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Come e dove ricominciare a sinistra dopo la dura sconfitta.-di Filippo Veltri

Come e dove ricominciare a sinistra dopo la dura sconfitta.-di Filippo Veltri

È chiaro che in politica non vale il valore positivo della sconfitta celebrato da Pier Paolo Pasolini. Qui o si vince o si perde davvero, senza evocare quello che il grande intellettuale prefigurava come un senso di simbolo non negativo per la vita, per lo sport e per il modo di essere in generale se si perde.

Ci sarà quindi tempo e luogo per analizzare il significato di questa pesantissima sconfitta per il centrosinistra calabrese e nazionale. Per la verità non inattesa, al di là delle grandi, ovvie, naturali e normali parole enfatiche spese in campagna elettorale.
Siamo stati facili profeti nell’evocare le urne vuote rispetto alle piazze piene!

C’è, però, un punto che farebbero male a sottovalutare i leader dello schieramento sconfitto nelle elezioni di domenica e lunedì e che è stato richiamato, proprio qui in Calabria, da Pierluigi Bersani nel corso del suo breve viaggio elettorale a sostegno di Tridico: basta con lo sconfittismo! Bersani faceva riferimento a quanto era avvenuto 15 giorni prima nelle Marche con la sconfitta, altrettanto pesante, di Ricci alle regionali.

E il concetto può valere ovviamente, anzi di più, per quanto avvenuto ora in Calabria. Nel senso che da questo dato negativo in dimensioni così grandi, occorrerà pur ripartire, e da quanto avvenuto in campagna elettorale, per riprendere le fila di un discorso, al netto ovviamente di inevitabili correzioni e quant’altro.

Farebbero un errore colossale a sinistra se venisse buttato tutto a mare quanto si è creato in questi scarsi 2 mesi di incontri, dibattiti, comizi in lungo e in largo nella regione. Poco? Probabile, ma farebbero egualmente un errore madornale se non cogliessero il senso di una alleanza ma soprattutto di una comunità che non c’era e che si è ritrovata e che ha avuto passione e coraggio, spesso buttando il cuore oltre l’ostacolo, anzi gli ostacoli. Non era affatto scontato visto che alle spalle c’erano (e ci sono) anni di mancato collegamento e di rapporto vero con la società e il corpo vivo della Calabria. Qui sta il punto.

Che la battaglia fosse impari era infatti chiaro fin dal primo momento, i tempi sono stati ristrettissimi e quindi anche tutta l’impostazione a iniziare dalla composizione delle liste ne ha risentito. Ma – sempre Bersani dixit – non si trattava e non si tratta di una gara dei 100 metri, scatti, fuggi e vinci ma di una maratona, di una corsa lunga dove valgono gli step, di arrivo e di partenza. Da quanto è accaduto bisogna dunque ripartire, mettere gli errori in testa, ma mettere anche i mattoni, i mattoncini, di un agire politico che non può essere costruito sul disfattismo e, appunto, sullo sconfittismo.

Ovviamente l’analisi del voto dovrà essere fatta in maniera seria e approfondita luogo per luogo, città per città, zona per zona e valutare le cose fatte bene e quelle fatte male. A iniziare – ci permettiamo di suggerire – dalla narrazione vera della Calabria, forse troppo semplicisticamente piegata sul pauperismo e sul negativo.

Lo dovranno fare i partiti che hanno sostenuto Tridico, il PD prima di tutto, ovviamente lo stesso candidato ma per ripartire da dove si è arrivati e non in un ‘cupio dissolvi’ o ‘tabula rasa’ (chiamatela come volete), tra l’altro tipico della sinistra, non solo calabrese in verità, senza avviare quella ricerca del colpevole, o dei colpevoli, in salsa lacerante e distruttiva che alla fine lascia solo macerie sul terreno e nulla su cui ripartire.

A Tridico va dato atto di avere condotto quasi dalla fine di agosto fino a tre giorni fa una generosissima campagna elettorale, di avere anche riannodato un filo di passione e di speranza, di avere agitato cuori e sentimenti da quella sera di Ferragosto in cui lo incontrammo felice e sereno a Camigliatello Silano su un risciò con moglie e figli. Il tutto in un quadro che ancora risentiva di sconfitte brucianti e di lacerazioni profonde nelle ultime tre elezioni. E che il dato di ieri fa percepire in maniera deflagrante.

Adesso sarebbe arrivato il tempo di riflettere e di agire finalmente in senso positivo, cercando di mantenere soprattutto l’unità di una coalizione che sembrava smarrita dopo le regionali del 2021. Non era un dato scontato ma mantenerla ora è tutt’altro che semplice, così come non è semplice creare una sintonia vera e duratura con la società. Che non c’era e le elezioni lo hanno palesato in maniera così plastica. Ma questo è materiale per la discussione dei prossimi mesi.

Sanità, il servizio pubblico di qualità sta anche nel privato.-di Enzo Paolini

Sanità, il servizio pubblico di qualità sta anche nel privato.-di Enzo Paolini

Intervengo nel dibattito sul rapporto tra sanità pubblica e privata suscitato dagli scritti del prof. Carrieri (Quotidiano dell’11 settembre e del 15 settembre) e di Marcello Furriolo (13 settembre).

Convengo sulla questione di fondo evocata da ambedue gli autorevoli osservatori ma non posso non segnalare come la tesi del prof. Carrieri sia influenzata da un certo diffuso pregiudizio e di incompleta conoscenza del comparto sul territorio calabrese in particolare.
Per sostenere con serietà questa mia critica devo ricorrere alla pratica, insuperabile, del “fact checking”, ossia della confutazione oggettiva delle affermazioni riportate.

Questa la domanda che il prof. Carrieri ripropone in tutte e due gli articoli “cosa trova il cittadino se non ciò che gli viene offerto?”. Nel senso che nel privato sarebbe ricorrente e diffusa “la pratica del cream skimming cioè selezionare i pazienti (ma forse voleva dire “i casi” o “le prestazioni”) meno complessi e più redditizi”.

Bene, proviamo a dare una risposta non semplicemente assertiva ma suffragata dai dati ufficiali. Sarà sufficiente compulsare il rapporto sulla qualità degli outcomes clinici della Regione Calabria, redatto sulla base del Programma Nazionale Esiti: “per i 52 indicatori di volume presi in considerazione dallo studio, i ricoveri presso le strutture private in Calabria costituiscono il 20,3% del totale regionale.

Nella sintesi sulla attività ospedaliera 2024 pubblicata dal Ministero della Salute emerge, per quanto riguarda la Calabria che:
“L’indice di case-mix (indice di complessità) nel settore privato in Calabria è pari a 1.2, mentre quello del settore pubblico è medio-basso, con un indice per i ricoveri ordinari di 0.980 e una durata media di degenza più elevata per i DRG (a prestazioni erogate) più rappresentativi.

Significa che il comparto privato non pratica alcuna selezione di casi meno complessi e più redditizi, ma in molti casi presenta eccellenze e prestazioni più complesse di quelle erogate nelle strutture pubbliche. La certificazione di ciò sta nel rapporto sul servizio sanitario in Italia redatto da Ermeneia su dati del Ministero della salute.

Nel medesimo documento è detto: “la spesa ospedaliera sostenuta per il comparto privato accreditato è calcolata al 10,83% del totale della spesa ospedaliera regionale; il che conferma la capacità delle strutture ospedaliere private di sostenere alti livelli di produzione con ottimizzazione dei costi, contribuendo al miglioramento della performance complessiva del Sistema Sanitario Regionale”.

Significa che per le stesse prestazioni e per la stessa qualità / complessità le strutture private costano di meno delle strutture pubbliche, in quanto è certificato che il comparto privato eroga in Calabria il 22,5% delle prestazioni totali e viene remunerato con il 10,8% della spesa ospedaliera.

Cioè senza costi impropri o, se si vuole essere più crudi, senza sprechi.
Questa è la realtà dei fatti.

Primo check.
Il prof. Carrieri afferma, che “nessuna casa di cura accreditata gestisce pronto soccorso”.
Qui il prof. Carrieri – forse chiuso nelle stanze accademiche – dimostra di non conoscere il territorio calabrese dal momento che tutti sanno che presso la Tirrenia Hospital di Belvedere Marittimo esiste un pronto soccorso cui fa riferimento tutta la popolazione dell’alto tirreno cosentino.

Secondo check.
Ancora il prof. Carrieri “non esiste, nel privato l’oncologia medica se non in due strutture che offrono radioterapia e diagnostica per immagini”. Disinformato poiché tali prestazioni si erogano in varie strutture accreditate oltre quella individuata dal prof. Carrieri. Solo per citarne alcune: Cascini, Villa del Sole (Cosenza) Villa dei Gerani (Vibo) e altre.

Terzo check.
Infine il prof. Carrieri si induce ad affermare che sarebbero “interamente pubblici reparti e attività come dialisi e grandi chirurgie”. Sulle “grandi chirurgie” non saprei cosa dire perché non so quali siano e non mi sono mai imbattuto in tale definizione, ma sulla dialisi segnalo che è resa da diverse strutture accreditate. Ad esempio in provincia di Cosenza NephroCare – Euro 2000.

Quarto check.
Chiarite le inesattezze. Vediamo come funziona – o dovrebbe funzionare – il sistema e cosa si è fatto.
Il servizio sanitario calabrese è interamente – e solamente – pubblico. Le prestazioni sono erogate da strutture di mano pubblica e da privati accreditati. La parola “accreditati” sta a significare che sono strutture che rispondono ai requisiti strutturali tecnologici ed organizzativi fissati dalla legge e applicabili a tutti, pubblico e privato, e che possono/devono erogare prestazioni allo stesso livello di qualità ed appropriatezza verificato dalle ASP.

La cosa fondamentale, per affrontare la discussione con serietà è che il cittadino non paga niente, esattamente come negli ospedali pubblici. L’unica differenza è che mentre le strutture private sono pagate dallo Stato a tariffa (fissata e verificata dallo Stato) cioè solo per le prestazioni effettivamente rese, le strutture pubbliche sono finanziate, sempre dallo Stato, ma a consuntivo ed a prescindere da quanto e cosa erogano.
Come si dice “a piè di lista”, compresi i costi impropri e gli sprechi.

Quindi in conclusione le strutture private erogano prestazioni con i medesimi standard di qualità e di alta specialità ma costano di meno per le tasche dei cittadini.

Dunque, si può sgombrare il campo da una serie di luoghi comuni.
a) Il privato accreditato non sceglie niente. Men che meno le prestazioni più semplici dal momento che, come visto statisticamente, produce lo stesso livello di prestazioni delle strutture pubbliche. In taluni casi superiore. Semplicemente viene scelto dai cittadini.
b) L’emigrazione sanitaria è un fenomeno indotto dalla stupida, ottusa politica dei tetti di spesa rigidi ed insuperabili. Questo sistema impedisce l’erogazione di qualsiasi tipo di prestazioni una volta esaurito il tetto finanziario imposto, per cui in tale situazione il cittadino richiedente o si rivolge alle strutture pubbliche andando ad incrementare la lista d’attesa, o emigra fuori regione o sceglie di curarsi a pagamento (la cosiddetta cura out of pocket).

Tre fenomeni che tutti – ma proprio tutti – dicono di voler combattere. A chiacchiere. Ma nessuno indica la soluzione. Che è semplice: occorre eliminare il sistema dei tetti di spesa o, meglio, occorre applicare la legge, il d. lvo 502/92 che prevede la remunerazione ridotta una volta superati i tetti. Una previsione saggia e lungimirante (frutto di una politica seria) che rispettava i diritti dei cittadini e le esigenze dello Stato (ed anche il dictum della Corte Costituzionale).

Negli ultimi tre anni in Calabria si è fatto di meglio. Si sono utilizzate le risorse assegnate al fondo privato per incentivare la produzione di prestazioni di alta specialità ed ad alto impatto migratorio.

Ciò ha consentito di ridurre lista d’attesa ed emigrazione sanitaria, di produrre prestazioni di estrema eccellenza senza spendere un solo centesimo in più. Con gratificazione professionale dei medici e imprenditoriale di strutture che hanno investito in tecnologia e personale.

Anche questi sono fatti anzi è politica sanitaria quella che dalla conoscenza dei fatti ne trae un progetto. Al netto dei gargarismi che riempiono la bocca di chi pratica facili populismi e blatera sui soldi dati ai privati e tolti al pubblico, con questi fatti e con questi dati deve misurarsi chiunque voglia discutere seriamente senza pregiudizi o ideologismi di sanità e servizio pubblico.

da “il Quotidiano del Sud” del 21 settembre 2025

Polsi, il cuore sacro dell’Aspromonte tradito dalle etichette e dai pregiudizi.-di Tonino Perna

Polsi, il cuore sacro dell’Aspromonte tradito dalle etichette e dai pregiudizi.-di Tonino Perna

Il 2 settembre di ogni anno, per diversi secoli, si è celebrata la festa della Madonna della Montagna, detta anche la festa di Polsi dove sorge il santuario nel cuore dell’Aspromonte. Amava dire il vescovo Bregantini: <>.

Un posto magico, a circa novecento metri di altezza, in una conca che ha di fronte, quasi fosse un gigante minaccioso, la montagna più alta che arriva a Montalto a superare i 2000 metri. Non a caso i greci pensarono che questo luogo fosse simile all’Olimpo, la montagna più alta delle Grecia dove risiedevano gli dei che governavano il Cosmo.
Come sull’Olimpo così a Montalto molto spesso la cima estrema è avvolta in una nuvola che ne aumenta il fascino e il mistero.
Così, secondo un’ipotesi accreditata, ogni anno i coloni greci, partendo dal Persephoneion, il santuario di Persefone sito a Locri Epizefiri, risalivano la montagna dal lato di Potamia, l’antica San Luca che fu abbandonata nel 1592 dopo un evento franoso che la seppellì in parte.

Arrivavano a Polsi, come la chiamiamo oggi, dove probabilmente sorgeva l’altro santuario dedicato a Persefone, la dea della rinascita, dell’eterno ciclo tra la vita e la morte. Secondo un’altra ipotesi guardando l’Olimpo , cioè Montalto, si invocavano gli dei e un aruspice dava il suo responso sul futuro. In ogni caso, come hanno fatto tutti i coloni anche i greci hanno cercato le loro radici, la loro identità, attraverso un luogo che gli ricordasse la sacralità e il possibile contatto con gli dei.

Accanto a Potamia sorgeva l’omonimo fiume di acqua salmastra, navigabile, che arrivava quasi all’altezza dell’attuale località denominata Polsi. Va ricordato che la gran parte di quelli che oggi chiamiamo torrenti nella costa jonica calabrese erano un tempo navigabili per via del mare che entrava in profondità nel massiccio aspromontano, formando dei veri e propri fiordi, paragonabili a quelli norvegesi. Con la cosiddetta Piccola Era Glaciale , dal XIV al XIX secolo, il mare si ritirò e restò solo l’acqua della montagna che arrivava fino a valle nel periodo autunno-inverno.

Ma, per secoli fu possibile raggiungere Polsi agevolmente: si arrivava via mare sul grande arenile dove sorge oggi Bovalino e si proseguiva con la barca o a piedi verso questo luogo sacro. Un luogo unico che per tanto tempo ha visto confluire i coloni greci della Calabria Ultra e della Sicilia orientale, durante le feste in onore di Persefone. Unico luogo sacro che dall’antichità fino al secolo scorso ha unito una parte rilevante di calabresi e siciliani.

Intorno al XIII secolo si stima che sia stato trasformato il culto antico di Persefone in un santuario cristiano di devozione alla Madonna. La tradizione vuole che sia stato un toro che scavando nel terreno abbia trovato una croce in ferro e su questo sito è sorto il Santuario di Polsi. Prima bizantino, come è testimoniato dalla porta principale del santuario che sorgeva ad Est, murata alcuni secoli dopo quando divenne di culto cattolico e sostituita con l’attuale entrata che è rivolta ad Occidente.

Per tanti secoli il pellegrinaggio a Polsi ha coinvolto decine di migliaia di fedeli provenienti da tanti paesi, grandi e piccoli, calabresi e siciliani che avevano qui la loro “casa”. Ancora oggi è possibile trovare i nomi di alcune di queste “case”, di fatto stanze, che ospitavano i pellegrini. Anche questo è un caso unico, niente di tutto questo esiste nelle due regioni.

Così fino alla metà del secolo scorso erano sopravvissute le tradizioni pagane che si erano ibridate con quelle cristiane, un fenomeno di sincretismo religioso ben conosciuto dagli studiosi. Le vacche venivano portate all’altare della chiesa facendole strisciare con la lingua per terra, le capre venivano sgozzate lungo il torrente che assumeva un inquietante colore rossastro, e infine la tarantella portava suonatori e danzatori, accompagnati da dosi di vino gagliardo, a raggiungere uno stato di trance, simile a quello che ci è stato raccontato rispetto ai riti dionisiaci.

E ancora ai nostri giorni quando la Madonna della Montagna nel giorno della festa viene portata fuori dalla chiesa subisce una improvvisa virata per proteggersi dallo sguardo della Sibilla che vive nella grotta di fronte.

E’ incredibile come una storia come questa sia ancora in gran parte misconosciuta dagli abitanti di queste terre. Neanche la Sovraintendenza, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, le Università hanno mai dimostrato un vero interesse ad approfondire, scavare, ricercare in questo luogo così carico di secoli.

Ma, ancora più incredibile, per usare un eufemismo, è che Polsi sia diventato dagli anni ’70 del secolo scorso il luogo principe per le riunioni della ‘ndrangheta. L’identificazione di Polsi con la ‘ndrangheta è non solo un’operazione riduttiva, ma offensiva. Ancora una volta è la storia che bisogna consultare. Per secoli, ne abbiamo testimonianze dal XVIII secolo, durante la festa della Madonna della Montagna del 2 settembre, si riunivano a Polsi i notabili della provincia reggina.

Nobili, prelati, ricchi commercianti, partecipavano alla festa perché gli dava prestigio e, allo stesso tempo, era un’occasione per stringere alleanze o dirimere controversie. Questo Santuario ha avuto storicamente anche questa valenza: una sorta di piccolo parlamento locale. Quando nella seconda metà del XIX secolo, cominciò a crescere e radicarsi la ‘ndrangheta partecipava anch’essa a questa festa insieme alle autorità del tempo.

Il fatto che ancora oggi partecipi qualche ‘ndranghetista alla festa di Polsi non significa che questo sia diventato il luogo di riunione dei boss locali. Per altro se si tratta di latitanti vista la presenza massiccia di forze dell’ordine rischiano di essere catturati, se si tratta di capimafia a piede libero sono dei cittadini come gli altri che hanno diritto a partecipare alla festa.

Avere interrotto una tradizione ultrasecolare che coinvolge una parte importante della popolazione calabrese e siciliana, non ha giustificazioni plausibili. Prima si è detto perché la strada da San Luca è stata interrotta da una frana. Ma, questo non era un problema, ma un’occasione, una opportunità.

Fino agli anni ’70 del secolo scorso la gran parte dei fedeli arrivava a piedi a Polsi. In fondo il pellegrinaggio è questo: il più famoso al mondo, il Cammino di Santiago di Compostela, richiede diversi giorni a piedi prima di raggiungere la meta.

Poteva essere finalmente vietato l’uso delle auto, camion e fuoristrada, almeno per gli ultimi chilometri, ripristinando il vero valore del pellegrinaggio così magistralmente descritto da Corrado Alvaro nel suo “ Polsi nell’arte, nella leggenda e nella storia” 1912: un affresco ricco di emozionanti sguardi sui pellegrini che appesantivano il loro passo portando con sé le pietre più belle che raccoglievano per l’edificazione del Santuario di Polsi.

Così, con questa straordinaria partecipazione popolare una chiesetta è diventata un santuario.

Quando, alcuni giorni fa, la strada è stata riaperta sembra che la Prefettura abbia proibito l’accesso a Polsi per ragioni di sicurezza, dato che ci sono lavori in corso al Santuario. Anche in questo caso non mancavano soluzioni alternative. Per esempio, i fedeli potevano restare fuori dalla chiesa ma la statua della Madonna poteva essere portata all’esterno, anche per un breve saluto e una preghiera. Se si vuole trovare una soluzione la si trova.

La verità è, tristemente, un’altra. Con questo provvedimento si è voluto dare un duro colpo alla riunione della ‘ndrangheta. Che se la ride negli hotel a dieci stelle delle metropoli di mezzo mondo.

Stupisce infine il silenzio dell’Episcopato di fronte ad un’imposizione di un rappresentante dello Stato con trova giustificazioni plausibili.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 agosto 2025

Che bufera sull’errato Butera!

Che bufera sull’errato Butera!

Alcune testate giornalistiche e, quel che è più paradossale, anche il vicecapogruppo di FDI al Senato, Antonella Zedda, hanno sostenuto, sdegnati e irridenti, che fra i firmatari dell’appello a favore della candidatura di Pasquale Tridico alla carica di presidente della Regione Calabria, compare quella del compianto sociologo Federico Butera, deceduto pochi mesi fa.

Scandalo! Ecco, i soliti e stramaledetti intellettuali che arrivano a falsificare le firme per manipolare l’opinione pubblica “pur di sperare [di] ottenere qualche consenso in più” (Zedda).

E che diamine, non si fa così!

Tridico vuole prendere “in giro i cittadini con questi appelli farlocchi ed usando in modo improprio il nome di un defunto. Davvero di cattivo gusto” (Zedda).

E, poi, lo sanno tutti, suvvia, che: “La storia insegna: gli endorsement accademici spesso portano più sfortuna che voti. Tra i firmatari anche il sociologo Butera che però è morto lo scorso febbraio […] Gli appelli firmati dagli intellettuali, si sa, portano una sfortuna proverbiale. Sono la versione colta del malocchio: se ti sostengono, politicamente sei già spacciato“ (Calabria 7).

Ma non sono tutti così severi i fustigatori degli intellettuali. C’è qualcuno che ci scherza su scrivendo che: “In rete le ironie si sprecano, con chi osserva sarcasticamente che se la campagna elettorale entra nel vivo, è inevitabile che ci scappi il morto. Inteso come firmatario” (il Secolo d’Italia).

È, forse, vero che “la Calabria non è un’aula universitaria [perché] qui non bastano bibliografie e note a piè di pagina …”, ma, forse, dare una ripassata alle regole fondamentali del buon gusto e della grammatica civile non guasterebbe.

È sicuramente vero, invece, che noi abbiamo scritto e firmato quell’appello all’insaputa del candidato Pasquale Tridico, che non lo ha sollecitato in alcun modo, e che il firmatario Federico Butera, emerito di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano, è il cugino, vivo e vegeto, dello scomparso sociologo Federico Butera.

A tutte le novelle e a tutti i novelli necrofori ricordiamo sommessamente che l’intellettuale non è uno specialista “che difende affari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendista” (Jean-Paul Sartre).

E se gli intellettuali, italiani e calabresi, si occupano pubblicamente dei destini del Sud e della Calabria, in particolare delle loro classi dirigenti politiche, dovrebbe sembrare a tutte e tutti, di destra e di sinistra, un’ottima notizia.

da “il Quotidiano del Sud” del 2 settembre 2025

Al di là di chi vincerà e elezioni alla Calabria serve un cambiamento.-di Filippo Veltri

Al di là di chi vincerà e elezioni alla Calabria serve un cambiamento.-di Filippo Veltri

La si veda come si vuole dal punto di vista strettamente elettorale e partitico ma un dato dovrebbe accomunare i due schieramenti in competizione per le elezioni regionali del prossimo ottobre: la Calabria ha bisogno di un cambiamento. Netto, chiaro, senza indugi.

Sono troppe le cose che non vanno, da tempo, da troppo tempo, e poche quelle che vanno, che non riescono tra l’altro a brillare nel grigio scuro generale e a fare rete. Non si tratta nemmeno di fare l’elenco della spesa di ciò che non va che è, tra l’altro, sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere e non starsene inerti. Il punto è più di fondo e magari un’elezione per quanto importante nemmeno riesce a stanare e a risolvere.

Il problema riguarda la definizione del progetto regione, di cosa cioè siamo innanzitutto e cosa vorremmo e dovremmo essere. Essere una terra attrattiva di turismo? Valorizzare la nostra agricoltura nelle tre piane di Sibari, Lamezia e Gioia Tauro? Puntare sull’eccellenza del polo scientifico e culturale dell’Università della Calabria? O su tutte e tre le cose assieme e magari metterci altro nel minestrone, tanto per insaporirlo?

Il cambiamento è invece necessario proprio per indicare una rotta, una direzione di marcia che aiuti a risolvere i problemi drammatici del vivere quotidiano delle popolazioni, dal Pollino allo Stretto, che conoscono tutti e che vivono tutti.

E’ inutile una narrazione che tende tutta al positivo realizzato perché cozza contro il muro contrario della dura realtà con la quale i cittadini sono costretti a fare i conti ogni ora del giorno. E’ fuori contesto direbbero gli scienziati. Ma è inutile anche puntare tutto sul negativo e sul tanto negativo che c’è e si vede per rovesciare quella impostazione di chi ora è al Governo, perché il punto è che domani ci si ritroverà a fare i conti con la dura realtà delle scelte: che fare di questa terra?

Come restituire certezza, dignità, coraggio, stima, autostima, vie da tracciare e da percorrere perché – ad esempio – chi va via lo faccia solo per scelta e non per obbligo o necessità; chi deve curarsi lo possa fare negli ospedali di casa nostra; chi ha bisogno dei servizi essenziali non li debba sempre piatire o rincorrere etc etc. Per non parlare del lavoro, del reddito, del livello di vita, etc etc.

E qui non vogliamo nemmeno programmi in cui, come al solito, c’è tutto e il contrario di tutto, belle parole messe lì senza alcun costrutto o libri dei sogni ai quali siamo abituati da troppo, troppo tempo. Abbiamo – faccio un unico esempio eclatante – due grandi realtà positive in campo e sono forse le uniche accanto ad alcuni esempi di grande agricoltura: sono il porto di Gioia Tauro e quella Università della Calabria di cui si è già accennato. Puntare per davvero su di loro, farne il fulcro anche immaginifico e persino di slogan della Calabria fuori dalla Calabria sarebbe utile e significativo.

Mutare cioè all’interno e anche all’esterno dei nostri confini quella che si definisce la narrazione è infatti il primo compito ma lo si fa non con chiacchiere ma con esempi che tutti possono vedere e toccare di mano. Non con parole declamate ogni tanto per ingannare il tempo!

Poi c’è il resto ovviamente, tutto il resto. Il turismo – altro esempio – lo si rilancia davvero se mare e monti decidono cosa devono essere e mettono fine al dilettantismo insopportabile di questi decenni: non saremo mai come la Sardegna o la Puglia o il Trentino Alto Adige. Va bene. Ma, vivaddio, scegliamo una volta tanto che fare, come farlo e a chi rivolgerci!

Insomma la lista è lunga e il tempo a disposizione poco. Non solo per la campagna elettorale ma per motivare i calabresi disillusi e che ne hanno tante di giustificazioni. Ma – e chiudiamola qui per il momento – anche i calabresi stessi, cioè noi, ne abbiamo di colpe e responsabilità. Forse (e senza forse) è arrivato il momento di darsi una svegliata. Di capire, vedere, scegliere, non starsene muti e passivi. Il domani appartiene infatti innanzitutto a noi e starsene a casa è il peggiore dei mali.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 agosto 2025

Appello per Tridico Presidente della Regione Calabria

Appello per Tridico Presidente della Regione Calabria

Ci sono più ragioni per ritenere che l’elezione di Pasquale Tridico a Presidente della Regione Calabria possa segnare una svolta concreta nella storia della Calabria e del Sud.

Tridico è un docente universitario, un valente economista, con esperienze di ricerca e insegnamento in diversi paesi d’Europa e negli Stati Uniti, con varie esperienze manageriali, che ha diretto con successo, tra il 2019 e il 2022, il più importante istituto del welfare italiano: l’INPS.

Per la prima volta, la Regione Calabria può esser guidata da uno studioso con una così vasta esperienza e un così prestigioso profilo intellettuale. Per la prima volta, a svolgere il ruolo di Presidente può esser chiamato un uomo che non viene dal mondo dei partiti locali, dall’ambiente degradato dei vecchi potentati calabresi, delle clientele fameliche da soddisfare in danno di un progetto generale di riscatto generale.

Tridico è calabrese, figlio della sua terra. Ha lasciato la Calabria per gli studi universitari e per portare avanti una brillante carriera intellettuale e professionale. Ma non ha mai reciso le sue radici, non ha mai abbandonato il suo luogo d’origine. Tant’è che oggi, parlamentare europeo, mentre ricopriva importanti incarichi a Bruxelles, torna in Calabria per misurarsi in questa cruciale sfida politica.

Torna in Calabria, per realizzare un programma che faccia uscire la regione soprattutto dalla sua profonda sfiducia, dalla rassegnazione con cui i calabresi vivono da anni la vita pubblica, dominata da un ceto politico affaristico e senza visione.

Tridico è un profondo conoscitore dei processi che generano e riproducono le disuguaglianze sociali e territoriali, non appartiene alla nefasta famiglia degli economisti neoliberisti che fingono di credere nelle capacità salvifiche del mercato autoregolato. Può quindi essere la persona con il profilo e la credibilità giusti per chiamare a raccolta le migliori capacità e le più promettenti pratiche sociali locali per ideare e mettere in atto una politica di sostegno ai poveri e ai ceti più deboli e vulnerabili, condizione indispensabile per ridare fiducia e speranze a vasti strati di calabresi abbandonati e rassegnati al peggio.

Cambiare è possibile.

Un leader prestigioso come Tridico può contribuire a riattivare la propensione all’impegno e all’azione collettiva, può incoraggiare la voce e la mobilitazione dal basso, può dare rappresentanza ai territori abbandonati e marginalizzati dalle politiche pubbliche, in particolare quelli interni di collina e montagna, può dare visibilità al formicolio sociale che, sebbene in modo puntiforme, è diffusamente presente nell’intera regione.

Tridico può quindi essere il Presidente del riscatto, colui attorno al quale rilanciare la partecipazione democratica dei cittadini, costruire nuove progettualità con le realtà associative seriamente impegnate nel welfare, nell’ambiente, nella tutela dei diritti, nella tutela dei paesaggi e nella salvaguardia del Patrimonio culturale ponendo fine al dissennato consumo di suolo ed alla speculazione edilizia rurale ed urbana.

Un Presidente che capace di formare una squadra di amministratori capaci e cristallini, che realizzi un piano di investimenti pubblici innovativi, credibile e immediatamente attuabile, per lo sviluppo economico e sociale e per l’efficace contrasto alle disuguaglianze, alle discriminazioni, alle povertà della regione Calabria.

La Calabria non potrebbe avere oggi un candidato Presidente più giusto e più capace, per esperienza e relazioni nazionali e internazionali, di Pasquale Tridico.

Piero Bevilacqua, Maurizio Acerbo, Franco Arminio, Filippo Barbera, Elena Basile, Francesco Benigno, Federico Butera, Luciano Canfora, Carlo Felice Casula, Domenico Cersosimo, Laura Corradi, Giovanna De Sensi, Angelo D’Orsi, Stefano Fassina, Paolo Favilli, Luigi Ferrajoli, Roberto Finelli, Elena Gagliasso, Pino Ippolito Armino, Carmen Lasorella, Sabina Licursi, Paolo Maddalena, Laura Marchetti, Giacomo Marramao, Tomaso Montanari, Enrica Morlicchio, Rosanna Nisticò, Francesco Pallante, Marco Revelli, Mimmo Rizzuti, Battista Sangineto, Enzo Scandurra, Rocco Sciarrone, Salvatore Settis, Francesco Sylos Labini, Maria Adele Teti, Gianfranco Viesti.
Hanno aderito:
Vittorio Cappelli, Annarosa Macrì, Tonino Perna, Michele Santoro, Piero Schiavello, Mauro Francesco Minervino, Alfonso Gianni, Irene Berlingò, Monica Dall’Asta, Franco Cambi, Saverio Regasto, Francesco Cirillo, Vincenzo Albanese, Rita De Donato, Dora Ricca, Letterio Licordari, Antonio Macchione, Francesco Galatà, Guido Ortona, Francesco Zurlo, Sandro Meo, Claudio Rombolà, Paolo Napoli, Vanni Clodomiro, Alberto Ziparo, Piero Romeo, Giuseppe Candido, Delio Di Blasi,Lidia Gilberti, Antonio Nicotera, Franc Celano, Rosa Principe, Marta Petrusewicz, Consuelo Nava,Pino Greco,Loredana Nigri, Epifanio Spina, Marisa Fasanella,Giulia Cibrario, Mario Grisolia, Rocco Tassone, Renza Bertuzzi, Giuseppe Rossi, Anna Antonicelli, Michelina Paolini, Franco Trane, Gianluca Monturano,Romeo Salvatore Bufalo, Eugenio Passarelli, Gabriella Iannolo, Mario Maruca, Francesca Rennis, Michela Sassi, Massimo Zucconi,Loredana Barillaro, Alfredo Granata,Luca Cofone, Michele Cosentino, Carmine Bruno,Libero Sesti Osséo, Isabella Nicotera Angela Maida.

Per aderire all’appello: osservatoriodelsud@gmail.com

Uno sfregio al Castello di Roseto Capo Spulico.-di Battista Sangineto

Uno sfregio al Castello di Roseto Capo Spulico.-di Battista Sangineto

Proviamo a mettere insieme le immagini riguardanti la polemica che è scoppiata a proposito della variante della SS106 nei pressi del Castello di Roseto Capo Spulico. In allegato la foto (dall’alto) pubblicata dal Quotidiano del Sud del 20 agosto 2025 a corredo di uno scritto di Fabio Pugliese, direttore dell’associazione “Basta vittime sulla 106”.

Ancora in allegato la foto (da nord verso sud) scattata da Giovanni Manoccio il 13 luglio 2025 e, per ultima, la foto (da sud verso nord) apparsa su “il Fatto Quotidiano” insieme all’articolo di Marco Lillo (del 6 agosto 2025) che ha dato il via ad una polemica alimentata da un editoriale di Tomaso Montanari, sempre su “il Fatto” del 18 agosto 2025.

Lillo e Montanari ritengono che non sia stato per niente opportuno far passare la nuova variante della SS106 -con le relative gallerie, i raddoppi e gli allargamenti- così vicina al Castello da scompaginare il paesaggio nel quale il monumento fridericiano era incardinato da alcune centinaia di anni.

Come è evidente dalla foto di Manoccio, ma anche da quella de “il Fatto”, è davvero incredibile che si possa scrivere, come ha fatto Pugliese, che l’opera è “unanimemente considerata esemplare sotto il profilo ambientale e paesaggistico”. L’opera, che sta per essere portata a termine dalla stessa ditta che costruirà lo scempio del ponte sullo Stretto, è, invece, un altro sfregio irreparabile al paesaggio calabrese, un’ennesima ferita che, nonostante i pareri contrari dei ministeri dell’ambiente e della cultura (a proposito: siamo sicuri che non vi fossero resti archeologici in quel tratto?), si è ritenuto di poter infliggere ad una regione che è considerata ormai perduta, deturpata dal cemento armato, dal consumo del suolo e dalla speculazione edilizia.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT (2023), un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. Una regione che ha il 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Secondo i dati ISTAT, nel 1982 la SAU (Superficie Agricola Utilizzata) ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che contiene -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una parvenza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento armato, sul consumo del suolo dalla battigia fino alla montagna a vantaggio di una speculazione priva di controlli, indirizzata alla rendita immobiliare e, in secondo luogo, volta a favorire un turismo rapace, veloce, superficiale e numericamente sovradimensionato, sia al mare sia in montagna. Classi dirigenti capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Una regione di poveri, ha ragione Montanari, che elegge una classe dirigente inetta che non conta nulla a Roma e che non riesce a far rispettare i propri territori tanto che le grandi imprese se ne approfittano per costruire strade, autostrade, aeroporti, superstrade, sterminati impianti eolici o fotovoltaici, torri di estrazione di gas a poche decine di metri da siti archeologici straordinari, porti e ponti nelle forme, nelle dimensioni e nelle aree che vogliono senza avere una vera opposizione politica. Rimane solo una ferma contrarietà da parte di associazioni e di comitati di cittadini che si sono battuti e continuano a battersi in tutte le occasioni, compresa quella di cui stiamo scrivendo, e che qualche volta, come nel caso del vincolo paesaggistico di Cosenza, riescono persino a vincere.

La sconfitta dei cittadini di Roseto e della costa jonica settentrionale che, negli ultimi decenni, si erano opposti al tracciato di quest’opera, suggerendone al contempo un altro che non è stato preso in considerazione, non può e non deve essere la fine della battaglia.
Possiamo, e dobbiamo, continuare ad opporci non solo agli scempi della nuova SS106, ma anche a tutti gli altri sfregi che si vogliono infliggere al corpo martoriato, ma ancora vivo, dei paesaggi della nostra sciagurata regione, se vogliamo avere un futuro vero, un futuro che non sia fatto di cemento armato. Contro la costruzione dell’inutile e orribile ponte sullo Stretto, in primis, e contro la cementificazione delle coste, delle montagne, dei paesi, delle città e delle campagne calabresi.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 agosto 2025
Foto di Giovanni Manoccio

Un Belpaese immerso nel dualismo.-di Michele Fumagallo

Un Belpaese immerso nel dualismo.-di Michele Fumagallo

l volume che Pino Ippolito Armino ha dato alle stampe per Laterza, Storia dell’Italia meridionale (pp. 326, euro 20), è un ulteriore tassello sull’antica Questione che ha accompagnato per decenni il nostro paese, ma è anche un compendio utile a capire e porsi domande sul futuro del Mezzogiorno. Magari, per tornare a porsi la domanda decisiva: quella Questione esiste ancora in Italia nei termini in cui è stata affrontata nei decenni passati?

Intanto, attraversiamo questa storia che, oltre a sintetizzare bene ciò che è avvenuto prima e dopo il Risorgimento, sottolinea senza equivoci la miseria della reazione borbonica al movimento risorgimentale ma anche le incongruenze di chi si assunse con la definitiva unità del territorio italiano la responsabilità di organizzare il futuro.

L’AUTORE, già nell’introduzione mette le cose in chiaro: «L’Italia è un paese fortemente duale. Oltre 160 anni fa il Risorgimento ha fatto dell’Italia una nazione sola. Perché allora questo contrasto? Il professore Richard Lynn nel 2010 ha trovato una risposta nei quozienti intellettivi diversi per gli abitanti delle due Italie. Questo libro è dedicato a chi non è soddisfatto di questa risposta e ritiene che la spiegazione del dualismo italiano, come di qualsiasi altro fenomeno sociale, vada cercata nella storia». E per esempio nella reazione antipopolare dell’universo borbonico che dominava il Regno delle Due Sicilie, con le sue repressioni feroci dei moti libertari nel tentativo di bloccare l’orologio della storia che aveva ripreso a battere con la Rivoluzione napoletana del 1799.

Sicuramente, le cose sarebbero andate in modo diverso se il Regno delle Due Sicilie avesse cavalcato insieme agli altri l’ideale dell’unificazione, un vento che spingeva da tantissimi anni in quella direzione: il che toglie ogni argomento a qualsiasi dissertazione neoborbonica su di una presunta colonizzazione «piemontese». Ma anche, per stare dalla parte giusta della storia (quella risorgimentale), le incongruenze di un movimento che ebbe varie linee al suo interno, a volte contrapposte, e che commise errori clamorosi, tra l’altro quello di umiliare l’esercito garibaldino volontario, costruito con grande idealismo ma a cui venne dato il benservito nel modo più cinico (mai tradire il volontariato…).

IL LIBRO, SEMPRE per rimanere ancorati al dominio della storia, accenna a spinte fortemente comuni delle due parti d’Italia avvenute dopo l’unificazione, sia in senso positivo (il ruolo, spesso dimenticato dagli studiosi, avuto da tantissimi meridionali nella Resistenza nel Centro-Nord) sia in senso negativo (la mafia che non trova significative opposizioni quando si espande oltre il Sud, dimostrando di essere un fenomeno storico e non antropologico).

In conclusione, dice l’autore, «il Mezzogiorno indebolito e privo di una strategia per il futuro, appare oggi più che mai incapace di reagire a tante sfide». E, in effetti, solo un rinnovato interesse verso i territori (quello meridionale in primis) potrebbe capovolgere la situazione.

da “il Manifesto” del 15 agosto 2025

Le dimissioni di Occhiuto una sciagura per la Calabria.-di Agazio Loiero

Le dimissioni di Occhiuto una sciagura per la Calabria.-di Agazio Loiero

Al presidente ho scritto solo, appena dopo il suo insediamento, una lettera aperta per fargli notare che era un grande errore assumere la carica di commissario alla sanità. Sul piano pratico e sul piano simbolico. Sul piano pratico perché su un settore così delicato, che ha bisogno disperato di un organizzatore sanitario di valore che abbia dimestichezza con i bilanci e i suoi interstizi, non si può improvvisare. Gli ho nell’occasione ricordato che la figura stessa del commissario impone al nostro territorio aliquote fiscali troppo alte per la fragile economia della regione. Un salasso che i calabresi pagano senza un fremito di ribellismo.

E’ questo il motivo per cui nel 2009 minacciai nel Consiglio dei ministri, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi, di dimettermi seduta stante, se fossi stato nominato, contro la mia volontà, commissario, come il governo compatto minacciava di fare. Confesso che è uno dei gesti politici del mio quinquennio che ricordo con maggiore piacere.

Simbolicamente ho sempre amato poco la figura stessa dei commissari destinati alla Calabria, perché conferiscono sempre agli abitanti di questo territorio un inaccettabile marchio di alterità che non meritano. Occhiuto al momento della sua vittoria elettorale, avendo svolto in Parlamento il ruolo, sia pure per un breve periodo, di capogruppo del suo partito, aveva avuto la possibilità di conoscere il presidente del Consiglio del tempo, Mario Draghi, un economista con il quale avrebbe potuto trattare la fine del commissariamento, diluendo al meglio negli anni il debito accumulato.

Ovviamente non fui ascoltato perché il potere di decidere in autonomia, specie nei territori marginali, esercita un fascino irresistibile. Si dimentica in questi casi che l’articolo 122 della nostra Costituzione così recita “Il presidente eletto nomina e revoca…”. Un potere regionale molto forte di cui non dispone neanche il Presidente del Consiglio dei ministri.

Veniamo agli ultimi gesti di Roberto Occhiuto e soprattutto a queste dichiarazioni talvolta vittimistiche “non mi faccio rosolare”. Di grazia da chi? Dai magistrati? Talvolta fortemente reattive contro un avversario politico immaginario “oppositori, sciacalli che hanno tifato per il fallimento della Calabria”. Ma di chi parla? Talvolta così trionfalistiche da sfociare in una deriva di comicità involontaria. La più penalizzante delle comicità. “E’ vero o no” – ha chiesto il Presidente a Soverato – “che in quattro anni si è fatto più che nei quaranta precedenti?” Un concetto di sé così ottimistico che un politico non può esprimere neanche se rispondesse alla realtà. Figuriamoci se dalla realtà è sideralmente lontano.

Tutte queste dichiarazioni il Presidente le affida puntualmente al teatrino dei social o ai comizi senza contraddittorio. Tutte corredate da una congrua scenografia da campagna elettorale permanente. Il Presidente che conserva il culto del particolare, in questa occasione si è posizionato accanto ad una costruenda stazione della futura metropolitana di Catanzaro e successivamente accanto al cantiere di uno dei nuovi, futuri ospedali calabresi. Un’immagine seducente offerta ai suoi corregionali senza mai fare, come solitamente si usa, il più piccolo riferimento a coloro che, quelle opere, a suo tempo le hanno ideate.

In questo nostro tempo distratto dalle luci del consumismo, riporto alla memoria, l’origine dei due eventi. La metropolitana di Catanzaro fu immaginata -il sindaco della città era Rosario Olivo- dalla Giunta da me presieduta e finanziato al ritmo forsennato imposto dall’Europa, insieme ad un progetto per l’area urbana Cosenza- Rende e un terzo per l’area urbana di Reggio Calabria nella legislatura 2005-2010. La linea d’intervento gravava sul Por Calabria FESR 2007-2013. A capo del settore avevamo scelto un dirigente di qualità, Salvatore Orlando. Gli ospedali furono un impegno che il Presidente del Consiglio del tempo Romano Prodi, notoriamente amico della nostra regione, assunse con la Giunta da me presieduta – assessore alla sanità era Doris Lo Moro – dopo i dolorosi incidenti avvenuti in alcuni ospedali calabresi che registrarono la morte di tre giovani.

La lunga parentesi mi ha fatto perdere il filo. Torniamo all’attualità e alle dimissioni di Occhiuto. Esse rappresentano una sciagura perché una regione, già ferma di suo, subirà un arresto in forma ufficiale per quattro lunghi mesi. Tutto a cominciare dal Pnrr, dai bandi europei, dalla stessa pubblica amministrazione, proprio tutto si fermerà. Questo avverrà in una regione, che “ha la disoccupazione più alta d’Italia”. Lo ha ricordato un giornalista di qualità, in vacanza in Calabria, Enrico Franceschini sul supplemento di Repubblica di venerdì primo agosto. Ha poi aggiunto – riporto testualmente – “ la disoccupazione più alta d’Italia. E non solo d’Italia. Secondo le ultime tabelle Eurostat, la Calabria ha il più basso tasso di occupazione (appena il 44 per cento) di tutta l’Unione Europea: solamente nella Guyana, territorio d’oltremare francese, ci sono meno adulti che lavorano”.

Su questo tema mi fermo qui. Vogliamo parlare di quella che l’antropologo calabrese Vito Teti chiama la restanza? Il professore afferma con la riconosciuta credibilità che nei prossimi cinque anni, (non venti o trenta, solo cinque anni) oltre mille paesi delle aree interne del Sud morranno. Non ci saranno più”. La nostra Calabria che presenta un territorio caratterizzato al novanta per cento da collina e montagna, svolgerà, anche in questo caso, un ruolo negativo di protagonista. Una perdita di memoria collettiva che solo a pensarci procura un senso di vertigine. La regione, questi dati terrificanti, li conosce?

D’altraparte un fenomeno di spopolamento sotterraneo sta avvenendo anche nelle città calabresi. Molte le famiglie non poverissime, appena benestanti di Catanzaro, di Cosenza si trasferiscono a Roma o al Nord. Un fenomeno carsico segnalatomi da Franco Ambrogio ma che io stesso ho poi registrato nella mia città. Partono in certi casi per raggiungere i figli, ma partono soprattutto per stabilirsi in un posto più sicuro, dove poter fruire di servizi decenti, dove soprattutto poter essere curati.

E qui tocchiamo uno dei tasti più dolenti della stagione d’Occhiuto: la sanità. Questo è il settore a cui il Presidente della regione si è, come dire, dedicato di più. Non nego che si sia impegnato ma lo ha fatto su temi teorici di alta scuola, trascurando la carne viva della cura, gli ospedali nella vita di ogni giorno, lo scadimento della loro qualità professionale, le ambulanze, i pronto soccorso dove le persone muoiono in attesa di essere curati.

Due settimane fa è morto un mio amico di Stalettì per le otto ore trascorse in un pronto soccorso. Tempi d’attesa insopportabili per visite specialistiche ed esami diagnostici. Siamo ultimi in Italia per quanto riguarda gli screening oncologici che anni fa non apparivano scadenti. La realtà giornaliera è costituita da medici e infermieri che fuggono via dal pubblico per rifugiarsi nel privato. A proposito che ne è dei medici cubani che fino a qualche tempo fa il Presidente citava ad ogni intervista? Sono fuggiti anche loro?

Intendiamoci. Non sarei onesto se non ammettessi che alcuni di questi problemi Occhiuto li ha ereditati. Purtroppo però questi circa quindici anni di commissariamento con le relative ristrettezze di bilancio hanno drammaticamente complicato la vita della sanità, ma è soprattutto per questa ragione che non bisognava protrarre all’infinito un’esperienza nefasta. Questa è la sua più grande colpa. Un commissariamento così lungo poteva mai verificarsi non dico in Veneto o in Lombardia ma anche in Basilicata?

Mi accorgo di non avere scritto dell’avviso di garanzia. Pur essendo uno dei pochissimi ex presidenti a non avere oggi alcuna pendenza giudiziaria, per molti motivi faccio fatica ad occuparmene. Non riesco solo a capire perché un Presidente, di fronte a un fascicolo aperto dalla magistratura, non trovi di meglio che dimettersi per poi ricandidarsi. L’avviso di garanzia è un problema suo, non dei calabresi.

Chiudo questo lungo articolo nel quale ho avvertito la necessità di denunciare i problemi e le bugie, che in questi giorni circolano in grande quantità sui media. Lo faccio ricordando una frase lapidaria di Albert Camus, stabilmente archiviata nella mia memoria: “Nei tempi bui resistere è non consentire menzogne”.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 agosto 2025

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco è molto alta, direi altissima e in Calabria lo è ancora di più per tanti motivi. Il non raggiungimento del quorum renderebbe inutilizzato l’unico strumento ancora integro rimasto a sorregge la democrazia costituzionale nata dalla Resistenza. La nostra democrazia poggia su tre capisaldi strategici diversi, ma fra loro strettamente legati: la rappresentanza, la partecipazione popolare e la democrazia diretta.

Un Parlamento che rappresenta gli interessi parziali di una parte del popolo esprime la sua fiducia a un Governo che si lega agli stessi interessi parziali. Così lo stesso Parlamento finirebbe per soccombere alla prevalenza del Governo riducendosi al rango di mero ratificatore. Così come sta avvenendo in Italia e le armi usate per tale disfatta sono due: il sistema elettorale e la riduzione del numero dei parlamentari.

Soprattutto quest’ultima sciagura, molto funzionale a questo progetto antidemocratico, è contro la rappresentanza e ha portato a completamento la trasformazione del Parlamento in uno strumento dell’esecutivo a guida postfascista che oggi decide per tutti, nonostante che sia espressione di una compagine di forze politiche che rappresenta una minoranza della popolazione.

In questo quadro così preoccupante, la posta in gioco è dunque altissima perché una sconfitta (consistente nel non raggiungimento del quorum minimo per la validità dei referendum dell’8 e 9 giugno) rappresenterebbe purtroppo la perdita di questa grande opportunità di utilizzo del terzo pilastro della democrazia costituzionale. Quello che gli elettori possono esercitare direttamente senza la presenza intermedia di partiti e altre forme associative.

La vittoria del SI abrogativo farebbe sparire una legge o parti di essa dall’ordinamento giuridico e nessun giudice potrebbe riesumarla; e il Parlamento non potrebbe nemmeno riproporla se non dopo almeno un quinquennio e dopo un mutamento sostanziale della situazione politica del Paese. Il mancato raggiungimento del quorum nei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno porterebbe, purtroppo, a una situazione completamente nuova: questo Paese si mostrerebbe ormai privo di capisaldi democratici e si aprirebbero scenari autoritari.

In Calabria i 5 quesiti referendari pongono ancora maggiore urgenza nella partecipazione al voto, sia nel merito dei migranti che del lavoro. La precarietà è la costante dei rapporti di lavoro e di pseudo lavoro dalle nostre parti e non è più tollerabile, rendendo la vita di giovani e meno giovani più complicata e al limite dell’impossibile. Il jobs act non solo ha inoltre reso tutto più difficile nei pochi luoghi di lavoro dove si applicano contratti e leggi.

Il voto è dunque un diritto e un dovere civile dovunque ma non farlo qui in Calabria sarebbe oltre modo grave, nonostante la crisi di fiducia e credibilità di cui (non) godono le istituzioni e la scarsa partecipazione popolare al voto. Ma il popolo nella sua accezione più nobile e grande ha già dimostrato che è soprattutto uno strumento di lotta per cambiare e la politica come ci insegna il grande Nicolò Machiavelli (1519) è praticamente tutto: ‘’non esiste zona dalla vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza la politica né gli individui né gli aggregati collettivi resisterebbero al turbine di accadimenti’’.

La manifestazione di Catanzaro del 10 maggio sul diritto alla salute ne è la dimostrazione più vicina a noi e più lampante. Sono fiducioso che il popolo calabrese lo dimostrerà ancora.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 maggio 2025

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sulla sanità in Calabria si potrebbero scrivere enciclopedie, Treccani intere; fare dibattiti 2 o 3 volte al giorno; discutere e litigare per anni interi. E si è fatto e si fa anche tutto questo. Da quando? Non ne ho memoria, ve lo confesso. Ho perso il conto.

Grandi esperti, competenti emeriti, studiosi di diritto sanitario, di diritto pubblico, di sociologia, giuristi, docenti, medici e non, si dannano l’anima per cercare di spiegare alla fine una cosa che è talmente semplice da sembrare banale ma che è all’origine dell’incredibile successo che sta riscuotendo l’iniziativa che si terrà domani pomeriggio in piazza a Catanzaro.

E’ nata dalla testa del direttore di questo giornale, Massimo Razzi, che calabrese non è (e si vede dalla semplicità con cui l’ha pensata e messa in campo), il quale mesi fa dinanzi al diluvio di proteste, accuse, reclami etc., ha pensato alla cosa più semplice del mondo: organizzatevi, organizziamoci, prendiamo la parola, prendete la parola e scendiamo in piazza per il diritto alla salute.

DIRITTO ALLA SALUTE, lo scriviamo in grande così si capisce meglio di che parliamo. Finiamola, cioè, con le ardite e dotte discussioni sui piani di rientro che ci sono e forse vanno via come i commissariamenti (chissà chi lo sa), con i bilanci delle Asp che non tornano, con i fondi e le parcelle pagate 2, 3 e 10 volte, con i buchi neri amministrativi e contabili, etc etc. Cose – dio me ne guardi dal sottovalutarle – molto importanti ma alla fine della fiera il cittadino vorrebbe sapere altro.

Vorrebbe, cioè, sapere perché si può morire in ambulanze senza medici, o in ospedale a nemmeno 40 anni incinta alla prima gravidanza. O perché bisogna andarsene lontani da casa per farsi curare. O perché non si trova più un medico di famiglia. E altre amenità del genere, che pullulano sulle pagine ogni giorno dei quotidiani, dei social, dei siti e rendono tutta la vita dei calabresi più pericolosa di quanto non lo sia già. Perché il punto di fondo è centrato, infatti, sul diritto alla salute negato nonostante l’impegno, l’abnegazione, il sacrificio di medici, infermieri, paramedici che si dannano l’anima per tamponare situazioni difficilissime, a volte al limite dell’impossibile, in reparti affollati, emergenze intasate fino al collasso, tempi biblici nelle prenotazioni (quando funzionano), liste d’attesa di cui è meglio non parlare.

Tutte situazioni che si trascinano da tempo e che hanno incancrenito il settore, dove pure esistono eccellenze sparse qua e là nel territorio, stelle in un infinito mare di nebulose dove il povero calabrese paziente (sostantivo e aggettivo, in tutti i sensi) fatica a raccapezzarsi e a trovare risposte all’unica domanda che agita: il diritto appunto alla salute.

Molto si è discusso e si discute anche sull’utilizzo dei medici venuti da Cuba nelle corsie degli ospedali calabresi. I soliti leoni da tastiera non hanno perso tempo fin dall’inizio a gridare allo scandalo, a chiedere che vengano utilizzati medici italiani (domanda: chissà come e dove prenderli), a sollevare questioni di lana caprina sulla provenienza, la lingua, le metodologie utilizzate. Se c’è invece qualcosa da salvare nei tempi agri che viviamo è proprio l’aiuto fornito e che stanno fornendo questi bravi medici venuti da un altro mondo. Senza di loro sarebbe già forse definitivamente collassato il sistema.

Ecco: servono risposte immediate a quelle domande che ogni giorno, ogni ora del giorno, si manifestano dentro e fuori gli ospedali. Organizzarsi e manifestare è un segno che la coscienza civile non è morta e chiede risposte serie e concrete. A chi? Alla politica e alle istituzioni. È la regola base della democrazia. A ciascuno il suo. Domani pomeriggio questo molto semplicemente si fa.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 maggio 2025

Ambiente e sviluppo, da uno storico un progetto di futuro per Catanzaro.-di Filippo Veltri

Ambiente e sviluppo, da uno storico un progetto di futuro per Catanzaro.-di Filippo Veltri

Piero Bevilacqua fa lo storico di professione, ordinario alla Sapienza di Roma, impegnatissimo in questi mesi nella presentazione del suo ultimo libro sui temi delle guerre e del mondo in fiamme, ma torna spesso nella sua città, Catanzaro, ed ha rivolto una bellissima lettera ai suoi concittadini, su un problema di grande valenza legato al territorio sul mare del capoluogo regionale ma che va ben oltre i confini di quella città per il valore della proposta.

‘’Cari amici di Catanzaro – scrive il prof. Bevilacqua – poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, per non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione’’.

Il progetto è assai lungo e articolato, con una premessa ed un dettagliatissimo proponimento che si spera possa essere ripreso ed attuato dagli amministratori di oggi. Riguarda specificatamente l’area di Giovino, un polmone verde affacciato sullo Jonio, nei pressi di Catanzaro Lido verso Crotone, caratterizzato dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici ‘’e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio’’.

Cioè finalmente porre un alt al cemento selvaggio che drena risorse e distrugge l’ambiente.

A Giovino potrebbe nascere un Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi.

‘’Non si creda – scrive Bevilacqua – che sia un’operazione del tutto nuova. Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud’’.

Occorre dunque uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. ‘’Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un “Istituto per lo studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea’’.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie.

La lettera, nel finale, è un auspicio: ‘’Cari catanzaresi, come sapete, nel territorio di Giovino la precedente amministrazione comunale di Catanzaro intendeva avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali.
Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma. La nuova giunta, composta anche da tanti giovani, ha davanti a sé una grande possibilità e una ancor più grande responsabilità’’.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 maggio 2025.

Il lascito di Quirino Ledda.-di Mario Vallone e Filippo Veltri

Il lascito di Quirino Ledda.-di Mario Vallone e Filippo Veltri

Eravamo in tanti ai suoi funerali dieci anni fa, increduli e tristi per la scomparsa di un grande amico, un caro compagno nostro e di altre centinaia di persone che lo hanno conosciuto direttamente e di migliaia che sapevano, in Calabria come altrove, della presenza nella vita politica cittadina e regionale di Quirino Ledda.

Chi è stato Ledda negli anni della sua vita politica e sindacale non è facile riassumere in poche righe ma basta solo il suo impegno e la sua dedizione alla Federbraccianti Cgil prima e poi nel Partito e nelle Istituzioni per dire di una vita spesa per gli altri. Tutta una vita. Col sorriso sulle labbra e il suo marcato accento sardo che non aveva mai perso e di cui anzi andava fiero.

In quella giornata di 10 anni fa, piena di dolore, prendemmo l’impegno pubblicamente di non dimenticarlo; lo abbiamo fatto in varie occasioni con modalità diverse, dagli incontri pubblici alle testimonianze scritte di chi lo aveva conosciuto, dirigenti politici e sindacali, di tante persone semplici, operai e contadini e tanti giovani. Lo facciamo ora.

In prima fila sempre i suoi adorati figli Giuseppe e Luigi (che ahime’ oggi non c’è più). Furono molti i riconoscimenti nei suoi confronti di una vita spesa nella sinistra, nel sindacato, nelle istituzioni, sempre da una sola parte senza esitazioni e infingimenti: quella delle lavoratrici e dei lavoratori, dei meno abbienti, dei più fragili e indifesi. Una vita per la dignità e i diritti, contro i soprusi e le mafie, una lotta che gli costò tanto anche in termini personali ma che non lo fece mai arretrare.

Si disse allora che la Calabria, quella onesta e seria, perdeva un uomo competente, schierato certamente ma con una apertura mentale ammirevole e basta ricordare i suoi molteplici interessi da quelli propriamente politici ai beni culturali (per tutti la Roccelletta è un segno del suo impegno), dalla storia alla Memoria della Resistenza. La sua morte avvenne poco dopo il 25 Aprile e il 1° Maggio, due date a cui era legatissimo.

Oggi siamo nel decennale della sua scomparsa, quest’anno lo ricorderemo come sempre, l’ANPI insieme a Cgil e Libera, pubblicamente in un incontro programmato per il 6 maggio alle 17.30 nella sala concerti del Comune di Catanzaro. Caro Quirino se la memoria ha un senso, se i ricordi hanno un senso, se la storia stessa ha un significato che è quello di tramandare uomini, fatti e avvenimenti allora la tua storia davvero non può mai essere messa in soffitta.

da “il Quotidiano del Sud” del 1° maggio 2025

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

Dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna ai giorni nostri free trade e protezionismo si sono alternati. Iniziò sua Maestà britannica a predicare il libero mercato dopo aver imposto per secoli alle sue colonie il più rigido protezionismo.

Sul piano della teoria economica fu David Ricardo a battersi, con successo, per eliminare i dazi all’import di grano in UK, sostenendo che ci sia un vantaggio reciproco a scambiare beni in cui ciascun paese si è specializzato, con il famoso esempio del vino portoghese che viene scambiato con le lane inglesi. Ma, il resto dei Paesi europei quando decise di industrializzarsi ricorse a drastiche misure di protezione della propria industria nascente.

Lo fece la Francia colbertiana, la Germania di Bismark , persino l’Italia con Crispi che alla fine del XIX secolo protesse la nascente industria tessile dell’Italia del Nord ovest, con gravi ricadute per il Mezzogiorno che dovette subire la risposta della Francia, che colpiva soprattutto i prodotti dell’agricoltura meridionale.

Dalla seconda metà del Novecento, con una serie di stop and go si sono moltiplicati gli scambi internazionali, sono cadute o ridotte le barriere doganali, sia come limiti quantitativi all’importazione che come dazi. Per molti Paesi del Sud del mondo questa non è stata una scelta, ma una imposizione del FMI e della Banca Mondiale, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.

Queste due istituzioni internazionali hanno imposto ai cosiddetti PVS, oltre al taglio delle spese sociali e dei sussidi ai produttori agroalimentari, l’abbattimento dei dazi alle importazioni e l’apertura totale dei loro mercati ai prodotti dei paesi industrializzati, utilizzando come arma di ricatto il credito. Il risultato è stato lo smantellamento di industria leggera e artigianato tradizionale, e un pesante impoverimento dei Paesi del Sud del mondo.

Così è stato creato in pochi decenni quello che viene definito Mercato Mondiale, grazie ad un incremento vertiginoso degli scambi a livello internazionale. Per averne un’idea il commercio mondiale è cresciuto dal 1950 ad oggi di quasi 38 volte (sic!), circa quattro volte il Pil mondiale. Come è noto il WTO (World Trade Organization) è l’istituzione internazionale che è stata creata per agevolare questi scambi, regolamentarli e contrastare forme più o meno ufficiali di protezionismo. E’ una delle tante istituzioni internazionali che Trump tenterà di fare saltare.

Malgrado tutti questi sforzi il “free trade” non è stato mai raggiunto, ed è più una costruzione ideologica che realtà. Basti solo pensare ai sussidi dello Stato alle imprese. Quello che Trump non dice, e non può dire, riguarda la massa di sussidi che ha ricevuto negli Usa la produzione di cotone (16 miliardi l’anno secondo gli ultimi dati disponibili), la produzione di carne (900 euro a vacca), di latte, ecc.

Grandi e piccoli paesi africani sono stati affamati da una concorrenza sleale su molti prodotti (cotone, arachidi, mais, ecc.), proprio grazie a questi pesanti interventi pubblici che hanno alterato il cosiddetto libero mercato. E lo stesso si può dire per l’agro-alimentare europeo. Per non parlare dei contributi a fondo perduto per la R&D, ricerca e sviluppo, che i Paesi del Sud del mondo non si possono permettere.

In breve il protezionismo dei paesi più ricchi c’è stato da sempre e ora assume con Trump una dimensione spettacolare, ma non per questo più efficace. Se storicamente le barriere doganali sono state usate per permettere all’industria nascente di germogliare, non si è finora mai visto un paese a capitalismo avanzato che pensi di reindustrializzarsi, senza tener conto del relativo alto costo del lavoro, della concorrenza dei paesi emergenti nel settore dell’industria tradizionale (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, arredi, ecc.) dove i margini di profitto sono molto limitati, eccetto che nel settore del lusso, che è per altro appannaggio di altri Paesi, a partire dall’Italia, e dove l’incremento dei prezzi dovuto ai dazi non scoraggia una clientela a reddito medio-alto.

Infine, Trump dovrebbe preoccuparsi seriamente dei Brics che hanno già deciso di non utilizzare più il dollaro per l’interscambio e che ora diventano una sponda interessante per i Paesi più colpiti dai dazi, a cominciare da alcuni Paesi della Ue. Un nuovo scenario geopolitico si sta configurando e chi tra i governanti rimane legato, o legata nel nostro caso, ad un vecchio carro, ne subirà le conseguenze.

L’impatto sull’Italia e sulla Calabria

Come ormai è chiaro l’Italia insieme alla Germania sono i paesi europei più colpiti dai dazi Usa. In particolare, il settore più penalizzato sarà quello della filiera dell’Automotive e, molto probabilmente, il governo italiano sarà costretto a seguire, in ritardo, quello spagnolo il cui leader ha già disposto 16 miliardi di contributi al settore.

Allo stesso tempo, saranno cercati altri mercati di sbocco per i prodotti più colpiti da questo incremento dei dazi decisi da Trump. Si salveranno, come è sempre avvenuto, i prodotti della fascia alta, del lusso, che più sono cari più sono ricercati dalle élite.

La Calabria, come giustamente ha sostenuto il collega e amico Prof. Cersosimo, ha un export così esiguo, circa 500 milioni su oltre 600 miliardi di export nazionale nel 2024, che non ne risentirà. Ma, allo stesso tempo, ha ragione anche l’imprenditore Fortunato Amarelli, presidente della prestigiosa Associazione Imprese Centenarie Italiane, che mette in guardia dagli effetti indiretti di questo neo-protezionismo fuori stagione.

In sostanza, il ragionamento è questo: se il nostro governo dovrà sostenere le imprese più colpite da questi dazi allora ci saranno meno risorse finanziarie e, come al solito, dai tagli della spesa pubblica e del welfare saranno più colpite le regioni più deboli dove il rapporto “spesa pubblica/Pil regionale”, è più alto. E in Calabria è più del doppio della media nazionale, il che si traduce nella storica dipendenza della nostra economia dai flussi di denaro pubblico.

Che fare, allora? Data questa situazione molti Paesi penseranno di incrementare la Domanda interna per compensare la caduta dell’export. Per questo sarebbe importante, anzi necessario, un incremento dei salari (i più bassi d’Europa).

Si potrebbero incrementare salari e stipendi nei settori protetti dalla concorrenza internazionale come la sanità, l’istruzione, ma anche l’edilizia e il commercio, ecc. dando una migliore retribuzione a medici, infermieri, insegnanti, operai, commessi, ecc. Oltre a un problema di giustizia redistributiva si darebbe una mano importante all’economia del nostro Paese.

Certo, c’è il vincolo di bilancio che pesa nel Paese più indebitato d’Europa, ma si potrebbe semplicemente aumentare la pressione fiscale per i ceti medio-alti, magari introducendo la famosa patrimoniale a partire da oltre cinque milioni di asset.

E’ solo un esempio, ma la strada non può che essere questa: solo una maggiore giustizia sociale, un ruolo redistributivo dello Stato, può salvarci da una pesante recessione che si combinerà, purtroppo, anche con un incremento dell’inflazione, generando una drammatica condizione per i ceti più deboli.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 aprile 2025
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Libri e film dei grandi americani del sudovest lo avevano da tempo certificato a suon di fotogrammi e frasi epiche. Ma all’incontrario! Non è un paese per vecchi dicevano, infatti, i terribili fratelli Coen e prima di loro Cormac McCarthy nello scenario apocalittico del New Mexico. L’Italia affronta invece, nel suo piccolo, una crisi demografica profonda, tra l’altro con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra infatti una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, Open Calabria conferma – in un recente e pregevole studio su dati ISTAT – tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Per arrivare alla conclusione che il Sud è un paese per vecchi.

Che cosa ritroviamo nello studio di Open Calabria? Dal 2019 al 2024 la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a poco più di 58 milioni di abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale. Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia.

Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e nella nostra amata Calabria (-3,8%).

La riduzione della popolazione, dice Open, non sarebbe necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età. Emerge che il calo demografico in Italia non è infatti uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre.

In particolare si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%.

Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Insomma il quadro è quello di un paese per vecchi.

Lo spopolamento del Sud risulta poi strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro.

La frattura demografica tra Nord e Sud è, dunque, conclude lo studio Open causa ed effetto di una questione strutturale che inciderà profondamente sulla sostenibilità di tutta l’Italia ma sarà ancora una volta il Sud, e le regioni più marginali come la Calabria, a risentire di queste dinamiche: anzi ne risentono già oggi se si pensa al lento e progressivo allontanamento non solo più dei giovani ma delle stesse famiglie al seguito dei figli spostatisi nel Nord del paese, per studio o lavoro.

Nelle città soprattutto è ormai un fenomeno visibile ad occhio nudo: a passeggio sui corsi centrali dei capoluoghi ci solo anziani e pensionati. Il resto sembra sparito. In realtà non c’è proprio più. Se n’è andato.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 marzo 2025

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

La sinistra della scirubbetta.-di Filippo Veltri

Premessa: in una settimana di scirubetta si è parlato dal Pollino allo Stretto in modo diverso. Addirittura si è rispolverato un vecchio dizionario del dialetto calabrese dove scirubetta diventa scirubettu, con la u finale, bevanda che sarebbe in auge nella locride con rivendicazioni di primogenitura! A Roccella in particolare pare sia molto in voga.

Poi si scopre però che è, in realtà, una specie di gelato e non il fenomenale bicchiere di neve fresca della Sila con tanto di miele di fichi, in uso appunto dalle parti silane e presilane o sanfilesche. Anche se – nuova ultima puntata– i nivari, cioè quelli che usavano conservare in inverno la neve sotto terra per poi riproporla in estate, c’erano anche in altre parti della Calabria e dunque nessuno si può appropriare di questa benedetta scirubetta. Appunto però: c’erano i nivari, c’erano una volta…

C’erano! Ora che non ci sono più questi custodi della neve – tornano così alla carica i tradizionalisti – la scirubetta rivà alle sue radici vere, con la A finale, anche se – ma questo è un altro discorso – di neve di questi tempi non se ne vede moltissimo tranne che in alta montagna.

A rilanciare questo mood nevoso ci ha, comunque, pensato il mitico Brunori (dio l’abbia in gloria) che in una settimana pre e post Sanremo ha rilanciato non solo la scirubetta ma tutto l’armentario calabro recitato in salsa moderna. Se ne sta parlando ancora e molti vi hanno visto un segno addirittura politico, un segnale, una strada da seguire. Stiamo un po’ calmi.

La frase cult è quella: ‘’Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele”, il verso più celebre de L’albero delle noci, non a caso (autocitazione) messo in testa al nostro editoriale di sabato scorso, premonitore di quel terzo posto sanremese arrivato nella nottata tra sabato e domenica.

Ma ora – per buttarla in politica – ci vuole davvero un bel salto di qualità, che la sinistra nostrana non ci pare pronta ad affrontare. Quella neve che si mescola al miele (di fichi) e quindi la scirubetta di cui prima dovrebbe, potrebbe, essere il senso metaforico di una direzione di marcia per chi vuol cambiare le cose?

Con tutto quello che ne consegue e cioè mettendo a bando la particolare predisposizione calabra per la retorica che ha immediatamente trasformato la scirubetta nel prodigio gastronomico più antico della storia, ovviamente nato in Calabria come ogni prodigio che l’umanità ha scoperto soltanto qualche secolo dopo (ci sono decine di esempi di questa grandiosità calabra declamata in tutto il globo)? Da qui nascerebbe in verità un vero prodigio, possibile e immaginabile: un suggerimento per la sinistra affinché riparta dalle aree dimenticate del Paese.

La sinistra riparta dunque dalla scirubetta: un inedito assoluto che nemmeno Brunori poteva mai pensare. Ma un senso la cosa in fin dei conti forse ce l’ha per davvero, se Irto e compagni si mettono (si mettessero) di buzzo buono. Lasciare magari perdere, cioè, le grandi questioni che tanto nessuno è in grado di risolvere e mettersi pancia a terra a ragionare, a pensare, ad operare sul territorio, sui territori per davvero.

Nei piccoli centri, in quelli ormai quasi spopolati di collina e di montagna o nelle marine dove si vive solo un paio di mesi d’estate o nelle periferie delle nostre città (tutte) dove il degrado somiglia tanto a quelle delle grandi metropoli. Basterebbe la scirubetta? Certo che no ma un segnale di autenticità non guasta, diciamo non guasterebbe. Come ha fatto sempre quel Brunori l’altro giorno andando a cantare davanti agli studenti dell’Universita’ della Calabria. Se poi ci metti – altro cult brunoriano – la vurzetta con gli amuleti di San Fili il quadro è completo!

A parte gli scherzi (che non sono poi tali) la politica tutta – di destra e di sinistra – dovrebbe prendere esempio da un dato che ci viene da questi giorni recenti alle nostre spalle: si può essere cioè calabresi senza nascondersi e senza pianti greci, senza retorica ma anche senza enfasi. Non selvaggi abitatori di montagne impervie discendenti dei briganti o poveri abitanti di una terra sempre sfruttata e conculcata! Parlando invece un linguaggio chiaro e semplice, che è quello che la gente normale chiede. Che poi sia scirubetta o scirubettu è in fin dei conti è un’inezia. Alla fine per una vocale ci si mette d’accordo!

da “il Quotidiano del Sud” del 22 febberio 2025