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Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Le città sono la rappresentazione materiale dei più importanti conflitti politici, sociali, culturali ed economici del nostro tempo e l’unificazione dell’area urbana di Cosenza è, in Calabria, quella più importante e gravida di significati e interessi politici, economici e sociali.

Da qualche decennio accade che sull’idea di città in troppi si esprimano in libertà tanto da far diventare luogo comune l’idea che la grandezza, la ‘Bigness’ delle città, e delle loro più o meno sterminate periferie-‘sprawl’, garantirebbe alla nostra società, in un mondo di città sempre più grandi e globalizzate, prosperità e benessere. Secondo questa ricetta neoliberista l’agglomerazione urbana farebbe della dimensione in quanto tale (attraverso le economie di scala e gli effetti di rete) un fattore che innescherebbe di per sé il successo delle grandi città.

La grandezza delle città avrebbe il vantaggio di trasformare la dimensione stessa in un motore di creatività attraverso la competitività di produttività, di successo e, dunque, di felicità. La ‘Bigness’ e l’urbanizzazione delle campagne circostanti alle città, invece, non è altro che uno dei tanti modi che il neoliberismo ha trovato per estrarre più ricchezza dalle città sempre più grandi trasformando lo spazio in merce e aumentando, per mano della speculazione edilizia, la diseguaglianza sociale ed economica (Settis 2017).

Per mettere le mani sulla città gli speculatori e la politica si affidano agli urbanisti e all’urbanistica che era nata, come disciplina autonoma, durante la rivoluzione industriale con la vocazione di correggere lo sviluppo industriale e i danni causati dal capitalismo. A partire dagli anni ’80 essa ha perduto, però, la sua originaria vocazione riformatrice per diventare, con le sue competenze giuridiche e tecniche, un potente strumento nelle mani dei governanti, amministratori pubblici, immobiliaristi e, persino, finanzieri, per manipolare e condizionare lo sviluppo delle città e il governo del territorio nella direzione della speculazione, dello sviluppo edilizio infinito e incontrollato (Scandurra 2024).

Un sviluppo incontrollato che, per esempio, a Cosenza si manifesta con le demolizioni/ricostruzioni nella porzione nobile della città otto-novecentesca in Via Rivocati, Corso Umberto, via Parisio, (come denunciato dal Coordinamento ‘Diritto alla città’), ma ora anche l’ecomostro di lusso alto più di 15 piani con ben 19.000 mq. di estensione che vorrebbero costruire lungo via Popilia, mentre a Catanzaro è, persino, più evidente perché si vogliono demolire, addirittura, l’ex Convento della Maddalena (XVI sec.) nonché il Convento della Stella (XVI-XVII sec.) e l’ex Convento di S. Agostino (XVI sec.) per ricostruirli, tutti, sotto forma di residenze per militari e per altre destinazioni d’uso (come denunciato da un appello di Italia Nostra).

La questione dello sviluppo infinito non riguarda solo gli specialisti di sviluppo urbano, di geografia economica, di architettura e urbanistica, ma deve riguardare la politica, soprattutto quella di sinistra, perché riguarda l’interesse generale dei cittadini. In un recente studio multidisciplinare pubblicato sul prestigioso “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, alcuni studiosi europei sostengono che “il successo di una città non dovrebbe misurarsi dalla sua grandezza né dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione, ma piuttosto dalla sua capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (Engelen, Johal, Salento, Williams 2017).

E se la principale caratteristica di una città bella e buona consiste, come credo fermamente, nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi”, bisogna avere, come già proposto da molti urbanisti e studiosi della città negli anni ’70, città più a misura d’uomo, rifacendosi, per esempio, al modello delle piccole e medie città storiche italiane (La Cecla 2015).

Non capisco, dunque, perché la sinistra politica– o quel che ne rimane a Cosenza, Rende e Castrolibero- non si opponga fermamente alla città unica che si presenta come un’annessione di Rende e Castrolibero alla città capoluogo, configurandosi come un’altra, inutile e ingovernabile, “nebulosa urbana” pensata per ridurre ancor di più lo spazio a merce.

Un’annessione, come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto, che costringerebbe, peraltro, i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini: 1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione 2) il referendum ‘decisivo’ non può avvenire prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala -per altri sei mesi, in tutto due lunghissimi anni- renderebbe l’espressione del voto dei suoi cittadini democraticamente più debole.

Per quel che riguarda il potere esercitato dai tre commissari insediatisi nella Casa comunale di Rende si deve lamentare un abbassamento della tensione democratica perché essi non hanno voluto, in nessun modo, tener conto delle molte, e differenti, istanze avanzate dai cittadini e dalle loro associazioni riguardo ad argomenti importanti quali: la radicale decimazione del verde pubblico, la complessiva riduzione dell’illuminazione delle strade, l’insostenibilità delle piste ciclabili sempre deserte, l’affidamento di beni pubblici come parchi, impianti sportivi o mercatali a privati a titolo gratuito o a prezzi risibili, il disturbo della quiete pubblica provocato da circhi con animali esotici e assordanti luna park nel pieno centro della città, nonché la musica ad altissimo volume proveniente da locali e da sedicenti feste durante 3 settimane in un parco pubblico, addirittura patrocinate dai commissari medesimi, la mancata disinfestazione cittadina mentre si diffonde, in provincia di Cosenza, il contagio del virus West Nile, trasmesso dalle zanzare.

Non sarebbe meglio, forse, continuare ad avere, nell’area urbana cosentina, tre città, due medio-piccole ed una piccola, per poter governare meglio ambiti territoriali a misura d’uomo e a misura delle limitate capacità di governo dimostrate (se si escludono poche lodevoli eccezioni) dalle Amministrazioni comunali? Non sarebbe, forse, meglio avere tre piccole città che facciano insieme scelte e infrastrutture urbanistiche ed abbiano, questo sì, i servizi essenziali unificati: trasporti, spazzatura, mense e viabilità?

Un’opposizione di merito, la mia, dunque e non, come giustamente lamenta il mio amico Enzo Paolini riguardo a quasi tutte quelle fin qui avanzate, di bassa cucina da ‘politique politicienne’.

Il modello al quale bisognerebbe ispirarsi è proprio quello della piccola e media città storica italiana, quella nella quale si va a piedi, si può andare in bicicletta in un reticolo urbano denso e pluristratificato dal punto di vista funzionale, sociale ed economico, con una corposa densità abitativa ed una armoniosa compattezza architettonica che permette tragitti brevi ed elevata funzionalità sociale.

Un modello che non è solo architettonico e urbanistico, ma che rappresenta anche l’unica possibilità di restituire a tutti il ‘diritto alla città’ perché per i cittadini la priorità non è che la loro città diventi più competitiva e più di successo di altre, ma che sia un luogo nel quale la vita quotidiana sia più gradevole e più equa per coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 ottobre 2024

Foto di ZENON JUSZKIEWICZ da Pixabay

Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua

Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua

A me è accaduto , alcuni anni fa di chiedere in più occasioni, in vari bar della città di
Catanzaro, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere con una
domanda:”Fanta?”. Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta.
Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto
industriale di una multinazionale.

E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo
di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza
“coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura. Noi non riusciamo a produrre
ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi
agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai
prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura
industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico,
culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni
provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il
nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in
loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per
la salute.

Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel
colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.
In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle
aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre
che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione. Per
ottenere tale risultato gli imprenditori, spruzzano sulle piante dei preparati con
ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.
Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti
collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per
la nostra salute?

Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro
Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale. Nel 2006 un
rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia
scriveva: “A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali,la nostra
antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo
sempre più esposti alle malattie degenerative”.

Un polo agricolo e scientifico.

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda tutte le nostre
campagne?Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la
biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che
anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di
appassionare i nostri giovani più intraprendenti. Occorre guardare al territorio non
più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case
e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati
altrove) ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

A Catanzaro, nella località di Giovino, potrebbe nascere un Parco delle Varietà
Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e
centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono
presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo
amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano
aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo
hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia
di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori
per la loro fioritura spettacolare. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini
di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia. Qui, un solitario
amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di
fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà
vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura
fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro,
dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel
resto del Sud. Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una
nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la
riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche
le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante. La nuova agricoltura
non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di
avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote
o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni
d’Europa, numerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i
volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee,
fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al
reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne. Ma
in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa
trasformazione dei prodotti ( vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc),
ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per
i portatori di handicap, ecc.

L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini,
protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione,
conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente
sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso
lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio. E questa è una battaglia in
corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per
far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico
straordinario. Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa
una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia,
soprattutto, l’alimentazione. Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non
industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non
chimici.

Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta
l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori
alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli
essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa,
sesamo, malva, melagrane, ecc. Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro
clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande
interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato
esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di
possibilità di occupazione e di reddito.

Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione
artigianale dei prodotti. Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni
cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.
Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un
tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto
mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione,
in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono
anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità
culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il
giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice di agrumi nel mondo, non
ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la
Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito
complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo
della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero
progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e
delle piante della regione mediterranea. Un centro di ricerca, che potrebbe
connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di
studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche
il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di
attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che
intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifica con i Paesi che si
affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.

Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto

Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto

I. I giardini in città.

Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.

Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.

Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.

Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.

I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.

Demolizione palazzi fra Corso Telesio e Via Gaeta

In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.

Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.

Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.

Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.

L’ex Jolly in demolizione

L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.

Area libera per un impiantare un giardino

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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”.
(Stefano Mancuso)

II. Gli orti in città.

Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.

Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.

Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.

La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).

Uno dei tanti “jardins ouvriers” a Parigi.

Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.

La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.

Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.

Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.

Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.

Aree demaniali o comunali libere per la piantimazione di orti urbani.

Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.

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III. Il verde nel Centro storico.

La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.

Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.

Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.

Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

Schema interventi nel Centro storico di Bologna nel 1972

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.

Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.

Aree da “rinverdire” e/o da piantumare ex novo.

Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.

Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.

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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.

Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.

Giovino (CZ) al centro delle attenzioni speculative.- di Maria Adele Teti

Giovino (CZ) al centro delle attenzioni speculative.- di Maria Adele Teti

La lettera di Piero Bevilacqua ai cittadini, pubblicata giorni fa, è un compendio di conoscenza e di amore per la propria città rimasto tale anche dopo 50 anni di lontananza; è un messaggio che indica un percorso da seguire non solo per Giovino, a Catanzaro, ma in tute le città medio-piccole sopratutto meridionali.

Il tutto si può declinare con una parola: rinaturalizzazione delle città e del territorio. Su questi temi tenteremo di coinvolgere i cittadini di Catanzaro che, nel passato, hanno dimostrato di non amare abbastanza la città, se hanno permesso la sua totale dequalificazione, con il risultato di avere un territorio privo di servizi e senza nessun disegno urbano. E’ il prodotto di una “geografia della speculazione” che distrugge senza produrre ricchezza.

Catanzaro è l’unica città italiana capoluogo di regione che diminuisce di popolazione, che ha perso competitività rispetto al suo territorio, che rischia di vedere il suo centro storico spopolato.

In questo quadro il nuovo PSC (Piano Strutturale Comunale in corso di approvazione) ricalca vecchi schemi di espansione ormai anacronistici, a fronte dell’esorbitante presenza di vani invenduti che hanno comportato il crollo del mercato immobiliare. D’altra parte, il PSC ricalca pedissequamente gli indirizzi elaborati dall’Amministrazione comunale (del 13/05/12015), senza alcun tentativo di attuare ciò che i tecnici incaricati a costo zero, avevano promesso: consumo di suolo zero e rinascita del centro storico.

Se visto con quest’ottica il nuovo piano urbanistico fallisce totalmente; è un Piano che attua ancora una volta le aspettative di coloro che voglio appropriarsi delle ultime aree libere, a Giovino e a Germaneto, principalmente, senza tentare minimamente di mettere mano all’urbanizzazione caotica del territorio, alla sua riqualificazione, alla valorizzazione dei suoi caratteri urbani e del paesaggio.

Lo schema del nuovo PSC non recepisce i caratteri del territorio che si è strutturato attraverso nuclei sparsi, realizzando una città policentrica, dotata di servizi in alcuni casi inesistenti, specialmente nelle aree di più recente urbanizzazione. Questo tema, centrale per chi si accinge a fare un nuovo strumento urbanistico a Catanzaro, viene affrontato attraverso nuove urbanizzazioni, sopratutto nelle aree citate: Germaneto, a vocazione terziaria (Università e policlinico universitario) e Giovino, a vocazione turistica.

In quest’ultima area, ancora libera del litorale jonico cittadino cresciuto caoticamente, è necessario, proprio per la bassa qualità dell’edilizia esistente, attuare un turismo di “terza generazione”, ossia un turismo “verde”, fatto essenzialmente di percorsi nel verde attrezzato ed agricolo specializzato, riservando aree per l’edificazione nella parte alta, verso la 106, dove l’edificato ha già carattere urbano.

Attrezzature alberghiere, da localizzare prevalentemente nella fascia alta tra la 106 e la FF.SS., mentre le attrezzature sportive, del tempo libero e agricole devono poter convivere in un disegno che valorizzi quest’area di eccezionale bellezza, salvaguardando sopratutto il verde agricolo, così come specificato da Piero Bevilacqua: coniugando così produzione, utilità e bellezza nell’interesse pubblico.

Ma niente di tutto questo si realizza col nuovo PSC che divide l’area, che si stende per oltre 186 ettari, in tre porzioni: suddivisione che non solo non salvaguarda l’area pregiata limitrofa alla pineta ed al mare, ma palesemente risponde alle aspettative proprietarie e speculative.

Eppure anni fa ,una sentenza del Tar, che si era pronunciato su un’istanza dei proprietari contro il comune, aveva sancito il precipuo interesse pubblico dell’area; ma niente di tutto questo si ritrova in alcune delibere del Consiglio Comunale, nel PAU (Piano Attuativo Unitario del 17/03/2006), nel Piano Comprensoriale di Giovino (02/05/2008) e nel disegno del nuovo PSC, ancora in fase di approvazione a cui, necessariamente, dobbiamo opporci con forza da cui dipende la sopravvivenza della città.

Un progetto spartitorio che viene da lontano, se, su proposta del dirigente urbanistico del comune, arch. Lonetti, alla Giunta comunale si elabora una “variante, all’ area comprensoriale Giovino” e al Piano Attuativo Unitario (PAU, 17.03.2006 n. 449), in cui si propone la suddivisione dell’area (186 ettari) in tre porzioni equivalenti: una commerciale (in prosecuzione del centro commerciale le Fontane. una città nella città), una turistica alberghiera e l’altra non ben specificata, rimasta sospesa.

Ma dov’è l’interesse pubblico? I catanzaresi dovranno vedere ancora centri commerciali, dovranno vedere costruire alberghi (quanti, troppi, rispetto all’estensione delle aree) realizzati con tipologie idonee al cambio di destinazione d’uso, nel breve periodo, mentre niente si dice del verde, attrezzato, agricolo e di diporto.

Una frammentazione fatta ad hoc al fine di soddisfare gli interessi prevalenti della proprietà, concentrata in gran parte in un’unica ditta, che da anni presenta progetti di costruzione intensive (di 2000 vani, durante la giunta Olivo, e ultimamente di due grattacieli).

Certo sono molteplici gli interessi che ruotano intorno alla cementificazione di questo ultimo lembo di costa libera. E’ evidente, che questa meccanica suddivisione in tre parti quasi equivalenti, è tesa a soddisfare i tanti contendenti che si affiancano alle proprietà private.

Niente vale lo stanco richiamo al Concorso Internazionale, già depotenziato dalla suddivisione territoriale citata, utile dieci fa anni fa, circa, prima delle molte compromissioni, quando dalle pagine della Gazzetta del Sud, ricordavo ai catanzaresi l’abisso che esisteva tra il progetto di costruire una nuova città di villette di 2000 vani bordo mare e quelli portati avanti da molte città che nelle aree libere della costa o limitrofe alla aree portuali, progettavano Waterfront attrezzati, riqualificando aree abbandonate o compromesse.

Da allora ad oggi cosa è cambiato? Niente, se non il fatto che questa tripartizione, oggi potrebbe essere attuata senza problemi, poichè il nuovo PSC non solo recepisce tutto l’antefatto, ma peggiora notevolmente con una suddivisione che frantuma e dequalifica l’area che ha una sua omogeneità.

In opposizione a questo progetto si chiede che tutta la fascia dalla ferrovia al mare sia destinata a verde attrezzato ed agricolo. All’interno solo circoscritte e ben definite costruzioni realizzabili solo previa ricerca delle necessità esistenti nel campo della ricezione turistica, attrezzature sportive e del tempo libero.

Non mi dilungo in questa sede sul progetto di Germaneto, individuato, negli Indirizzi Programmatici del 2015, come area problema, separata dal contesto urbano e pertanto da riconnettere alla città, non solo attraverso la metropolitana che stenta a essere completata, ma da nuove urbanizzazioni, non solo di tipo terziario (Catanzaro tre).S

pesso nei dibattiti pubblici e anche nelle linee guida dell’amministrazione comunale, viene posto il tema della connessione tra i vari nuclei sparsi: una connessione che si immagina realizzata attraverso un fiume di cemento: un progetto da attuare sopratutto a Germaneto, dove si vorrebbe realizzare una nuova Catanzaro.

Tuttavia la recente storia di Catanzaro ha dimostrato che l’unica attrezzatura valida realizzata nell’ultimo ventennio è il Parco della Biodiversità, la cui area è stata sottratta alla speculazione per donarla ai cittadini, realizzando un museo d’arte moderna nel verde. E’ un esempio che va ripetuto. La città mortificata da un’urbanizzazione invasiva e di bassissima qualità edilizia deve recuperare il rapporto con il territorio, valorizzare la sua multipolarità, al fine di creare una città immersa nel verde e spiccatamente sostenibile.

Questo progetto, valido per Catanzaro, è un obiettivo da proporre in tutte le sedi per le città medio-grandi sopratutto meridionali che, in rapporto alle grandi città del nord, ipertrofiche, possono sviluppare un nuovo rapporto col paesaggio e con la natura al fine di realizzare un tipo di sviluppo meno invasivo e più equilibrato.

Le città medio-piccole come Catanzaro non hanno che questa strada per avvalorare la loro esistenza e dare significato allo sviluppo: un tema trattato da una recente pubblicazione dell’associazione ANCSA che in un volume, dal titolo “Città Fragili” ha raccolto saggi relativi a 12 tipologie di città, dalle città metropolitane e a quelle medio piccole, al tempo del Covid e le prospettive post Covid (ANCSA, Associazione Nazionale Centri Storici Artistici, associazione che ha redatto nel 1975 la Carta di Gubbio alla base del Recupero di Centri storici).

La sottoscritta, nella scheda di Catanzaro sosteneva: Nel recente passato ” il centro storico è stato svuotato di funzioni mentre la città è letteralmente esplosa nel territorio… Eppure questa città, un pò “sbrindellata”, possiede aree verdi agricole intercluse: uliveti, aree semi abbandonate, colline deserte, si insinuano e caratterizzano il paesaggio urbano.

Città e campagna si completano in un assetto che, se controllato, potrebbe dare i suoi esiti in termini di produttività, vivibilità e sostenibilità”. (Città Fragili, ANCSA documenti,collana scientifica, 2020) La città meridionale e Catanzaro, che nel secondo dopoguerra ha trovato nella distruzione del territorio la sua fonte di sussistenza, deve riscattarsi, partendo dal suo grande patrimonio paesaggistico e ambientale, volgendo lo sguardo verso azioni previste, anche in sede europea, nel programma Green New Deal

A Catanzaro, per attuare questo programma ed opporsi ai progetti citati, è in corso di formazione un Comitato scientifico, composto da esperti locali e nazionali, e un Coordinamento interpartitico che, partendo dalle prospettive aperte da Piero Bevilacqua, si ponga l’obiettivo di far conoscere i progetti comunali anche al di fuori dell’ambito strettamente urbano, al fine di opporsi con forza alla nuova e definitiva distruzione del territorio e degli ultimi brandelli di aree libere.

foto da:https://www.facebook.com/dunegiovino/photos/a.1509046309180341/1832393286845640/?type=3&theater

Tutti ecologisti della domenica, se non cambia il modello industriale- di Piero Bevilacqua. Ambiente. occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell'uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco

Tutti ecologisti della domenica, se non cambia il modello industriale- di Piero Bevilacqua. Ambiente. occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell'uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco

Davvero allarga il cuore sentire dirigenti politici e giornalisti, usare con generosità l’espressione riconversione ecologica, per alludere al nuovo corso dello sviluppo economico italiano ed europeo. Si capisce che non sanno di cosa parlano, ma il fatto che ormai ne parlino anche loro è un segno della popolarità che, almeno l’espressione verbale, ha finalmente guadagnato presso i produttori di senso comune.

Ricordo che il sintagma riconversione ecologica è stato coniato in Italia da Alexander Langer e che Guido Viale vi dedica da anni studi e ricerche, purtroppo con scarsi esiti, sia culturali che strutturali. Ma che oggi anche l’Ue tenti di progettare i suoi ingenti investimenti entro la filosofia di un Green Deal, di un modello verde di sviluppo, è sicuramente una grande novità e un’opportunità da cogliere.

Esattamente al tal fine occorre incominciare a chiarire il significato delle parole, ricordando che la riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti, e altre correzioni del modello industriale novecentesco.

Quell’espressione rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo che ha dominato per quasi un secolo, quello, per intenderci, nato negli Usa negli anni ’30 e fondato sulla cosiddetta planned obsolescence, l’obsolescenza programmata dei beni: le merci devono durare poco per alimentare il processo produttivo, senza nessuna considerazione del fatto che le merci consumano natura e che la natura non è infinita. Dunque è necessaria una vera rivoluzione industriale, possibile solo con un profondo rivolgimento culturale.

Mi confermo in tale necessità, soprattutto in Italia, dopo aver appreso gli ultimi dati del rapporto Ispra sull’espansione del cemento nel 2019. Ne ha dato ampio conto Luca Martinelli sul manifesto (23/7), ricordando che l’anno scorso, seguendo un ritmo senza tregua, sono stati cementificati 57 milioni di m2, due metri quadrati al secondo. Perché tanto cemento, edifici, strade, ponti, in aumento di anno in anno, mentre diminuisce la popolazione?

Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un bene essenziale dell’equilibrio ambientale, ma una risorsa facile per i propri affari. Bisogna che il ceto politico e l’intero governo comprendano questo nodo drammatico dello sviluppo italiano. I capitali investiti in cemento sfuggono di fatto al mercato, alla competizione, all’innovazione tecnologica e di prodotto e si rifugiano nel settore più tradizionale e primitivo dell’economia.

Tutte le facilitazioni offerte a questo tipo di attività predatoria l’Italia la paga innanzi tutto con un arretramento progettuale e strategico della sua industria. Il nostro Mezzogiorno ha pagato duramente, in termini di arretratezza del suo apparato produttivo, il fatto che i suoi imprenditori hanno avuto agio di fare affari col territorio anziché misurarsi con nuovi settori merceologici, affrontare mercati e sfide tecnologiche. Naturalmente il suolo, soprattutto in Italia, costituisce il cuore di ciò che chiamiamo natura, ambiente, risorse.

Mostrare preoccupazione per il riscaldamento climatico e continuare a coprire il suolo verde non è più accettabile, perché il cemento innalza la temperatura, così come non è accettabile recriminare per l’allagamento delle città, perché è la copertura totalitaria del verde che trasforma in letti di fiume le strade cittadine appena piove.

Costruire in Italia significa non soltanto sottrarre terra all’agricoltura, ma contribuire al riscaldamento globale, operare per rendere catastrofici gli eventi meteorici. Mentre milioni di edifici vanno in rovina per abbandono, costruire ancora è opera criminale, indirizzata contro l’interesse generale.

Purtroppo non sono solo gli imprenditori che consumano suolo. Anche i comuni fanno la loro parte. Voglio qui segnalare un caso prima che sia troppo tardi e che riguarda la Calabria. A Catanzaro, nella località Giovino, sorge una pineta in riva al mare, connessa a un sistema di dune popolate da una flora selvatica con specie insolite e anche rare. Si tratta di un gioiello naturalistico di quasi 12 ettari presidiato amorevolmente da gruppi ambientalisti locali.

Naturalmente il comune non si azzarda a mettere le mani su un tale patrimonio, ma poiché questo innalza i valori fondiari dell’area adiacente, un piano di lottizzazione per costruzioni varie è sicuramente un buon affare. In questo modo si salvaguarda l’ambiente e si da una mano allo sviluppo. Ricordo che dal 2001 la Calabria ha perso quasi 100 mila abitanti, Catanzaro è passata da 95.512 a 88.313 nel 2020. Mentre il centro storico si spopola e nessuno ristruttura vecchi edifici, anche di pregio, si va in cerca di territori vergini più appetibili. Considero questo caso esemplare di quel che può accadere in Italia, dove circola tanta fame di affari e c’è la possibilità di gabellarli per ecologicamente compatibili.

da il Manifesto, 31.07.2020
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