Categoria: Dalla Stampa

La questione italiana.-di Piero Bevilacqua L'Italia in frantumi.

La questione italiana.-di Piero Bevilacqua L'Italia in frantumi.

Chi di solito osserva le condizioni presenti dell’Italia e le confronta con quelle degli altri Paesi avanzati osserva ormai da anni che esse sono di gran lunga peggiori in molti ambiti della vita nazionale: arretramento del livello medio delle retribuzioni, disuguaglianze sociali e territoriali, disoccupazione, precarietà del lavoro, condizioni della scuola, numero dei laureati, risorse per la ricerca, perfino regresso demografico, il segnale meno controvertibile – per lo meno nella società della crescita – della decadenza di un Paese. Tale evidente disparità dello stato della nostra vita sociale ci impone uno sforzo di analisi che vada oltre le cause generali che da 30 anni fanno arretrare le condizioni dei ceti popolari in gran parte dei Paesi europei e del mondo.

Le pratiche neoliberiste, vale a dire i programmi del capitalismo scatenato, messi in atto da un servizievole ceto politico, sono stati applicati in Germania come in Francia, in Spagna o nel Regno Unito, ma è in Italia che esse sembrano avere effetti così marcatamente disgregatori. Perfino sul piano politico e di governo: due esecutivi tecnici, adesso uno di destra destra, con a capo un’erede del neofascismo del dopoguerra. Io credo che se non si vuole restare sulla superficie della questioni bisogna cercare spiegazioni all’ anomalia italiana nelle strutture profonde della nostra storia nazionale. Occorre gettare uno sguardo ai caratteri originali della nostra vicenda civile, alla cultura antropologica degli italiani. Può apparire azzardato nel 2023 tentare di spiegare la grave involuzione dell’economia e della società di oggi interrogando contesti troppo lontani nel tempo. Ma occorre considerare innanzitutto che alcuni caratteri di un popolo durano nei secoli anche se si trasformano con il mutare complessivo della società.

«La mentalità – scriveva Fernand Braudel – è la più tenace delle strutture», uno strato di roccia culturale che il trascorrere dei processi e degli eventi intaccano solo in parte. D’altronde, in tutte le epoche di involuzione e regresso i fondi più oscuri del passato sembrano riemergere e farsi vivi, sia pure in nuove forme. E oggi viviamo non un rinculo, ma un clamoroso collasso di civiltà.

Naturalmente, non è certo il caso di rammentare che la teorizzazione del “particulare” di Francesco Guicciardini della realtà umana, vista come un aggregato incomponibile di egoismi, sia fiorita sintomatologicamente in Italia, per giunta nel cuore del Rinascimento, la fase più alta della nostra storia. Nè tanto meno rammentare che tre secoli più tardi, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani Giacomo Leopardi poteva osservare «che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea». Basti considerare che la sua secolare frantumazione civile, la lacerazione politica dei suoi ceti, anche all’interno delle città, vanto e splendore della nostra storia, ma agenti permanenti di disunione, hanno imposto all’Italia quasi quattro secoli di servaggio a potenze straniere. Il Paese che nel tardo medioevo aveva conseguito il primato economico e finanziario in Europa e nel Mediterraneo era rimasto un nano politico e aveva dovuto attendere il 1860 per avviare il processo di unificazione delle sue sparsa membra e conseguire l’indipendenza nazionale. Uno Stato-Nazione, tuttavia, che non riuscirà mai a conseguire un assetto egemonico.

Ma occorre cogliere l’essenziale della tragica originalità della nostra storia lunga: genio individuale delle élites, creatività e inventiva, spirito di intraprendenza dei ceti popolari, vivissimo senso artistico, intrecciati inestricabilmente a individualismo anarcoide, indisciplina civile, inclinazione a costituire fazioni e logge, assenza di classi dirigenti dotate di visione unitaria. E il filo rosso che giunge oggi fino a noi è rintracciabile in due aspetti che carsicamente riaffiorano nella vita nazionale. Uno è il carattere elitario e separato dei gruppi di potere, l’altro è la frantumazione dei ceti popolari, divisi dai dialetti, dalle forme della vita religiosa, dalle culture gastronomiche, dalle tradizioni politiche, ecc. Vale a dire da quella straordinaria varietà e diversità di caratteri che sono anche una straordinaria risorsa, la ricchezza della nostra storia.

Fino a metà Novecento il carattere separato delle élite si è manifestato plasticamente nel mezzo della comunicazione collettiva: la lingua nazionale. Finché non è arrivata la Tv, come ricordava Tullio De Mauro, l’italiano era appannaggio dei ceti borghesi colti, mentre gran parte delle masse popolari comunicava con la ricca costellazione dei nostri dialetti. Evidentemente non era bastato quasi un secolo di unità perché tra il nostro popolo si realizzasse una piena comunità linguistica.

Ma il distacco elitario delle forze dominanti, della nostra borghesia, per lo meno di sezioni più o meno ampie di essa, si è manifestato in maniera molto più grave e cruenta sotto il profilo politico. Esso ha preso le forma della infedeltà al “contratto” della Stato-nazione, tramite una serie di varianti di rottura delle regole, di eversione, di secessione, di violenza anche terroristica. Se ne può fare un rapidissimo elenco. Un riepilogo anche sommario di fatti salienti del nostro passato consente infatti di comprendere in quale storia siamo immersi. Chi ricorda più oggi la parola d’ordine, a fine ‘800, del “ritorno allo Statuto” lanciata da alti esponenti del mondo politico nazionale? Vale a dire la richiesta di un assoggettamento del governo ai poteri del re, che svuotasse la funzione del Parlamento? E l’imposizione, in quegli stessi anni, dello stato d’assedio contro i lavoratori di Milano che tumultavano per il pane? E le sparatorie contro la folla dei manifestanti ordinate dal generale Bava Beccaris che lasciò 80 morti in strada? E chi ricorda che il nostro ingresso nel macello della Prima guerra mondiale fu deciso da un colpo di mano del re e di pochi politici, che siglarono il Patto di Londra a insaputa del Parlamento e contro la volontà della maggioranza del popolo italiano?

Certo, la ferita più grave è il fascismo, il “colpo di Stato” che liquidò gli ordinamenti liberali, la risposta di quasi tutta la borghesia italiana all’irrompere delle masse popolari nella vita politica nazionale, dopo l’esperienza della guerra. Ma la volontà di sottrarsi al patto degli ordinamenti nazionali si è manifestata anche in forme localizzate. Ad esempio, sul finire della Seconda guerra. Pochi giovani oggi ricordano i moti del separatismo siciliano, il tentativo di gruppi di borghesia isolana, favorito dai servizi segreti americani e inglesi, di costruirsi un potere separato, uno Stato siciliano autonomo. E forse che i 75 anni dell’Italia repubblicana sono meno ricchi di tentativi e di pratiche di eversione? Chi ha dimenticato i tentativi di colpi di Stato nel 1964 e nel 1970?

Chi non ricorda la risposta sanguinaria con cui oscuri settori degli apparati statali hanno cercato di intaccare i rapporti di forza e le conquiste sociali guadagnati dalla classe operaia con le lotte del biennio 68-69? Un pagina infame della nostra storia che ha sparso il sangue di centinaia di vittime innocenti, a partire dalla bomba alla Banca dell’agricoltura a Milano, nel 1969, sino all’attentato alla Stazione di Bologna nel 1980, con in mezzo la strage di Piazza della Loggia a Brescia, l’attentato al treno Italicus e tanti altri oscuri episodi di violenza terroristica. E chissà quale ruolo hanno giocato i servizi segreti di Paesi di cui siamo fedeli e servizievoli alleati.

Ma l’infedeltà, la fellonia di parti estese di borghesia nazionale si manifestano ancora oggi in forme diversissime, normalmente senza il ricorso alla violenza. Come dimenticare, tanto per restare al lungo periodo, la longevità secolare di almeno due criminalità organizzate, la mafia siciliana e la camorra? E potevano durare e prosperare così tanto queste organizzazioni senza legami segreti con pezzi dello Stato e della borghesia imprenditoriale e dei colletti bianchi? Basti dire che il più potente uomo di Stato della cosiddetta prima Repubblica, Giulio Andreotti, è risultato legato alla mafia da una sentenza della Cassazione.

Oggi, inoltre, lo spirito di diserzione e di rottura dell’unità del Paese si manifesta in maniera incruenta ma gravissima attraverso l’iniziativa della Lega, seguita da altri presidenti di regione, mirata a realizzare la cosiddetta autonomia differenziata. E non si creda che si tratti di una mera trovata elettoralistica di alcuni dirigenti politici. Dietro di essa c’è la profonda pulsione separatista di vaste aree della borghesia imprenditoriale del Centro-Nord, che guarda al Mezzogiorno come a un intralcio alla sua espansione in Europa. È la stessa pulsione che da decenni spinge vasti settori della nostra borghesia a evadere le tasse, a trasferire ingenti fortune nei paradisi fiscali, a rompere il patto di mutua cooperazione tra le classi, che è il fondamento stesso dello Stato moderno: la contribuzione fiscale.

Voglio terminare questa rapida rassegna ricordando che il tradimento degli interessi nazionali si viene realizzando anche nel pieno rispetto delle forme istituzionali. Non mi riferisco qui al presidente della Repubblica, che accetta di buon grado la violazione della nostra Costituzione approvando la continuazione dell’invio di armi in Ucraina, ma all’ex presidente del Consiglio. Ricordo che Mario Draghi si è insediato a capo del governo in un momento grave della vita nazionale. L’opinione pubblica era tramortita dalla pandemia del Covid-19, sotto lo shock collettivo più grave della storia repubblicana. Allora l’ex presidente della Bce godeva di un prestigio indiscusso, di un’autorevolezza che forse così totalitaria non era mai arrisa ad alcun altro presidente del Consiglio.

Ebbene, Mario Draghi aveva il potere di porre mano alla più importante riforma legislativa possibile per arrestare il declino dell’Italia, la riforma fiscale. Nessuna patrimoniale, solo un fisco progressivo che nel giro di qualche anno avrebbe in parte riequilibrato le laceranti disuguaglianze dei redditi in Italia, ridare slancio e fiducia alla nostra vita e collettiva. Com’è noto, la sua riforma ha tolto uno scaglione e favorito i ceti medio-alti. Nessuna iniziativa di contrasto all’evasione fiscale. Il filo rosso della sedizione non si è spezzato: un rappresentante della finanza internazionale ha giocato a favore della sua classe di appartenenza, contro gli interessi del suo Paese.

Questa storia di secessioni, com’è noto, ha subito un arresto e una controffensiva popolare con la nascita della Repubblica, la Costituzione, l’avvento dei partiti di massa, la costituzione di solide strutture sindacali. Senza questa nuova pagina di storia, nata dalla Resistenza antifascista, il nostro Paese difficilmente avrebbe retto a tutti i tentativi di abbattere lo Stato democratico, alle trame della P2, ai vari terrorismi, compreso quello delle Brigate rosse.

Ma c’è una parte di questa nuova storia che inizia col dopoguerra che ci interessa per riafferare il nodo della seconda originalità negativa del carattere degli italiani, a cui abbiamo fatto cenno: la disunione anarcoide dei ceti popolari. Tra la fine degli anni 40 e gli anni 70 i partiti di massa sono stati il collante che ha sottratto i lavoratori e le masse proletarie alla loro dispersione e irrilevanza politica e li ha trasformati in società civile consapevole. Non si apprezzerà mai abbastanza l’opera gigantesca del Partito comunista italiano che in tre decenni ha trasformato la massa disgregata di braccianti, operai, impiegati, piccoli imprenditori, intellettuali, in una comunità politica, culturale, spirituale. In tre decenni questo partito ha realizzato un’opera di nation building, di costruzione della nazione, di plasmazione e disciplinamento civile di una parte estesa di società, sconosciuta in tutta la nostra storia precedente. Quasi un “Paese parallelo” a quello reale.

È per tale ragione che oggi la dissoluzione dei partiti di massa fa regredire e disgrega più gravemente che in altri Paesi il tessuto della società civile in Italia. È in questo carattere originario anarcoide di ritorno che occorre cercare la speciale debolezza della sinistra italiana. Da noi l’egocentrismo individualistico dell’antropologia neoliberista ha riportato indietro, in un certo senso, le lancette della storia, che certo rielabora il passato in forme sempre nuove, ma pur lo conserva e ripropone. La sinistra in frantumi andrebbe inquadrata in questo drammatico percorso. Per tale ragione l’opera più rivoluzionaria che le forze politiche possono intraprendere in Italia non consiste tanto nell’elaborare un programma di riforme radicali.

Questa è la premessa. Il compito gigantesco cui metter mano è lo sforzo costante, tenace e irriducibile, questo si altamente politico e dotato di respiro strategico, di ricucire con tutti i mezzi la soggettività polverizzata delle forze in campo, lasciate sul terreno da una lunga serie di errori, settarismi, sconfitte, egolatrie narcisistiche dei capi. La creazione di un nuovo tipo di partito politico, una nuova aggregazione collettiva in grado di governare il pluralismo pur creativo delle menti disseminate e attive sui territori, è la grande sfida da affrontare. È qui la chiave di volta.

L’egemonia del neoliberismo è in frantumi e il capitalismo non sta tanto bene, ma sopravvivono e ci trascinano nella loro rovina, perché non riusciamo ad offrire alla grandi masse, che chiedono di essere protette e rappresentate, se non la nostra impotente frantumazione.

da “Left” del 31 gennaio 2023

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023
Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Da quando è scoppiata questa maledetta guerra in Ucraina si è percepita subito una nuova dimensione del conflitto giocato oggi su più piani, che sempre più spesso troviamo sulla stampa con la qualificazione di «guerra ibrida». Significa una guerra che si conduce non solo sul piano militare, ma anche su quello della propaganda, diventata un’arma ugualmente letale, ed anche sull’uso degli hackers e della cyberwar che mettono fuori gioco interi sistemi logistici e possono mettere in ginocchio un paese più delle armi.

Nella letteratura scientifica sono stati pubblicati alcuni testi su questa nuova categoria della guerra ibrida. Ne è nato un dibattito a livello accademico, partito da alcuni studiosi di Oxford, sulla definizione di Hybrid warfare dove sono analizzate tutte le possibili strategie di guerra che non appartengono ai sistemi tradizionali caratteristici de i conflitti nel secolo scorso.

C’è da dire che la propaganda è stata un’arma ampiamente usata anche in passato, da quando sono nati e si sono diffusi i moderni mezzi di comunicazione di massa.

Certamente non lo era al tempo dei Romani o nel Medio Evo, ma già con la nascita dei quotidiani il potere politico ha messo tutte e due le mani sull’informazione in tempo di guerra. Oggi i social network sono uno strumento potente di diffusione delle notizie che è diventato prevalente nell’ultimo decennio. La novità consiste nel fatto che mentre prima ogni governo in guerra tempestava la propria popolazione con informazioni manipolate, sui danni al nemico e sulle proprie perdite, così come sulle ragioni del conflitto, oggi grazie alla tecnologia digitale un governo può usare i social dell’avversario per diffondere fake news a volontà. In altri termini, riesce a fare la sua propaganda sul terreno dell’avversario.

Anche le immagini catturate durante il conflitto non costituiscono più una prova al cento per cento, possono essere manipolate a piacere e seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. In sostanza, la guerra ibrida fa emergere un fatto di cui dobbiamo prendere atto: la prevalenza della costruzione politica della realtà. Nell’era della scienza e della tecnica in cui l’umanità sembrava essersi liberata da magie e superstizioni, una sfida ben più grande si pone per chi vuole conoscere la Verità, non in astratto ma rispetto ad un conflitto come quello in Ucraina in cui muoiono migliaia di persone e non se ne vede la fine.

In un tempo in cui siamo bombardati letteralmente da un’infinita di informazioni non sappiamo, per esempio, quanti sono stati i militari ucraini morti in guerra, mentre sappiamo, forse, che quelli russi sono centomila. Come mai, ci domandiamo, non esiste un dissenso rispetto a continuare questa guerra suicida da parte del popolo ucraino? Una parte del popolo russo ha protestato i primi mesi contro questa guerra e l’ha pagata duramente, ma non sappiamo quanti sono fuggiti per non essere reclutati e, dall’altra parte, quanti giovani ucraini sono scappati per non finire al fronte. O sono tutti eroi? E che fine hanno fatto ministri e generali rimossi da Putin o le migliaia di dissidenti incarcerati?

Si può dire con un grande filosofo che «non esistono fatti ma solo interpretazioni», ma così si cade in un relativismo assoluto che impedisce qualunque pensiero critico o iniziativa politica. Ed invece abbiamo bisogno per agire di capire, di farci un’idea più chiara delle partite che si stanno giocando in questa tremenda guerra ibrida.

Come la sordida guerra tra le valute, che non si può lasciare agli analisti finanziari, ma che ha ricadute politiche importanti come l’uscita del dollaro dagli scambi commerciali e finanziari tra Russia, Cina e India.

Una informazione indipendente è fondamentale in questa fase storica. Per questo sostenere questo giornale e gli altri pochi spazi di informazione libera costituisce un atto politico di primaria importanza. Certo, sappiamo che è una lotta impari contro gli oligopoli/piattaforme dell’informazione ma non abbiamo alternative se non vogliamo rinunciare a pensare con la nostra testa. La campagna abbonamenti per sostenere il manifesto, con la bella foto di Luciana Castellina, non poteva cadere in un momento storico più cruciale.

da “il Manifesto” dell’11 gennaio 2023
Foto di Дмитрий Буханцов da Pixabay

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

Il ministro Calderoli ha tradotto il termine spacca-Italia – giudizio indiscutibilmente politico – in una offesa alla sua onorabilità. Minaccia addirittura le vie legali.

Per quanto ci riguarda, del suo onore non dubitiamo affatto. Ma nemmeno dubitiamo che il suo progetto di autonomia differenziata sia dannoso per il paese. Un danno che si produce su due versanti.

Il primo. Il ministro ha infilato nella legge di bilancio una decina di commi sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Sembrerebbe cosa buona e giusta, perché l’art. 117.2, lett. m), affida i Lep alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla pari con politica estera, difesa, sicurezza e altro ancora. Un presidio apparentemente fortissimo.

Ma nei commi in questione non troviamo quali sono le materie Lep, quali gli ambiti, quali le risorse, quali i tempi. C’è solo una via tecnico-burocratica per la definizione, per di più in una dichiarata assenza di risorse. Un percorso che vede l’adozione con decreti del presidente del consiglio dei ministri e la marginalità del parlamento, nonostante il presidio dell’art. 117.2. I Lep sono sottratti di conseguenza anche al controllo del capo dello Stato in sede di promulgazione della legge e della corte costituzionale nel giudizio di legittimità. Si aggiunga che mettendo i Lep nella legge di bilancio il ministro sottrae il relativo procedimento anche al referendum abrogativo ex art.75. Un “pacco”.

Il secondo è la legge di attuazione. Un altro “pacco”. È consegnata all’eternità della rete una dichiarazione di Calderoli di aver ritenuto inizialmente la legge (legge-quadro o di attuazione è lo stesso) non necessaria, potendosi stipulare le intese anche in mancanza. Poi ha cambiato idea. Peccato, perché era buona la prima.

La legge di attuazione è inutile, perché non è sovraordinata alla legge che concede maggiore autonomia. Ad esempio, se anche la legge di attuazione escludesse la regionalizzazione di scuola, infrastrutture strategiche, lavoro, energia, porti, aeroporti, autostrade, ferrovie o altro ancora, la legge sulla maggiore autonomia di una o più regioni potrebbe ugualmente concederla. Lo stesso vale per il caso di mancata determinazione dei livelli essenziali nelle materie Lep.

Un referendum abrogativo della legge di attuazione Calderoli sarebbe ammissibile, ma inutile, perché non precluderebbe la stipula di singole intese con singole regioni. Mentre la legge recante la maggiore autonomia per la singola regione ai sensi dell’art. 116.3 sarebbe – quella sì – sottratta a referendum abrogativo in quanto legge “rinforzata”, secondo una antica giurisprudenza della Corte costituzionale. Al tempo stesso, la maggiore autonomia acquisita attraverso l’art. 116.3 è potenzialmente irreversibile, perché la modifica successiva dovrà comunque essere fatta con lo stesso procedimento.

Quindi, in base a nuova intesa con la regione, che potrebbe ovviamente negarla. Né infine è credibile che una maggiore autonomia conseguita con trasferimento di risorse umane, organizzative, strumentali, finanziarie si cancelli o si riveda agevolmente, Un paese non si governa con apparati pubblici in fluttuazione costante.

La legge di attuazione è una cortina di fumo. Nel modello Calderoli la vera scommessa è sulla concertazione tra esecutivi, e cioè sulla trattativa con i ceti politici regionali e locali, potenzialmente interessati a frattaglie di potere. Là si cerca il consenso. Rimane invece necessario emarginare il parlamento, popolato di soggetti che nella gran parte nulla guadagnano personalmente dalla cannibalizzazione delle strutture statali.

Non se ne abbia a male Calderoli. Il paese non si mantiene ragionevolmente unito ed efficiente quando ogni componente territoriale definisce a trattativa privata il proprio regime economico e giuridico in modo potenzialmente irreversibile. Il danno c’è, e non si diffama nessuno evidenziandolo. Certo, non è tutto imputabile a lui. Ha ragione quando dubita del neurone che ha scritto l’art. 116.3. Non a caso, raccogliamo le firme su una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a una modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Intanto, Meloni farà bene a frenare la voglia leghista di spacchettare l’Italia in tante repubblichette. Ricordiamo il Nenni della stanza dei bottoni. Al suo capo eletto direttamente Meloni una stanza potrebbe anche darla. Ma con l’autonomia differenziata scomparirebbero i bottoni.

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

«Per spiegare l’assurdità di un progetto di autonomia differenziata come quello del ministro Calderoli basta dire che, su un tema fondamentale come quello dell’istruzione il Sud subirebbe un taglio di 1,4 miliardi di euro a vantaggio delle regioni del Nord – sostiene il segretario generale della Cgil Puglia Pino Gesmundo – Ed è solo un esempio di una riforma complessiva irricevibile, anche perché sottratta al confronto del paese, della comunità scientifica, dello stesso parlamento».

Lo studio citato da Gesmundo è un articolo di Marco Esposito ripreso da Il Mattino, uno di quelli che hanno provocato la « scomposta» minaccia di «querela» da parte del ministro agli affari regionali e alle «autonomie», il leghista Roberto Calderoli. Così hanno definito le sue parole i comitati di redazione de Il Mattino e de Il Messaggero. «Si utilizzano le querele temerarie – hanno aggiunto – come arma di pressione contro la libera stampa, per tentare di “imbavagliare” ogni legittima forma di critica» . Il testo è stato ripubblicato sul sito Roars.it, punto di riferimento online sia della critica alla scuola e all’università trasformate dalle riforme neoliberali degli ultimi trent’anni che della «secessione dei ricchi».

Nella simulazione riportata nell’articolo il taglio di cui parla Gesmundo sarebbe la conseguenza dell’adeguamento della spesa attuale per l’istruzione al «costo standard» inteso come media nazionale previsto dalla riforma di Calderoli. Attualmente la spesa per gli studenti al Sud risulta essere più alta rispetto a quelli del Nord. In Lombardia e in Veneto la spesa statale per studente è di circa 3.800 euro all’anno. In Campania aumenta a 4.500, in Sicilia circa 4.900, in Basilicata 5.600. La media italiana, cioè lo standard, è 4.346 euro. Se si applicasse questa media a tutte le regioni allora il Sud perderebbe 1,4 miliardi.

Allo stesso tempo la Lombardia riceverebbe 820 milioni euro in più, il Veneto 340 milioni euro, per realizzare il loro sistema scolastico «regionalizzato». Ma perché, oggi, c’è questa sproporzione tra scuole del Nord e del Sud? Davvero al Sud si «sprecano» risorse? Perché, in primo luogo, al Sud vivono e lavorano docenti con un’anzianità maggiore, mentre quelli più giovani sono costretti a «emigrare» a Nord e, in base al sistema della progressione di carriera, percepiscono uno stipendio inferiore. Uno stipendio, va ricordato, già modesto e inferiore alla media dei paesi Ocse paragonabili al nostro, a cominciare da Germania o Francia. Questo è l’effetto di un sistema disfunzionale, e malconcepito, che produce attualmente oltre 200 mila precari cheogni anno permettono alla scuola di funzionare. E che sarebbe fatto ulteriormente a pezzi da una «regionalizzazione» scolastica che potrebbe essere uno degli obiettivi dell’«autonomia differenziata».

L’istruzione scolastica e universitaria copre il 13 per cento della spesa regionalizzata dello stato, ed è una delle voci più ricche della partita dell’«autonomia differenziata» che le destre al governo vogliono scambiare con il «presidenzialismo». «Se non venissero stabiliti i fabbisogni standard, l’aliquota della compartecipazione Irpef sarebbe del 61% per la Puglia. Un salasso a danno dei cittadini della regione che suo malgrado ha il più alto indice di povertà relativa, che colpisce il 27,5% dei residenti. Mentre ne beneficerebbero proprio le regioni che hanno firmato le intese per le autonomie – osserva Gesmundo – Un trasferimento di risorse da Sud verso Nord, tutto il contrario dell’impegno dell’Europa che ha assegnato all’Italia oltre 200 miliardi di euro per spingere alla coesione territoriale».

Quanto alle «querele» di cui ha parlato Calderoli a proposito dei giornalisti, il sindacalista ha aggiunto: «Correremo il rischio della querela ma continuiamo ad affermare che quel disegno di autonomia ha un portato egoistico e divisivo. Il progetto è vessatorio nei confronti di territori dove non è garantita uniformità nell’esigibilità di diritti costituzionali, dalla salute all’istruzione alla mobilità, cosa che dovrebbe prescindere da dove si nasce o si sceglie di vivere».
Dalla Sicilia ieri è arrivato sostegno alla «ribellione» dei 55 sindaci del Sud che hanno scritto a Mattarella. «In materie come scuola, sanità, infrastrutture e trasporti non occorrono livelli essenziali di prestazione ma livelli uniformi – sostiene il segretario della Flc Cgil Palermo Fabio Cirino – Chiediamo a tutti una risposta di attivismo civico».

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023
Foto di Cole Stivers da Pixabay

Perché una Costituzione della Terra?.- di Gianfranco Amendola

Perché una Costituzione della Terra?.- di Gianfranco Amendola

Anno nuovo, vita nuova. Speriamo, anche per la nostra Costituzione, che compie 75 anni ma non li dimostra, grazie alla lungimiranza dei nostri padri fondatori. Un esempio emblematico è costituito dall’art. 9 che tra i principi fondamentali ha inserito a sorpresa (siamo nel 1948) la “tutela del paesaggio”, aprendo la strada, così, alla (allora sconosciuta) tutela dell’ambiente.

Di modo che, sin dagli anni 80, la Corte costituzionale ha potuto affermare che esiste anche, come “va l o r e primario e assoluto” un “diritto alla protezione dell’ambiente. E, ancor più significativamente, un anno fa è proprio dall’art. 9 che il nostro Parlamento ha preso le mosse per meglio specificare l’ampiezza di questo valore, precisando che la Repubblica tutela “l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”; e aggiungendo nell’art. 41, che la iniziativa economica privata, pur restando “libera ”, non può svolgersi in contrasto non solo, come già prescritto, con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, ma anche “alla salute e all’ambiente”.

Completando, infine, queste importanti novità demandando alla legge ordinaria il compito di disciplinare “i modi e le forme di tutela degli animali” e quello di determinare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali “e ambientali”. E, sia chiaro, non si tratta di modifiche senza conseguenze. Perché, dopo il loro inserimento in Costituzione, tutte le leggi vigenti devono essere lette, interpretate ed applicate in conformità ovvero, se questo non risulti possibile, occorre rivolgersi alla Corte costituzionale. E questo vale non solo per i giudici ma anche per tutte le istituzioni, nazionali e locali.

Eppure, diciamo la verità, finora non sembra sia cambiato niente. Continuiamo, citando a sproposito la “sostenibilità”, ad applicare leggi che privilegiano il profitto di pochi senza alcun riguardo per le attuali e future generazioni (basta vedere le scandalose vicende dell’Ilva, più volte sottoposte all’attenzione della Corte costituzionale); si programmano grandi opere senza neppure porsi il problema dei loro riflessi sulla biodiversità e sugli ecosistemi, specie in concomitanza con l’avanzare dei mutamenti climatici.

Emblematica, in questo senso, è la vicenda dell’inceneritore a Roma prospettato dall’attuale sindaco come la panacea contro l’invasione di rifiuti, dimenticando che, anche per la normativa comunitaria, il ricorso ai cd. “t e r m o valorizzatori ” viene al terzo posto, dopo riduzione alla fonte e riciclo, proprio in considerazione che i rifiuti che oggi vorrebbe bruciare sono le risorse cui dovranno attingere le future generazioni man mano che le materie prime si esauriscono. Sembra, invece, che l’unica novità provocata dalla riforma costituzionale sia quella di avere messo i fautori del paesaggio contro i fautori dell’ambiente come se si trattasse di valori tra di loro incompatibili e non di facce di uno stesso valore.

L’importante è, invece, leggere, valutare ed applicare la riforma nel suo insieme. E, quindi, dando dell’ambiente un valore ampio che comprenda in sé sia gli aspetti naturalistici sia quelli sociali e culturali, avendo come fine l’interesse delle future generazioni. Riecheggia, a questo punto, quel “diritto alla felicità”, inserito già nel 1776 dagli Stati Uniti nella dichiarazione di indipendenza, sfociato poi nella “giornata dedicata alla felicità” dall’Assemblea generale dell’ONU nel giugno 2012, sul presupposto che “la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità, e riconoscendo un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone”.

Lo ha detto bene Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato si'”: “Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso…. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso”.

da “il Fatto Quotidiano” del 4 gennaio 2023

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile posta da un’antica saggezza napoletana: «Acquaiolo, l’acqua è fresca?».

Certo, non sono mancati passaggi di puro godimento intellettuale. Ad esempio quando ha argomentato la flat tax a 85000 euro in termini di equità sostanziale per riequilibrare un vantaggio fin qui concesso ai lavoratori dipendenti a danno degli autonomi. Ma nel complesso Meloni ci ha dato una ampia rassegna di quelli che sono e saranno i topoi della destra al governo. Che serviranno a poco, come a poco sono serviti in passato quelli della sinistra.

Tra i luoghi comuni troviamo le riforme istituzionali. Meloni ha confermato che il presidenzialismo è una sua priorità, perché «consente di avere stabilità e di avere governi che siano frutto di indicazioni popolari chiare». Anzitutto, quale presidenzialismo? Il modello francese è profondamente diverso da quello statunitense, e in ogni caso è l’intera architettura dei poteri pubblici che va disegnata, considerando anche l’impatto sul sistema politico e dei partiti. Per Meloni invece, va bene qualunque cosa, purché rechi l’etichetta del presidenzialismo. E va bene qualunque modo di arrivarci – bicamerale, disegno di legge governativo, percorso parlamentare. Nemmeno a parlare, poi, di una riflessione se i mantra di un tempo in tema di presidenzialismo siano ancora validi nel mondo e nelle società di oggi. Nessun dubbio stimolato dalle ultime esperienze dei paesi da sempre assunti a termine di paragone, come gli Stati Uniti o la Francia.

È poi davvero singolare che nelle tre ore di conferenza stampa non sia stata detta una sola parola sull’autonomia differenziata, pur essendo evidente che il presidenzialismo è ancora fermo ai blocchi di partenza, mentre l’autonomia è in piena corsa. Anzi, quando ha recitato il suo copione Meloni era certamente già informata della trionfalistica comunicazione di Calderoli sull’aver mantenuto l’impegno assunto di arrivare in consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, avendo consegnato a Palazzo Chigi il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma. Quindi dobbiamo vedere nel silenzio di Meloni il significato politico di una presa di distanza.

La mossa di Calderoli è stata da più parti definita come forzatura, blitz, fuga in avanti. Vero per una parte, ma per altro verso solo un pezzo di teatro, visto che la consegna a Palazzo Chigi, nella cui struttura il suo ministero senza portafogli è inserito, più o meno equivale a far scivolare un foglio sotto la porta dell’ufficio accanto. Altra cosa è arrivare a una deliberazione in consiglio di ministri, che richiede lo svolgimento di un percorso tecnico e politico. Ma è un fatto l’inserimento in legge di bilancio di norme sui livelli essenziali di prestazione (Lep) che lasciano intravedere diritti dipendenti dal codice di avviamento postale, in un paese spacchettato in repubblichette semi-indipendenti a trattativa privata tra esecutivi, sotto la regia del ministro delle autonomie. Con la ragionevole certezza che divari territoriali e diseguaglianze rimangano, perché mancano le risorse che diversamente sarebbero necessarie.

I commi 791 e seguenti della legge di bilancio servono solo a Calderoli per affermare di avere risolto il problema dei Lep, e aprire la porta alle intese con le regioni. Meloni fa finta di niente. Ma prima o poi dovrà ufficialmente prendere atto che c’è una sceneggiata sul tema dell’autonomia, soprattutto legata al voto regionale prossimo e alle turbolenze in casa Lega. L’ultima cosa seria che Meloni ha detto sull’autonomia la troviamo nel suo intervento al Festival delle regioni, in cui richiama le «storture» del titolo V, che «su molte materie ha aumentato la conflittualità, con tutto quello che comporta in termini di lungaggini ed efficienza» (Corriere del Veneto, 6 dicembre 2022).

Concordiamo. Per darle una mano, il Coordinamento per la democrazia costituzionale raccoglie le firme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a modificare gli articoli 116.3 e 117. Può firmare con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it. Se lo facesse, potremmo anche chiudere un occhio sul fatto che mai nella storia delle conferenze stampa di fine anno si parlò così tanto per dire così poco.

DA “IL nANIFESTO” DEL 2 GENNAIO 2023

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

L’ultimo intervento della Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni sulle autonomie differenziate segue il metodo della contraddizione: cioè affermare azioni contrastanti, in modo da soddisfare richieste contrastanti. Meloni ha usato questo metodo con i suoi primi provvedimenti di governo. Infatti mentre è venuta incontro alle esigenze sentite da tutti per l’aumento delle bollette energetiche, d’altro lato ha tacitato le aspettative degli elettori di destra aumentando il tetto al contante, come peraltro hanno sempre desiderato gli evasori, ed eliminando il reddito di cittadinanza e il superbonus al 110%.

Altrettanto ha fatto per le autonomie differenziate affermando la necessità di una cooperazione tra Stato e Regioni accontentando così chi tiene all’unità d’Italia e sottolineando nello stesso tempo l’importanza di valutare le specificità dei vari territori accontentando così chi vuole le autonomie. Questo spirito contraddittorio diventa purtroppo mera menzogna quando politici della Lega affermano che le autonomie differenziate promuovono l’unità d’Italia, non lasciano indietro altre regioni e addirittura attuano l’articolo 5 della Costituzione, che pone il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica.

E’ tutto falso poiché le autonomie differenziate, che si risolvono nell’attribuire alle Regioni una potestà legislativa assolutamente libera ed esclusiva e sottratta all’obbligo di rispettare gli interessi nazionali e quelli delle altre Regioni, come era previsto dall’art. 117 del testo originario della Carta costituzionale e soppresso dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 relativa alla riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione, rompono l’unità economica, giuridica e politica dell’Italia rendendola priva di un patrimonio pubblico demaniale capace di far fronte agli stati di necessità, come avvenuto per la pandemia e per la guerra in Ucraina e debole sul piano europeo e internazionale, finendo per diventare preda di altre Nazioni. Si tratta dell’ultimo colpo contro il Popolo italiano, voluto dal neoliberismo, che esalta l’individualismo e distrugge la solidarietà portando, prima o poi, tutti alla rovina.

Finora siamo sopravvissuti ai danni maggiori apportati dalla riforma del titolo V della Costituzione, ispirata al più estremo regionalismo, per l’opera benemerita della giurisprudenza costituzionale la quale, con le sue sentenze, è riuscita a mantenere vivo l’”interesse nazionale” sancito dai “principi fondamentali ”e a salvare così l’unità giuridica e politica del nostro Paese mentre, purtroppo, nulla ha potuto contro la eliminazione dell’unità economica, che è stata distrutta dalle micidiali “privatizzazioni” realizzate da tutti i governi dell’ultimo trentennio, rendendoci schiavi delle multinazionali e della finanza.

Ed è da notare che le autonomie differenziate sono previste dall’art. 116 dello sconcertante Titolo V della Costituzione e che, per salvare l’Italia, è proprio questo articolo che dovrebbe essere abrogato, magari con una legge costituzionale di iniziativa popolare, oppure annullato dalla Corte costituzionale. Siamo arrivati al punto nevralgico dell’attuazione del pensiero neoliberista poiché, se sono attuate con legge (è in giro una scorrettissima bozza Roberto Calderoli sull’argomento) le autonomie differenziate, il tentativo di ricostruire l’unità d’Italia, conquistata eroicamente dal Risorgimento e dalla Resistenza diverrà difficilissimo, se non impossibile. Siamo, per così dire, alla linea del Piave e abbiamo il dovere inderogabile di compiere ogni sforzo affinché questa insulsa attuazione delle autonomie differenziate non abbia luogo.

da “il Fatto Quotidiano” del 9 dicembre 2022

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

1. Il disastro di Ischia non deve considerarsi evento eccezionale, legato alla presenza di iper cementificazione abusiva e alle caratteristiche ambientali dell’isola. Tantissimi contesti territoriali di quello che era considerato “il Belpaese” infatti sono destabilizzati da diffusione insediativa, consumo di suolo, urbanizzazione eccessiva spesso autorizzata, che ne hanno stravolto gli ecosistemi ; con degradi e dissesti già gravi, che diventano esiziali per le ricadute della crisi climatica. Gli eventi tragici che si susseguono sempre più ravvicinati inon sembrano però scalfire l’agenda politica : si urla per qualche giorno, poi la transizione ecologica torna ad essere per lo più una chiacchiera.

2. Pochi dati bastano a fornire i contorni del dissesto diffuso da impatti della cementificazione. L’italia dovrebbe avere , considerando abitanti residenti e presenti( compresi neonati e immigrati senza permesso), per fornire comodamente un tetto a tutti, circa 7 miliardi di metri cubi di volumi abitativi. Secondo i datascape ISTAT, se ne è costruito quasi il doppio; con un effetto di clamoroso sfascio economico e ambientale. Il suolo consumato seguita a crescere. Oggi è pari a circa il 10% del territorio nazionale. L’ISPRA ammonisce che tutto ciò significa il 94% dei comuni italiani a rischio frane o alluvioni, con ripartizione pressoché uniforme da nord a sud del Belpaese e 3,5 milioni di famiglie interessate del fenomeno.

L’Osservatorio “Città- Clima” di Legambiente sottolinea ancora gli effetti ormai quotidiani della crisi ecologica, testimoniati dagli “eventi estremi” degli ultimi dodici anni che superano quota 1500, con un incremento del 27% di quest’anno rispetto al precedente. E con crescenti sofferenze dei territori, i cui suoli sono “esasperati e stressati” del succedersi di fenomeni intensi quanto opposti: prolungate ondate di calore e connessa siccità, interrotte da precipitazioni copiose fino alle “bombe d’acqua”.

3. Già una decina di anni fa il MISE- non un centro studi di ecologisti radicali- stimo l’entità della spesa necessaria a mettere in sicurezza il paese dai rischi: sismico , idrogeologico , da incendi , inquinamenti : essa ammontava a ca 190 milardi di Euro. Si proponeva un programma pluriennale con voce permanente in Finanziaria. Renzi da presidente del consiglio sulla base di questo lanciò il programma “Casa Italia”. Che si bloccò e fu dimenticato dopo pochi mesi . Probabilmente quando ci si accorse che servivano soprattutto tanti piccoli progetti “a grana fine ”di ripristino e riterritorializzazione. Non le Grandi Opere dal sicuro effetto politico-mediatico.

L’agenda politica infatti ignora quasi completamente tali problemi, aldilà di dichiarazioni e annunci. Come dimostra il PNIAC , Piano Nazionale di Azione Climatica, pronto in bozza fin dal 2016, ma mai approvato. Lo stesso PNRR da questo punto di vista rappresenta un’enorme occasione sprecata; se si pensa che sono destinati al risanamento del territorio appena 4,5 miliardi di Euro, il 2% ca del totale spendibile. Un paradosso a fronte dei 31 miliardi di euro dedicati ad alta velocità e grandi opere ad alto impatto ambientale, che diventano 81 con il Collegato Infrastrutture.

4. Proprio Il PNIAC, insieme al Green Deal europeo e agli SDG (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’UNEP forniscono i criteri per le azioni di risanamento e consolidamento dei territori rispetto alla crisi ambientale. In Italia poi c’è l’ulteriore vantaggio di annoverare nei nostri quadri programmatici ordinari uno strumento già orientato a tutela e riqualificazione, il Piano Paesaggistico. Come previsto dal piano per il clima, i ministeri interessati, specie Ambiente, Cultura e Infrastrutture , di concerto con le Regioni, promuovono “task-force” di risanamento e restauro . Esse possono assumere come Linee Guida per l’azione di medio-lungo periodo proprio i piani Paesaggistici.

L’emergenza climatica – come è evidente in queste ore- richiede però azioni rapide, incisive già subito o nel periodo medio-breve. Per questo bisogna introdurre le strategie recenti, promosse da Green Deal e UNEP , legate ai Programmi di Adattamento Climatico ed ai Progetti di Resilienza, già realizzati in molte grandi città e contesti territoriali internazionali(tra cui Oslo, Copenaghen, Amsterdam, Singapore), ma solo a Bologna , tra i capoluoghi italiani. Essi sono costituiti da progetti integrati di gestione dei fenomeni legati agli andamenti meteoclimatici di contesto e relative ricadute critiche, già registratesi e prevedibili. La particolarità di tali azioni è che muovono dal “ripristino di ciò che l’ipercementificazioneha distrutto, ovvero l’ecofunzionamento naturale degli habitat”. Il primo elemento di consolidamento di un ambito è l’azione di aggiustamento, restauro degli apparati paesistici. La prima azione urgente in pressoché tutti i 92000 comuni italiani è quella di ripristinare le vie di fuga dell’acqua, nonché la continuità dell’armatura dei collettori idrologici e paesistici. Azioni semplici da fare subito.

5. È necessaria una svolta reale quanto drastica nelle politiche ecologiche e territoriali. Siamo scettici che questo possa accadere per improvvise “illumininazioni” di un ceto Politico-istituzionale bloccato da incapacità e soprattutto interessi sostanzialmente estranei a questi temi. Appare necessaria l’azione diretta, ove possibile, altrimenti di pressione critica sui decisori , di quelle numerosissime soggettività che anche nel Belpaese lavorano ogni giorno per la tutela di ambiente e territorio, ma anche per produrre ricchezza da beni autosostenibili; e costituiscono ormai una realtà economica da decine di miliardi di euro all’anno. La transizione che urge parte da loro.

da “il Fatto Quotidiano” del 5 dicembre 2022

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale.-di Enzo Paolini

Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale.-di Enzo Paolini

Quello della governabilità è un concetto dannoso ed infatti non c’è nella Costituzione.
E’ stato introdotto con subdola demagogia – e sublimato dalla “narrazione” berlusconrenziana – per giustificare il sistema elettorale dei nominati e dei voti obbligatoriamente spalmati sulle liste congiunte indipendentemente dalla volontà degli elettori, per spalmare impunente premi di maggioranza, espliciti o nascosti per poter rispondere stucchevolmente il ritornello suggestivo, dei vincitori la sera delle elezioni, del chi vince prende tutto.-

L’esatto contrario della democrazia, che prevede l’incontro tra le forze politiche per formare i governi dopo le elezioni; dopo cioè, che si è verificato cosa, come e chi vogliono gli italiani.-

Le elezioni sono fatte per fotografare il paese e tradurre la rappresentanza nelle aule parlamentari. Per organizzare la traduzione del consenso in leggi parlamentari la Costituzione prevede altri organismi: i partiti.-

Ma se i parlamentari non sono eletti in base al consenso bensì in base alla indicazione dei capi allora i partiti non hanno più motivo di esistere.Ed infatti sono morti.

Il nostro sistema non è più fondato sul consenso, sul legame sociale tra elettore ed eletto quanto piuttosto sul rapporto fiduciario tra nominante e nominato. Un rapporto tra pochi che restringe il campo del dialogo sociale e crea di fatto una oligarchia. E provoca il fenomeno dell’astensionismo.E’ quello che avviene oggi nel nostro Paese. Dove una classe dirigente che tutti definiscono inadeguata ma che sarebbe più rispettoso definire semplicemente non legittimata propone la più sgangherata ed autoritaria delle riforme, quella della autonomia differenziata.-

Come una responsabilità del genere possa essere consentita ed anzi affidata ad un sedicente legislatore che ha devastato il Paese con una legge elettorale che ci ha condotto sin qui e che nonostante i ripetuti moniti della Corte Costituzionale (e gli inutili gargarismi di tutti i politici a parole contro ma nei fatti a favore) non si riesce ad estirpare, è un fatto che appare incredibile ma ha una sua logica.

La semina dell’odio sociale nasce da lontano, è stata sopita e dominata per tanto tempo dalle grandi scuole politiche del dopoguerra, per esplodere nel momento in cui le forze illiberali del mercatismo e dell’iperliberismo hanno preso il sopravvento: prima con il programma “Rinascita” di Gelli e poi con quello scritto da J.P Morgan ed interpretato da Renzi.

Ambedue apparentemente sconfitti, è vero, l’uno dalla Magistratura l’altro dal popolo referendario, ma presenti ed infettanti, eccome, grazie al cavallo di Troia della legge elettorale, l’arma che ha spezzato ogni tipo di connessione politica e sociale tra il paese reale ed il paese legale, che ha creato il Parlamento che conosciamo, dimezzato ed irrilevante sul piano della rappresentanza, rilevantissimo su quello del potere obbediente. Che non è un ossimoro ma la triste realtà.

Per questo, ora più che mai occorre aderire a due progetti di Legge di iniziativa popolare che possono invertire la direzione che hanno preso le cose nel nostro Paese e che suscitando la discussione possono essere portati in aula sostenuti da un movimento d’opinione.

E’ l’unica cosa veramente rivoluzionaria che possiamo fare: sostenere Massimo Villone sulla autonomia differenziata e Felice Besostri sulla legge elettorale.

Stiamo con loro, diffondiamo le loro idee, facciamoci alimentare dal loro spirito sinceramente democratico. Perché è il patrimonio politico del nostro popolo. E non ha prezzo. In tutti i sensi.-

da “il Manifesto” del 29 novembre 2022

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Una sorta di accanimento terapeutico, puntuale a ogni cambio di governo di centro-destra. Il Ponte sullo Stretto come panacea, che risolverà tutti i mali del Sud. La questione meridionale è fuori dall’agenda politica e dalle vere priorità dei governi della Repubblica dagli anni ’90 del secolo, quando divenne il centro del dibattito politico la “questione settentrionale” con l’emergere della Lega Nord di Bossi.

Ancora il Ponte anche se si sa che lo Stretto di Messina è un territorio fragile, che Sicilia e Calabria si staccano di un centimetro ogni 5 anni (per questo c’è chi ha pensato persino ad un ponte elasticizzato),che siamo in una delle zone sismiche più pericolose del mondo, dove nel 1908 morirono centomila persone, il numero di vittime più alto nel secolo scorso.

Non c’è ancora un progetto definitivo, non si sa quanto costa e chi ci mette i soldi, ma in compenso escono i numeri al lotto su alcuni organi di stampa: 7 miliardi dieci anni fa e quattro miliardi adesso, alla faccia dell’inflazione. Nessun privato è disposto a rischiare un soldo su un opera con questi gradi di incertezza e Bruxelles ha fatto già sapere che non si può attingere alle risorse del Pnrr perché l’opera dovrebbe essere completata entro il 2026. Ovviamente non è possibile: per l’ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria ci son voluti trent’anni.

Soprattutto, nessun progetto finora si è visto che consenta solo di immaginare come si colleghi il Ponte alle autostrade e stazioni ferroviarie sulla sponda calabrese e siciliana. Tutti i mass media presentano da anni una foto- rendering (sempre la stessa) che poggia il Ponte sulle due sponde. Bellissimo. Ma come ci si arriva? Dalla parte siciliana la ferrovia arriva a sud della città e Ganzirri, dove dovrebbe sorgere il pilone portante, è situato nella parte opposta a circa 20 km. Per portare i binari a 90 metri in quota bisognerebbe rifare un bel pezzo di tracciato ferroviario e passare sopra la testa delle case sulla collina o scavare gallerie in un terreno di sabbia pura che procura da diverso tempo danni alle abitazioni esistenti, con frequenti smottamenti.

Ugualmente dalla sponda calabrese, la ferrovia dovrebbe ripartire da Gioia Tauro e passare dentro le montagne di Palmi, Bagnara, Scilla per sbucare sulla testa degli abitanti di Cannitello. Per non parlare dell’autostrada. Un costo enorme, un impatto ambientale spaventoso, una pura follia.

Il Ponte sullo Stretto è diventato una possente “arma di distrazione di massa” come la definì Alessandro Bianchi, ex ministro dei Trasporti e Rettore della Università Mediterranea agli inizi di questo secolo. Purtroppo, non sono solo le forze politiche del centro-destra ad essere dei fan del Ponte, ma anche una parte del Pd è favorevole, e non da adesso. Ricordo quando durante la campagna elettorale del 2001 l’allora candidato del centro-sinistra Giorgio Rutelli intervenendo nella Facoltà di Scienze Politiche a Messina dichiarò: Il Ponte lo farò io e verrò qui ad inaugurarlo nel giugno del 2011.

Quello che mi stupisce è il silenzio dei presidenti delle altre Regioni meridionali. Nel momento in cui stanno tentando di espellere dal welfare italiano il Sud, dandogli il colpo di grazia con l’autonomia fiscale differenziata, stanno scippando in silenzio le risorse del Pnrr che l’Ue ci ha dato proprio per il basso reddito pro-capite e alta disoccupazione del Mezzogiorno, la classe politica meridionale sembra si sia svegliata solo ora con la proposta di legge Calderoli, quando erano chiarissime le priorità di questo governo.

Il Ponte sullo Stretto come suprema opera di regime, come simbolo del primo governo di destra-destra della Repubblica italiana, come specchietto per le allodole meridionali: non potete lamentarvi, vi stiamo per regalare un’opera che farà decollare il Mezzogiorno, che porterà milioni di posti lavoro e miliardi di turisti. E i sindacati? O meglio Cgil e Uil perché la Cisl è diventata la ruota di scorta del governo. Non si rendono conto delle condizioni del Mezzogiorno, di come siano peggiorate negli ultimi anni! Basterebbe guardare i dati dell’inchiesta di Italia oggi sulla “qualità della vita” nelle province italiane: nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, le prime migliori 64 province sono del centro-Nord, non ce n’è una sola del Mezzogiorno. Ugualmente rispetto ai tassi di disoccupazione: si passa dal 2-3% di Pordenone, Bergamo, Livorno ai 22% di Messina, Napoli, Crotone (ben ultima), con le prime migliori 60 province tutte del Centro-Nord.

L’autonomia differenziata sarà irreversibile. Cari partiti, abbiate coraggio e ammettete l’errore.

da “il Manifesto” del 22 novembre 2022
Immagine da:https://www.breakinglatest.news/business/messina-strait-bridge-giovannini-we-need-a-connection/

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

L’ultimo report IPCC/UNEP sui cambiamenti climatici lo aveva previsto: gli effetti catastrofici della
crisi ambientale sono entrati pesantemente nel nostro quotidiano, e lo stiamo sperimentando
soprattutto sotto forma di ondate di calore accompagnate da incendi, o di temporali con “bombe
d’acqua” che innescano disastri franosi e alluvionali.

Certo, si sapeva che l’ipercementificazione del nostro Paese avrebbe causato sofferenze particolari al
suo territorio. E si conoscevano anche i principali fattori di rischio, in questo caso soprattutto idro-
geologico ma anche sismico, di incendi, inquinamenti od obsolescenza e inadeguatezza del patrimonio
costruito. Il risanamento e la riqualificazione di un territorio troppo “consumato” dovevano figurare tra
i primi punti di qualsiasi programma di mitigazione della crisi ambientale: se le grandi politiche di
contenimento degli inquinanti e dei fattori di alterazione eco-climatica richiedono strategie globali, le
ricadute sui territori attengono alle politiche locali, comunali o d’area vasta, regionali e nazionali.
Con la formulazione del Green Deal, l’Europa ha dettato le linee programmatiche per la transizione
ecologica, quindi predisposto, con il NGEU e i relativi Recovery Plans, le azioni progettuali e gli
interventi necessari a supportarla.

Con il suo PNRR l’Italia dispone – tra prestiti e fondi trasferiti – di oltre 200 miliardi di euro da
utilizzare in tal senso. Appare quindi ovvio che, a parte il contributo nazionale alle grandi politiche cui
si è accennato sopra, una quota rilevante degli investimenti doveva essere destinata a mitigare gli effetti
territoriali della crisi ambientale, con azioni di risanamento, riqualificazione e restauro del territorio.
La copertura finanziaria di tali azioni poteva anche essere non troppo problematica: qualche anno fa,
difatti, il MISE – non certo un’organizzazione ambientalista o un centro di ricerca di ecologia radicale –
aveva quantizzato in un importo di poco inferiore al totale messo a disposizione dal PNRR, 190
miliardi di euro, l’investimento necessario a una prima messa in sicurezza dei territori nazionali rispetto
ai rischi ricordati, sempre più enfatizzati dall’acuirsi di una crisi ecologica che ha ormai carattere di
emergenza.

Lo stesso MISE, per attuare il programma necessario, proponeva un progetto poliennale (decennale
o anche ventennale) da avviare però immediatamente. Pena l’esasperazione degli effetti catastrofici sul
territorio che già si registravano, ma che erano chiaramente destinati a intensificarsi con tempi di
ritorno sempre più ravvicinati.

Nel 2015 l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche in base a queste previsioni MISE,
lanciò il programma “Casa Italia” per il risanamento e la messa in sicurezza del territorio abitativo e
urbanizzato. Se ne parlò solo per qualche mese: probabilmente si decise di non farne più nulla quando il
premier e il suo entourage vennero a sapere che si trattava di una serie di piccole azioni di risanamento
(rinaturalizzazione, riterritorializzazione, ripristino ecosistemico, disimpermeabilizzazione,
consolidamento delle alberature, messa in sicurezza della fauna, ecc.) e non di un numero esorbitante di
grande opere di altrettanto grande impatto mediatico e finanziario.

A sei anni di distanza e con una pandemia (più o meno) alle spalle, il PNRR rappresentava dunque
una grande occasione per avviare un progetto di risanamento tanto ampio quanto urgente.
In realtà, a fronte degli oltre 200 miliardi disponibili in totale, e degli oltre 61 espressamente destinati
alla “transizione ecologica”, le risorse investite in programmi di risanamento territoriale ammontano a
meno di 4,5 miliardi di euro, poco più del 2% dell’importo complessivo. I disastri, le alluvioni, gli
allagamenti, le frane, gli incendi, i crolli, che pure non sono mancati proprio mentre i dirigenti
ministeriali competenti scrivevano il piano, non hanno spostato nulla a favore di azioni che, più che
necessarie, erano urgentissime.

La maggior parte delle risorse del PNRR si è usata invece per “dare una
mano di verde” a operazioni vecchie, già obsolete ma gestite da grandi imprese e grandi interessi
finanziari, che anziché contrastare finiranno per accentuare ulteriormente l’attuale stato di crisi.
Così, a fronte dei (comparativamente) pochi spiccioli spesi per risanare il territorio, abbiamo 31
miliardi per Alta Velocità e Grandi Opere; che diventano quasi 80 con il Collegato Infrastrutture –

stesse agevolazioni procedurali e finanziare del Recovery – con cui si recupera gran parte delle opere
previste dalla (già definita “criminogena”) Legge-Obiettivo di berlusconiana memoria.
D’altra parte le contraddizioni del PNRR non si fermano a questo: p.es., la più parte delle risorse
investite per la “transizione energetica” serve in realtà ad alimentare una sorta di “transizione
intrafossile” dal carbone e dal petrolio al gas naturale. Mossa che si è rivelata quanto mai avveduta con
lo scoppio della guerra in Ucraina e i conseguenti tagli del gas russo. I quali a loro volta, piuttosto che
rappresentare un incentivo a una reale conversione alle rinnovabili, sono usati per giustificare nuove
trivellazioni, escavazioni, realizzazioni di opere già in partenza obsolete (leggasi metanodotto per
Foligno) che accentueranno la nostra dipendenza anziché attenuarla. Mentre per le energie alternative
continuano a presentarsi “problemi autorizzativi”.

Questi peraltro sarebbero facilmente superabili se operatori pubblici e privati, abbandonando la
logica affaristica dei “grandi impianti”, si limitassero a seguire le direttive dei Piani paesaggistici, che
spesso dicono esattamente dove e in che quantità si possono realizzare pannelli fotovoltaici o
aerogeneratori. O se si incentivassero autentiche comunità energetiche che, ab initio, progettino gli
insediamenti secondo i caratteri ecosistemici e culturali dei luoghi.

C’è oggi tutto un fiorire di attori locali che curano, tutelano e valorizzano i territori portando avanti
“dal basso” opzioni di sostenibilità sociale ed ecologica, a volte anche in contrasto con le grandi
istituzioni finanziarie e programmatiche. È una realtà produttiva che vale diversi miliardi di euro l’anno,
e che promuove azioni che vanno dalle comunità energetiche alla conversione bio-ecologica
dell’agricoltura, dall’eco-turismo esperienziale alla produzione di beni immateriali (conoscenza,
educazione, ricerca…), dal recupero del patrimonio territoriale alla sua reimmissione in circuiti di
produzione di valore. È a questi attori che potevano e dovevano essere destinate le risorse che il PNRR
decentra alle Regioni: la transizione ecologica vera ha bisogno della loro forza visionaria.

da “il Fatto Quotidiano” del 17 ottobre 2022
Foto di Hans da Pixabay

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Mettere al centro della propria riflessione la felicità può facilmente apparire, di primo acchito, occuparsi del godimento effimero, dell’edonismo individualistico che domina l’epoca. Fraintendimento a cui sfugge subito chi un po’ ricorda l’origine storica di questo lemma e soprattutto chi conosce l’autore che ne tratta. Domenico De Masi nell’agile e denso libretto La felicità negata (Einaudi), fuga subito il possibile equivoco, mostrando come il termine sia figlio dell’Illuminismo. Esso compare nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 quale diritto di tutti gli uomini alla «vita, la libertà, la ricerca della felicità».

Sappiamo peraltro che la felicità civile di cui parla De Masi diventa lo scopo del buon governo nelle teorizzazione degli illuministi napoletani, da Galiani a Filangeri e si ritrova nella Costituzione giacobina del 1793 in Francia. Ma l’autore la rintraccia addirittura nel 1759, addirittura in Adam Smith. Il fondatore dell’economia politica, che per decenni è stato evocato da migliaia di politici e intellettuali orecchianti per nobilitare il più sfrenato mercatismo, considera virtuosa la ricerca della felicità. Come fa nella Teoria dei sentimenti morali, dove tuttavia considera vera virtù solo la ricerca della felicità comune, mentre «il meno virtuoso… è quello che non tende ad altro che alla felicità di un individuo». Quale grandezza in questa borghesia del Settecento, di fronte alla famelica ottusità di quella dei nostri anni.

In questo testo arioso, scritto con il nitore narrativo di chi ha lunga familiarità con i temi trattati, l’autore compie a mio avviso un’operazione compositiva geniale, che contiene alla fine una critica dirompente al sistema capitalistico giunto a questa fase estrema di sviluppo. Un’apertura di orizzonte di cui dovrebbero impossessarsi e trasformare in discorso corrente la politica radicale, le nuove generazioni. De Masi, dopo una breve introduzione in cui elenca tutte le conquiste grazie alle quali potremmo essere tutti felici, ricostruisce la vicenda di due grandi e contrapposte scuole di pensiero: la Scuola di Francoforte e la Scuola austriaca, che da cui è nato neoliberismo. Seguono due capitoli, uno dedicato al lavoro, com’era e come è diventato, e un altro all’ozio, nel quale l’autore offre 5 soluzioni possibili per risolvere il problema della sua crescente rarefazione del lavoro nella società postindustriale e per il conseguimento della felicità civile.

Non mi soffermerò sulla vicenda delle due scuole nelle quali il lettore, oltre a una ricostruzione agile ma circostanziata, troverà un vero repertorio di notizie particolari, che rendono l’analisi ricca di sorprese. A dispetto della vasta letteratura accumulatasi su queste due grandi correnti che hanno attraversato il Novecento, De Masi rende nuova questa pagina storica soprattutto grazie alla sua competenza e al suo sguardo di osservatore dei nostri anni. Egli può mostrare le ragioni per cui il rinnovato marxismo incarnato dalla Scuola di Francoforte, portatore di originalissimi contributi di analisi dei fenomeni culturali della società capitalistica, abbia avuto scarsa efficacia politica.

Fatta eccezione per l’annus mirabilis 1968 e la fine di quel decennio, in cui Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, diventarono testi sacri per una intera generazione, il resto della produzione non ebbe l’ influenza che arrise alla scuola avversaria. Intellettuali della statura di Theodor Adorno, Max Horkheimer, autori di un testo memorabile come Dialettica dell’illuminismo, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Walter Benjamin che ancora gettano luce sul nostro tempo, non andarono oltre una influenza di natura intellettuale. Ma quasi tutti i grandi studiosi che diedero vita all’Institut für Sozialeforschung fondato nel 1923, erano ricchi borghesi che fecero poco o nulla per diffondere le loro idee e per imprimere ad esse efficacia politica.

Diversamente da come operarono Böhm Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e altri economisti, che nella Vienna tra fine Ottocento e primi del Novecento (formidabile crogiolo intellettuale prima del tramonto), diedero vita a quella corrente che verrà chiamata neoliberismo. Costoro, anch’essi ricchi borghesi, erano intenzionati a combattere il socialismo e la classe operaia e misero in piedi circoli per diffondere le loro idee, entrarono nei consigli delle banche, delle imprese, nelle università, nelle redazioni delle riviste più prestigiose. Insomma misero in piedi, sul piano culturale, una esplicita lotta di classe. Alcuni di loro guardarono con favore perfino al nazifascismo.
De Masi ricostruisce la fortuna di questa scuola che negli ultimi decenni si è trasformata nel pensiero unico dell’umanità, la «nuova ragione del mondo» e ci regala anche una pagina storica di applicazione di quel pensiero all’economia italiana: la svendita del patrimonio industriale pubblico da parte di Mario Draghi.

Ma il messaggio più profondo e dirompente del libro, in pagine ricche di analisi in cui splendono i pensieri di Marx, di Keynes, di Simon Weil è che l’infelicità presente, il disorientamento psichico e morale dell’epoca è frutto dello sfruttamento sempre più totalitario del lavoro. Sfruttamento e disoccupazione strutturale che, come dice André Gorz, «è anche un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese». Uno strumento di ricatto con cui il potere non contrastato del capitale distrugge per cieca ricerca del profitto la società e saccheggia le risorse della Terra. Eppure, ricorda l’autore: «Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero al lavoro un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità».

Noi potremmo consentirci, grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, la possibilità «di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria». La felicità civile è a portata di mano ma l’enorme squilibrio nei rapporti di forza fra capitale e lavoro, ha come esito una società ingiusta, frenetica, fonte di alienazione e malessere. Eppure, luminoso messaggio affidato alle parole di Marx, può esserci felicità anche nella lotta, nell’impegno a migliorare la vita degli altri: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, egoistica, limitata, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».

da “Left” del 27 agosto 2022
immagine: La risata, Umberto Boccioni