercato. Nel caso della legge in questione si fa un passo ulteriore . Ora lo stato non si limita a contenere le disuguaglianze con una politica fiscale che contenga in qualche modo le spinte disgregatrici del mercato, ma prende esso stesso l’iniziativa per creare disparità e disuguaglianze tra i territori e i cittadini del nostro Paese.

Mi permetto di ricordarle questo, caro presidente – da storico che ha passato una vita a studiare il nostro Stato nazionale e soprattutto il nostro Sud – che lo stravolgimento isituzionale in progetto potrebbe avviare il declino irreversibile dell’Italia.Alcuni processi politici, una volta avviati, diventano irreversibili. E viene in mente a proposito il nostro Machiavelli, che alle << cose di stato>> applicava le metafore del corpo e delle malattie. Per cui, ricordava il grande Fiorentino, vi sono malattie che << nel principio è facile a curare e difficile a conoscere: ma nel progresso del tempo, non avendo nel principio conosciuta né medicata, diventa facile a conoscere e difficle a curare .>>

Perché mi rivolgo a lei? Perché lei non è solo il presidente di una delle Regioni più dinamiche dell’Italia meridionale, ma è anche un’autorevole figura politica di rilievo nazionale. Non solo, ma essendo lei un presidente non certo chino sulle carte, e anzi capace di iniziative coraggiose alla testa della popolazione che governa, rappresenta volente o nolente, un punto di vista politico-istituzionale di prim’ordine. Che lo voglia o no, caro presidente, il suo silenzio in questo momento, su questo gravissimo progetto legislativo, suona come acquiscienza e accettazione. Forse peggio, può essere interpretato come miope interresse di breve periodo, dettato dal calcolo di potere ottenere in cambio maggiore autonomia nel governo della Puglia.

Mi permetto di dire che lei dovrebbe fugare al più presto tali sospetti. E che anzi molti si aspettano da lei una iniziativa energica, com’è nel suo stile e nelle sue capacità, in difesa delle ragioni di tutto il Mezzogiorno. Le quali, mai come in questo caso, coincideono con quelle dell’Italia tutta intera.

Con i più cordiali saluti

 

Piero Bevilacqua

Pseudo Federalismo asimmetrico,: ricchi più ricchi, poveri più poveri di Massimo Veltri

Pseudo Federalismo asimmetrico,: ricchi più ricchi, poveri più poveri di Massimo Veltri

 C’è stato un periodo, intorno a vent’anni fa, in cui i governi nazionali scoprirono la Questione Settentrionale. E insieme a questa scoperta individuarono nell’eccesso di statalismo-con annesse farraginosità, pesantezze e rischi ci corruzione e collusione-da un parte, e dall’altra nella semplificazione e nell’alleggerimento se non la cancellazione dei controlli la risposta che si poteva e doveva offrire per mostrarsi pronti ad accettare la sfida della competizione e della modernità. In verità la questione settentrionale, quand’anche etichettata in maniere diverse, era da tempo che si affacciava periodicamente e con gradi di intensità cangianti- mentre  specularmente la Questione meridionale veniva lentamente derubricata- prendendo spunto, per esempio, dalla nascita delle Regioni, dall’ingresso nella UE, ogni qual volta i dati di questa o di quella agenzia certificavano gap di produttività e di efficienza fra le due parti del paese-nord e sud-, con il cessare dell’intervento straordinario nel mezzogiorno. La così detta Bicamerale era un tentativo-com’è noto vano, e sprecato occorre dire-di metter mano all’assetto istituzionale del paese a seguito di una serie di inadeguatezze e di ritardi via via riscontrati in Italia, specie dopo il varo dell’euro e la nascita di situazioni nuove, inedite, non facili da affrontare. La discussione riguardante natura, prerogative, articolazione, compiti dello Stato in pratica, e anche esplicitamente, rappresentava il nucleo centrale intorno al quale sviluppare ipotesi di assetti da ridisegnare anche in ordine ad avvicinare istituzioni e cittadini oltre che per tenere nel giusto conto le novità che dal dopoguerra ai nostri giorni avevano fatto irruzione sullo scenario nazionale e occidentale. Il fascismo non c’era più, la società contadina andava sempre più indirizzandosi verso composizioni borghesi e impiegatizie oltre che nel settore secondario, pareva non ci fosse più necessità di due camere parlamentari: semplificare era una parola d’ordine, aprirsi al mercato l’altra. Tant’è che la ventata liberista-vedi Blair, Giddens, la new left-contaminò pervasivamente la sinistra postcomunista passata a una visione maggioritaria e di governo, e in deficit di elaborazione verso la declinazione di un riformismo che conservasse o reinventasse paradigmi di una sinistra di cui pareva si fossero perduti (o censurati?), stigmate e caratteri fondativi. 

In pratica i governi nazionali attraverso serrate sessioni di lavoro a carattere seminariale, tanto di studio quanto di orientamento, affrontarono nella dimensione parlamentare e delle assemblee elettive a scala diversa, l’argomento del federalismo, non disgiunto da quello della semplificazione. Fine degli anni novanta del secolo scorso: a via di Ripetta sedute in parallelo e congiunte per sviscerare il nuovo verbo della sinistra (non ancora compiutamente) riformista italiana: non slogan, non ideologie ma fatti, idee da tramutarsi in dettati normativi. Con una platea di attori e, diciamolo pure, comprimari, in parte fermamente convinti dell’operazione (“Lo stato così com’è non regge… “; “Occorre avere coraggio… “; “Il nord ha ragione, produce tanto ma è penalizzato… ” e così via) ma pure con perplessità di non poco conto derivanti dalla constatazione di un sud sempre più ai blocchi di partenza, dal rischio della disarticolazione di un impianto unitario delle varie parti del paese, dalla necessità di meglio e più approfonditamente valutare portata e tempi dell’operazione. Voci comunque flebili e se pure numericamente non esigue di fatto soccombenti a fronte del vento impetuoso che avanzava ormai inarrestabile e che si sarebbe di lì a poco tradotto in leggi dello stato. Mentre una saggistica meridionalistica nuova non stentava ad affermarsi (Viesti, Felice, Borgomeo, Lupo, Galasso… ), procedevano le modifiche costituzionali (chi non ricorda i decreti Bassanini, a chi sfuggono le modifiche costituzionali che con leggi  e in alcuni casi con referendum conformativi venimmo chiamati a misurarci).

Ma veniamo all’attualità, veniamo ad oggi: una o più propriamente il complesso di quelle norme, di quella impostazione, bussa alla porte in questa fine d’inverno 2019. Il Veneto, la Lombardia e altre undici Regioni si sono attivate per ottenere maggiori poteri e risorse sulla scorta delle norme varate allora, di cui si è detto sopra, e che consentono alle Regioni di chiedere nuovi poteri, nuove risorse, nuove competenze, tutti indirizzati alla disarticolazione del paese, ad aumentare divaricazioni, ad accrescere prevaricazioni.  Le Regioni, si sa, vivono di trasferimenti monetari da parte dello Stato centrale e per la loro stima la proposta del Veneto e c’è quella di calcolare i fabbisogni standard tenendo conto non solo dei bisogni specifici della popolazione e dei territori, ma anche del gettito fiscale, cioè della ricchezza dei cittadini. In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) saranno come beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. “Quindi, per averne tanti e di qualità, non basta essere cittadini italiani, ma cittadini italiani che abitano in una regione ricca”, come chiosa Viesti, violando platealmente  i principi costituzionali di uguaglianza. Principi costituzionali che sono quantizzabili dai LEP, i Livelli  Essenziali delle Prestazioni sociali e civili da garantire in misura omogenea a tutti i cittadini italiani, ovunque residenti, ma ancora in attesa di definizione.  Invece: ricchi più ricchi, poveri più poveri, è il caso di dire.

Il tutto, al momento, è all’attenzione della Conferenza Stato Regioni bypassando de facto gli ineludibili confronti parlamentari mentre si assiste passivamente e indolentemente all’assordante silenzio delle Regioni meridionali, quasi fosse materia che non merita attenzione, con la meritoria eccezione della Regione Calabria che in misura unanime ha approvato in Consiglio una forte e motivata mozione di rigetto dell’impostazione del Veneto.

E’ proprio il caso di ribadirlo: occorre che il complesso della materia venga affrontato dalle e nelle Camere parlamentari e che i cittadini siano aggiornati anche grazie a esperti consapevoli. Occorre ancora che nessun trasferimento di poteri e risorse a una Regione sia  consentito fino a che non siano definiti, come previsto dalla Costituzione, i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Occorre infine che il trasferimento di risorse sulle materie assegnate alle Regioni sia ancorato esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza.

 

No alla secessione dei ricchi Loredana Marino

No alla secessione dei ricchi Loredana Marino

La retorica che circonda  la ” secessione dei ricchi” è inaccettabile e pericolosa. Finora il tema è stato tenuto sotto traccia , evitando una necessaria discussione politica diffusa, una consultazione di massa, una decisionalità di popolo, l’espressione di una “sovranità popolare” prevista dall’art. 1 della Costituzione.

Il governo giallo – verde nel suo furore contro la democrazia costituzionale, porta avanti la linea della secessione,a cui si aggiunge ,in larga parte , il PD,   stiamo, così,  giungendo ad un passaggio che costituisce, se non lo blocchiamo, una mutazione definitiva della nostra architettura istituzionale. Il tema è quello dell’ autonomia regionale differenziata”.

La vicenda parte con i referendum svolti in Veneto e Lombardia nel 2017 che, nonostante le sentenze contrarie della Corte Costituzionale , rischiano di incidere sull’ordine costituzionale e politico, referendum, appoggiati dalla Lega, che condizionano pesantemente le scelte di organi costituzionali dello Stato. Vogliono destrutturare lo Stato nazionale unitario allo scopo, esplicitato ripetutamente anche in questi mesi da Zaia, di trattenere la massima quota di proventi tributari del territorio.

Si incide, in tal modo, sulla concezione costituzionale della solidarietà nazionale, sulla coesione e solidarietà, del diritto di cittadinanza uguale per tutte/i  che garantiscono l’unità giuridica ed economica del paese.

In forme solo parzialmente dissimili, lo stesso tema di autonomia differenziata è stato posto e dalla iniziativa della giunta piddina dell’Emilia, nel 2017 col governo Gentiloni.

Insomma  “una storia di grandi egoismi” che  sopprime l’universalità dei diritti, in aperta violazione con i principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione.

Per raggiungere questi risultati discriminatori, si sfrutta un vuoto normativo denunciato più volte dalla Corte Costituzionale: dal 2001, infatti, nessun Governo ha trovato il tempo di definire i LEP, i livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili da garantire in misura omogenea a tutti le/i cittadine e cittadini italiani, ovunque residenti.

E il Sud? In questo quadro vi sarebbe una ricaduta negativa prioritariamente sulle regioni del Sud e sugli abitanti non ricchi di tutt’Italia con la progressiva privatizzazione dei servizi. Dentro il tema del federalismo differenziato si articola il nodo della  nuova  “questione meridionale” , matura il tradimento del M5S, che dopo aver fatto il pieno dei voti,  tradiscono, ancora una volta,  il loro elettorato per equilibri di palazzo. Il Mezzogiorno viene, così, condannato a essere privo di pari riconoscimento della cittadinanza, con ancor maggiore desertificazione degli investimenti e sempre più debole economia

Noi abbiamo il compito, dunque, di costruire un’ opposizione politica e sociale, in questo paese, dobbiamo creare un coordinamento di donne ed uomini, forze politiche sindacali, associazioni, movimenti che si riconoscono nei principi di uguaglianza e nell’universalità dei diritti sanciti dalla nostra Costituzione, in difesa dell’universalità dei diritti e della solidarietà nazionale contro il federalismo differenziale, una trattativa tra Governo e Regioni  che prosegue rapidamente nel silenzio generale mentre l’opinione pubblica viene distratta dall’assordante propaganda razzista e xenofoba. Senza discussione politica diffusa e all’insaputa di milioni di cittadine/i si sta per determinare nel giro di poche settimane la mutazione definitiva della nostra architettura istituzionale, la destrutturazione della nostra Repubblica.

E’  importante promuovere  mobilitazioni nazionali e territoriali per dire NO all’autonomia differenziata, noi del partito della Rifondazione Comunista abbiamo messo in campo  un percorso di iniziative,  siamo partiti dal sud, da Cosenza con un incontro di approfondimento e programmazione politica delle segreterie regionali di Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, nell’ambito della campagna nazionale del Partito, iniziative per tutto il mese di febbraio al sud Salerno, Cosenza, Brindisi ma anche nelle regioni del centro/nord e il giorno 8 febbraio a Cava de’ Tirreni si svolgerà, grazie alla collaborazione e sensibilità  sul tema del Prof M. Galdi con il DISES dell’ Università degli Studi di Salerno, un convegno dal titolo Più autonomia alle regioni del Nord? Per una nuova questione meridionale.

Dall’incontro tenutosi giorno 29 gennaio con l’Osservatorio del Sud, in rappresentanza il Prof P. Bevilacqua,  è nata un’ immediata collaborazione sul tema in questione, la comune convinzione sulla necessità di un appello comune per la costituzione del Coordinamento nazionale in difesa dell’universalità dei diritti e della solidarietà nazionale contro il federalismo differenziale.

Loredana Marino responsabile Mezzogiorno di Rifondazione Comunista

Una giornata per il Mezzogiorno Appuntamento l'8 febbraio

Una giornata per il Mezzogiorno Appuntamento l'8 febbraio

Il 24 ottobre 2018 l’Osservatorio del Sud metteva in guardia, con un Appello, l’opinione pubblica riguardo alla strisciante secessione da parte del Nord, da parte dei ricchi. L’appello, pubblicato su “il Manifesto” e su “il Quotidiano del Sud”, è stato firmato da decine di intellettuali ai quali si sono aggiunte centinaia di cittadini, professionisti, giornalisti, insegnanti, sindacalisti, parlamentari, impiegati, segretari di partito, docenti e studenti universitari.

L’Osservatorio del Sud, in prossimità della discussione della legge che dovrebbe tenersi il 15 febbraio, ha anche promosso una giornata nazionale di discussione sulle sorti del Mezzogiorno e dell’Italia che si terrà l’8 febbraio prossimo in alcune città: a Roma presso l’Università la Sapienza, a Bari, a Cosenza, a Vibo, a Reggio Calabria, a Caserta ed a Catanzaro. L’Osservatorio sarà, anche, un punto di riferimento, pubblicando le date ed i luoghi delle iniziative per mezzo del suo sito web e della sua pagina Facebook, per tutti coloro i quali –Associazioni, Sindacati etc.- hanno a cuore l’unità dell’Italia e vogliono promuovere iniziative e dibattiti pubblici su questo tema, anche prima della giornata dell’8 febbraio.

L’Osservatorio ed i suoi membri hanno tenuto alta, in questi mesi, l’attenzione sul “Regionalismo differenziato” pubblicando decine di articoli sul sito web dell’Associazione e su “il Manifesto”, “il Mattino”, “il Messaggero”, “il Quotidiano del Sud” etc.

L’Osservatorio del Sud, dopo l’incisiva e tempestiva presa di posizione su questo argomento, non può che guardare con soddisfazione all’unanime, e forse un po’ tardivo, respingimento da parte del Consiglio regionale della Calabria, della “implementazione dell’autonomia differenziata” avanzata dalla Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

L’opposizione dell’intero Consiglio regionale della Calabria è un primo passo verso la formazione di un fronte comune delle Regioni e dei cittadini meridionali contro la secessione del Nord.

Sull’autonomia lombardo-veneta. La piccola politica cantoniera italiana di Sandro Abruzzese

Sull’autonomia lombardo-veneta. La piccola politica cantoniera italiana di Sandro Abruzzese

 Gianfranco Viesti ha documentato con un’intensa e meritoria attività, quasi quotidianamente, l’assurdità dei meccanismi che distraggono risorse al Meridione per portarle altrove. Insieme a lui, sulle pagine del Mattino, Marco Esposito ha seguito e spiegato i vari e iniqui passi del federalismo fiscale all’italiana. L’altro giorno giustamente Viesti si appellava, su Twitter, agli amici progressisti del Settentrione che “vedono arrivare la secessione dei ricchi (…) e voltano la testa dall’altra parte”.

Che dire? Potremmo rispondere al prof. Viesti col Gramsci di Passato e presente: “Il problema delle classi dirigenti riguarda anche i suoi capi: bisogna distinguere se siamo di fronte a grande ambizione, la quale è indissolubile dal bene collettivo e dalla crescita generale degli strati sociali, oppure a piccola ambizione, la quale, attorno a sé, crea solo il deserto”.

Comunque sia, sono lontani i tempi in cui Max Weber sosteneva che “Lo scopo dello stato è la grandezza della nazione”. Occorre forse ancora ricordare che uno Stato è un progetto, e che gli italiani come popolo esistono grazie all’Italia e non viceversa. Si può poi discutere sulla natura e i risultati del progetto, ma se non si capisce questo assunto, non si capirà la parte nobile e spirituale della storia del Paese. Non si capiranno la Repubblica romana e i Pisacane, la Resistenza, i padri costituenti e i valori universali propugnati dalla Costituzione italiana. Anzi, rimarranno nell’immaginario solo gli scongiuri di Berlusconi durante l’inno di Mameli, insieme agli sproloqui di Pontida che vanno dai Borghezio, a Bossi, Zaia e Salvini, ai loro vecchi e nuovi epigoni meridionali.

Dunque, oggi non basta chiedersi che fine abbiano fatto i parlamentari meridionali o settentrionali, o i Cinque stelle: occorre chiedersi che ne è stato della passione e dello spirito per le “grandi ambizioni” di uguaglianza, soldarietà, reciprocità, nell’ambito dell’Italia e dell’Europa, e forse del mondo. Già, perché se chiunque anteponga interessi di fazione alla causa dello Stato è responsabile dello sfacelo dell’Italia e dell’Unione, l’inarrestabile regressione politica del Paese riporta dritta alle sue origini municipali.

E’ pur vero che alla spinta centrifuga e disgregatrice, a livello planetario, non è estraneo il tracollo culturale della sinistra occidentale successivo alla caduta del Muro, il quale ha aperto le porte alla globalizzazione e al finanzcapitalismo, e con essi a un vergognoso incremento delle disuguaglianze su scala globale (Bauman, Giddens, Gallino). Ed è vero che contestualmente, sul piano nazionale, si registra la perdita del ruolo di spina dorsale del Paese da parte dei defunti e smanellati partiti tradizionali.

Ma l’unione di queste direttrici, oggi che la spinta disgregatrice delle nostre forze regionali tribali si è fatta principale forza di governo, e il sogno di spaccare l’Italia sembra stia per avverarsi, produce e evidenzia il fatto che tutto il Paese è diventato tribale.

Siamo di fronte alla definitiva scomparsa di un universo politico e morale, le cui avvisaglie erano inoltre insite negli squilibri territoriali, socio-economici su cui l’Italia stessa, in maniera miope, è stata precedentemente edificata.

 

Nessuna traccia di grande ambizione, quindi, per non dire della lotta alle mafie, all’evasione, della redistribuzione del reddito, dell’arresto dello spopolamento e dell’emigrazione. Nessun vero e nobile progetto per il Paese nella sua interezza e integrità. Niente. Il resto di niente.

 

Molto più facile, anche se non certo nobile, arraffare la ricchezza prodotta come un fratellastro qualsiasi, svuotando la costituzione e la democrazia della loro già precaria tenuta.

E’ il grado zero della piccola politica cantoniera italiana. Non può che conseguirne l’allontanamento dalla costruzione di un’Europa più giusta e umana.

Se andrà come sembra, a vincere saranno le peggiori pulsioni di questo Paese: la visione di un mondo che, per dirla con Barthes, è solo qualcosa da spartire, lontano da qualsiasi ideale: il ritratto di un Paese abitato da un’umanità abbrutita e vile.

 

Sandro Abruzzese

Fermiamo la secessione del Nord

Fermiamo la secessione del Nord

E’ partita dalla Regione Veneto, ma si sta allargando a tutto il Nord Italia, la richiesta di autonomia regionale che farebbe gestire da queste Regioni il 90% del gettito fiscale per sostenere il welfare delle singole regioni.   Se dovesse realizzarsi questo progetto, le Regioni meridionali sarebbero duramente penalizzate e verrebbe meno il principio costituzionale della parità di trattamento di tutti i cittadini italiani. Il divario Nord/Sud, già allargatosi durante la recente recessione economica, si trasformerebbe in abisso.

La Lega di Salvini rimane la Lega Nord e ha ingannato i meridionali con il suo slogan “prima gli italiani”. Non vogliono il reddito di cittadinanza perché ne beneficerebbero in gran parte i giovani meridionali disoccupati, e hanno ottenuto di spostarlo ad aprile 2019 quando faranno cadere il governo.   Non hanno rinunciato alla secessione, ma sono diventati più furbi e la stanno facendo passare, in silenzio, puntando sulla ignavia del M5S che se non ferma questi provvedimenti si renderà complice della definitiva emarginazione della società meridionale.

Fermiamoli!! Chiunque ha coscienza della gravità di questo passaggio storico, chiunque ha a cuore l’unità del nostro paese, chi non vuole essere complice della Secessione del Nord, faccia stampare questo appello e lo faccia affiggere nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle fabbriche,nei supermercati, presso le edicole e dovunque sia ben visibile e crei opinione. Ogni voto, ogni forma di consenso dato alla Lega costituisce un tradimento della Costituzione e del Sud, un’ ingiustizia perpetrata contro le sue popolazioni.

Qualche domanda sulla magistratura calabrese di Piero Bevilacqua

Qualche domanda sulla magistratura calabrese di Piero Bevilacqua

La formula di rito, << Le sentenze si rispettano >>, vale anche in questo caso, che riguarda la vicenda del sindaco di Riace, benché non si tratti ancora di una sentenza. L’indipendenza della magistratura è un fondamento dello stato di diritto ed è una garanzia per tutti, specie di questi tempi, in cui la legalità soggiace troppo spesso ai rapporti di forza esistenti. Ma questo non significa che non si possano fare delle riflessioni critiche sulla magistratura, com’è diritto e direi anche obbligo di ogni cittadino consapevole. E allora l’arresto di Mimmo Lucano, un sindaco – come hanno scritto e testimoniato a migliaia, in passato e in questi giorni – che ha fatto rinascere e dare speranza alla gente di una terra segnata dall’abbandono e da una criminalità endemica, è una enormità da inquadrare in un contesto sorico. Perché qualche considerazione d’insieme sull’opera della magistratura in Calabria occorrerebbe farla. E’ necessario che l’opinione pubblica nazionale si ponga qualche domanda sul fatto che in una terra dove l’amministrazione di un grande città come Reggio, viene sciolta per mafia, dove a San Luca d’Aspromonte da anni non si riesce ad eleggere un sindaco, venga arrestato il primo cittadino di un centro che fa della solidarietà umana un principio di sopravvivenza della popolazione. E’ una domanda a cui occorre aggiungere una considerazione più ampia. Perché se è vero che in Calabria operano magistrati come Nicola Gratteri e altri meno noti di lui, che rischiano la vita facendo il proprio mestiere, è anche vero che un’ampia zona di inerzia domina il resto della magistratura regionale. Si mette sotto controllo il telefono di un sindaco – certamente disinvolto e arruffato nel rispetto delle regole amministrative – ma il cui disinteresse personale è noto anche alle pietre della strada, e che cosa si è fatto per smantellare le reti del caporalato che fanno schiavi i ragazzi nordafricani nelle campagne di Rosarno? Che cosa ha fatto la magistratura calabrese per perseguire gli autori dei tanti incendi che in questi anni hanno distrutto migliaia di ettari di bosco, devastato campagne, ucciso persone e animali ? Dov’erano tanti magistrati calabresi e dove sono ancora, quando si costruisce abusivamente, si elevano case in zone franose, si deturpano le coste, si piantano pale eoliche tra gli uliveti, si fa a pezzi un paesaggio che un tempo era uno dei più selvaggi e suggestivi della Penisola? E dunque una parola di verità bisogna pur dirla. Se il territorio di questa regione è oggi uno dei più sfigurati d’Italia, una responsabilità non piccola è addebitabile all’inerzia della sua magistratura, alla sua insensibilità civile, alla sua modesta cultura. E’ da qui, solo da questo capovolgimento assurdo dei valori, che è potuta venire l’enormità dell’arresto di Mimmo Lucano.

L’Osservatorio del Sud nella sede della Fondazione Premio Sila49

L’Osservatorio del Sud nella sede della Fondazione Premio Sila49

L’Osservatorio del Sud è nato, su ispirazione ed impulso di Piero Bevilacqua, pochi mesi or sono con lo scopo principale di porre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale i gravi problemi dell’Italia meridionale. L’Osservatorio vuole provare a rimettere al centro del dibattito pubblico il Mezzogiorno non con le retoriche recriminazioni, a volte persino neoborboniche, del passato, ma con una serie di analisi circostanziate e multidisciplinari che traggano il Sud fuori dalla coltre degli stereotipi che lo deformano, mostrandolo così com’è: piagato dalle disuguaglianze estreme, dalla disoccupazione endemica, dalla fuga inarrestabile delle intelligenze, dalla devastazione del territorio e dei paesaggi rurali ed urbani, dalle infiltrazioni strutturali delle organizzazioni criminali, dalle nuove povertà, ma che contiene anche qualche elemento di opposizione, di imprenditoria sana e dinamica, di nuove correnti culturali, di passione politica e civile, di generosi amministratori, di figure straordinarie che progettano e perseguono un nuovo mondo possibile. L’Osservatorio vuole dare voce a queste forze, vuole risvegliare le coscienze, un po’ assopite, della cosiddetta società civile, vuole parlare, insomma, a tutta la società meridionale provando a darle rappresentanza culturale e ideale.

L’Osservatorio -che ha anche un sito web con gli scritti degli Associati e dei membri del Comitato scientifico (ricordo, fra gli altri, Salvatore Settis, Gianfranco Viesti, Tomaso Montanari, Vito Teti, Tonino Perna ed Enzo Scandurra)- vuole non solo mettere insieme le intelligenze meridionali disperse nella Penisola ed in Europa, ma ha anche l’ambizione di elaborare idee, progetti e proposte, che aiutino le forze migliori a trovare la strada di un impegno corale di trasformazione sociale ed economica e di emancipazione civile.

L’occasione di stamani, e ringrazio Enzo Paolini per avercela data, è l’insediamento dell’Osservatorio presso la Fondazione Premio Sila49 che ospita, come ha già detto Paolini, una delle più importanti raccolte librarie sul Mezzogiorno. Una sede, questa di Via Salita Liceo, che è orgogliosamente incastonata nel cuore antico e délabré della città capitale dei Brettii e della Accademia cosentina e non di Alarico. La devastazione delle città e del paesaggio meridionale, nel secondo dopoguerra, ha scardinato l’indispensabile elemento identitario della stabilità dei luoghi e dei paesaggi che garantisce alle società un senso di perpetuità, in grado di conservare l’identità. L’Osservatorio, con il concorso della Fondazione Premio Sila49, si propone anche di stimolare ed aggregare le forze e le energie intellettuali del territorio nell’analisi delle forme e nella individuazione di metodi da usare per la ricomposizione armonica delle città, dei paesaggi meridionali e delle loro identità. L’Osservatorio del Sud si propone di stimolare e di favorire, tramite la più larga partecipazione attiva dei cittadini, la piena consapevolezza che il diritto alla città ed al paesaggio è un diritto fondamentale degli individui e delle comunità perché la forma delle città, e dei loro paesaggi, è intrinseca all’idea stessa di cittadinanza e di democrazia.

Testo del breve discorso tenuto, il 20 giugno 2018, dal vicepresidente Battista Sangineto in occasione dell’insediamento dell’Osservatorio presso la Fondazione Premio Sila 49, sita in Via Salita Liceo a Cosenza.

Perché è necessario il reddito di cittadinanza di Piero Bevilacqua

Perché è necessario il reddito di cittadinanza di Piero Bevilacqua

E’ il capitalismo, bellezza!

Ci tengo a rammentare in via preliminare che chi scrive è andato in giro per l’Italia a perorare la causa del reddito di cittadinanza (meglio chiamarlo forse di dignità, ma ritornerà nel merito) qualche anno prima che nascesse il movimento 5 Stelle.Non è una rivendicazione personale, ma una precisazione storica.

In Italia, per disinformazione o per debolezza di memoria, si tende a dare la primogenitura di questa proposta, anzi a identificare quello che da tempo è un vero e proprio movimento rivendicativo, con la formazione politica fondata da Beppe Grillo. E’ dalla fine del passato decennio che in Italia opera, con molteplici iniziative e pubblicazioni, il Basic Income Network Italia (BIN -Italia), collegata a una rete mondiale unificata dallo stesso fine.

Non considero tale rivendicazione un obiettivo rivoluzionario, ma una passaggio obbligato di medio periodo delle società industrializzate. D’altra parte, com’è largamente noto, in alcuni paesi europei governati da un un ceto politico meno inetto e corrotto del nostro, tale forma di welfare vige ormai da anni in diverse forme e versioni. Personalmente, considero la riforma più auspicabile nelle società capitalistiche, atta a creare nuovi posti di lavoro e distribuire più equamente il reddito, la riduzione della durata della giornata lavorativa.In coerenza con quanto è avvenuto nell’ormai secolare storia delle società industriali.Lavorare meno, lavorare tutti, secondo il felice slogan italiano, conosciuto anche all’estero, dovrebbe essere lo sbocco naturale nella situazione presente. Secondo quanto prevedeva e auspicava il maggiore economista del XX secolo, Keynes, nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930). Anche Marx prospettava una drastica riduzione del tempo di lavoro destinato ad attività produttive, ma quale esito del superamento della società divisa in classi.

Ebbene il nostro tempo assiste al più paradossale capovolgimento di un corso storico secolare. Nonostante la crescita costante della produttività del lavoro degli ultimi decenni, la durata della giornata di lavoro, anziché diminuire, è aumentata. Hanno cominciato , come sempre gli USA, dove negli anni ’90 i lavoratori erano occupati in media 350 ore in più all’anno rispetto ai lavoratori europei. (J. B.Schor, Overworked American. The Unespected decline of Leisure, 1993; P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, 2011).Mentre era in corso una celebratissina crescita economica, la giornata lavorativa si allungava anziché accorciarsi. Tale orientamento ormai da anni va estendendosi anche ad altri paesi e all’Europa. E’ una tendenza che si manifesta attraverso la crescita degli straordinari tra i lavoratori stabilmente occupati, ma che investe anche il dilagante esercito dei lavoratori precari, i quali spesso non godono neppure di una “giornata lavorativa” in senso proprio .(R. Staglianò, Lavoretti, 2018; R.Ciccarelli, Forza lavoro, 2018). E’ questo peraltro un ambito in cui la precarietà e frammentarietà delle prestazioni maschera la disoccupazione dilagante. D’altra parte l’espansione del tempo di lavoro investe non solo la produzione ma anche la distribuzione. Centri commerciali, supermercati, piccole botteghe aperte anche la domenica a Pasqua e a Natale e anche il Primo Maggio.

Mi sono dilungato su questo aspetto per sottolineare il carattere dirompente di un evento storico i cui effetti sulle strategie del capitalismo vengono di solito trascurate. Il crollo dell’URSS, la crisi generale del movimento comunista internazionale, il declino o la trasformazione in senso moderato delle socialdemocrazie e dei sindacati, in Europa e in USA, hanno fornito al capitalismo un rapporto di dominio sulla forza lavoro quale forse aveva solo agli esordi della Rivoluzione industriale. Al mutato scenario politico, che ha privato il movimento operaio dei suoi tradizionali punti di forza, che ha perfino annichilito il suo immaginario simbolico, il patrimonio delle sue speranze, si è aggiunto, per il capitale, l’inedito, schiacciante vantaggio della possibilità di delocalizzare le imprese. E’ stata questa gigantesca opportunità il vero motore della cosiddetta globalizzazione: la libertà e la possibilità materiale – grazie alla rivoluzione informatica – di trasferire una fabbrica là dove i salari operai son più bassi, le condizioni fiscali e normative più favorevoli al capitale. Il potere di un imprenditore di dislocare in un altro paese la propria azienda, di fronte alla richiesta delle maestranze di migliori condizioni di lavoro, o solo davanti alla semplice richiesta di conservare il lavoro,instaura un rapporto così drammaticamente asimmetrico tra capitale e lavoratori da spazzare via, dalle fondamenta, la possibilità stessa del conflitto. Il capitale acquista un tale dominio sulla controparte, una tale forza politica – essendo il centro erogatore del reddito della grande massa dei cittadini mentre lo stato è sempre meno autorizzato a investire – che a lungo andare, se nulla cambia, minerà le istituzioni democratiche. Del resto si tratta di un processo già in atto.Da alcuni anni si è preso a parlare di postdemocrazia (C.Crouch, Postdemocrazia, 2009)

Dunque, il primo aspetto da considerare è squisitamente politico. Si leggono tante analisi sulla situazione economica e sembra che i processi esaminati siano tutti politicamente neutri, spogliati da interessi di classe, quasi meccanismi naturali.E invece i processi economici sono mossi da interessi spesso feroci, il capitalismo – come dovrebbe essere noto a chi non ha una posizione agiografica di fronte ai fenomeni in corso – sta conducendo e vincendo una vasta e multilaterale battaglia di classe.(L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012) I gruppi economici dominanti hanno un vivo interesse a far mancare il lavoro: in questo modo hanno a disposizione una vasta platea di forza lavoro docile, disponibile, flessibile. E’ davvero la situazione ideale per combattere la competizione intercapitalistica su scala globale. Ma non c’è solo uno specifico interesse politico delle imprese a militare contro una politica keynesiana di piena occupazione. E’ la natura del capitalismo che è profondamente cambiata: un modo di produzione che assorbe sempre meno lavoro. E’ da anni che alcuni osservatori hanno cominciato a parlare di jobless grouth, di crescita senza occupazione. Poi la crisi del 2008 ha portato la devastazione che è nota e quindi, anche a distanza di 10 anni, si pensa, soprattutto in Italia, che sia solo questione di “uscire dalla crisi” di superare una congiuntura sfavorevole e che tutto riprenderà come prima. Ma non è così.Esemplare quello che sta accadendo negli Stati Uniti, che dalla crisi (da essi stessi provocata) sono usciti da un pezzo:

<< L’effetto occupazionale della crescita del PIL è oggi più blando di quanto non accadeva anni fa.Il caso americano insegna: nonostante l’economia segni da anni un andamento positivo, il tasso di occupazione degli USA rimane ai minimi storici (addirittura paragonabile a quello della grande depressione).I bassi tassi di disoccupazione non devono ingannare: molti americani semplicemente hanno smesso di cercare lavoro.Il problema è che l’aumento del PIL è connesso principalmente ai settori più innovativi ed efficienti (spesso legati alla domanda estera).Così crescono profitti, investimenti e produttività; ma solo in misura modesta l’occupazione >> ( M. Magatti,Vantaggi e svantaggi della total job society, << Vita e Pensiero>> dicembre 2017)

Se, dunque, la più potente economia del pianeta, pur in pieno sviluppo economico, non riesce a garantire non dirò piena occupazione, ma neppure un lavoro dignitoso e ben remunerato, come può l’indebitata Italia, con i suoi indici di incremento del PIL di “uno vergola qualcosa”, garantire alcunché a chi è in cerca di un lavoro, mentre per imposizione dogmatica e per interessi germanici viene impedito allo stato di fare grandi investimenti? Cosa accadrà nel nostro Mezzogiorno, che in alcuni ambiti è tornato indietro di qualche decennio? I giubili propagandistici di ripresa economica che abbiamo sentito sulla bocca dei presidenti del Consiglio e degli uomini degli ultimi due governi sono, dal punto di vista dell’occupazione, delle blandizie o – se vogliamo concedere la buona fede – delle pure illusioni. E’ un modo di osservare i processi secondo un vecchio meccanismo mentale: pensare che il futuro torni a replicare quel che già è accaduto in passato. E dunque si inneggia alla ripresa, all’Italia che è “ripartita”. Comprensibile slogan elettorale, dal momento che i partiti sono in immersi in una sempiterna campagna elettorale. Quale Italia è ripartita? L’analfabetismo analitico, la coazione a ripetere, l’incapacità di associare alle parole un brandello di pensiero, impedisce a quasi tutto il ceto politico italiano di vedere che è ripartito il processo di accumulazione del capitale, ma non lo sviluppo della società. Non ci sarà ripresa significativa dell’occupazione con questi ritmi di crescita. Crescita, del resto, non tutta auspicabile se deve avvenire a spese degli equilibri territoriali e ambientali. Ma non ci sarà soprattutto perché non la futura, ma la prossima crescita economica sarà sempre più segnata dalla sostituzione del lavoro umano con macchine, con dispositivi elettronici.Nei prossimi anni avremo l’avvento della cosiddetta industria 4.0, caratterizzata dall’uso capillare dei robot, l’internet delle cose industriali, l’integrazione orizzontale delle macchine che si relazionano tra loro, la stampante 3D, ecc. E, novità assoluta, l’automazione digitale si applicherà non solo alle operazioni manuali , ma anche alle attività cognitive.Nei prossimi anni nelle società industriali, si prevede, la sparizione di milioni di posti di lavoro.( M.Ford, The Ligths in the tunnel.Automation, accelerating technology and the economy of the future, 2009; E. Brynjolfsson e A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine.Lavoro e prosperità nell’epoca della tecnologia trionfante, , 2015) Andiamo dunque incontro a una società insostenibile e paradossale: un incremento senza precedenti della ricchezza in termini di prodotti e di servizi, con sempre meno occupazione. E tale scarsità di lavoro è destinata a produrre docilità soggettiva delle nuove generazioni, scoraggiamento sociale e politico e dunque impossibilità di un antagonismo che costringa il capitale nell’unica direzione che sarebbe vantaggiosa per tutti: una equa distribuzione del poco lavoro necessario e del reddito disponibile.

Spezzare il circolo vizioso

Per spezzare questo nefasto circolo vizioso non abbiamo altro mezzo, oggi, che imporre il reddito di dignità, dare alle persone, ai nostri giovani, un minimo di sicurezza materiale perché incomincino ad essere autonomi nelle proprie scelte di vita. Nel Sud ormai milioni di persone non sono politicamente e civilmente più libere, perché costrette a uniformarsi alle influenze di chi promette loro una occasione di lavoro! Chi teme l’assistenzialismo e la “passivizzazione” degli individui, per un reddito ricevuto senza merito, dovrebbe ricordarsi di questa attuale, drammatica situazione di dipendenza. Ma dovrebbe soprattutto capire che il mondo è profondamente cambiato, è mutata la natura del capitalismo ed è comprensibile, ma sbagliato, valutare le condizioni del nostro tempo con la vecchia etica del lavoro. Non è necessario lavorare una giornata al fine di produrre merci a servizio di qualche privato o a sbrigare pratiche in un ufficio pubblico per poter pretendere un salario. Certo, fornisce un’intima soddisfazione morale essere retribuiti per un compito dignitosamente svolto. Ma se tali compiti scarseggiano non si può andare a cercare qualunque lavoro per ricevere un reddito.D’altra parte, viviamo ormai tutti immersi in una società panlavoristica. Ognuno di noi, anche il disoccupato, contribuisce per la sua parte alla valorizzazione del capitale, alla produzione della ricchezza sociale. Lo fa mentre telefona a qualunque ora del giorno e della notte, naviga su internet, si sposta da un ufficio all’altro in cerca di lavoro, consuma pubblicità televisiva o sui siti, svolge lavoretti, va in giro a fare acquisti, ecc. E’ mutata e continua a mutare la natura della ricchezza, ma cambiano, diventano diffusi, sotterranei, capillari e invisibili, i modi in cui essa viene prodotta all’interno di un capitalismo pervasivo che succhia profitti da tutto ciò che si muove.

Che tipo di reddito?

Che cosa intendiamo per reddito di dignità ?Pur non essendo nostra competenza entrare nel merito tecnico della sua misura ed applicazione, non ci sottraiamo all’obbligo di una definizione essenziale.

Esso dovrebbe essere un reddito di base universale e incondizionato, per tutti coloro che fonti di reddito non possiedono. Crediamo non siano auspicabili le tante forme di workfare attive da tempo in Europa, che subordinano l’erogazione del sussidio a obblighi di lavoro e di addestramento destinati a schiavizzare gli individui. Il film di Ken Loach, Io, Daniel Blake (2016) ci ha dato una testimonianza esemplare e indimenticabile di come il reddito minimo applicato nel Regno Unito assoggetti i subalterni a meccanismi implacabili e perfino persecutori di subordinazione.

Possiamo provare a immaginare quali dinamiche sociali potrebbe innescare una sifatta elargizione?Pensiamo ai nostri giovani giovani laureati che vorrebbero continuare le proprie ricerche e studi.Essi non scapperebbero magari a fare i camerieri a Londra, dopo mesi e mesi di ricerca di un posto di lavoro in Calabria o in Sicilia. Avrebbero l’agio di continuare i loro studi e anche quel minimo di sicurezza per tentare insieme ad altri giovani di avviare qualche impresa, iniziative culturali, centri di ricerca, ecc. Anche il padre di famiglia disoccupato non resterebbe certo inerte a fruire del modesto reddito pubblico. Chi ha attitudine al lavoro produttivo e comunque all’intrapresa, avrebbe vari campi in cui applicare i suoi talenti per integrare il proprio reddito di base: dall’agricoltura all’allevamento animale, dall’enogastronomia al turismo, dall’edilizia di restauro, al piccolo commercio, ai trasporti, al volantariato, ecc.

Occorre precisare che non intendiamo suggerire qui l’idea di una società abitata da un popolo di oziosi. Viene meno il lavoro e tramonta l’etica del lavoro, ma non l’attitudine umana all’operosità. L’intelligenza e l’energia delle persone si può applicare a un vasto campo di ambiti.Il << vecchio Adamo che è in noi >>, come Keynes definiva quell’innato bisogno dell’uomo a operare, può essere soddisfatto non solo con le attività produttive, che ovviamente non spariranno e non saranno tutte automatizzabili, ma con tante attività di cura. Cura dell’ambiente, del territorio, del paesaggio, accoglienza e lavoro di mediazione culturale con gli immigrati, assistenza agli anziani, creazione di welfare locale, ecc.

Naturalmente perché questi processi si sviluppino occorre ridare centralità al potere pubblico. Soprattutto i comuni devono essere messi in condizione di investire in infrastrutture, in cura delle città e dei manufatti urbani, in restauro del territorio, cura dell’ambiente, gestione dei servizi, dall’acqua alla sanità, alla scuola, ecc. E occorre perciò rovesciare la funesta ideologia che ha trovato così tanti proseliti negli ultimi 30 anni, secondo cui funziona solo ciò che è promosso dall’iniziativa privata. Occorre rimettere al centro il pubblico, cioé noi, la collettività dei cittadini, accrescendo la trasparenza degli atti e dei procedimenti amministrativi e incrementando così efficienza, democrazia e partecipazione collettiva. In una società resa operosa dall’iniziativa pubblica e da una cultura diffusa del bene comune ci sarà poco posto per l’inerte passività del singolo.

Infine, una risposta all’obiezione più sostanziale e rilevante all’introduzione del reddito di dignità. Un’obiezione da affrontare con serietà ma che consente di svolgere una riflessione politica oggi assolutamente necessaria. L’obiezione, com’è noto, è quella della scarsità delle risorse finanziarie disponibili. Ora non c’è dubbio che un Paese con il nostro debito pubblico non è nelle migliori condizioni per affrontare questa spesa rilevante. Ma su tale punto occorre premettere una riflessione generale. Dobbiamo porci la domanda radicale: una forza politica che rappresenti davvero la parte più debole della società deve farsi carico della sostenibilità finanziaria delle proprie rivendicazioni? Certo, non può pretendere di avere la Luna, perché nessuno gliela può dare. Ma della sostenibilità finanziaria si deve fare carico il governo, non una forza di opposizione che sia veramente tale, che rappresenti realmente gli interessi dei ceti più deboli e svantaggiati. E questo per una ragione molto semplice: il bilancio dello stato, specie dello stato di un paese ricco come il nostro, non è la pura somma aritmetica di entrate e uscite, ma è un vero “campo di forze”. La sua composizione è il risultato degli antagonismi dei più forti che si spartiscono la torta, è un bilancio di classe che dà a chi è in posizione di preminenza e toglie a chi non ha voce. Come si spiegherebbe altrimenti l’enormità del fatto che, annualmente, vanno alle nostre forze armate bel 25 miliardi di euro, 5 dei quali solo per armamenti? Cinque miliardi per uccidere esseri umani e distruggere territori in qualche parte del mondo in violazione all’articolo 11 della nostra Costituzione. Come si spiegherebbe altrimenti – stando ai bollettini annuali della Banca d’Italia – che al 30% delle famiglie più povere va appena l’1% della ricchezza nazionale, mentre il 30% delle più ricche ne detiene ben il 75% ? Il bilancio dello stato si compone non solo di uscite- ad esempio di esborsi pubblici, che in tutti questi anni sono andati alle imprese nel tentativo di accrescere l’occupazione – ma anche di una gerarchia fiscale non progressiva. Si accresce la ricchezza privata di chi è già ricco, mentre lo stato non accresce i propri introiti fiscali come dovrebbe se in Italia esistesse una forza politica di opposizione.

Dunque, questo farsi carico della sostenibilità finanziaria del reddito di dignità è un problema politico, non economico, una questione sociale e di classe, non di quantità. Tale rispetto delle compatibilità è solo il riflesso e la testimonianza della capitolazione delle forze politiche che erano state di sinistra. Esse, diventate forze di governo, hanno finito col guardare all’economia con la stessa cultura dell’avversario, come un insieme di leggi naturali e immodificabili, senza più scorgere i meccanismi classisti che la muovono e orientano.Il linguaggio dominante riflette in maniera fedele l’abbandono dell’analisi radicale della realtà e l’accettazione del punto di vista dell’avversario: scompaiono, dal lessico corrente, parole come capitale, capitalistico, profitto, processo di accumulazione e godono invece di esclusiva circolazione – quale unica moneta valida – impresa, imprenditore, sviluppo, mercato, crescita. Tutti termini neutri e positivi, lemmi di una semantica che illustra il dominio assoluto del punto di vista del capitale nel nostro tempo.

Perciò la battaglia per il reddito di dignità può anche essere la leva politica e culturale in grado di ridare alla sinistra una visione non subalterna del capitalismo attuale, e una prospettiva di lotta realmente egalitaria.

“C’era una volta il Sud… e c’è ancora…”. di Tonino Perna

“C’era una volta il Sud… e c’è ancora…”. di Tonino Perna

Nella primavera del 1972 (io c’ero!)…al Circolo Salvemini di Vibo Valentia introducendo un dibattito sulle elezioni politiche che si tenevano quell’anno, Valentino Parlato disse : << La questione meridionale è come quei fiumi carsici che compaiono e dopo un po’ scompaiono dalla vista per apparire più tardi >>.

Questa immagine c’è utile ancora oggi per guardare al nostro Sud attraverso la “longue durée” di braudeliana memoria, le onde lunghe della storia ci insegnano molto di più che l’inseguire la tachicardia del presente.

Quando si teneva questo dibattito affollatissimo al Circo Salvemini, eravamo in un momento in cui le lotte popolari nel Mezzogiorno, anche quelle strumentalizzate dai fascisti come la famosa rivolta di Reggio Calabria del 1970 (l’ultima grande rivolta popolare del nostro Sud) si imponevano sulla scena nazionale. C’era stato un ciclo di lotte – Avola, Battipaglia e la stessa Reggio Calabria per citare solo quelle più conosciute- in cui si intrecciavano rivolte bracciantili con quelle operaie e con istanze popolari molteplici che mettevano in difficoltà i governi democristiani e di centro sinistra che corsero ai ripari con una serie di Riforme sociali. Vorrei qui ricordare che la legge n.300 del 20 maggio del 1970, detta anche Statuto dei lavoratori, venne varata da un governo che certamente non si poteva dire di sinistra, con un partito comunista totalmente all’opposizione, ma venne varata perché , come sostenne Hunghtinton in un noto articolo “Le riforme sono il surrogato della rivoluzione e la corruzione è l’alternativa alle riforme”.

Come è avvenuto per le più importanti misure che riguardano i diritti sociali e il welfare si sono registrate quando il potere aveva paura della rivoluzione di stampo sovietico, aveva paura dei comunisti. Dopo l’89 il mercato capitalistico diventa globale e per le imprese del Nord il mercato meridionale diventa marginale sia sul lato dell’offerta (decentramento produttivo, vedi Gioiosa Jonica ad esempio che entra in crisi alla fine degli anni ’90 quando Benetton e C. spostano le loro commesse a façon in Romania e poi in Cina) che da quello della domanda (si è calcolato che solo un punto in più di Pil in Germania vale più di 10 punti di crescita al Sud sul lato della domanda).

Dunque, negli anni ’90 si è inaugurato un lungo periodo che verrà ricordato come la Contro-Riforma capitalistica su scala mondiale, come fu nel XVI secolo quella cattolica , come reazione alla Riforma di Martin Lutero.

Da quel momento la Q.M. esce di scena e nasce in Italia la Lega Nord e la Q.S. Tutto l’interesse dei media venne catturato dall’emergere di un malessere settentrionale. Vorrei qui ad esempio ricordare le piazze di Santoro, ma soprattutto la trasmissione Profondo Nord di Gad Lerner. Addirittura il Pds con Fassino pensò seriamente di trasferire a Milano la segreteria del partito e tutti i dibattiti si concentrarono sulla Q.S.

Di fronte a questo capovolgimento di fronte, a questa cancellazione della Q.M. le popolazioni del Sud rimasero silenti. Come dimostra la ricerca coordinata da Stefano Cristante non solo crolla l’interesse per il Mezzogiorno, ma sul piano mediatico la QM tende a indentificarsi con la questione criminale. A partire della strage di Capaci e poi di via D’Amelio è la mafia siciliana prima, poi la Camorra e infine nel nuovo secolo la ‘ndrangheta che prende la scena quando si parla di Mezzogiorno.

L’impatto della Crisi sul Mezzogiorno 2007-2014

  • Il doppio dell’impatto sul piano economico. Reddito, consumo, tasso di disoccupazione. I tagli lineari della PA colpiscono due volte nel Mezzogiorno rispetto al Nord perché la spesa pubblica ha un peso nella formazione della ricchezza che è il doppio . Aveva ragione Paolo Sylos Labini quando scriveva negli anni ’80 che il motore della crescita al Sud è la spesa pubblica.
  • A differenza di altre fasi della storia contemporanea, questo divario tra Nord e Sud d’Italia, che si è allargato in maniera rilevante, fa parte di un processo generale che caratterizza questa crisi: crescono in tutti paesi del mondo, con poche eccezioni, le diseguaglianze territoriali, tra regioni ricche e quelle più povere, quanto quelle sociali tra la classe medio-alta e il resto della popolazione.

 

Conseguenza più disastrosa è la fuga dal Sud dei giovani come non si era mai vista. I dati Istat sono sottostimati perché tengono conto solo del cambio di residenza ma, come dimostrano i Censimenti, c’è uno scarto crescente tra popoplazione residente e presente.   Pertanto, noi possiamo oggi affermare che dal 2007 a oggi hanno lasciato il Mezzogiorno 2 giovani su 3 almeno una volta per motivi di studio o ricerca del lavoro. Ci troviamo di fronte ad una situazione drammatica che Carlo Levi aveva descritto per un piccolo paese lucano e che oggi si può estendere a quasi tutto Il Mezzogiorno (eccetto Pescara-Teramo-Chieti, il barese e il leccese, e pochi altri siti).

Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada , lasciano il paese. I più avventurati vanno in America , come i cafoni, gli altri a Napoli o a Roma; e in paese non tornano più. In paese invece ci restano gli scarti , coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l’avidità li rendono malvagi. Questa classe degenerata deve, per vivere, poter dominare i contadini, e assicurarsi, in paesi i posti remunerati di maestro , farmacista, prete, maresciallo dei carabinieri, e così via….Da qui la lotta continua per arraffre il potere , essere noi o i nostri parenti o compari ai posti di comando. (pp 33-34)

E torniamo ad oggi chiedendoci cosa è cambiato rispetto a quel mondo descritto da Carlo Levi.   Sinteticamente possiamo dire:

  1. Le campagne si sono completamente spopolate come le zone interne che hanno perso dal 1951 a oggi, mediamente, quasi l’80 per cento della popolazione.
  2. Sul piano culturale le nuove generazioni del Sud hanno modi di vivere e costumi molto simili ai loro coetanei del Nord, (Report Cavalli) così come a livello di istituzioni come la famiglia le differenze sono ormai minime (leggere i tassi di divorzi e separazioni)
  3. Sul piano dell’economia illegale il paese è stato unificato, sia per quanto riguarda la corruzione , il lavoro nero e infine per quanto riguarda le organizzazioni criminali: ‘ndrangheta, camorra e mafia si sono divise ampie zone del Centro/Nord
  4. Infine sul piano politico la crisi economica, con i relativi tagli dei trasferimenti netti dello Stato, hanno tagliato le gambe allo storico clientelismo meridionale e lasciato una libertà di voto come dimostrano i risultati elettorali nelle elezioni comunali degli ultimi anni e sicuramente il successo recente del M5S.
  5. Intatti, il successo clamoroso dei M5S al Sud va innanzitutto letto in quest’ottica: la fine della capacità di ricatto e consenso della vecchia classe politica. Ma, allo stesso tempo non rappresenta una rottura rispetto al passato : nel 2014 il Pd alle Europee aveva preso nel Mezzogiorno quasi il 36% , meno che nel CN ma sicuramente quasi il doppio del M5S che aveva preso il 22%.   Perché non ci siamo chiesti il perché di questa massa di voti al Pd di Renzi ? In gran parte aveva la stessa motivazione: la ricerca di un cambiamento radicale che dia una risposta all’impoverimento di questa parte del paese.

Che fare ?   Bisogna che lo Stato italiano riprenda il suo ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Sarebbe ancora più corretto e coerente se la Ue che ha assunto il ruolo con la BCE di prestatore monetario di ultima istanza (una volta affidato alle singole banche nazionali) assumesse anche il ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Il che significherebbe che una parte dei fondi europei che vanno alla “crescita economica” , e più spesso alle rendite parassitarie e alla corruzione, venissero usati per aumentare direttamente l’occupazione in servizi essenziali quali : la sanità, la scuola, i servizi sociali. Ma, anche la ricerca scientifica e le Università dovrebbero essere finanziate per garantire uno standard europeo indipendentemente dal luogo dove sono ubicate.

In ogni caso, in tempi brevi, la battaglia va fatta nei confronti dei governi nazionali che tagliano l’occupazione nella P.A. per dare incentivi crescenti e inutili alle imprese.

 

“La Calabria senza diritti e senza rappresentanza” di Enzo Paolini

“La Calabria senza diritti e senza rappresentanza” di Enzo Paolini

La questione che apriamo, in generale è quella della ricerca della vita a sinistra e nel sud, in chiave attuale di una questione meridionale che, lungi dall’essere risolta è più che mai presente.

Anzi è aggravata, resa ficcante e decisiva nello svolgimento sia delle dinamiche politiche che della vita quotidiana e personale di ciascuno di noi. Non siamo stati capiti.

Abbiamo ceduto al ceto politico tutti i nostri diritti.

Non quasi tutti. Tutti.

Faccio un esempio. Il meno evidente ma il più assoluto che riguarda tutto il Sud e con la drammatica pregnanza che in Calabria, che è la sanità.

Negli anni 70 abbiamo fatto due grandissime, rivoluzionarie conquiste di democrazia lo statuto dei lavoratori ed il servizio sanitario, universale e solidaristico. La l. 833/78. Tutte le cure sono dovute a tutti e sono pagate dallo Stato attraverso il prelievo fiscale che – secondo il principio costituzionale – aveva, in parte ancora ha, una scansione proporzionalmente progressiva.

Una applicazione egregia di socialismo reale, pensata negli anni del centrosinistra dai ministri socialisti Mariotti, Tremelloni, Mancini e poi emersa nell’anno drammatico il ‘78 in cui nel paese si sviluppò la violenza di Stato contro il pericolo comunista che portò all’omicidio di Moro. Non credo che vi sia oggi persona – di buon senso ed oggettiva – che non abbia ben chiaro cosa è avvenuto in Italia al fine della conservazione del potere da parte di un ceto che sin da allora si autoriproduceva.

La legge sul servizio sanitario ha avuto aggiustamenti nel corso degli anni e sino ad un certo punto non ha dato fastidio perché le risorse ancora erano sufficienti, la ricerca e l’innovazione ancora non così costose tanto che si consentiva ancora di tenere il piede in due staffe, come icasticamente celebrarono Zampa e Sordi nel medico della mutua.

Poi si pensò all’aziendalizzazione ed all’incompatibilità per iniziare a controllare i flussi di denaro. Operazione condivisibile – siamo nel 92 con Amato e Bindi – ed in grado, in teoria, di morigerare ed efficientare il settore.

Tralascio tutti i commenti tecnici e vado al nocciolo quello dei diritti (o del diritto) dei meridionali.-

Quando qui è imploso il sistema, depredato e devastato da corruzione ed imbrogli, connivenze con la ‘ndrangheta e altro, si è giunti al Commissariamento.

Misura che – come tutte quelle prodotte sulla scorta di emozioni, urgenze, suggestioni, emergenze politiche, può – deve – essere transitoria e limitata altrimenti cancella la democrazia e con essa la libertà ed i diritti.

Il nostro servizio sanitario che – secondo la riforma costituzionale – dovrebbe essere regolato e gestito dalla Regione, dalle sue rappresentanze democratiche è affidato da un Commissario dal 2010.

Otto anni, durante i quali ci siamo assuefatti a questa cessione totale di sovranità.

Ed i risultati si vedono. La forbice dei diritti si è allargata. Chi può andarsi a curare in costose cliniche private lo fa, chi ha malattie particolari e può viaggiare, pagare un albergo per i propri familiari viaggia, chi è fortunato ed ha amici che fanno saltare liste d’attesa ne approfitta. Gli altri si arrangiano e approdano al girone infernale dei pronto soccorso dove medici eroici e grandi professionisti non ce la fanno ad impedire la morte per disorganizzazione sanitaria. Nel frattempo la finanziaria dice che le strutture del nord possono accogliere senza limiti i casi di alta complessità, mentre i calabresi con l’ernia inguinale devono restare qui o pagare.

E la ricchezza delle aziende lombarde aumenta e il turismo sanitario aumenta e le aziende calabresi falliscono ed i cittadini calabresi rimangono qui, senza diritti, pur avendo subito il prelievo fiscale contenente la quota per l’assistenza sanitaria pubblica.-

Da cosa dipende tutto ciò? Dal sistema di rappresentanza sul quale abbiamo incondizionatamente ceduto.

Si è interrotto il circuito della rappresentanza nel momento in cui agli interessi del territorio e dei cittadini come motore, serbatoio di idee, motivazione per gli eletti nelle istituzioni si sono sostituiti i desiderata di un capo.

Pensiamoci un attimo, per quale motivo un ceto politico autoreferenziale in maniera assoluta dovrebbe avere riguardo a cosa pensano i cittadini costretti a sostare su una barella in corridoio o ad emigrare in Emilia per una TAC o per una cataratta? Perché – evidentemente – quei cittadini potranno premiarlo o punirlo nelle prossime elezioni con il loro voto. Ma se questo non è consentito, se l’eletto avrà riguardo solo a compiacere un capo che potrà rimetterlo o non rimetterlo in lista, non farà mai sentire neanche un pigolio rispetto allo sfacelo della sua regione, governata da otto anni attraverso un sistema antidemocratico finalizzato solo a mettere nelle mani di uno non la gestione ma il controllo della spesa.

E la spesa va al nord, va nella direzione di interessi più o meno leciti, va, comunque in direzione di chi, attraverso la spesa, controlla il consenso.

E’ questa è una questione meridionale? Io penso di si. Si sono persi diritti? Io penso di si? Si sono azzerate le rappresentanze? Io penso di si. E’ il famoso enunciato di Rodotà per il quale l’abdicazione più simbolicamente eversiva alla quale sono stati costretti gli italiani è il diritto di avere diritti.-

Ed io aggiungo che questo fenomeno aggrava e fa diventare putrida la questione meridionale, fino a trasformare questa tragedia nella farsa di due mestieranti che litigano sulle reti nazionali sui vitalizi dei consiglieri regionali, apparentemente in un disaccordo (demagogico quanto mai) ma in realtà ambedue con l’unico obiettivo di difendere, la casta, l’uno presentandola come un ceto pieno di errori ma, alla fine dignitoso, l’altro come il moralizzatore dell’ultima ora, quelli che a Milano dopo le cinque giornate chiamavano gli eroi della sesta giornata.

Ambedue avvinghiati al potere e tanto indifferenti alle sorti ed anche alle parole degli altri che censurando le lentezze e le negligenze, le colpe per l’aggiustamento di un ponte, durato dodici anni, non si rendevano conto che in questi dodici anni il governo erano loro.

Insomma il taglio del cordone ombelicale tra eletti ed elettori che in regioni e situazioni dove i cittadini possono, in qualche modo sfuggire o pensare di sfuggire o fare a meno di esercitare diritti riconosciuti dalla Costituzione perché la loro costituzione materiale glieli può assicurare comunque (ad alcuni) qui nelle Murge o in Aspromonte o a Corso Telesio si presenta come il passaggio tra un sistema democratico ed un regime.

Noi abbiamo plaudito e combattuto in momenti e da postazioni diverse, al pacchetto Colombo e Gioia Tauro, a Saline Joniche, abbiamo pensato che autostrade e università fossero solo apparentemente risposte politiche ma assecondavano logiche commerciali ed – alla fine – scelte di potere.

Ne abbiamo visto i vantaggi e ne abbiamo scontato miseria e obliquità quanto speculazioni ed arricchimenti personali frutto di spregiudicati comportamenti sul limite ed oltre i reati.

E ciò per il semplice fatto che quelle era lotta politica, confronto aspro, siamo giunti fin dentro la lotta armata, attraverso la quale, lo ricordiamo in tutte le salse in questi giorni, si cercava il riconoscimento politico, la legittimazione.

Ma mai la sinistra aveva prodotto e pagato in termini così alti questa caduta di legittimazione.

L’analisi più acuta di questo fenomeno – l’ha ricordato anche D’Alema in un recente pezzo sul Manifesto – sta in una riflessione di Alfredo Reichlin che Luciana Castellina mi ha dato, il giorno del suo saluto, per pubblicarlo tra le carte del Premio Sila. Dice Reichlin che “non sarà una logica oligarchica a salvare l’Italia. E’ il popolo che dirà la parola decisiva. La sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto e agibile dalle nuove generazioni. Quando parlai del PD come di un “Partito della nazione” intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate nel loro contrario: il “Partito della nazione” è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito tacere”.

Il risultato, da noi, è stato devastante ed i figuranti che ci dovrebbero rappresentare gli Oliverio, i Crocetta, i De Luca, i Pittella suonano come sul Titanic solo che i musicanti del transatlantico erano eroi consapevoli della loro sorte, i sedicenti politici di oggi sono satrapi che si ritengono inaffondabili.

Ed invece sono già affondati tirandoci giù.

Ecco i risultati – nudi e crudi: in Italia il centrosinistra complessivamente prende il 22.95% (il PD il 18.7) in Calabria il 17.11 (il PD il 13.1) e così via-

Dunque dal mio punto di vista la Calabria è ora una terra senza rappresentanza e senza diritti e ciò è stato determinato dallo scassinamento della Costituzione nei suoi articoli fondamentali, quelli della prima parte. Tutti i primi 11 articoli della Costituzione sono clamorosamente inattivati. Basta leggerli per rendersene conto. E’ da qui che dobbiamo ripartire. Dall’attuazione della Costituzione come programma politico. E deve partire dal Sud.

*

E ciò è stato consentito dalla introduzione di una legge elettorale, quella fatta da un odontotecnico di Varese, che per inventarsi un tecnicismo che consentiva alla lega di avere rappresentanze cospicue al Senato ha costituito un Parlamento totalmente autonominante che si è livellato talmente in basso e con un tale grado di dipendenza dei nominati che nessuno ovviamente ha avuto – ed avrà – la forza di modificare.

Agli incolti ed incompetenti che hanno provocato questo disastro politico approvando un ultima legge palesemente incostituzionale dovremmo richiamare lo spirito della Costituzione e quali siano i diritti Costituzionali, in maniera da tentare di far capire loro – ove lo vogliano – in che modo si possono adottare (senza voti di fiducia) leggi elettorali conformi alla Costituzione e rendersi conto una volta per sempre che la (vera) democrazia rappresentativa non tollera un Parlamento infarcito – come ancora quello attuale – di nominati ed impresentabili.

L’auspicio è che comunque, come in altri tempi, gli intellettuali contaminino le più alte istituzioni come la Corte Costituzionale la quale nel determinare l’illegittimità della attuale legge elettorale indichi al Parlamento un percorso legislativo a maglie strette – e può farlo – che consenta di riallacciare la connessione (non solo sentimentale) ma anche elettorale tra i cittadini e le Istituzioni perché solo su questa corrente il nostro osservatorio potrà fare sentire la sua energia.

 

 

“Il Sud nella crisi della democrazia rappresentativa. Analisi e riflessioni dopo il voto del 4 marzo”

“Il Sud nella crisi della democrazia rappresentativa. Analisi e riflessioni dopo il voto del 4 marzo”

E’ stata ufficialmente presentata nel corso di una partecipata iniziativa che si è svolta il 20 aprile scorso nei locali della Camera del lavoro di Cosenza, una nuova associazione culturale nata su impulso dello storico Piero Bevilacqua, che ne è anche il presidente. L’associazione “Osservatorio del Sud” è stata creata con l’intenzione di porre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale i gravi problemi dell’Italia meridionale di oggi senza le retoriche recriminazioni del passato, ma con un grande sforzo di verità,  con analisi circostanziate, che traggano il Sud fuori dalla coltre degli stereotipi che lo deformano, mostrandolo così come: piagato da tanti mali – disuguaglianze estreme, fuga delle intelligenze, devastazione del territorio e del paesaggio, infiltrazioni criminali, nuove povertà – ma anche ricco di forze di contrasto, di imprenditoria sana e dinamica, di nuove correnti culturali, di passione politica e civile, di generosi amministratori, di figure straordinarie che progettano e perseguono un nuovo mondo possibile.

“L’Osservatorio – spiega Piero Bevilacqua – costituisce anche uno sforzo di raccordare e mettere in rete le intelligenze meridionali disperse nel territorio della Penisola e in Europa. Vuole dunque essere uno sguardo vigile sui problemi e i fermenti di una parte rilevante del nostro Paese. Ma ha anche l’ambizione di elaborare idee, progetti e proposte, che aiutino le forze migliori a trovare la strada di un impegno corale di trasformazione sociale e di emancipazione civile”.

La nuova associazione è stata presentata al pubblico nel corso di un convegno dal titolo “Il Sud nella crisi della democrazia rappresentativa. Analisi e riflessioni dopo il voto del 4 marzo”.

Dopo i rituali saluti del segretario della Cgil Cosenza, Umberto Calabrone, e una breve presentazione del professore Battista Sangineto, che è anche il vicepresidente dell’associazione, la relazione introduttiva affidata all’economista e sociologo calabrese, Tonino Perna: “C’era una volta il Sud… e c’è ancora…”.

Il segretario generale Cgil Calabria, Angelo Sposato, nel suo intervento ha posto l’accento sul tema dell’occupazione: “Nel mondo del lavoro calabrese ci sono ancora moltissime vertenze aperte. Viviamo in un territorio che ancora soffre di un pesante divario con il resto del Paese a causa di un elevatissimo tasso di disoccupazione, presenza della criminalità organizzata e mancanza di riforme istituzionali, economiche e politiche. Ciò ha determinato una frattura decisa tra la classe dirigente e il mondo del lavoro che ha prodotto il risultato elettorale del 4 marzo”.

Sono poi seguite le relazioni dell’avvocato Enzo Paolini “La Calabria senza diritti e senza rappresentanza” e la conclusione affidata allo storico Piero Bevilacqua: “Perché il reddito di cittadinanza è necessario”.

Terminati gli interventi programmati, si è aperto un vivace dibattito animato da una lunga serie di interventi dal pubblico: non solo soci dell’associazione ma anche semplici cittadini stimolati dalle riflessioni dei relatori. Ne è nato un confronto teso e sentito sulle nuove dinamiche del lavoro, su tecnologia e capitale, sui conflitti di classe, sulla funzione politica di una nuova sinistra, sull’ambiente e gli spazi comuni e sull’importanza di imporre nel dibattito pubblico nazionale una nuova questione meridionale su basi radicalmente nuove.

20 aprile 2018

Osservatorio del Sud: fissare orizzonte, direzione, finalità, obiettivi. Perseguirli con intelligente eccletismo di Mimmo Rizzuti

Osservatorio del Sud: fissare orizzonte, direzione, finalità, obiettivi. Perseguirli con intelligente eccletismo di Mimmo Rizzuti

L’iniziativa del 2 Dicembre scorso a Lamezia per la costruzione dell’Osservatorio, fortemente voluta da Piero Bevilacqua e materialmente organizzata da Gianni Speranza e Giacomo Panizza, parte dalla constatazione di una condizione del Mezzogiorno connotata da una sequenza di negatività che hanno portato all’oscuramento di quella che una volta era la questione nazionale per eccellenza.

Con tutti gli indicatori politici, economici , sociali , culturali, istituzionali in scivolamento costante verso il basso, ancorchè a macchia di leopardo, a testimonianza dell’articolazione della realtà meridionale, il Sud è progressivamente scomparso dalla scena .

Una recente, interessante ricerca curata da Daniele Petrosino e Onofrio Romano con prefazione di Franco Cassano, di cui è coautore Tonino Perna, si intitola emblematicamente “ BUONANOTTE Mezzogiorno”

Una ricerca, come sottolinea Cassano nella prefazione, che in maniera analitica registra l’oscuramento e l’impasse in cui si trova il Mezzogiorno da cui, nello scenario dato, non si riesce a trovare una via di fuga.

Per uscire da questo cono d’ombra occorre avere ben chiari i fenomeni che l’hanno generato e che purtroppo tendono a stabilizzarlo.

Dominante appare in ogni manifestazione o tentativo di riprendere un discorso sul Sud, un senso di RASSEGNAZIONE, di ACCETTAZIONE COME INEVITABILE DELLA CONDIZIONE DATA,DEI PARADIGMI E DELLA VISIONE DOMINANTE.

Una condizione che pervade le classi dirigenti tutte, politiche in primo luogo.

Da cosa deriva questo stato?

Piero, nelle ragioni in cui motiva questa iniziativa e nella sua introduzione, individua e indica nella “grave trasformazione e degenerazione della vita pubblica nazionale degli ultimi 70 anni.” il fenomeno che ha determinato questo stato di cose .

Registra come “quelli che erano stati i grandi partiti popolari, gli “organizzatori della volontà collettiva”, come li chiamava Gramsci,  i produttori di indagine e di cultura sociale finalizzati alla modernizzazione del Paese, si siano “trasformati in raggruppamenti di comitati elettorali.

Come gli stessi si siano dissolti in ceto politico, un corpo frantumato e dominato dall’individualismo competitivo  

, che opera al fine sempre più esclusivo e assorbente della vittoria elettorale. Vale a dire  l’ingresso alla gestione del potere.

A tale scopo, che non è quello della trasformazione del Paese secondo i suoi emergenti bisogni collettivi, l’indagine sociale e la conoscenza non servono. Servono i sondaggi”.

Come siamo arrivati a questo stato di cose?

Sulla scia della sua introduzione, credo sia opportuno sottolineare come questa condizione si sia determinata a conclusione di due momenti distinti della storia del nostro Paese : dal dopoguerra a tutti gli anni 70 del 900 e dagli anni 80 ad oggi.

Due periodi in cui il problema degli squilibri Nord –Sud del Paese sono stati declinati ed affrontati con due diversi paradigmi.

Nel primo periodo “ La questione Meridionale”, come problema politico nazionale resta oggetto dell’intervento dello stato centrale, attraverso l’intervento straordinario(CASMEZ) che sarebbe dovuto essere un intervento aggiuntivo volto a colmare gli squilibri storici delle due aree del Paese registrati al momento della unificazione (1860) ed accentuatesi successivamente , con una certa attenuazione nei gloriosi anni 30 del dopo seconda guerra mondiale, in cui il Sud ( anni 60 /70 del 900) aveva attenuato il divario.

In ogni caso il Sud, in tutto questo arco storico, è stato uno dei pistoni di maggiore spinta dello sviluppo del NORD (fornitore risorse umane preziose e mercato di sbocco per le sue imprese).

Forse sarebbe il caso che nel dare – avere conteggiato dalle classi dirigenti del Nord di questo periodo di crisi profonda dello Stato, che puntano a trattenere le tasse che si pagano nei propri territori, fossero conteggiati anche questi enormi credi ti del Sud.

La questione meridionale ha mantenuto una sua centralità fino a quando il quadro sociale si è organizzato intorno allo stato-nazione.

 

Entrato in crisi l’assetto Stato centrico (O Connor 73-97 ) il Mezzogiorno è progressivamente uscito di scena e negli ultimi decenni la questione meridionale( nel nuovo assetto della globalizzazione neoliberista) ha assunto un inedito protagonismo la questione settentrionale.

Caduto il muro di Berlino nell’89 modificatosi l’assetto geopolitico , e perduto il ruolo dell’Italia di “confine” il senso ed il tessuto della solidarietà nazionale si è vieppiù lacerato.

Agli inizi del secolo presente Cassano , Zolo, Amoroso, Bevilacqua, Alcaro, Barcellona, Perna, con varie accentuazioni pongono il tema del recupero di uno specifico ruolo centrale del Mezzogiorno nel nuovo scenario del Mediterraneo.

Siamo in una fase, a metà degli anni 90 in cui prende piede nell’ Unione , dopo il trattato Di Maastricht (1992),il processo di Barcellona ( 1995), per dare vita al Partenariato Euro Mediterraneo, cioè ad una strategia comune europea per la regione mediterranea, interessata a quell’epoca( 1993) dall’avvio del processo di pace israelo palestinese che dava vita all’incontro di Oslo, con protagonisti Arafat e Rabin e Clinton.

Iniziative di breve vita che però avevano suscitato grandi speranze ed acceso entusiasmi.

Sono del 2006/ 2007 due volumi collettanei fondamentali di questo tentato tentativo di porre come scenario per l’Europa la questione Mediterranea in cui il Sud Italia acquista piena centralità.( E’ Il paradigma dell’Autonomia). Il primo del 2006, la Frontiera Mediterranea, curato da Pietro Barcellona e Fabio Ciaramelli.

Il secondo del 2007 è Il volume curato da Franco Cassano e Danilo Zolo cui segue nel 2009 un altro libro di Cassano “Tre modi di vedere il Sud” in cui definisce il paradigma che connoterà la lettura e orienterà gli interventi nel Mezzogiorno come Localismo Virtuoso.

Un intervento bottom up ( dal basso) che nella logica della modernizzazione punta tutto sulle risorse endogene . E comunque su questo paradigma si dispiegano nell’arco del primo decennio di questo secolo, quasi tutte le energie intellettuali pur con diversità di accenti e tematiche affrontate, impegnate sul tema da Trigilia 93 a Magnaghi, Cersosimo, Donzelli, Donolo, Viesti, Barca che , da Agenda 2000 ad oggi, con incarichi dirigenziali ed istituzionali, Ministro delle politiche della coesione sociale e territoriale nel governo Monti, ne è stato l’attore principale sia sul versante della programmazione che su quello della gestione.

Ed è di questa fase il lavoro interessante delle Riviste MERIDIANA , diretta all’epoca da Piero Bevilacqua, Città Futura di Antonio Pioletti a Catania e Ora Locale diretta dal mai abbastanza compianto Mario Alcaro, fautore più di altri del paradigma dell’Autonomia , nel sostenere come alcune caratteristiche dell’identità meridionale, quali ad esempio la socievolezza ed il familismo, possano essere fatte valere come carte vincenti da giocare nella partita dello sviluppo e della competitività, dentro un’identità mediterranea di cui il parametro fondamentale è costituito dalla natura dove “ la visione del cosmo e il modo di rapportarsi al naturale danno vita a un naturalismo immaginifico e potente, di cui la modernità ha smarrito il senso”.

Temi che in altro contesto e scenario aleggiano nel recente volume di Riccardo Petrella “ nel nome dell’Umanità “ un patto sociale mondiale tra tutti gli abitanti della Terra” e che impattano frontalmente i temi dell’ambiente, della natura umana ed dei sistemi che la dominano.

Ma , anche in questa visione, il sud non è decollato. Restano gli squilibri di cui conosciamo fin troppo i numeri e le ricadute sulle popolazioni del mezzogiorno.

Anzi il Mezzogiorno è scomparso tout court dalla scena anche mediatica.

La ricerca PRIN “ Il sud e la Crisi” pubblicata nel libro“BUONANOTTE MEZZOGIORNO” economia, immaginario e classi dirigenti nel Sud della Crisi, curato da Romano e Petrosino, edito recentemente da Carocci , fornisce un’immagine inequivocabile dell’eclissi in cui è sprofondato il sud nella crisi su cui si è abbattuta la lunga recessione, analizzata nella ricerca da Tonino Perna e Fabio Mostaccio.

Anche se annotano gli autori nella introduzione, qualche debole segnale, peraltro non scontato, di esistenza , emergono dagli ultimi due rapporti Svimez.

Se diamo anche una fugace occhiata alla narrazione del Mezzogiorno, in termini quantitativi e qualitativi nel trentennio che va dal 1980 al 2010 al TG1 e ai due maggiori quotidiani italiani, e pur nella strutturale diversità ai siti web e alle pagine facebook, abbiamo la certificazione della scomparsa della questione.

Alcuni numeri:

Sul totale dei servizi esaminati nel periodo indicato il 91% non fa riferimento alcuno al Sud( 1678 ) contro il 9% riferiferiti al Sud (166). Se ancora si guarda il totale dei servizi dal 2000 al 2010 cambiano i numeri , 1433 a 150 ma le percentuali restano immutate. 91% e 9% .

E così possiamo continuare con rapporti analoghi sul numero delle edizioni in cui il sud è menzionato nei due periodi .Se poi andiamo a vedere le parole chiave in valore assoluto usate dai sevizi televisivi sul sud in testa la cronaca (53) , di cui quella nera rappresenta il 93% , seguita a ruota da Criminalità 42 ,seguite con distacco dal meteo 25 ( alluvioni e disastri) e dal welfare (sanità 63%.

Lo stesso andamento lo troviamo su Repubblica e Corriere della Sera, i due quotidiani esaminati

In totale su Repubblica su 2417 articoli articoli , 2005 coprono il periodo 1980 -1999. 412 il 2000-2010.

Nel corriere su 1251 articoli 941 coprono l’ultimo ventennio del 900 e 225 il primo decennio del 2000.

Le parole chiave sono criminalità 46% cronaca 18% Politica 13% Welfare 7% cultura 5% , Migranti 1% economia 2% ambiente 2% Lavoro 3% Società 3% meteo 0%

L’immagine che ne viene fuori non ha bisogno di illustrazioni.

La ricerca poi si pone il problema di esaminare l’immaginario delle classi dirigenti e con un campione composto da industriali , professori ordinari, politici e nuove leve .

Ne esce un quadro di sfiducia   e rassegnazione e comunque una volontà di trascinarsi dentro l’attuale modello di localismo e di modernizzazione progressista , nonostante gli esiti.

L’indice più alto di sfiducia e rassegnazione si registra in Calabria. Il più basso in Puglia.

In una situazione del genere diventa difficile imbarcarsi su sentieri nuovi di cui non si intravedono, segnali, dopo la chiusura della fase dell’intervento straordinario ancorata al Paradigma del Sud Questione Nazionale, nel solco dell’art. 3 della Costituzione e dell’impegno a rimuovere <<Gli ostacoli di ordine economico e sociale che ostacolano limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini>> e il quasi fallimento della mobilitazione dal basso della società Civile, paradigma del localismo virtuoso sostenuto dalle programmazioni dei fondi comunitari da Agenda 2000 a quelli della programmazione 14/20 in atto, che puntava molto sul recupero e rivitalizzazione delle zone interne.

Senza una visione catalizzante ed attrattiva come lo sono state in condizioni diverse le due precedenti, è comunque, possibile rimettere in moto un qualche processo?

Credo che la questione richiede un approfondimento.

Entrambi questi paradigmi, ci ricorda Cassano, scontano il fatto di trascurare gli elementi strutturali che nel contesto più vasto e generale regolano i rapporti tra centro e periferia e che potrebbe essere positivo, senza aspettare super paradigmi interpretativi, riconoscere ognuno la propria parzialità, e provare a dar vita, dialogando a formulare teorie più eclettiche, per cercare di arrestare l’effetto S. Matteo suggerito da R. Merton richiamando quel versetto dell’evangelista che recita <<a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha>>.

E allora bisogna vedere come si inverte la logica di questo versetto in una situazione dominata dalla logica di entità economico finanziarie astratte, che detengono in mano poteri illimitati.

Considerato anche che l’altro paradigma importante, quello dell’autonomia e dell’Alternativa Mediterranea diventa sempre più problematico considerato il Caos regnante nell’area che va dal sud del Mediterraneo, al Sahel, alla Penisola Arabica e dal Corno d’Africa all’Hindu Kush .

Ma noi siamo chiamati a misurarci con questa situazione e con i problemi che ci pone innanzi.

E allora forse l’indicazione di Cassano di ricorrere ad un eclettismo non banale tra i diversi paradigmi può consentirci un rapporto più laico con la realtà e smuovere una situazione stagnante in cui migliaia di persone hanno bisogno di risposte irrinviabili per la propria esistenza.

Azzardiamo:

La globalizzazione liberista ha generato , ormai in maniera conclamata , quello che Bruno Amoroso, già nel 2000 definiva un sistema di Aparthaid globale .

Un sistema in cui , se è vero che alcune aree e realtà sono uscite da condizioni di assoluta sopravvivenza ( questo, è anche vero che lo stesso ha prodotto una condizione di esclusione e povertà drammatica nel mondo.

Basti pensare che oggi , 8 miliardari possiedono nel mondo la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone.

Questo sistema di cui è parte fondamentale una politica , ormai struttura servente dell’economia e della finanza, ha gettato nel Caos l’intero medio oriente e tagliato fuori da una vita accettabile un intero continente : l’Africa.

In questa vasta area , definita da Limes Caoslandia, si incrociano alla perfezione i 4 fattori strutturali delle migrazioni: : demografia, economia, clima e geopolitica.

La geopolitica ha scatenato in quell’area un condizione di guerra permanente di posizionamento geostrategico delle potenze mondiali e regionali che , in tanta parte, agiscono per procura delle prime.

Tutto ciò dà vita ad un fenonome migratorio destinato a non arrestarsi, e ai fenomeni che inondano in maniera enfatica i telegiornali e generano il clima che percepiamo ad ogni angolo: paura, odio, violenza ottusità mentale.

Tenendo presente che in queste condizioni nessuno potrà fermare questi flussi migratori che peraltro stanno nei limiti della normalità e rientrano in quella che è la normale storia dell’umanità,

il governo di questo fenomeno può divenire un elemento costitutivo di un nuovo paradigma che riprende in parte quello sull’autonomia e l’Alternativa Mediterranea , partendo non da impossibili, oggi, accordi intergovernativi o processi di partenariato simili a quello di Barcellona 95 e lo coniuga con i bisogni e gli interessi di un continente, L’Europa , in progressivo rapido invecchiamento e decadimento che ha bisogno di ricambi generazionali per l’insieme dei sistemi sociali , produttivi e territoriali dei Paesi della sua Unione?

E noi Mezzogiorno e Calabria, possiamo muoverci , sulla scorta di esempi di accoglienza e inserimento paradigmatici ( Riace in primis , ma non solo) per intrecciare a livello di Comunità Locali (istituzionali e associative ) gli interventi della programmazione comunitaria 14/20 con gli interventi di stato per l’accoglienza e l’inserimento dignitoso ed umano di chi scappa dall’inferno?

Potremmo, ad esempio, in un momento di impasse, degli stati nazionali riaprire le vie di un rapporto con l’Africa , a cominciare da quella a noi attaccata per provare, in una rete di scambi autonomi con le comunità locali di provenienza dei migranti, a costruire un rapporto che si richiami idealmente a quelli rilanciati e rimodulati, parecchio dopo il crollo dell’impero romano, dalle prestigiose repubbliche marinare dall’XI/a tutto il XIV secolo e oltre.Con Genova che inventava il capitalismo moderno (1407), mentre in parallelo e in concorrenza Venezia, si muoveva già, attraverso il mediterraneo Orientale lungo le vie dall’Asia al Mediterraneo , che oggi riprende, XI Jinping, in ottica di globalismo sino centrico, sotto il nome di nuove via della seta.?

Fu quella delle repubbliche marinare una presenza ed una influenza durata secoli che faceva registrare ancora tra fine ottocento e inizi 900 in circa un milione gli italiani in diaspora tra Marocco e Anatolia.

L’italiano fino a quell’epoca era una sorta di lingua franca degli scambi commerciali, diffuso dall’Egitto al Mar Nero, usato anche per la redazione di trattati internazionali.

Il velleitarismo geopolitico dell’Italietta di Giolitti prima , ripreso con particolare violenza e virulenza da Mussolini poi, distrusse in pochi anni la nostra rete mediterranea , fondamentale per i rapporti con l’ISLAM.”

A me sembra che sarebbe necessario, pur nella piena consapevolezza delle difficoltà, provare a mettere insieme, per il Mezzogiorno e la Calabria, un paradigma capace di tenere uniti alcuni aspetti del paradigma Mezzogiorno come questione nazionale, con quelli che recuperano le parti vitali e fresche del paradigma noto come Localismo Virtuoso, dentro gli aspetti praticabili di quello dell’Autonomia e dell’Alternativa Mediterranea.

A me sembra che una posizione del genere ci consentirebbe di mettere a frutto la nostra posizione di perno geografico del Mediterraneo, capendo che non è più il Mare Nostrum “ il sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in una unità originale” che ci proponeva 30 anni fa Fernad Braudel, ma “è sempre più un nastro trasportatore che, in senso est-ovest, solletica le ambizioni egemoniche della Cina, già largamente presente in Africa” . E poi ci sono gli altri .

In questo scenario mutato Noi , partendo dall’impatto dei movimenti migratori e dal ruolo nevralgico che assumono le comunità locali all’interno di una adeguata strategia di accoglienza/integrazione /assimilazione possiamo recuperare in parte la visione Braudeliana e rilanciare il ruolo del nostro Paese nell’Europa.

In questa ottica, determinante diventa una convergenza di politiche nazionali, comunitarie e locali .

Perciò credo che l’osservatorio che propone Piero dovrebbe essere articolato per sezioni per monitorare i vari aspetti della politica a cominciare da quella dell’accoglienza dei migranti.

Per la Calabria penso che dovrebbe lavorare con altri soggetti già operanti sul territorio alla costruzione di :

  1. un percorso che sfoci in un incontro annuale di conoscenza e scambio, UN MERCATO MEDITERRANEO, tra le nostre comunità di accoglienza e quelle di provenienza dei migranti;
  2. una struttura di coordinamento formazione, servizio per tutte le nostre comunità interessate, finalizzata al potenziamento della cooperazione decentrata, e al massimo e migliore utilizzo dei fondi comunitari ad esse attribuiti.

Mi piace ricordare concludendo che proprio a Lamezia il 23 Maggio del 2008 si tenne un importante attivo nazionale della SEM presieduto dal caro compagno Gianni Lucchino,

L’attivo fu concluso nel ridotto del teatro Grandinetti, con una tavola rotonda coordinata da Matteo Cosenza , direttore del Quotidiano della Calabria e con la partecipazione del sindaco di Lamezia di Gianni Speranza, che dava il via al primo atto concreto per la costruzione di un “Cantiere per l’area del Mediterraneo” con la presentazione del VII rapporto sul Mediterraneo, curato da Bruno Amoroso , Nino Lisi e Gianfranco Nicolais, edito da Rubbettino che si sviluppava sul tema culture ed economie del mediterraneo e, con un approccio tipicamente braudeliano, guardava al Mediterraneo come una Mesoregione in evoluzione , luogo di confronto, incontro e conflitto tra culture ed interessi geopolitici e geoeconomici.

Nel dibattito che ne seguì emersero , anche con differenza di toni, i temi intorno ai quali il rapporto si era sviluppato: dalle culture mediterranee e dalla modernità europea , alle culture e società civili presenti nell’intera area del bacino, alla politica estera e cooperazione economica, alla nuova centralità del Mediterraneo e alla logistica che lo interessa, agli obiettivi ed alle metodologie della cooperazione per un benessere condiviso fra le Regioni dell’Europa Meridionale ed i Paesi della Sponda Sud del mare , indagando le divergenze e cercando le convergenze possibili.

Mimmo Rizzuti

 

 

 

Il riuso delle città di Roberto Budini Gattai

Il riuso delle città di Roberto Budini Gattai

Il contenimento della espansione della città contemporanea, pur nella consapevolezza delle necessità crescenti dell’abitare, si può ripensare sia attraverso il riuso generalizzato, sia ribaltando una consuetudine nel modo di porre l’attività edificatoria. La produzione edilizia moderna e contemporanea si manifesta generalmente mediante l’occupazione delle aree libere e, nei casi migliori, con l’applicazione dei modelli tradizionali: quartieri, città giardino, grandi unità abitative e sempre di più centri direzionali, commerciali, universitari, strade, ecc., i cosiddetti “poli.”

Contrariamente a tali modalità di ampliamento e di pretesa qualificazione (differenziale) della città, la progettazione urbanistica si può fare interprete di un diverso modo di porre il problema della città contemporanea.

In questo diverso modo è il vuoto che assume un ruolo decisivo; esso ridefinisce i confini del costruito, individua la soglia di passaggio da un sistema rurale ad un sistema urbano, oppure tra differenti sistemi insediativi dove s’interpongono spazi residuali.

Si tratta di spazi di soglia, densi di energie relazionali, dove si precisa il compito della progettazione nel ricollocare i frammenti edilizi e i vuoti urbani, individuando elementi alla scala superiore che identificano i caratteri irripetibili della città o del territorio, in un processo di memoria dei segni e delle tracce originarie, sui quali poter ancorare questi pezzi insediativi altrimenti indifferenti a qualsiasi configurazione urbana. (ovvero privi di memoria, seriali, uniformi).

La nozione di “sistema”, già introdotto nella normativa urbanistica (in Toscana), costituisce una novità nel modo di pensare lo spazio urbano e territoriale, perché induce alla trasformazione di entità astratte, quali le zonizzazioni, in una configurazione fisica dello spazio che materialmente rivela tutta la complessità delle relazioni sistemiche.

Con ciò, le differenti articolazioni, di pieni e di vuoti, di edificato e di spazi liberi e i loro rapporti geometrici, vanno a individuare le coordinate costitutive dei luoghi. In tal modo essi esprimono i caratteri specifici della qualità urbana.

Queste tracce di un passato riconosciuto, disegnano la realtà fisica, hanno una continuità nel tempo e costituiscono delle invarianti che la legge (ad es. toscana) precisa come “invarianti strutturali”.

Preferiamo ridefinirle “invarianti di trasformazione”.

Infatti le invarianti non identificano solo manufatti immutabili nel tempo, oggetti da ingessare una volta per tutte, ma questi devono essere piuttosto assunti nelle loro potenzialità a divenire altro dalle ragioni che li hanno originati (ma che sono sempre ricche di suggerimenti).

Il nesso tra le condizioni originarie e quelle attuali deve conservare il sistema delle relazioni morfologiche che è una costante (invariante, appunto), anche se le vicende storiche ne hanno mutato il significato. Le mura urbane, le sponde fluviali, i fronti a mare, i manufatti architettonici, le vie in curva e quant’altro debbono essere interpretati a partire dalla loro natura genetica, dentro la quale si possono scoprire gli elementi del nuovo, i princìpi del progetto.

Dal vuoto urbano, dal negativo, dal non costruito, si definisce la materializzazione del segno fisico che sta in equilibrio tra una forma del naturale e un atto artificiale, così da istituire un rapporto tra natura e architettura.

La definizione di “verde”in urbanistica, è un’accezione ancora tutta ideologica che tende a separare la natura dall’uomo e dalle sue forme di attività.

In ogni epoca questo rapporto dell’uomo con la natura si è manifestato sia attraverso una elaborazione intelligibile sia secondo un rapporto sensibile.

Così, ad esempio, l’ortus conclusus esprimeva la nostalgia dell’Eden, ossia la perfettibilità e l’armonia perduta contrapposta allo smarrimento prodotto dalla selva. Attraverso l’intelletto umano e la percezione sensibile del mondo, com’è nell’arte, questa natura imperfetta avrebbe fatto intravedere la bellezza eterna.

D’altra parte, le “divine proporzioni” costituivano la struttura intellettiva della città ideale del rinascimento, rappresentata nel disegno del giardino. Così alla purezza delle sue geometrie vi era opposta la materialità degli elementi naturali forgiati come da un processo alchemico.

Gli artisti che scoprivano nelle regole classiche le divine proporzioni e nell’utopia dell’armonia la risoluzione dei conflitti che animavano la società, con le loro opere hanno permeato le coscienze di tutto il mondo.

E ancora altre opere dell’uomo, nella loro sedimentazione, hanno dato luogo poi a quell’immagine totalizzante che, in modo distaccato, denominiamo “paesaggio”.

 

Il lavoro, la ricerca, la pratica progettante che propongo all’Osservatorio trova applicazione in alcuni luoghi che possono costituire dei modelli d’intervento nei territori rurali, fluviali, costieri, nei centri antichi o nei conglomerati urbani del sud dell’Italia e in generale dell’area mediterranea.

 

(dall’intervento a Lamezia del 2.XII.2017)