Il riuso delle città di Roberto Budini Gattai

Il riuso delle città di Roberto Budini Gattai

Il contenimento della espansione della città contemporanea, pur nella consapevolezza delle necessità crescenti dell’abitare, si può ripensare sia attraverso il riuso generalizzato, sia ribaltando una consuetudine nel modo di porre l’attività edificatoria. La produzione edilizia moderna e contemporanea si manifesta generalmente mediante l’occupazione delle aree libere e, nei casi migliori, con l’applicazione dei modelli tradizionali: quartieri, città giardino, grandi unità abitative e sempre di più centri direzionali, commerciali, universitari, strade, ecc., i cosiddetti “poli.”

Contrariamente a tali modalità di ampliamento e di pretesa qualificazione (differenziale) della città, la progettazione urbanistica si può fare interprete di un diverso modo di porre il problema della città contemporanea.

In questo diverso modo è il vuoto che assume un ruolo decisivo; esso ridefinisce i confini del costruito, individua la soglia di passaggio da un sistema rurale ad un sistema urbano, oppure tra differenti sistemi insediativi dove s’interpongono spazi residuali.

Si tratta di spazi di soglia, densi di energie relazionali, dove si precisa il compito della progettazione nel ricollocare i frammenti edilizi e i vuoti urbani, individuando elementi alla scala superiore che identificano i caratteri irripetibili della città o del territorio, in un processo di memoria dei segni e delle tracce originarie, sui quali poter ancorare questi pezzi insediativi altrimenti indifferenti a qualsiasi configurazione urbana. (ovvero privi di memoria, seriali, uniformi).

La nozione di “sistema”, già introdotto nella normativa urbanistica (in Toscana), costituisce una novità nel modo di pensare lo spazio urbano e territoriale, perché induce alla trasformazione di entità astratte, quali le zonizzazioni, in una configurazione fisica dello spazio che materialmente rivela tutta la complessità delle relazioni sistemiche.

Con ciò, le differenti articolazioni, di pieni e di vuoti, di edificato e di spazi liberi e i loro rapporti geometrici, vanno a individuare le coordinate costitutive dei luoghi. In tal modo essi esprimono i caratteri specifici della qualità urbana.

Queste tracce di un passato riconosciuto, disegnano la realtà fisica, hanno una continuità nel tempo e costituiscono delle invarianti che la legge (ad es. toscana) precisa come “invarianti strutturali”.

Preferiamo ridefinirle “invarianti di trasformazione”.

Infatti le invarianti non identificano solo manufatti immutabili nel tempo, oggetti da ingessare una volta per tutte, ma questi devono essere piuttosto assunti nelle loro potenzialità a divenire altro dalle ragioni che li hanno originati (ma che sono sempre ricche di suggerimenti).

Il nesso tra le condizioni originarie e quelle attuali deve conservare il sistema delle relazioni morfologiche che è una costante (invariante, appunto), anche se le vicende storiche ne hanno mutato il significato. Le mura urbane, le sponde fluviali, i fronti a mare, i manufatti architettonici, le vie in curva e quant’altro debbono essere interpretati a partire dalla loro natura genetica, dentro la quale si possono scoprire gli elementi del nuovo, i princìpi del progetto.

Dal vuoto urbano, dal negativo, dal non costruito, si definisce la materializzazione del segno fisico che sta in equilibrio tra una forma del naturale e un atto artificiale, così da istituire un rapporto tra natura e architettura.

La definizione di “verde”in urbanistica, è un’accezione ancora tutta ideologica che tende a separare la natura dall’uomo e dalle sue forme di attività.

In ogni epoca questo rapporto dell’uomo con la natura si è manifestato sia attraverso una elaborazione intelligibile sia secondo un rapporto sensibile.

Così, ad esempio, l’ortus conclusus esprimeva la nostalgia dell’Eden, ossia la perfettibilità e l’armonia perduta contrapposta allo smarrimento prodotto dalla selva. Attraverso l’intelletto umano e la percezione sensibile del mondo, com’è nell’arte, questa natura imperfetta avrebbe fatto intravedere la bellezza eterna.

D’altra parte, le “divine proporzioni” costituivano la struttura intellettiva della città ideale del rinascimento, rappresentata nel disegno del giardino. Così alla purezza delle sue geometrie vi era opposta la materialità degli elementi naturali forgiati come da un processo alchemico.

Gli artisti che scoprivano nelle regole classiche le divine proporzioni e nell’utopia dell’armonia la risoluzione dei conflitti che animavano la società, con le loro opere hanno permeato le coscienze di tutto il mondo.

E ancora altre opere dell’uomo, nella loro sedimentazione, hanno dato luogo poi a quell’immagine totalizzante che, in modo distaccato, denominiamo “paesaggio”.

 

Il lavoro, la ricerca, la pratica progettante che propongo all’Osservatorio trova applicazione in alcuni luoghi che possono costituire dei modelli d’intervento nei territori rurali, fluviali, costieri, nei centri antichi o nei conglomerati urbani del sud dell’Italia e in generale dell’area mediterranea.

 

(dall’intervento a Lamezia del 2.XII.2017)

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