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Che fare? Quello che la California ci insegna.-di Tonino Perna

Che fare? Quello che la California ci insegna.-di Tonino Perna

Sono almeno dieci anni che gli studiosi hanno statisticamente rilevato un incremento della superficie bruciata a causa degli incendi in tutto il mondo. Ma, grazie ai mass media, nell’immaginario collettivo si è radicata l’idea che gli incendi devastanti siano una realtà eccezionale, una emergenza che riguarda solo alcune parti del pianeta.

Pochissimi sanno che l’area più colpita al mondo non sia l’Amazzonia, ma quella delle foreste equatoriali che dalla Repubblica Democratica del Congo si estendono all’Angola, alla Repubblica Centrafricana e ad altri Paesi limitrofi.

Non se ne parla mai nelle varie Coop, nei meeting internazionali che tentano di affrontare la questione ambientale, come se il fenomeno non incidesse sulla produzione di CO2. Si pensi solo che nel 2023 queste emissioni, come ricordava ieri Luca Martinelli, sono state pari a sei volte la CO2 prodotta dall’Italia e, secondo una stima attendibile, pari all’impatto del traffico aereo che concorre col 2% alle emissioni globali di gas climalteranti.

Non solo California, dunque, ma un fenomeno mondiale. Negli stessi Usa l’andamento del rapporto tra superfice bruciata e numero degli incendi (vedi il grafico) ci mostra come non sia tanto il numero degli incendi a crescere quanto la furia e l’impatto devastante di questo fenomeno.

Incendi negli Usa dal 1983 al 2022 (media mobile di tre anni)
Periodo/Incendi/Acri bruciati-1.000/ Acri-incendio
1986-88 86.600 3.391 39,2
1989-91 63.900 3.133 49,0
1992-94 75.000 2.646 35,3
1995-97 81.300 3.587 44,1
98-2000 88.200 4.783 54,2
2001-03 73.800 4.905 66,5
2004-06 76.000 8.890 117,0
2007-09 81.000 6.847 84,5
2010-12 68.000 7.155 105,2
2013-15 59.200 6.013 101,6
2016-18 65.100 8.101 124,4
2019-21 52.700 7.303 138,6
2022 59.900 7.577 126,5
Fonte: N.E. su dati dell’Annual Wildfire Burned Area in U.S.

Spesso la classe politica locale si dimostra talmente impotente e impreparata da sfiorare il ridicolo. Esemplare è il caso del governatore della California, David Newsome, che nell’ottobre del 2020 di fronte a uno dei più devastanti incendi che hanno colpito la California negli ultimi anni ha reagito a questo dramma con un provvedimento che vieta la vendita delle auto a benzina a partire dal 2035 (sic!).

Ma, quello che la California ci insegna è che in una delle aree più ricche del nostro pianeta la tecnologia più avanzata è impotente se pensa di fare a meno del ruolo della organizzazione sociale. Di anno in anno si moltiplicano gli elicotteri, si usano i droni, le connessioni satellitari sono fantastiche nel regno di Elon Musk, ma niente possono di fronte all’avanzata degli incendi. E non si tratta di una natura che si vendica quanto di una società capitalistica portata alle estreme conseguenze.

Chi scrive ha sperimentato con successo, quando era presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte, come si potessero ridurre drasticamente gli incendi puntando sul presidio dei territori, sulla responsabilità e motivazione, nonché su una premialità per chi opera per spegnere da terra, quando parte il fuoco, affinché non si propagandi.

Il cosiddetto “modello Aspromonte” è stato per dieci anni imitato anche da altri parchi nazionali, ma poi è stato messo da parte dalla potenza delle lobbies dei mezzi aerei che affittano allo Stato le proprie prestazioni. Qualche maligno in passato ha detto “se non ci fossero gli incendi fallirebbero queste imprese” che solo nelle regioni meridionali arrivano a gestire più di duecento milioni di euro l’anno.

Il successo del “metodo Aspromonte” era basato sul fatto che i cosiddetti “contratti di responsabilità territoriale” venivano assegnate ad associazioni o cooperative che avevano nel curriculum un bagaglio di impegni in campo ambientale, unitamente al riconoscimento economico del lavoro fatto. Esattamente l’opposto di quanto avviene in California dove vengono utilizzati i carcerati per spegnere gli incendi quando ormai divampano. E questi poveretti, circa ottocento secondo le cronache, sono stati anche questa volta mandati allo sbaraglio, rischiando la vita per un dollaro l’ora.

Denaro, tecnologia, potenza militare, non servono a niente per contrastare gli incendi come dimostra un caso esemplare nel nostro paese. il Trentino-Alto Adige (Sud Tirolo). In questa bellissima regione gli incendi sono stati da sempre controllati grazie a una tradizione civica così forte e radicata che porta migliaia di volontari, ogni anno, a presidiare il territorio e a spegnere i focolai quando dovessero innescarsi.

Come ormai avviene nel campo della salute dove la durata media della vita diminuisce quando aumenta la privatizzazione dei servizi sanitari così nella cura del territorio se si abbandona questo bene comune alla logica del profitto, se non si fa prevenzione, saremo sempre più esposti ad incendi, alluvioni, e disastri ambientali.

da “il Manifesto” del 12 gennaio 2025

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

Bene ha fatto questo giornale a mettere in discussione la classifica del Sole 24 ore, non per uno spirito campanilistico, ma perché ogni trasformazione della qualità in quantità va osservata criticamente. Le classifiche che riguardano fenomeni qualitativi vanno sempre prese con le pinze, mai come verità scientifiche. Nel caso della qualità della vita diventa ancora più difficile trovare una valutazione oggettiva, dei pesi giusti tra i diversi indicatori, e stabilire quali indicatori siano attendibili e quali no.

Ci sono dei dati incontrovertibili come gli insoluti bancari, la percentuale dl pensionati sulla popolazione e il livello della pensione media, il tasso di fertilità e mortalità, il numero di rapine e furti, di incidenti stradali, di consumi pro-capite, ecc. Altri dati pur essendo importanti sono problematici.

Ad esempio, il reddito pro-capite. Mi viene in mente il caso della Guinea Equatoriale che in base al reddito pro-capite è tra i Paesi più ricchi dell’Africa sub-sahariana, ma se si guarda la distribuzione del reddito, usando l’indice di Gini, allora si scopre che è anche il paese africano con il massimo di diseguaglianza sociale, con la famiglia reale che concentra nelle sue mani maestose quasi il 90 per cento del reddito nazionale.

Così se si guardano i flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord Italia ed Europa, si ha un dato che non risponde alla realtà perché molti giovani lasciano la residenza nella terra natìa anche se da diversi anni vivono nel Centro-Nord Italia.

Ancora più difficile è la valutazione della qualità della vita che è strettamente legata alla percezione dei cittadini, ed è il frutto di diversi fattori che entrano in gioco. E un po’ come la felicità. Mi fanno sorridere le classifiche sulla “felicità nei diversi Paesi del mondo” che sono basati su risposte campionarie sulla percezione della felicità. Niente di più etereo.

Certo, siamo tutti gli italiani molto più felici dei palestinesi o sudanesi o congolesi che sono tragicamente travolti dalle guerre in corso. Né d’altra parte la felicità è legata alla crescita economica o al livello del Pil: sono più felici gli statunitensi o i messicani? Secondo queste classifiche internazionali sono i messicani che, malgrado livelli notevoli di povertà ed emarginazione, sanno godersi di più le poche cose materiali che gli offre la vita. Sarà!?

Tornando alla vivibilità delle province italiane la controclassifica che è stata pubblicata su questo quotidiano alla vigilia di Natale mette nelle prime dieci province tutte città del Centro-Nord di piccola-media dimensione. Devo dire che questa è la percezione che abbiamo avuto, chi scrive con Pino Ippolito, nel nostro “Viaggio in Italia”.

E’ un fatto che la qualità della vita nelle grandi città, che troviamo agli ultimi posti della controclassifica, è oggi entrata in crisi: affitti insostenibili, overturismo, microcriminalità, inquinamento, anomia (già denunciata da Emile Durkheim alla fine dell’XIX secolo), ecc. Eppure molti giovani meridionali quando devono scegliere una università preferiscono quelle delle grandi città anche se il costo della vita è più alto, i disagi maggiori, ma ci sono molte altre occasioni di svago e opportunità culturali e lavorative che compensano.

Viceversa, un anziano con una pensione minima o bassa vive meglio in un paesino dell’Aspromonte che in una periferia di una metropoli dove rimane confinato nella sua solitudine, privo di quelle relazioni amicali e parentali che ancora riscaldano le vene nei piccoli centri quando non vengono abbandonati.

Quindi quando parliamo di qualità della vita nelle città dovremmo costruire, su base campionaria, diverse classifiche in base al dato anagrafico, alla classe sociale, al livello culturale di una determinata popolazione. Sarebbe auspicabile un lavoro del genere anche se è probabilmente insufficiente a modificare il nostro immaginario. Infatti, è determinante la narrazione che ne fanno i media. In questo Milano è bravissima.

Continua a presentarsi al mondo come la città della moda, delle innovazioni tecnologiche, della finanza e della cultura. Tutto vero. Ma esiste anche una gran parte della popolazione che fa fatica a trovare un lavoro non precario, a guadagnare per consentire una vita dignitosa, che vive in anonime periferie con la paura del vicino di casa, dell’immigrato, delle bande giovanili. Su questa paura diffusa tra i ceti popolari l’attuale governo ha costruito la sua larga base elettorale riuscendo a costruire un immaginario che non ha niente a che fare con la realtà.

Pochi sanno che l’Italia, insieme alla Grecia, è il Paese con la più bassa percentuale di omicidi, che il Paese che accoglie più immigrati in percentuale della popolazione è la Germania, seguita da Francia, Grecia (sic!) ed altri Paesi del Nord Europa. Invece i mass media ci parlano di “invasione” e di un Europa che ci lascia soli di fronte a questo arrivo dei barbari. Pochi mass media raccontano la verità: la gran parte degli immigrati che arrivano in Italia transitano nei paesi del Centro-Nord Europa.

Lo stesso, fatti dovuti distinguo, vale per la Calabria. Mettendo il Sole 24 ore la Calabria agli ultimi posti della classifica nazionale sulla qualità della vita nelle province, non fa che confermare un immaginario, basato in parte sui dati di fatto e in parte su un pregiudizio. Per onestà intellettuale bisognerebbe parlare di “percezione della qualità della vita” e non di un dato scientifico, intervistando con un campione stratificato, per età, sesso e classe sociale, i cittadini delle diverse province italiane.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 dicembre 2024

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Una vittoria memorabile dei cittadini e una sconfitta storica per la classe dirigente di questa regione. È questo lo straordinario, letteralmente fuori dall’ordinario, risultato del referendum sull’unificazione di Cosenza, Rende e Castrolibero. L’unificazione promossa e sostenuta con entusiasmo da tutti i partiti, da Sinistra Italiana a Fratelli d’Italia, dagli imprenditori, dagli speculatori edilizi e, persino, da una parte dei sindacati è stata rigettata dai cittadini delle tre città.

Quei cittadini, alcuni dei quali riunitisi in Comitati spontanei, hanno respinto con forza, più del 58 % di NO, questa arrogante e, nei contenuti, irricevibile proposta di unificazione. A Cosenza, in particolare, due Comitati spontanei e autofinanziati –‘NO alla Fusione’ e ‘NO alla fusione. Per una Città Policentrica’, composti da non più di una quindicina di persone in tutto- sono stati capaci di persuadere il 30% dei votanti della città capoluogo a votare NO.

Quasi il 60% dei cittadini ha rifiutato questa proposta soprattutto perché l’unificazione aveva come unica ragione, falsamente di buon senso comune, che, essendo i territori comunali confinanti, la città unica esisteva già nelle cose e nella percezione delle persone.
Ogni città, invece, è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “interno”, la memoria culturale, e di uno “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i giardini, i palazzi, i viali alberati, i beni culturali.

Le città e i paesi italiani sono diversi gli uni dagli altri perché hanno forme, avvenimenti storici e sociali, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano, molto differenti fra loro (Settis). Cosenza, Rende e Castrolibero avevano ed hanno forme e storie diverse che non sono omologabili, così come non sono omologabili neanche i loro cittadini che, infatti, hanno nettamente rifiutato l’unificazione.

I ‘leader’ dei partiti che hanno promosso questa unificazione vanno dicendo, ora, che è stato solo il metodo -senza dubbio impositivo e arrogante- che ha spinto i cittadini a votare contro, ma lo fanno solo per nascondere l’intimo rifiuto che, invece, i loro stessi elettori hanno avuto a conformarsi al pensiero unico della presunta ‘convenienza ed attrattività’ economica e della falsa modernità incarnata dalla grandezza che si otterrebbe con un unico Comune. Dicono queste cose perché fanno finta di non capire che i cittadini hanno bocciato, per sempre, l’unificazione più che il metodo.

Questa, invece, è stata una vittoria sul luogo comune che vorrebbe che il successo di una città sia misurato dalla sua Bigness (Koolhass) e dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione. Una vittoria di coloro che pensano che il successo di una città dipenda, invece, dalla sua capacità di distribuire equamente al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini.

Un’unificazione che è stata bocciata dai cittadini perché avrebbe definitivamente condannato i territori delle loro città ad essere soltanto suolo da ridurre a merce, preda degli speculatori che, dopo aver cementificato quasi del tutto Cosenza, vogliono espandere la metastasi cementizia verso le colline più appetibili di Castrolibero e, soprattutto, verso la pianura di Rende.

Il Sindaco di Cosenza potrebbe cogliere l’occasione per provare, come indicatogli dal voto dei cittadini, a liberare il territorio del suo Comune dal giogo avvilente della speculazione edilizia e rivedere dalle fondamenta il Piano Strutturale Comunale –adottato, ma non approvato dall’allora sindaco Occhiuto- per farlo diventare strumento di progresso urbanistico, civile e sociale invece che approvarlo, ‘sic et simpliciter’, producendo solo mero sviluppo cementizio.

Mi permetto, sommessamente, di suggerire ai Commissari di Rende di non approvare il PSC della città che è l’atto più importante -dal punto di vista non solo urbanistico, ma anche economico, sociale e culturale- di qualunque Amministrazione comunale, ma di lasciarlo alla discussione e all’approvazione democratica del prossimo Consiglio comunale e del Sindaco che i cittadini vorranno eleggere, speriamo al più presto possibile.

Si potrebbe, ora, provare ad aprire, come suggerisce Sandro Principe, una fase di concertazione tra i Sindaci di Cosenza, Castrolibero ed i Comitati del NO per elaborare uno Statuto per l’Unione dei tre Comuni che è l’unico strumento idoneo per imboccare la strada indicata con chiarezza dal voto dei cittadini.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Ci sono due Calabrie: una di chi sta bene (benino diciamo) e una di chi sta male (malissimo diciamo). E convivono sotto lo stesso tetto in una situazione globale che non è certo finita a somma zero.

E dove sta – direte voi – la novità? Lo sappiamo da tempo! Ma la novità stavolta c’è, se uno si prende la briga di leggere tutto e fino in fondo un saggio bello lungo e corposo, denso di dati, cifre, proiezioni, riferimenti, pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia, in questo mese di dicembre 2024 di Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò.

Si intitola ‘’Le due società. Del benessere passivo e delle povertà dei calabresi’’ e non parla solo di economia con freddi dati, micro e macro, ma parla anche, alla fine, di politica. Cioè in una sola parola di quello che la politica, le classi dirigenti nel suo complesso dovrebbero fare e invece non fanno. Ed è questo il punto di fondo.

Riassumere nel contesto di una pagina di giornale il pensiero di Cersosimo e Nisticò non è semplice ma provandoci per i nostri lettori abbiamo ammirato la lucidità, la compostezza, il rigore scientifico di questi due studiosi calabresi, molto noti peraltro da tempo e autori di diversi saggi proprio sulla struttura economica e sociale della nostra regione.

La Calabria – iniziano – è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società. La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%)

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Cersosimo e Nisticò rilevano come più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese.

L’incremento dei calabresi a “rischio di povertà passa dal 34,5 al 40,6% e quelli con “grave deprivazione materiale e sociale” nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, il saggio dei due economisti nota come i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. ‘’Da un lato – scrivono – ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore’’.

I primi calabresi, quelli che definiamo ricchi per comodità, si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

La “seconda” Calabria, quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati non disturba l’estetica della “prima” Calabria, è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

Qui c’è lo scatto che dovrebbe interessare di più la politica perché Cersosimo e Nisticò scrivono testualmente così: ‘’a questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante. I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider’’.

La chiusura parla invece a tutti noi: ‘’le rare imprese di “successo”, le micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”’’.

È il problema dei problemi alla fine quello che riemerge e che anche noi giorno dopo giorno ci sforziamo di fare nella denuncia puntuale delle mille cose che non vanno e nel cercare di dare voce a chi non ne ha affatto e, nello stesso tempo, di dare voce a quelle che i due economisti chiamano le ‘’rare imprese di successo’’, che forse meriterebbero maggiore attenzione.

In mezzo c’è una rete che dovrebbe tenerle assieme e farle crescere queste positive esperienze ma chi se non una classe dirigente, politica e non, ha questo compito? Chi deve agire se non una politica sana che si dedica all’interesse collettivo? Questo è il vero problema delle due Calabrie, che forse sono pure 3 o 4, o anche una sola che vive tutta assieme sotto un’unica capanna, mischiandosi e confondendosi tutti i giorni in una melassa sempre più insopportabile.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024.

La rinascita dell’Aeroporto dello Stretto: l’impatto sulla città metropolitana.-di Tonino Perna

La rinascita dell’Aeroporto dello Stretto: l’impatto sulla città metropolitana.-di Tonino Perna

Per quasi un trentennio l’aeroporto dello Stretto ha vissuto una fase di progressivo abbandono, di riduzione di voli e passeggeri, di declino che sembrava inarrestabile. Ancora all’inizio di quest’anno erano rimasti due collegamenti, per Milano e Roma, ad orari spesso poco praticabili.

Insomma, un aeroporto sempre più marginale, che serviva ormai una strettissima utenza del Comune capoluogo, destinato a chiudere battenti per la sua insostenibilità economica. Improvvisamente, grazie all’accordo con Ryanair promosso dal presidente Occhiuto, l’aeroporto dello Stretto ha ritrovato la sua identità, la sua ragion d’essere iniziale.

Dopo trent’anni sono ritornati i messinesi, e non solo i cittadini del capoluogo, ma un’importante fetta della fascia tirrenica. E sono tornati anche gli abitanti dei Comuni della provincia reggina che ormai da molti anni avevano preso l’abitudine di andare a Lamezia. In breve: questo aeroporto non è stato per caso denominato “Aeroporto dello Stretto” perché il suo naturale bacino di utenza comprende una buona parte delle due città metropolitane, Reggio e Messina, con un potenziale di clienti tra gli ottocentomila e un milione di persone.

Già da questa estate, il collegamento dell’Aeroporto dello Stretto con diverse città italiane ed europee, ha fatto registrare un inedito flusso turistico che ha cambiato l’atmosfera sonnolenta della città dei Bronzi. Un boom turistico che non si era mai visto prima, con alberghi e B&B che sono rimasti stracolmi per tutti i mesi estivi.

Ma, anche per gli abitanti dello Stretto si è aperta la possibilità di raggiungere altre città italiane ed europee in poco tempo e a prezzi abbordabili, una occasione di crescita civile e culturale.

Certo, vanno superati alcuni punti critici che riguardano il collegamento con Messina e quello con i paesi della provincia reggina. Sul primo si è fatto qualche passo avanti ma si può ancora migliorare, mentre rimane fortemente critica la connessione con i Comuni della provincia reggina data la disastrosa situazione dei collegamenti con mezzi pubblici (treni e bus).

Sulla tratta ferroviaria della costa jonica è meglio non parlarne, ma anche i bus privati che debbono fare tante soste impiegano un tempo incredibile per collegare l’aeroporto dello Stretto alla Locride. I miliardi, che questo governo vuole sprecare per un’opera inutile e dannosa come il Ponte sullo Stretto, dovrebbero essere impiegati per risolvere gli atavici problemi del trasporto pubblico in Calabria e Sicilia.

Se governasse il Partito del Buon Senso da tempo si sarebbe agito in questa direzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 14 novembre 2024

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

La legge di bilancio comporterà nel triennio prossimo un taglio agli enti locali di 4 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi colpiranno i Comuni. Contemporaneamente nel prossimo triennio verranno meno i fondi del Pnrr, e si passerà alla fase di restituzione dei 90 miliardi prestati dalla Commissione europea all’Italia che vanno a sommarsi al già pesante debito pubblico.

Allo stesso tempo il quadro internazionale non promette niente di buono con una netta divisione del mercato mondiale in due blocchi sempre più in rotta di collisione. Insomma, è finito il tempo delle vacche grasse e sta per iniziare un lungo periodo di vacche magre. A farne le spese saranno innanzitutto i Comuni e chi li amministra che dovrà far fronte alle proteste dei cittadini che verranno penalizzati da questi tagli.

Il direttore Massimo Razzi in un suo recente editoriale aveva posto con chiarezza il nodo politico da affrontare domandandosi: chi vorrà fare il sindaco nel prossimo futuro? Anche il sottoscritto, scusate l’autocitazione, ha scritto un saggio “Le città ingovernabili” (Città del sole ed. 2016) partendo da alcuni casi concreti. Poi, la pandemia, che ha rilanciato il ruolo dei sindaci e messo in secondo piano il deficit comunale e le varie inefficienze, e successivamente il Pnrr che ha riempito il budget degli enti locali, hanno fatto dimenticare la crisi strutturale di molti enti locali soprattutto nel Mezzogiorno.

Si tratta, infatti, di una crisi strutturale che deriva da tre fattori. Il primo è legato ai debiti degli enti locali che sono cresciuti negli ultimi decenni in tutto il mondo (in Cina, per esempio, in maniera esponenziale). Il secondo ad una legge che impone il pareggio di bilancio in alcuni servizi (come la raccolta rifiuti) e costringe i Comuni in deficit a portare le imposte locali al massimo con gravi ripercussioni sui bilanci delle famiglie a reddito medio-basso.

Infine, la recessione economica che finora è stata occultata grazie a una pioggia di miliardi e che dal prossimo anno emergerà chiaramente mettendo in difficoltà famiglie e imprese. Sinergicamente questi tre fattori portano a un risentimento popolare, una rabbia che spesso si scarica sul primo cittadino, anche su chi ci mette l’anima per la propria città.

Se questi elementi accumunano diversi Paesi occidentali, e non solo, lo specifico del caso italiano è che abbiamo un debito pubblico pari a oltre il 140 per cento del Pil che comporta un esborso di quasi 100 miliardi l’anno per pagare gli interessi. Una cifra enorme di cui beneficia la rendita finanziaria e non gli investimenti, di cui hanno goduto finora i rentiers e le banche, ma che sta diventando insostenibile.

Da qui la necessità di ridurre il nostro debito pubblico, che non è un capriccio dei burocrati di Bruxelles ma una necessità se vogliamo trovare le risorse necessarie a mantenere il nostro welfare. Purtroppo, tutte le forze politiche hanno finora criticato l’austerity come una mannaia impostaci dai falchi di Bruxelles, mentre la vera domanda è: “quale austerità” praticare, chi deve pagare la riduzione del debito pubblico?

Con questa manovra finanziaria per il 2025 si potevano colpire gli extraprofitti delle banche (che arriveranno quest’anno a circa 20 miliardi), mentre il governo ha scelto di colpire le Università, la scuola e la sanità. Alle banche ha chiesto solo un timido anticipo su tasse future da pagare, in modo da poter dire alla popolazione, ignara di partite di giro, che anche le banche sono state colpite come nel programma del governo e uno dei cavalli di battaglia della Premier. Purtroppo, anche l’opposizione si limita a criticare questa linea di politica economica senza però indicare con coraggio chi dovrebbe essere tassato e chi dovrebbe avere dallo Stato maggiori sussidi, salari e benefici.

Pochi sanno che nei Paesi della Ue la spesa pubblica rappresenta tra il 45 e il 50 per cento del Pil determinando pesantemente nelle fasi recessive una ripartizione tra salari e profitti nella distribuzione del Reddito nazionale. Qualcuno potrebbe anche pensare che una linea di demarcazione tra Destra e Sinistra dovrebbe passare da una netta scelta nelle voci di spesa e entrata dello Stato, dove si capisce quali ceti e classi sociali si vogliono privilegiare o colpire. E magari la cosiddetta Sinistra potrebbe ricordarsi che era nata e fondata sul principio della giustizia sociale, e non solo quando si sta all’opposizione.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 ottobre 2024
Foto di xiaoou dong da Pixabay

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Il mio amico e collega catanzarese Sergio Dragone (ma per tanti anni al lavoro a Cosenza nel Giornale di Calabria diretto da Piero Ardenti) non ha avuto dubbi: lui se potesse – ha scritto- voterebbe no. Io invece, potendo, voterò proprio NO a quel referendum che forse – come dicono in molti -non servirà a nulla, essendo già tutto deciso a tavolino con una procedura arruffona, senza senso e tutta piegata a logiche di potere.

Ma voglio proprio vedere se e come si andrà avanti egualmente se tra un mese e mezzo arriverà una valanga di NO da Cosenza, Rende e Castrolibero! Io intanto vi dico il mio NO in maniera molto semplice e poco intellettualistica se volete e poco politica: voterò NO perché non si cancellano identità, storia, radici, appartenenza in questo modo pasticciato, accelerato, senza un vero coinvolgimento dei cittadini e nemmeno delle istituzioni dei tre comuni.

Senza soprattutto un dibattito che vada a vedere quello che già c’è da decenni e che potrebbe, può, andare avanti e anzi rafforzarsi senza appunto distruggere secoli di storia. Se è vero che Cosenza Rende e Castrolibero sono infatti ormai un’unica cosa dal punto di vista urbanistico e logistico il lavoro da fare sarebbe magari quello di una definitiva unificazione dei servizi primari, un abbattimento dei costi di gestione e altre utility come oggi si chiamano.

Ma non vado avanti su questo terreno perché altri molto più competenti di me in materia di urbanistica lo stanno scrivendo da anni, per ultimo Battista Sangineto su questo giornale.https://www.osservatoriodelsud.it/2024/10/03/altro-fusione-meglio-tre-citta-piccole-misura-duomo-battista-sangineto/

Oltre c’è però il cuore, il senso profondo cioè di una comunità che non può e non deve essere cancellato e mischiato. Questo discorso vale ovviamente per tutte e tre le comunità ma per me cosentino nativo della Massa ancor di più forse. Cioè del cuore vecchio e antico della città, che mi sentirei storpiato in una ammucchiata improvvisa.

Non sono un urbanista nè un esperto di logistica (lo ripeto fino alla noia) e nemmeno uno dei tanti politici di professione che oggi sono per il sì e domani cambiano idea (o viceversa ma il risultato alla fine è lo stesso), ma il mio NO è solo di cuore, di sentimento e di amore.

Troppo poco? Troppo sentimentale? Troppo antico? Troppo antistorico? Sarà tutto questo forse ma una città e una comunità se non vivono anche di quelle cose di che cosa vivono? Che cosa saranno? Che ci saranno oltre i palazzi che già oggi uniscono Cosenza Rende e Castrolibero ? Che ci sarà dentro quei palazzi e dentro quelle case? Pensiamoci un attimo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 ottobre 2024

Pochi nati, sempre più anziani. Sono i migranti la vera risorsa.-di Tonino Perna

Pochi nati, sempre più anziani. Sono i migranti la vera risorsa.-di Tonino Perna

Da qualche anno è stato lanciato l’allarme relativo al cosiddetto “inverno demografico”. Diciamo subito che, a livello globale, se i paesi industrializzati hanno fatto registrare tutti un netto calo delle nascite nel nuovo secolo, è una fortuna in quanto abbiamo superato la soglia degli 8 miliardi ed è un bene che si inverta una tendenza iperbolica: agli inizi del XX secolo eravamo 1,6 miliardi!

Detto questo, per mettere in chiaro che non si tratta di una epidemia, per alcuni paesi industrializzati il fenomeno presenta seri problemi che finora sono stati male affrontati. Il calo delle nascite, il tasso di fertilità delle donne è, in generale, correlato al grado di sviluppo economico e di modernizzazione/occidentalizzazione di un determinato paese. In Niger, Mali, Ciad ogni donna mette al mondo più di sette figli, nella Ue 1,4 e in Italia 1,2.

Ci si sposa sempre più tardi, le donne mettono al mondo figli in età avanzata (per l’Italia in media a 32 anni il primo figlio) e spesso si preferisce non farne o al massimo arrivare a farne due. È un fatto culturale. Non ci sono incentivi e politiche per la famiglia che possano spostare questi comportamenti esistenziali se non in modo marginale.

Nella Ue, ad esempio, nel 2022 sono nati 388.000 bambini rispetto a quasi 1,4 milioni del 2008! In Cina, nel 2022 si è registrato un netto calo demografico, con saldo negativo tra nati vivi e morti di 850.000 unità. Contemporaneamente aumenta in tutto il mondo l’età media della popolazione che nei paesi industrializzati comporta un vistoso aumento di persone over 65 anni che debbono essere assistiti dal welfare (pensioni, assistenza sanitaria, ecc.).

In base ai dati dell’OMS il Giappone è il paese con l’aspettativa di vita alla nascita la più alta (82 anni per i maschi e 86 per le femmine), seguito dalla Svizzera e con l’Italia che si colloca al settimo posto. E per il nostro paese la gestione di questo calo demografico, da una parte, e l’aumento dell’invecchiamento dall’altra, è particolarmente complesso e problematico dato il rapporto debito pubblico/Pil. Non siamo i soli, certo, ma da noi la questione delle pensioni può diventare esplosiva perché non possiamo più aumentare l’indebitamento e la contribuzione dei lavoratori e imprese è ogni anno più insufficiente. In altri termini, è chi lavora oggi che paga le pensioni e l’assistenza sanitaria per gli anziani. E il numero delle persone in età di lavoro diminuisce ogni anno e in un prossimo futuro diventerà drammatico.

Non voglio fare la cassandra ma i numeri ci dicono che nei prossimi anni, anzi a partire dal 2025, diversi governi nella Ue prenderanno provvedimenti per aumentare l’età pensionabile e/o ridurre la spesa con un taglio alle pensioni medie ed alte. Oltre al ceto medio, da dove verrà prelevato il maggiore contributo, saranno le aree più povere del nostro paese che verranno ulteriormente impoverite, a cominciare dalla Calabria dove il peso delle pensioni sul reddito regionale è il più alto d’Italia. Se dovesse altresì passare l’autonomia differenziata allora la situazione delle regioni meridionali sarebbe, sul piano sociale, davvero insostenibile.

Ci sarebbe un modo per contrastare questo inverno demografico? Lo scrive con chiarezza Francesco Billari, Rettore della Bocconi, nel suo ultimo saggio “Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia”. Con dati inconfutabili il Prof. Billari sostiene che non abbiamo alternative: dobbiamo organizzarci per accogliere, formare, inserire nella nostra società centinaia di migliaia di immigrati ogni anno. E invece cosa va l’Ue e il nostro governo?

Paga i paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo per tenere nei lager i giovani che scappano da guerre e fame, impedisce agli aerei e navi delle Ong di salvarli in mezzo al mare con un cinismo che rasenta la strage intenzionale. La stessa Confindustria italiana dice che rimangono vuoti oltre trecentomila posti di lavoro, ma questo governo che ha fondato il suo successo sull’invasione dei nuovi barbari non demorde.

Se si moltiplicassero i corridoi umanitari, come ha fatto il Canada, se si creasse una aspettativa positiva per entrare nella Ue milioni di persone aspetterebbero il loro turno. Ne ho fatto esperienza diretta occupandomi dei corridoi umanitari con il Libano, prima di questa guerra maledetta guerra condotta da Israele. Per una famiglia che parte con i corridoi umanitari ce ne sono centinaia che aspettano il loro turno. È questo il modo più sicuro per contrastare i viaggi della disperazione sui barconi della morte.

da “il Quotidiano del Sud” del 2 ottobre 2024

Appello per Capo Colonna a Crotone. L’Eni fermi i lavori.

Appello per Capo Colonna a Crotone. L’Eni fermi i lavori.

Le immagini della fenditura del terreno sempre più lunga, 12 metri, e sempre più larga, 40 centimetri, che ci giungono dal promontorio di Capo Colonna a Crotone ci preoccupano moltissimo. Ci preoccupano perché se è vero che il fenomeno dell’erosione e dei vistosi crolli del promontorio- sul quale sorgono il tempio di Hera Lacinia e l’abitato della colonia romana di Kroton- è noto da molto tempo, è vero, però, che questo fenomeno ha subìto un’accelerazione che sembra essere tutta di natura antropica.

Le caratteristiche geomorfologiche, litologiche, geostrutturali, idrologiche e geotecniche del promontorio determinano, in corrispondenza della falesia, distacchi di blocchi nella placca rigida silico-arenitica e calcarenitica. La suddetta placca poggia su un basamento argilloso molto erodibile per una serie di concause: scadenti caratteristiche geotecniche, sfavorevoli condizioni geostrutturali delle formazioni geologiche, presenza di circolazione idrica sotterranea in periodi piovosi, azioni chimiche dell’acqua marina sulle argille e l’alterazione prodotta da fattori antropici.

Siamo convinti che la circolazione idrica sotterranea, per iniziare, possa essere aumentata a seguito della mancata copertura dei molti scavi, non solo archeologici, che hanno messo allo scoperto le fondamenta dei monumenti, esponendoli agli eventi meteorici, all’erosione e allo slittamento della placca verso il mare.

Già in uno studio del 1998 si sosteneva che le alterazioni antropiche erano attribuibili alle vibrazioni per il passaggio di autoveicoli e alla concentrazione di turisti e pellegrini sul promontorio. Si immagini quante e quali vibrazioni hanno provocato, e provocano, le trivellazioni per la ricerca e l’estrazione del gas praticate, sulla terraferma ed in mare, da decenni per opera dell’Eni.

Allo stato attuale vi sono numerosi pozzi per l’estrazione del gas metano e tre piattaforme di proprietà dell’Eni che si ergono nelle immediate vicinanze dell’area marina protetta più grande d’Europa e di uno dei più importanti siti archeologici della Magna Grecia, il promontorio di Capo Colonna.

Le associazioni culturali di Crotone -come Italia Nostra, il Gak ed altre- cercano, da decenni, di fermare le trivellazioni che l’Eni, nel silenzio di tutte le amministrazioni comunali di Crotone, compie in mare e sulla terraferma a poche centinaia di metri addirittura dal promontorio di Capo Colonna, ma, finora, senza successo.

Si deve rilevare, altresì, che il problema qui esposto non sembra aver avuto sufficiente attenzione da parte della Soprintendenza Abap delle province di Catanzaro e Crotone nonché della direzione dei Musei e dei parchi archeologici di Sibari e Crotone a cui spetterebbe il compito di interrare o proteggere gli scavi effettuati e di tentare di fermare l’erosione e i distacchi mediante, per esempio, la costruzione di scogliere artificiali sotto forma di strutture modulari in cemento armato, posate e accostate sul fondale marino attorno al promontorio e, sul promontorio, di ‘cuciture’ realizzate costruendo reti di pali d’acciaio orizzontali.

I sottoscritti chiedono al Sindaco di Crotone, al presidente della Regione Calabria, al Ministero della Cultura, alla Soprintendenza Abap ed al direttore dei Musei e dei parchi di Sibari e Crotone di provare a far arrestare o, almeno, sospendere le trivellazioni dell’Eni nelle prossimità del promontorio e di provvedere con la massima urgenza alla salvaguardia di uno dei siti archeologici più importanti del Mediterraneo, ricordando che non può esserci valorizzazione senza la tutela dei monumenti o, come si sta rischiando in questo caso, senza i monumenti medesimi che potrebbero finire in mare.

Battista Sangineto, archeologo, Università della Calabria
Salvatore Settis, archeologo, già rettore Scuola Normale Superiore di Pisa
Tomaso Montanari, storico dell’arte, Rettore Università per stranieri di Siena
Piero Guzzo, archeologo, Accademia Nazionale dei Lincei e I.N.A.S.A.
Maria Teresa Iannelli, archeologa, già Soprintendenza archeologica Calabria
Roberto Spadea, archeologo, già Soprintendenza archeologica Calabria
Lucia Faedo, archeologa, già Università di Pisa
Paolo Liverani, archeologo, Università di Firenze
Franco Cambi, archeologo, Università di Siena
Maria Cecilia Parra, archeologa, già Università di Pisa
Paul Arthur, archeologo, Università del Salento
Teresa Liguori, professoressa, presidente sezione Italia Nostra Crotone
Anna Rotella, archeologa, vicepresidente sezione Italia Nostra Crotone
Vincenzo Fabiani direttore Gruppo Archeologico Krotoniate
Ferdinando Laghi, medico, consigliere Regione Calabria
Giuseppe Hyeraci, archeologo, Università di Napoli Suor Orsola Benincasa
Maria Cerzoso, archeologa, direttrice Museo dei Brettii e degli Enotri Cosenza
Bernarda Minniti, archeologa, Università di Genova
Fulvia Soffrè, già dir. Ammin., Soprintendenza archeologica della Calabria
Matteo Enìa, antropologo, Sapienza Università di Roma
Chiara Dodero, archeologa, Università di Genova
Anna Murmura, professoressa, presidente ArcheoClub sezione Vibo Valentia
Rocco Gangemi, architetto, delegato Ambiente FAI Calabria

foto da “il Crotonese” del 10 settembre 2024

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Dire no al regionalismo differenziato si deve, e opporsi allo scellerato progetto che sta prendendo corpo per iniziativa del governo e segnatamente della Lega di Salvini è un atto che si deve perseguire non soltanto da parte dei cittadini del sud ma di coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia intera.

Dire no significa mobilitarsi nelle piazze, sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo, far sentire al palazzo che i problemi del mezzogiorno e del paese sono un unicum, che sarebbe un errore gravissimo puntare sullo spaccottamento piuttosto che sul riequilibrio.

Un riequilibrio cui si rinuncio allorché ormai quasi venticinque anni fa il governo di centrosinistra modificò il Titolo V della Costituzione-da lì è partito tutto, è bene ricordare-investendo nell’operoso nord e lasciando alla deriva il sud in perenne sofferenza: l’eufemismo più in voga era ‘in ritardo di sviluppo’.

La questione meridionale, il dualismo fra le parti simmetriche del paese venivano risolte in maniera tranchant, semplicemente eliminando uno dei corni del dilemma, quello più fragile.

Il dibattito che si è sviluppato da allora ha risparmiato poche pieghe delle tante che rivestono l’affaire: mettere alla prova il sud, i LEP, i servizi essenziali, era meglio non fare L’Unità d’Italia, con i Borboni si stava meglio, facciamola dal sud, la secessione. Perché un dibattito c’è stato, e c’è, anche nelle regioni meridionali, e anche con evidenti distinguo nelle forze politiche, a cominciare dalla moderata Forza Italia che mostra di non gradire. Un dibattito che però si sviluppa esclusivamente sul versante difensivo e d’opposizione al disegno di Salvini, come se conservare lo status quo fosse la soluzione.

Invece no, non è la soluzione perché è sotto gli occhi di tutti la divaricazione sempre più stridente fra allocazione delle risorse, disponibilità di servizi, occasioni di lavoro, efficienza delle prestazioni, capacità di spesa, treni che partono con direzioni e versi privilegiati se non esclusivi.

Perché il sud è rimasto indietro, c’è stato chi documenti alla mano ha indicato d’indagare sulla inadeguatezza delle classi dirigenti a sud di Roma: se per un periodo la tesi ha mostrato la sua fondatezza non di meno la parzialità della diagnosi balza comunque agli occhi con l’incalzare degli eventi. Non già per assolvere l’indifendibile ma per assegnare a un intero sistema ruoli e responsabilità che non possono che essere collettivi, plurali bisogna dire che un impegno diffuso e costante è ciò che attende la comunità politica e civile, culturale ed economica delle regioni del sud.

Perché è dal sud, se si vuol dare per davvero il segno della credibilità della svolta, che si deve dare inizio a ridisegnare funzioni e attribuzioni, assegnare equilibri e risorse, secondo un assetto della macchina pubblica che non nasconda zone d’ombra, riconosca limiti e introduca correttivi secondo criteri di equità e di merito, in uno Stato del terzo millennio.

Può partire dal sud un ragionamento siffatto, ci sono da noi intelligenze e passioni capaci di mostrare la via, con spirito unitario e non subalterno, propositivo e non rivendicazionistico?

Provare a misurarsi in tale impresa val la pena, altrimenti sarà il cartello del no a vincere ancora una volta, o il perpetuarsi dell’eterno pantano.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 settembre 2024

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Il movimento contro le pale eoliche che offendono il paesaggio, ha avuto ed ha un notevole consenso tra le associazioni ambientaliste del Mezzogiorno, in particolar modo in Calabria e Sardegna. Il motivo principale dell’opposizione alle grandi pale eoliche è il paesaggio. Un bene immateriale importante che deve essere preso in considerazione senza ignorare quello che dovrebbe essere il principale obiettivo degli ambientalisti: la salvaguardia del pianeta, e quindi della nostra vita, dagli effetti perversi dell’inquinamento della terra, dei mari, dei fiumi, laghi e il moltiplicarsi degli “eventi estremi”.

Non possiamo non chiederci: perché non c’è questo tipo di mobilitazione per l’aumento della C02 legata all’uso dei combustibili fossili che sta sconvolgendo l’ecosistema? Perché non ci si mobilita per la plastica che ha invaso il pianeta e che ormai ha riempito i nostri mari, gli oceani, entrando nella catena alimentare? La Commissione Ue aveva cercato di far passare un provvedimento per mettere lo stop alla produzione di plastica, ma il governo italiano si è opposto perché deve salvaguardare la nostra industria degli imballaggi e confezioni in plastica di cui ci vantiamo di essere i primi in Europa.

E ancora, perché non ci si mobilia contro i tanti enti locali, scuole, che hanno installato i pannelli solari e non li hanno mai collegati? La Calabria è piena di pannelli solari abbandonati da enti pubblici per il menefreghismo che li contraddistingue.
Vogliamo renderci conto che stiamo andando velocemente verso la catastrofe ambientale?! I radicali cambiamenti climatici che nella storia della Terra richiedevano secoli se non millenni adesso avvengono in poche decine di anni.

Ne abbiamo mille prove ma facciamo finta di niente perché la nostra unica e vera preoccupazione è la crescita economica misurata da un indicatore, il Pil, che da tempo tanti contestano ma senza incidere su questo mito del nostro tempo che trasforma in ricchezza monetaria la distruzione ambientale (basti pensare solo al fatto che una parte del commercio delle droghe contribuisce ad accrescere il Pil, quanto gli incidenti stradali, ecc.).

Tra i mille segnali di un cambiamento climatico accelerato vorrei citarne uno che è poco conosciuto. Riguarda l’acqua del mare dello Stretto di Messina, da secoli la più gelida tra tutte le acque che bagnano la nostra penisola per via delle impetuose correnti che risalgono, a causa di una montagna che attraversa questo tratto di mare, da una profondità di 2000 metri (di fronte a Taormina) ad una profondità di 90 metri (tra Scilla e Cariddi). In breve l’acqua gelida degli abissi risale in superficie.

Bene, negli ultimi due anni gli abitanti dello Stretto hanno riscontrato con meraviglia che l’acqua di questo mare è aumentata incredibilmente di diversi gradi. Secondo il Diving Center di Scilla, che da trent’anni fa il monitoraggio della temperatura dell’acqua nell’area di sua competenza siamo di fronte ad un fenomeno inspiegabile, visto il vistoso cambiamento e il breve tempo in cui si è registrato.

Cosa vogliamo di più per capire che ci sono delle priorità e che non c’è più tempo da perdere. Certo, ogni regione dovrebbe avere un piano energetico particolareggiato che indichi priorità, luoghi, modalità di installazione impianti di energia rinnovabile. Questa dovrebbe essere una battaglia di civiltà che dovrebbe impegnare tutti, uscendo ognuno dal proprio giardinetto e guardando non il proprio dito, ma la luna che abbiamo di fronte.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 settembre 2024
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Cosenza. Richiesta di estensione del vincolo paesaggistico.-di ‘Diritto alla città’

Cosenza. Richiesta di estensione del vincolo paesaggistico.-di ‘Diritto alla città’

Nel ribadire il nostro consenso per il vincolo da Voi recentemente proposto per la parte otto-novecentesca della città di Cosenza (in rosso nella TAV. I), noi Coordinamento ‘Diritto alla città’ riteniamo, altresì, che tale proposta si possa, e si debba, estendere e completare per mezzo di un vincolo storico, artistico e archeologico ai sensi del Dlg. 42/2002, art. 10, comprendendo, come già in precedenza richiesto e proposto con apposita planimetria (in blu nella TAV. I), anche un’altra area avente caratteristiche di tutela di rilievo paesaggistico ex Dlg. 42/2002 – Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte III – Beni paesaggistici, artt. 131-159, in relazione alla qualità degli ambiti e in ragione dei ritrovamenti archeologici emersi nel corso degli ultimi cento anni.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento dell’area per la quale necessita della tutela paesaggistica, per i motivi esposti e in seguito ulteriormente approfonditi nel presente testo, perimetra:
Il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio.

Prosegue lungo tale arteria in continuazione per risalire su via Cesare Marini, fino all’incrocio con Corso Giuseppe Mazzini.
Risale su tale arteria per giungere a Piazza Carlo Bilotti fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri.
Da tale traversa scende verso Est fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini per poi proseguire in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.
Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato (TAV. I).

Si ribadisce che tutta l’area delle due rive del fiume Crati è interessata da rinvenimenti archeologici (TAV. II con relativo elenco), come dimostrato anche dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia, posto a Nord-Est del Centro commerciale “I due Fiumi” nelle dirette adiacenze. È molto probabile che in tale area, a partire dal Centro storico e procedendo in direzione Nord, sia stato posto il tracciato della via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Si deve ricordare, per sovrappiù, che la denominazione per tale importante asse stradale nella toponomastica cittadina di Via Popilia, in sostituzione di Via Milano, fu assegnata con Delibera del Consiglio Comunale del 20 gennaio 1955 e successiva approvazione prefettizia del 12 Marzo 1955: “Nulla osta sentita la Soprintendenza ai Monumenti ed alle Gallerie della Calabria” (Allegata Delibera Consiliare), proprio all’arteria viaria che correva parallela alla riva sinistra del Crati costituente, quest’ultima, l’area più vicina alla tumultuosa urbanizzazione del secondo dopoguerra.

Tale denominazione, documenta che negli amministratori di più di 70 anni or sono era viva e percepita come profondamente identitaria la tradizione storica bimillenaria dell’antica via consolare che, secondo gli scrittori antichi e gli studiosi moderni e contemporanei, affiancava la riva sinistra del Crati.

Del resto, come puntualmente dimostra la planimetria (TAV. II) dei rinvenimenti archeologici effettuati dall’inizio del XX secolo e fino ai giorni nostri (A. B. Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie, XXXVII , 2014 (2016), pp. 157-182.), tutta l’area è potenzialmente interessata da siti archeologici che necessitano non solo di adeguata protezione e tutela paesaggistica, ma anche di tutela archeologica diretta.
I siti e le segnalazioni di rinvenimenti archeologici nell’area sulla riva sinistra del Crati, in accordo con la numerazione della planimetria allegata (TAV. II), sono i seguenti:

2 = Località: SAN DOMENICO – VIA PIANA (attuale via S. Quattromani), probabile necropoli di epoca ellenistica;
12 = EX STAZIONE FF.SS. (attuale P.zza Mancini), presenza di tombe risalenti all’epoca romana;
13 = RIVOCATI, Edoardo Galli segnalava, in più punti, avanzi di strutture antiche;
22 = PIAZZA RIFORMA, durante i lavori di spianamento della strada, che conduce al convento dei Padri Riformati e prosegue nella zona di Cardopiano, vennero ritrovati pavimenti in mosaico. Anche nell’area del primitivo sito delle monache di S. Chiara venne dissotterrato un monumento;
25 = PIAZZA XX SETTEMBRE, Resti di tombe e di un’epigrafe sepolcrale;
26 = VIA MONTESANTO, durante la costruzione di alcuni edifici, ancora esistenti, vennero rinvenute, in corrispondenza di palazzo Cipparrone, alcune tombe databili al II a.C.;
27 = CORSO MAZZINI, durante la costruzione della Banca Commerciale, emerse del materiale archeologico costituito da: laterizi, monete e numerosi oggetti di uso comune di epoca ellenistica e romana;
28 = PETRARA (attuale area p. Mancini – via Catanzaro), furono rinvenuti resti di tombe, a sinistra del Crati, con probabile presenza di un anfiteatro;
29 = LOC. “CANNUZZE”, rinvenimento di una brocchetta del tipo “oinophoros” databile alla fine del III d.C. (ora al Museo dei Brettii e degli Enotri), alla confluenza del torrente Rovella con il Crati. Nella stessa località vennero ritrovati, inoltre, un contenitore di bronzo e un oggetto chirurgico, forse un bisturi, sempre in bronzo;
30 = RIFORMA – CARDOPIANO, nei primi anni del ‘900 il Galli afferma che in questa area (Riforma- Cardopiano) venne ritrovato un miliario in frantumi, oggi disperso;
32 = COLLINA DI MOJO (o Moio), nel 1933, durante i lavori per la costruzione dell’attuale Ospedale Civile dell’Annunziata, vennero ritrovate delle tombe, circa 70, appartenenti ad una necropoli di età brettia (IV – III a.C.).
(Si rimanda alla Tav. II – siti archeologici con legenda completa sui ritrovamenti).

Avendo le indagini archeologiche, condotte in Italia e nel bacino del Mediterraneo, dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei riteniamo che sia del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area già sopra descritta.

Si ricorda che, secondo le norme Dlg. 42/2004 e s.m.i. art. 10, in casi di questa natura e rilevanza è necessario effettuare ricerche di archeologia preventiva (D. Lgs. 50/2016, art. 25) su entrambe le rive del Crati in occasione di ristrutturazioni edilizie, di costruzioni ex novo di edifici, nonché di infrastrutture e sottoservizi pubblici e privati. Il tutto per evitare che beni archeologici possano essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione (Dlg. 42/2004 e S.M.I., art. 20, c. 1).

Nel complesso il sistema edilizio della città appare ancora in parte conservato, seppur fortemente condizionato in quest’area da interventi di trasformazione che ne hanno totalmente modificato la consistenza compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee. Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità delle aree già sottoposte a tutela paesaggistica.

Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana, architettonica e paesaggistica del contesto.
Tale condizione discende dal riconoscimento di notevole interesse pubblico di entrambe le aree, sia quella da Voi proposta e sia questa che comprende le rive del Crati, aventi come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie avviate sin dall’antichità romana.

Pertanto, si ribadisce che, per i motivi esposti si debba estendere all’area richiamata e perimetrata, riportata nella Tav. I, le caratteristiche di tutela di interesse paesaggistico ex D.lgs. 42/2002 – Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte III – Beni paesaggistici, artt. 131-159, in relazione alla qualità degli ambiti e in ragione dei ritrovamenti archeologici emersi.

Coordinamento ‘Diritto alla città’

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Sull’autonomia differenziata infuria la buriana politica soprattutto dopo la raccolta firme per il referendum (è andata al di là di ogni più rosea aspettativa per i promotori) e in vista della prevedibile battaglia elettorale. Ma è nel merito che ci si sofferma poco, al Nord come al Sud, nonostante studi e ricerche non manchino.

Proviamo a fare due conti, con l’aiuto dell’Osservatorio dei conti pubblici Italiani dell’Università Cattolica. In attesa che vengano definiti i famigerati LEP (livelli essenziali di prestazione) che andranno garantiti su tutto il territorio nazionale, tre economisti dell’Osservatorio (Rossana Caccamo, Alessio Capacci e Giampaolo Galli) hanno fatto un paio di conti e viene fuori che, dato che l’economia del centro nord vale il 78% del PIL nazionale contro il 22 del Sud, ogni punto del PIL trattenuto dalla Regioni piu’ ricche peserebbe tre volte e mezzo in più per quelle più povere.

Si tratterebbe di un guadagno relativamente piccolo per le prime ma di una perdita consistente per le seconde finendo di mettere a rischio la tenuta dei servizi. Prendiamo la Calabria nella simulazione effettuata: su una spesa primaria di 24,5 (tutti i valori sono in miliardi di euro) c’è una entrata di 16,4, con un residuo fiscale di più 8,2.

La Lombardia ha invece una spesa primaria di 140,5, entrate per 189,3 e dunque un residuo fiscale in negativo di 48,5. Dunque la legge Calderoli finirebbe con l’estremizzare le disparità che già oggi dividono l’Italia anziché ridurle e non responsabilizzando la politica locale. In più il sistema della verifica anno per anno dell’allineamento tra il fabbisogno di spesa delle Regioni e il loro gettito fiscale renderebbe ancor più farraginoso il problema.

Anche su questo insistono due noti economisti italiani – Francesco Drago e Lucrezia Reichlin – in aperto contrasto con Sabino Cassese. Prendono in esame la sanità e scrivono: ‘’…La storia dei LEA (livelli essenziali di assistenza, già introdotti nel nostro paese nel 1999) insegna che quando la capacità amministrativa e le infrastrutture sono di bassa qualità come nelle Regioni del Mezzogiorno il finanziamento per ridurre i divari di prestazione non è sufficiente.

La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud e la questione è importante perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Con l’autonomia differenziata gli incentivi alla formazione di classi dirigenti del Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono’’.

I principi su cui poggia la riforma, inoltre, spiegano Drago e Reichlin – sono difficilmente attuabili e se ne discute dal famigerato anno 2001. Come hanno evidenziato la Banca d’ Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio in piu’ di 20 anni poco o nulla e’ stato fatto. Determinare il finanziamento dei LEP è molto difficile ed occorre conoscere i costi standard di ogni bene e servizio che viene erogato in maniera efficiente, determinare il livello di prestazione minima e stabilire i fabbisogni. Missione quasi impossibile.

In sostanza i due economisti alzano l’allarme sul fatto che saranno allontanate le forze piu’ dinamiche della società e della politica locale e invece della responsabilizzazione delle classi dirigente del Sud si otterrà il contrario. ‘’Comunque si rigiri la frittata – secondo Drago e Reichlin – questa legge fa male sia al Nord che al Sud e rischia di gettare il Paese in un caos amministrativo di cui veramente non abbiamo bisogno’’.

Ora la parola passerà nuovamente ai partiti e alle istituzioni, forse alla Corte Costituzionale e probabilmente agli elettori. I dubbi espressi a livello scientifico sono quelli sopra espressi. Vedremo che accadrà nell’immediato futuro.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 settembre 2024

Il Nord si prende anche il sole. -di Tonino Perna

Il Nord si prende anche il sole. -di Tonino Perna

È incredibile come le popolazioni del Mezzogiorno siano sempre lente a cogliere le opportunità, gli incentivi, i cambiamenti che possano valorizzare le proprie risorse naturali con un minimo di impatto ambientale. È il caso delle Comunità energetiche rinnovabili (Cer), ovvero di un insieme di utenti che volontariamente decidono di cooperare e condividere la produzione e utilizzazione dell’energia rinnovabile. Le Cer nascono dal basso, da parte di cittadini sensibili all’ambiente e desiderosi di fare qualcosa per migliorare la vita sul nostro pianeta, tendendo anche d’occhio la tasca, ovvero la spesa crescente delle famiglie per la bolletta elettrica.

Con il decreto attuativo del 22/1/2024 è diventato concreto anche un sistema di incentivi che offre lo Stato alla costituzione delle Cer e alla produzione di questa energia condivisa. In particolare, per i Comuni sotto i 5.000 abitanti, è previsto un finanziamento di 2,2 miliardi di euro, grazie ai fondi del Pnrr.

Al momento in Italia, secondo i dati forniti dal GSE (l’ente nazionale di gestione dell’energia) sono operanti 154 comunità energetiche, che utilizzano prevalentemente pannelli fotovoltaici e sono localizzate soprattutto nel Nord Italia. Il Piemonte, che guida questa classifica, con le sue 27 Cer in funzione riesce a produrre il 19% di tutta l’energia nazionale prodotta da queste comunità, più dell’intero Mezzogiorno, per non parlare della Calabria dove risultano costituite tre Cer, ma finora operante sembrerebbe ce ne sia solo una a san Nicola da Crissa. Il condizionale è d’obbligo perché abbiamo informazioni non univoche.

Insomma, come meridionali abbiamo il sole e il vento in gran quantità, e potremmo dare un grande contributo alla riduzione della CO2, ridurre la dipendenza dall’estero per l’importazione di combustibili fossili, e fare risparmiare famiglie e imprese. Che cosa ce lo impedisce? Questa volta non ce la possiamo prendere con la classe politica, ma dobbiamo prendere atto della nostra allergia congenita nel creare strumenti comunitari, nel condividere con altri beni e servizi.

Aveva ragione Robert Putnam che negli anni ’90 analizzando la differenza socio-economica tra Centro-Nord e Mezzogiorno aveva individuato nella carenza di “capitale sociale”, inteso nell’accezione di capacità di mettersi insieme per un bene comune, la debolezza cronica e storica del Sud Italia. La paradossale situazione delle Cer che si istituiscono al Nord , dove il sole è più avaro, e non al Sud dove l’irradiazione solare è anche eccessiva, conferma la tesi di Putman e di altri politologi e sociologi che su questa base hanno svolto altre ricerche e trovato altre conferme.

Ci possiamo consolare col fatto che Nord e Sud sono punti di vista a seconda di dove ci collochiamo: in Germania dove il sole, quando c’è, assomiglia più ad un a lampadina che ad una stella, sono operanti più di mille Cer che si sono costituite più di dieci anni fa!

da “il Quotidiano del Sud” del 2 settembre 2024

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Poi dici che il turismo va male, che la Calabria è abbandonata, che le cose vanno male etc etc. Poi tenti una narrazione un po’ diversa , meno catastrofica e un tantino più ottimistica. Ma poi ti imbatti in una notizia peraltro un po’ datata anche ma di cui nessuno parla nella vergogna più assoluta e allora ti cadono le braccia e dici: nooo! Dal 22 al 25 luglio cancellati tutti i treni in partenza ed in arrivo dalla Calabria per una interruzione nel tratto Sapri-Battipaglia.

Sono settimane che è accaduto un incidente e i disagi sono pesantissimi per pendolari, turisti etc. Il tutto nel silenzio assoluto di istituzioni nazionali e regionali che promuovono stratosferici risultati per export e turismo. La verità è quella che ha ben riassunto il segretario regionale della Cgil angelo sposato, l’unico che abbia detto una cosa. “Ci troviamo ancora una volta una Calabria isolata e con costi proibitivi per i voli in entrata ed uscita.

Il tema della mobilità, della sanità, delle politiche ambientali, non sono un affare privato, sono i cardini del sistema pubblico di una regione e di un Paese.Il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, già in passato interpellato sul tema dei servizi e delle tariffe, intervenga su Rfi e Trenitalia per capire quello che sta succedendo e poi spieghi ai cittadini calabresi che fine hanno fatto i fondi del Pnrr per l’alta velocità in Calabria”.

Potremmo finirla qui e invocare pietà per noi tutti, dimenticati da dio e dagli uomini sulle cose più semplici. Ancora una volta ci viene in aiuto il grande poeta Franco califano: tutto il resto è noia.

da “il Quotiando del Sud” del 20 luglio 2024

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

Per il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, la strada sull’autonomia differenziata si fa sempre piu’ stretta, tra alleati interni e opposizioni. Da un lato Occhiuto ribadisce le perplessità sui modi e sui tempi dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e per ultimo al consiglio nazionale di Forza Italia ha usato parole nette. «Il ddl Calderoli, purtroppo, è arrivato all’ok finale delle Camere senza che contemporaneamente sia giunto al traguardo anche il superamento della spesa storica.

Spero che Forza Italia, così come ha sempre detto il nostro leader Antonio Tajani, metta al centro della sua azione proprio il superamento delle differenze territoriali, archiviando definitivamente la spesa storica a favore dei fabbisogni standard. Il mio auspicio è che Forza Italia non voti in Consiglio dei ministri e in Parlamento alcuna intesa con singole Regioni se prima non saranno interamente finanziati i Lep, e se non ci sarà la matematica certezza che determinate intese possano produrre danni al Sud».

Forza Italia ha anche dato vita all’Osservatorio sull’Autonomia differenziata costituito dai massimi responsabili istituzionali e politici del movimento, il vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, il Ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, il sottosegretario all’Economia Sandra Savino, i presidenti delle Regioni di Forza Italia, i capigruppo alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo, i vice segretari nazionali, e una selezionato gruppo di tecnici, economisti e studiosi, che avrà il preciso compito di vigilare sugli effetti pratici dell’attuazione della legge, che deve valorizzare tutte le regioni, con particolare attenzione a non penalizzare il Sud.

Ma ci sono precise puntualizzazioni. «E’ un Osservatorio – ha detto subito la Casellati – che deve solo monitorare questo processo, perché noi abbiamo una legge cornice e adesso c’è tutto il procedimento da mettere in atto, che va dalla definizione dei Lep agli accordi tra lo Stato e le Regioni».

Dell’Osservatorio dunque fa parte anche, nella duplice veste di presidente di Regione e vicesegretario nazionale di Forza Italia, anche il governatore calabrese Roberto Occhiuto. Secondo diversi analisti politici, in realtà, la nascita dell’Osservatorio sarebbe stata dettata dalla necessità per Foza Italia e il suo leader nazionale Tajani di venire incontro alle richieste dei governatori forzisti nelle regioni del Sud, tra cui Occhiuto e il lucano Vito Bardi, che hanno manifestato molte preoccupazioni per le ricadute territoriali del Ddl Calderoli, entrando in rotta di collisione anche con la Lega.

Ma questa strada e’ stretta assai. L’ex Governatore Agazio Loiero, ad esempio, non gliel’ha certo mandato a dire ad Occhiuto. Loiero infatti definisce «tardive» le critiche dell’attuale presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, al Ddl Calderoli’’ ed ha dato un consiglio al governatore: «Può accodarsi alle cinque Regioni del centrosinistra che presentano ricorso e che presentano due ricorsi, uno di abrogazione totale e uno di abrogazione parziale. Si accodi a queste regioni e lui diventa un alfiere, un difensore del proprio territorio, che viene sempre prima del partito e della coalizione».

Ovviamente piu’ drastico il segretario del Pd Nicola Irto: «Serve una battaglia meridionalista e da sud, serve una battaglia calabrese. Sono inaccettabili e anche un po’ ridicole le giravolte di Occhiuto, che prima vota la legge che poi contesta’’.
Insomma Occhiuto e’ stretto ed alla fine una posizione netta e chiara dovra’ pure assumerla: o sarà ligio alla disciplina del suo partito o sceglie il mare aperto della battaglia meridionalista. Restiamo in attesa di capire.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 luglio 2024