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Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Ci sono due Calabrie: una di chi sta bene (benino diciamo) e una di chi sta male (malissimo diciamo). E convivono sotto lo stesso tetto in una situazione globale che non è certo finita a somma zero.

E dove sta – direte voi – la novità? Lo sappiamo da tempo! Ma la novità stavolta c’è, se uno si prende la briga di leggere tutto e fino in fondo un saggio bello lungo e corposo, denso di dati, cifre, proiezioni, riferimenti, pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia, in questo mese di dicembre 2024 di Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò.

Si intitola ‘’Le due società. Del benessere passivo e delle povertà dei calabresi’’ e non parla solo di economia con freddi dati, micro e macro, ma parla anche, alla fine, di politica. Cioè in una sola parola di quello che la politica, le classi dirigenti nel suo complesso dovrebbero fare e invece non fanno. Ed è questo il punto di fondo.

Riassumere nel contesto di una pagina di giornale il pensiero di Cersosimo e Nisticò non è semplice ma provandoci per i nostri lettori abbiamo ammirato la lucidità, la compostezza, il rigore scientifico di questi due studiosi calabresi, molto noti peraltro da tempo e autori di diversi saggi proprio sulla struttura economica e sociale della nostra regione.

La Calabria – iniziano – è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società. La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%)

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Cersosimo e Nisticò rilevano come più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese.

L’incremento dei calabresi a “rischio di povertà passa dal 34,5 al 40,6% e quelli con “grave deprivazione materiale e sociale” nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, il saggio dei due economisti nota come i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. ‘’Da un lato – scrivono – ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore’’.

I primi calabresi, quelli che definiamo ricchi per comodità, si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

La “seconda” Calabria, quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati non disturba l’estetica della “prima” Calabria, è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

Qui c’è lo scatto che dovrebbe interessare di più la politica perché Cersosimo e Nisticò scrivono testualmente così: ‘’a questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante. I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider’’.

La chiusura parla invece a tutti noi: ‘’le rare imprese di “successo”, le micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”’’.

È il problema dei problemi alla fine quello che riemerge e che anche noi giorno dopo giorno ci sforziamo di fare nella denuncia puntuale delle mille cose che non vanno e nel cercare di dare voce a chi non ne ha affatto e, nello stesso tempo, di dare voce a quelle che i due economisti chiamano le ‘’rare imprese di successo’’, che forse meriterebbero maggiore attenzione.

In mezzo c’è una rete che dovrebbe tenerle assieme e farle crescere queste positive esperienze ma chi se non una classe dirigente, politica e non, ha questo compito? Chi deve agire se non una politica sana che si dedica all’interesse collettivo? Questo è il vero problema delle due Calabrie, che forse sono pure 3 o 4, o anche una sola che vive tutta assieme sotto un’unica capanna, mischiandosi e confondendosi tutti i giorni in una melassa sempre più insopportabile.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024.

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Molte importanti vicende relative all’autonomia differenziata sono state e continuano a essere caratterizzate dal segreto: per i suoi promotori è opportuno che i cittadini non siano informati (se non a cose fatte), di quel che si viene decidendo. È quel che è successo con la lista delle 500 funzioni trasferibili alle Regioni, prodotta da Calderoli e mai resa pubblica. È quel che continua a succedere riguardo ai Lep (livelli essenziali delle prestazioni): si tratta dei diritti che devono essere garantiti, con apposite risorse, a tutti gli italiani, ovunque vivano. Quante risorse? Dove? Tema caldo, come si vede anche dalle recenti prese di posizione di Forza Italia. La questione è complicatissima, ma il suo senso profondo dovrebbe essere chiaro.

Il Clep è un importante Comitato guidato da Sabino Cassese, che dopo iniziali posizioni molto preoccupate è divenuto uno dei principali sostenitori del progetto leghista di differenziazione, fatto proprio dall’intero governo. Il Clep ha compiuto una ricognizione legislativa dei Lep. Lo ha fatto, come ha tenuto a scrivere l’ex governatore Visco prima di lasciare la carica, “in termini troppo generici”. E non per quelli relativi alle materie già di competenza regionale, che dovrebbero essere il punto di partenza dei meccanismi finanziari validi per tutti; solo di quelli relativi alle materie che le regioni “secessioniste” pretendono che lo Stato ceda loro. Ora si tratta di associare a questi diritti numeri precisi: il fabbisogno finanziario.

Punto cruciale: più basso è, più resta lo status quo (a danno dei cittadini delle regioni più deboli) e si giustifica la pretesa del governo di non stanziare risorse aggiuntive. Per definire i principi su cui basarsi per i conti è stata nominata da Cassese una Commissione di dodici esperti. Praticamente tutti sostenitori dell’autonomia differenziata. Il presidente, un ex deputato veneto del Pd (Stradiotto) che lavora da tempo sul federalismo fiscale: anche nel periodo in cui fu deciso che laddove non c’erano asili nido, il fabbisogno era conseguentemente pari a zero.

E che le donne si sarebbero dovute arrangiare. Fra gli altri, la potente presidente (D’Orlando) della importantissima Commissione tecnica fabbisogni standard (Ctes, di cui si dirà fra un attimo), fino a poco fa consulente di Zaia; un docente (Giovanardi) che è tuttora contemporaneamente consulente di Zaia e componente della Ctes; un altro (Guzzetta) determinatissimo sostenitore della “secessione dei ricchi” e già consulente della Lombardia. L’elenco potrebbe continuare, includendo alcuni esponenti meridionali assai contigui al governo, fra cui l’onnipresente presidente dell’Anvur, Uricchio.

Cassese ha convocato per il 25 settembre una riunione del Clep per approvare il documento predisposto dai 12: che nonostante l’avversione di alcuni suoi componenti per la discussione pubblica è stato possibile visionare. Un documento snello ma politicamente esplosivo; in esso si sostiene che i fabbisogni standard vanno calcolati “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”.

Dunque, i fabbisogni (e quindi i diritti) vanno differenziati. Innanzitutto, in base allo storico cavallo di battaglia della Lega, e cioè il supposto diverso costo della vita: dato che al Sud la vita costa meno, gli stipendi possono essere più bassi, e quindi il servizio deve costare meno; bastano meno soldi. Magari bastano già quelli che ci sono, e il governo fa tombola. Poi vanno differenziati in base alle dinamiche demografiche. Possibile interpretazione: dato che al Sud nascono meno bambini, perché spendere per gli asili nido? Invertendo la logica socioeconomica e politica, dato che la bassa natalità è anche conseguenza della relativa carenza di servizi. Chissà come verranno interpretate le caratteristiche climatiche. E c’è poi un jolly: le “caratteristiche dei diversi territori”.

In base a questi principi, la Ctes presieduta dall’ex consulente di Zaia, di cui si diceva, farà i calcoli: con metodologie estremamente complesse, sensibili ai criteri di partenza (specie se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere). I suoi numeri, i fabbisogni finanziari, saranno impossibili da ricostruire e quindi da discutere. Il Parlamento e l’opinione pubblica dovranno passivamente accettarli, perché prodotti dagli “esperti”.

Un processo pericolosissimo, sul quale sarebbe opportuna una attenzione assai maggiore dei parlamentari di opposizione. È la politica, e non dodici “esperti”, che deve definire alla luce del sole i criteri di calcolo: e questo prima che i dati vengano prodotti. È indispensabile un aperto dibattito pubblico. Non ne va solo della “secessione dei ricchi”, ma delle stesse modalità di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2024

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Lettera agli ambientalisti miopi.-di Tonino Perna

Il movimento contro le pale eoliche che offendono il paesaggio, ha avuto ed ha un notevole consenso tra le associazioni ambientaliste del Mezzogiorno, in particolar modo in Calabria e Sardegna. Il motivo principale dell’opposizione alle grandi pale eoliche è il paesaggio. Un bene immateriale importante che deve essere preso in considerazione senza ignorare quello che dovrebbe essere il principale obiettivo degli ambientalisti: la salvaguardia del pianeta, e quindi della nostra vita, dagli effetti perversi dell’inquinamento della terra, dei mari, dei fiumi, laghi e il moltiplicarsi degli “eventi estremi”.

Non possiamo non chiederci: perché non c’è questo tipo di mobilitazione per l’aumento della C02 legata all’uso dei combustibili fossili che sta sconvolgendo l’ecosistema? Perché non ci si mobilita per la plastica che ha invaso il pianeta e che ormai ha riempito i nostri mari, gli oceani, entrando nella catena alimentare? La Commissione Ue aveva cercato di far passare un provvedimento per mettere lo stop alla produzione di plastica, ma il governo italiano si è opposto perché deve salvaguardare la nostra industria degli imballaggi e confezioni in plastica di cui ci vantiamo di essere i primi in Europa.

E ancora, perché non ci si mobilia contro i tanti enti locali, scuole, che hanno installato i pannelli solari e non li hanno mai collegati? La Calabria è piena di pannelli solari abbandonati da enti pubblici per il menefreghismo che li contraddistingue.
Vogliamo renderci conto che stiamo andando velocemente verso la catastrofe ambientale?! I radicali cambiamenti climatici che nella storia della Terra richiedevano secoli se non millenni adesso avvengono in poche decine di anni.

Ne abbiamo mille prove ma facciamo finta di niente perché la nostra unica e vera preoccupazione è la crescita economica misurata da un indicatore, il Pil, che da tempo tanti contestano ma senza incidere su questo mito del nostro tempo che trasforma in ricchezza monetaria la distruzione ambientale (basti pensare solo al fatto che una parte del commercio delle droghe contribuisce ad accrescere il Pil, quanto gli incidenti stradali, ecc.).

Tra i mille segnali di un cambiamento climatico accelerato vorrei citarne uno che è poco conosciuto. Riguarda l’acqua del mare dello Stretto di Messina, da secoli la più gelida tra tutte le acque che bagnano la nostra penisola per via delle impetuose correnti che risalgono, a causa di una montagna che attraversa questo tratto di mare, da una profondità di 2000 metri (di fronte a Taormina) ad una profondità di 90 metri (tra Scilla e Cariddi). In breve l’acqua gelida degli abissi risale in superficie.

Bene, negli ultimi due anni gli abitanti dello Stretto hanno riscontrato con meraviglia che l’acqua di questo mare è aumentata incredibilmente di diversi gradi. Secondo il Diving Center di Scilla, che da trent’anni fa il monitoraggio della temperatura dell’acqua nell’area di sua competenza siamo di fronte ad un fenomeno inspiegabile, visto il vistoso cambiamento e il breve tempo in cui si è registrato.

Cosa vogliamo di più per capire che ci sono delle priorità e che non c’è più tempo da perdere. Certo, ogni regione dovrebbe avere un piano energetico particolareggiato che indichi priorità, luoghi, modalità di installazione impianti di energia rinnovabile. Questa dovrebbe essere una battaglia di civiltà che dovrebbe impegnare tutti, uscendo ognuno dal proprio giardinetto e guardando non il proprio dito, ma la luna che abbiamo di fronte.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 settembre 2024
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Sull’autonomia differenziata infuria la buriana politica soprattutto dopo la raccolta firme per il referendum (è andata al di là di ogni più rosea aspettativa per i promotori) e in vista della prevedibile battaglia elettorale. Ma è nel merito che ci si sofferma poco, al Nord come al Sud, nonostante studi e ricerche non manchino.

Proviamo a fare due conti, con l’aiuto dell’Osservatorio dei conti pubblici Italiani dell’Università Cattolica. In attesa che vengano definiti i famigerati LEP (livelli essenziali di prestazione) che andranno garantiti su tutto il territorio nazionale, tre economisti dell’Osservatorio (Rossana Caccamo, Alessio Capacci e Giampaolo Galli) hanno fatto un paio di conti e viene fuori che, dato che l’economia del centro nord vale il 78% del PIL nazionale contro il 22 del Sud, ogni punto del PIL trattenuto dalla Regioni piu’ ricche peserebbe tre volte e mezzo in più per quelle più povere.

Si tratterebbe di un guadagno relativamente piccolo per le prime ma di una perdita consistente per le seconde finendo di mettere a rischio la tenuta dei servizi. Prendiamo la Calabria nella simulazione effettuata: su una spesa primaria di 24,5 (tutti i valori sono in miliardi di euro) c’è una entrata di 16,4, con un residuo fiscale di più 8,2.

La Lombardia ha invece una spesa primaria di 140,5, entrate per 189,3 e dunque un residuo fiscale in negativo di 48,5. Dunque la legge Calderoli finirebbe con l’estremizzare le disparità che già oggi dividono l’Italia anziché ridurle e non responsabilizzando la politica locale. In più il sistema della verifica anno per anno dell’allineamento tra il fabbisogno di spesa delle Regioni e il loro gettito fiscale renderebbe ancor più farraginoso il problema.

Anche su questo insistono due noti economisti italiani – Francesco Drago e Lucrezia Reichlin – in aperto contrasto con Sabino Cassese. Prendono in esame la sanità e scrivono: ‘’…La storia dei LEA (livelli essenziali di assistenza, già introdotti nel nostro paese nel 1999) insegna che quando la capacità amministrativa e le infrastrutture sono di bassa qualità come nelle Regioni del Mezzogiorno il finanziamento per ridurre i divari di prestazione non è sufficiente.

La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud e la questione è importante perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Con l’autonomia differenziata gli incentivi alla formazione di classi dirigenti del Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono’’.

I principi su cui poggia la riforma, inoltre, spiegano Drago e Reichlin – sono difficilmente attuabili e se ne discute dal famigerato anno 2001. Come hanno evidenziato la Banca d’ Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio in piu’ di 20 anni poco o nulla e’ stato fatto. Determinare il finanziamento dei LEP è molto difficile ed occorre conoscere i costi standard di ogni bene e servizio che viene erogato in maniera efficiente, determinare il livello di prestazione minima e stabilire i fabbisogni. Missione quasi impossibile.

In sostanza i due economisti alzano l’allarme sul fatto che saranno allontanate le forze piu’ dinamiche della società e della politica locale e invece della responsabilizzazione delle classi dirigente del Sud si otterrà il contrario. ‘’Comunque si rigiri la frittata – secondo Drago e Reichlin – questa legge fa male sia al Nord che al Sud e rischia di gettare il Paese in un caos amministrativo di cui veramente non abbiamo bisogno’’.

Ora la parola passerà nuovamente ai partiti e alle istituzioni, forse alla Corte Costituzionale e probabilmente agli elettori. I dubbi espressi a livello scientifico sono quelli sopra espressi. Vedremo che accadrà nell’immediato futuro.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 settembre 2024

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

L’autonomia è un problema. Anche per il Nord.-di Stefano Fassina

Cari lavoratori, imprenditori, famiglie del Nord: l’autonomia differenziata, nell’interpretazione estrema barattata dalla Lega con FdI e FI, farà male anche a voi, non soltanto al Sud. Perché? Primo. La legge contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate acquisite attraverso l’autonomia differenziata derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio.

In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con il governo centrale, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le basi imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare (vedi analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio), gli incentivi piegano verso l’inefficienza e gli sprechi.

Secondo. Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata «espressione geografica». Quale peso politico può avere a Bruxelles, nelle relazioni internazionali bilaterali e multilaterali un presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali?

Ad esempio, con quale affidabilità avrebbe potuto negoziare un Pnrr dedicato quasi tutto a investimenti e riforme di esclusiva competenza regionale? Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente, ma noi saremmo, come per il premierato, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del presidente della Regione per le modifiche.

Terzo e quarto (sintetizzo e rinvio al mio lavoro per Castelvecchi L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord, prefazione di Pierluigi Bersani). In un quadro di federalismo competitivo, l’autonomia alimenterà il dumping regolativo e – spezzati i contratti collettivi nazionali dei privati a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico – retributivo; moltiplicherà le norme e gli adempimenti amministrativi e lascerà le nostre aziende senza il sostegno politico-diplomatico dello Stato.

Quinto. L’impatto sul costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite.

Non è così. Nelle bozze di Intesa sottoscritte da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna con la ministra Stefani e tenute in vita dalla legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati … , rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione». Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.

Arrivati qui, pronto il soccorso, anche del Nord, con i mitici Lep. In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, che la definizione dei Lep, nonostante offra amplissimi margini di discrezionalità agli autori, viene lasciata al completo arbitrio del governo. Per valutarne il livello di affidabilità cito un passaggio della posizione della Banca d’Italia: «Le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Sull’autonomia non dobbiamo alimentare la “guerra civile” sudisti contro nordisti, è anche questione settentrionale. Spieghiamolo bene da Roma in su

da “il Manifesto” del 29 giugno 2024

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Questi giochini tattici, i distinguo in punta di penna, le fandonie che si stanno leggendo a due settimane dal voto in Parlamento per cercare di giustificare lo scempio che si consumerà sull’autonomia differenziata hanno, in verità, stancato. Ora che Mattarella ha promulgato la legge sarebbe l’ora di pensare a che fare.

La maggioranza di governo (che intanto in Calabria è già andata sotto ai ballottaggi di domenica e lunedì a Vibo, dopo essere stata ridicolizzata al primo turno a Corigliano-Rossano, ed è già un segnale per chi vuol capire) è invece testarda ma i fatti lo sono ancora di più. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata emerge, infatti, in tutta evidenza la realtà di un’Italia già ammalata di regionalismo e che avrebbe bisogno, semmai, di maggiore coesione. Ci pensano però diversi istituti di ricerca a dimostrare dove porta la narrazione del Ddl Calderoli: l’Italia della salute si presenta, ad esempio, già fratturata in più punti con il federalismo che c’è e quello che verrà rischia di spaccarla definitivamente con la Calabria fanalino di coda.

Il rapporto del «Centro per la ricerca economica applicata in Sanità» dell’università di Tor Vergata, presentato a Roma, parla chiaro: la mappa che ne riassume il contenuto si mostra in verde al di sopra dell’Umbria, gialla dal Lazio in giù e tristemente rossa in Basilicata, Calabria e Sicilia. I colori rispecchiano le performance di salute, sintetizzate in un indice che tiene conto di equità, esiti, appropriatezza e innovazione del servizio sanitario.

«La valutazione 2024 delle Performance regionali in tema di opportunità di tutela socio-sanitaria offerta ai propri cittadini – si legge nel rapporto – oscilla da un massimo del 60% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) a un minimo del 26%: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria». Desolante la conclusione: «Il divario fra la prima e l’ultima Regione è decisamente rilevante: un terzo delle Regioni non arriva a un livello pari al 40% del massimo ottenibile».

Se «sembra essersi registrato una significativa riduzione delle distanze in termini di opportunità di tutela della salute fra Meridione e Settentrione», spiega il rapporto, è perché le Regioni con le performance migliori hanno smesso di migliorare «probabilmente a indicare l’esistenza di limiti strutturali nell’attuale assetto del sistema sanitario».

Un altro rapporto, quello dell’Istat, conferma in «Noi Italia 2024» pubblicato 5 giorni fa con un capitolo su «sanità e salute». Anche l’Istat mostra che l’Italia è fatta da più Paesi in uno. Gli abitanti di Calabria e Campania, ad esempio, dispongono di 2,2 e 2,5 posti letto in ospedale ogni mille abitanti e la Calabria è quella che ne ha tagliati di più tra il 2020 e il 2022 (-17%).

In Emilia-Romagna (3,6) e in Trentino (3,7) sono quasi il doppio e in entrambe le Regioni si è registrato un aumento di posti letto del 7% in un biennio. Il risultato in termini clinici è crudo quanto diretto: nel Nord-est il tasso di mortalità evitabile è di 16,9 decessi per diecimila abitanti e nel sud di 21,8, quasi 5 in più. Campania, Molise e Sicilia sono le regioni in cui si muore di più sia per patologie trattabili (cioè che potrebbero essere curate con un’assistenza migliore) che per quelle prevenibili con interventi su stili di vita e vaccinazioni. Persino la mortalità infantile del mezzogiorno (3,2 ogni mille nati vivi) è più alta rispetto alla media nazionale (2,6).

La mobilità sanitaria, cioè il numero di pazienti che si spostano da una regione all’altra per le cure, infine è in aumento. La regione più ricercata è l’Emilia-Romagna, dove l’immigrazione sanitaria è in costante aumento dal 2018 e il saldo tra chi arriva e chi parte supera anche quello della Lombardia.

Dopo la lettura dei dati assumono un significato sinistro le parole con cui il ministro della salute Schillaci commenta l’impatto della riforma sul diritto universale alla salute: «L’autonomia differenziata già esiste in sanità – ha provato a rassicurare il radiologo – Le Regioni hanno grande autonomia e in questo settore cambierà poco». In peggio ovviamente. Questi, dunque, sono i fatti, il resto chiacchiere.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 giugno 2024.

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

L’avevo previsto e l’ho scritto: Forza Italia non può accettare supinamente la legge che vara l’Autonomia Differenziata. La sua base elettorale, le Regioni che governa, sono tutte nel Sud. D’altra parte non può, e non vuole, uscire dal governo, far cadere questa solida maggioranza di destra, rischiando di restare in mezzo al guado, non più alleata con la Destra-destra, ma neanche accolta dal Centro Sinistra.

In mezzo alla corrente si rischia di scomparire, di essere travolti se non si trova una via d’uscita. Probabilmente, Forza Italia potrà uscirne da questa imbarazzante situazione sperando di mettere bastoni burocratici alla implementazione di questa legge “spacca Italia”. Ma, si tratta di tattica, di prendere tempo mentre avanza la richiesta di austerità da parte della Ue, finisce la sbornia del Pnrr, la droga del 110 per cento, e bisognerà restituire la parte di prestito contratto che va ad aggiungersi ad un debito pubblico insostenibile.

Con una recessione alle porte, sperando che i sempre più preoccupanti venti di guerra non ci travolgano prima, l’Autonomia Differenziata rappresenta il colpo finale, la mannaia che taglierà la testa a chiunque pensi di governare le regioni meridionali.

Di fronte a questa sfida di portata storica le popolazioni del Mezzogiorno, in misura crescente, stanno prendendo coscienza che è necessaria una mobilitazione, scendere in piazza e partecipare in massa alla raccolta firme per il referendum. Ma, attenzione, a non creare, nei fatti, una Lega Sud contro il Nord che ci porterebbe a sbattere contro un muro. Intanto il Nord non è un blocco omogeneo, ma esistono forti differenze al suo interno.

Per esempio, la Liguria è una regione che riceve dallo Stato più di quanto versi attraverso le imposte, circa il 13% del suo budget scomparirebbe con l’Autonomia Differenziata (A.D.). ma anche regioni del Nord a Statuto speciale, come il Trentino-Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta, avrebbero solo da perdere dalla A.D. , visto che lo Stato contribuisce in maniera importante, soprattutto in Valle d’Aosta, a mantenere il livello attuale di reddito e consumi.

Naturalmente stessa sorte toccherebbe alle regioni autonome del Sud, Sicilia e Sardegna, malgrado rassicurazioni varie da parte del governo. E non a caso, al di là del colore politico, governatori delle due isole maggiori hanno apertamente espresso il proprio dissenso.

Pertanto, c’è un lavoro determinante da portare avanti. Fare conoscere, con numeri alla mano, l’impatto sulle singole regioni che l’A.D. comporterà se non viene fermata prima. Ci sono poi singole categorie che non accettano di essere frantumate, parcellizzate, come ad esempio i Vigili del Fuoco che hanno già espresso in Veneto la loro contrarietà alla A.D. Così come tra gli insegnanti che non accettano una regionalizzazione dei programmi scolastici per diverse ragioni, sia didattiche, sia di mobilità territoriale, sia di qualità dei programmi.

Credo che si arriverà, con i Consigli regionali o con la raccolta firme, ad un referendum per abrogare questa legge. La risposta del governo Meloni sarà quella di usare l’arma più semplice ed efficace per vincere: chiedere agli italiani di non andare a votare. Dato che per essere valido un referendum abrogativo deve far registrare oltre il 50 per cento di votanti tra gli aventi diritto, basterà che gli elettori della Destra si astengono per perdere anche se i Sì raggiungessero il 100 per cento. Quindi bisogna evitare che passi come una ennesima sfida meloniana: o con me o contro di me. Ovvero: après moi le déluge.

Innanzitutto, bisognerà convincere dell’utilità del voto quel 50 per cento di elettori che negli ultimi anni non hanno partecipato alle elezioni politiche e amministrative. Compito non facile ma non impossibile se le argomentazioni saranno convincenti, basate su dati e non su slogan o invettive, salvo il richiamo all’Unità del nostro paese che questa legge mette seriamente in crisi, facendo aumentare in maniera insostenibile le disparità territoriali. Anche dentro il mondo elettorale dei FdI ci sono e ci saranno coloro che non vogliono che questo partito ( condizionato dal baratto con la Lega “ io ti do l’A.D. e tu mi dai il premierato”), si trasformi in Brandelli d’Italia, secondo l’efficace espressione della Elly Schlein.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 giugno 2024

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Autonomia spacca Italia, la legge si può bloccare.-di Gianfranco Viesti

Che cosa è successo ieri con la definitiva approvazione della legge sull’autonomia differenziata? Da un punto di vista giuridico ben poco. Non è stato concesso alcun potere. Per quello, bisognerà attendere la firma, e poi la ratifica, di intese fra lo Stato e ciascuna regione. Il confronto politico, delle idee, si sposta quindi sul piano della conoscenza e della discussione di quei contenuti. Tra l’altro, essendo quella approvata una legge ordinaria, qualsiasi sua disposizione può essere modificata da una norma successiva. La battaglia è ancora lunga.

Ma sono stati raggiunti almeno tre importanti obiettivi. Il primo è la rinnovata coesione nella maggioranza, a qualsiasi condizione. Anche a costo di approvare una norma, che deriva dall’antica predicazione leghista, che può disarticolare lo Stato e trasformare l’Italia in un Paese arlecchino. Che cozza frontalmente con la cultura politica di Fratelli d’Italia: girano in Rete le bellicose dichiarazioni di Giorgia Meloni del dicembre 2014, con le quali presentava la sua riforma costituzionale per abolire le regioni, fonte a suo dire di ogni spreco. Oggi le trasforma in Stati-regione dall’ampia sovranità. Una maggioranza che preoccupa: per tanti motivi ma anche perché è disposta a compiere qualsiasi scelta pur di restare al potere.

Il secondo è l’auto-mortificazione del Parlamento. I deputati di maggioranza, con questa legge, hanno deciso di privarsi del diritto-dovere di discutere a fondo i contenuti delle intese, cioè di riflettere su quali poteri, a oggi incardinati nel legislativo nazionale, saranno ceduti. Con un anticipo del premierato, scegliere che cosa e quanto concedere lo decide la presidente del Consiglio; a deputati e senatori spetterà, al termine del percorso un voto di mera ratifica; di giubilante approvazione delle scelte del capo. Così, con queste tristi pagine di storia parlamentare potrebbero avere fine il Servizio sanitario nazionale, la scuola pubblica unitaria, il sistema delle infrastrutture e dell’energia.

Il terzo è che si fornisce un’arma di propaganda. Si dice: con questa legge saranno garantite pari condizioni nei servizi nel Mezzogiorno grazie ai famosi Lep. Che sia una bufala, nonostante le predicazioni di Sabino Cassese è facile intuirlo: chi potrebbe mai ragionevolmente pensare che Luca Zaia e Attilio Fontana abbiano fatto questa lunga lotta per far arrivare più risorse al Sud? Come è evidente da tutti i documenti, l’obiettivo è esattamente il contrario: trattenerne il più possibile nei propri confini. Questo si otterrà grazie a una percentuale garantita del prelievo fiscale nazionale che rimarrà in regione (la “compartecipazione”).

Altro che responsabilizzazione delle classi dirigenti. Un bengodi. Lo Stato, cattivo, tassa; la Regione, buona, spende, senza vincoli di destinazione. Quanto ai Lep, abbiamo un impegno con l’Unione europea a stabilirli, e a mettere a regime tutta l’impalcatura del federalismo fiscale, nel Pnrr. Richiedono comunque risorse che non ci sono. Ma a ogni buon conto, il governo ha pensato bene di nominare presidente della commissione tecnica che dovrà fare i conti, una consulente ufficiale della Regione Veneto. Non si sa mai.

E ora? La strada per i sostenitori della secessione dei ricchi si è fatta più agevole, ma è ancora lunga. Per chi vuole opporsi, ci sono più piani. Il primo è quello della mobilitazione politico-culturale generale su questa assurda idea di Paese arlecchinesco. Coinvolgendo i cittadini, del Sud e del Nord. Cercando di far pagare un prezzo politico elevato a Forza Italia e a Fratelli d’Italia. Nel Mezzogiorno ci sono possibilità, come mostrano le posizioni molto perplesse del presidente forzista della Calabria, ma questo va fatto anche e soprattutto nelle città del Nord, finora troppo distratte.

Il secondo, è quello di marcare stretto il governo sui possibili contenuti delle intese, che inizialmente possono riguardare solo alcune materie (cosiddette non-Lep). C’è certamente una trattativa regioni-ministeri in corso, di cui Parlamento e cittadini non sanno nulla. E allora chiedere alla presidente: se questo cambiamento fa così bene all’Italia, perché ne nascondete gli effettivi contenuti? Parliamo della follia di spezzettare la Protezione civile, ad esempio?

Infine, come ricorda Massimo Villone, c’è la possibilità dei ricorsi in via principale di alcune regioni (auspicabilmente del Nord e del Sud) alla Corte Costituzionale. Assai meno importante la strada referendaria, per i suoi tempi e contenuti (anche se si abolisse questa legge le intese successive resterebbero valide).

Insomma, il 19 giugno non resterà nella memoria della Repubblica come una giornata felice. Ma tempo e modo per contrastare la secessione dei ricchi ancora ci sono.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 giugno 2024

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra «meridionalista».-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo?

Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano. A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale.

Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori.
Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Dopo il Molise, l’Abruzzo; e poi la Basilicata. Certo, ogni regione ha la sua storia, e c’è stata la Sardegna; i risultati si inquadrano in dinamiche nazionali.Ma non si sfugge: le forze del centro-sinistra, e in particolare il Pd, non riescono ad offrire agli elettori del Sud, che pure sono più mobili nelle proprie scelte di quelli del resto d’Italia, forti motivazioni per il voto.

La tendenza era già visibile alle politiche: se nel 2018 solo 11 elettori meridionali su cento si erano recati alle urne per votare Pd e Avs/Leu (il dato tiene naturalmente conto anche degli astenuti) nel 2022 la percentuale era scesa al 9 (17% al Centro-Nord), nonostante il fortissimo declino dei 5 Stelle.

Quelle forze politiche avevano perso, nel 2018-22, il 19% dei voti (il 10% al Centro Nord). Il Pd non riesce a recuperare voti al Sud; ma, senza quei voti, non si potrà mai determinare una vittoria delle attuali forze di opposizione alle elezioni politiche generali.

Perché? A mio avviso per due ordini di motivi: perché il Pd, ormai da tempo, ha “divorziato” dal Sud; perché il Pd, in particolare al Sud, “non esiste”.

Gli elettori meridionali non riescono a vedere proposte politiche del Partito Democratico che possano influire sulle loro vite, sulle loro opportunità e speranze. Dagli esponenti di quel partito vengono declamazioni assai generiche; e proposte di interventi principalmente per destinare più incentivi alle imprese perché investano e assumano al Sud.

Poco, molto poco, quasi niente, che possa migliorare concretamente la loro vita: proposte per potenziare i servizi di istruzione per chi frequenta la scuole (mense/orario prolungato) o le ha abbandonate; per migliorare i livelli di assistenza in sanità, tanto nella fondamentale prevenzione, quanto nei servizi territoriali e ospedalieri; per accrescere e sviluppare qualitativamente il welfare locale, che al Sud ha dimensioni infinitesime, e che inchioda la condizione di molte donne negli obblighi di cura; per garantire ragionevoli servizi di mobilità a corto e medio raggio ai ragazzi e agli anziani prigionieri in piccoli comuni interni.

Un filo rosso lega questi temi: attengono tutti alla disuguaglianza nelle condizioni di vita fra i cittadini; disuguaglianza che non dipende solo dalle caratteristiche socioeconomiche degli individui (età, genere, ceto, lavoro) ma anche dalla situazione dei luoghi in cui essi vivono. E che non si combatte con piccole provvidenze speciali destinate “al Sud” ma con politiche nazionali di ampio respiro ispirate al perseguimento di una maggiore uguaglianza. Che partono dalla definizione e quantificazione di quell’insieme di diritti di cittadinanza di cui ogni italiano dovrebbe godere indipendentemente da dove vive (che pur previsti in Costituzione non sono mai divenuti realtà) e che da essi traggono principi e criteri per tutte le politiche pubbliche, correnti e di investimento.

Insomma, quello che si sta dicendo è che il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno perché ha abbandonato il perseguimento della lotta alle disuguaglianze come grande riferimento della sua proposta politica. Ma vi è di più. È anche da esponenti di quel partito che è venuto un forte sostegno a scelte che hanno significativamente aumentato quelle disuguaglianze.

Dalle politiche di “contrazione cumulativa e selettiva” del sistema universitario italiano, che hanno esplicitamente favorito la migrazione di studenti da Sud a Nord (quanti sanno che dal 2013 la possibilità di reclutare docenti dipende anche dall’ammontare delle tasse universitarie e quindi è maggiore per gli atenei con gli studenti che provengono da famiglie più abbienti?) all’assenza della “deprivazione sociale” come criterio allocativo del fondo sanitario nazionale, pur previsto dalla legge.

Non è un caso che sia stato l’attuale presidente del Pd ad aprire in misura decisiva la strada alle richieste di autonomia regionale differenziata (la “secessione dei ricchi”); lo stesso esponente politico il 5 aprile scorso ha lamentato che il criterio di riparto del Fondo Sviluppo e Coesione sia “troppo sbilanciato sul Sud e poco sul Nord”.

Al Sud il Pd si presenta come una coalizione di singole personalità, ciascuna con il proprio seguito di consenso. Non è organizzato con una rete di comunità, presenti sul territorio, che mirano ad allargarsi, ad avvicinare altri cittadini; che discutono di politica, che perseguono obiettivi comuni su base locale o nazionale. Eppure, il tessuto associativo al Sud è molto più ricco di quanto si possa immaginare: ma molto raramente si tratta di gruppi che si caratterizzano con le insegne del Pd. Se si vuole fare politica non si va in un partito.

Si dirà che questo caratterizza più forze politiche, più luoghi del paese. È vero. Ma per il Pd al Sud si tratta di un tratto fondamentale, dirimente. I suoi due maggiori esponenti, i presidenti di Campania e Puglia, hanno una rete di consenso di carattere strettamente personale; le loro scelte di governo sono innanzitutto finalizzate al mantenimento e all’allargamento di questa rete. Come si è visto dalle recenti vicende giudiziarie pugliesi, questo porta a includere nel perimetro della propria coalizione altri esponenti politici, non per le loro idee, ma in quanto portatori di ulteriori “pacchetti” di sostenitori. Anche indipendentemente dai modi usati per metterli insieme.

Non si aderisce al Pd: si entra nella cerchia di De Luca o di Emiliano. Nel recente caso lucano, le elezioni regionali sono state vinte dal centrodestra (con un Presidente che non risiede nemmeno in Basilicata) perché alcuni esponenti già del Pd sono trasmigrati da quel lato, portando con sé il proprio, cospicuo, “pacchetto” personale di sostenitori.

Una eccellente classe dirigente di origine popolare o diessina caratterizzava tutta la Basilicata: era tenuta insieme da valori comuni, le assicurava un governo locale e regionale di qualità, garantiva un consenso da regione “rossa”. Si è liquefatta nell’ultimo decennio a seguito di una lotta senza quartiere fra singole personalità del Pd. Fino all’incapacità di scegliere un candidato presidente a pochi giorni dalla presentazione delle liste. Si dirà, giustamente, che il quadro a destra non è certo molto differente. Ma, forse, se si vuole riportare alle urne gli Italiani che non votano più, è anche dal segnare questa diversità che si può ricominciare.

Sinora, l’azione della nuova Segretaria si è rivelata, purtroppo, impalpabile. Si guardi la recentissima proposta sulla sanità a firma Schlein: non affronta il tema delle disuguaglianze nel diritto alla vita esistenti in Italia; della circostanza che, specie in Calabria e in Campania, si muore di tumori curabili perché il diritto allo screening preventivo non è garantito e li si affronta quando è troppo tardi. Si leggano le cronache: sugli assetti del partito, sulle giunte, sulle candidature. Cambiare il Pd non è certo una passeggiata. Ma, continuando così, la Basilicata rischia di diventare la regola e la Sardegna l’eccezione.

da “il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2024

Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente legati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sui paesaggi dell’Italia. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli:

“L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità” (L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, 1974).

La potestà legislativa sul Patrimonio culturale e paesaggistico è stata, finora, prerogativa della Repubblica, della Nazione, del Ministero dei Beni Culturali e non delle Regioni; potestà che secondo il disegno di legge di Calderoli, invece, sarà trasferita alle Regioni.

Un trasferimento che comporterà la cessione alla Regioni delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze, organi periferici del Ministero della Cultura, violando l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

Funzioni e competenze delle Soprintendenze e dei Soprintendenti che Matteo Renzi definiva così: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario … Sovrintendente de che?”. Un milieu culturale che, negli ultimi due decenni, è stato assecondato e favorito dalle politiche del Pd come, sopra tutti, la riforma Franceschini del ‘Ministero dei beni culturali’ che non solo ha separato la tutela dalla valorizzazione e sminuzzato i territori e le competenze, ma che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero, addirittura, in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali.

A partire dalla sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, purtroppo, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni. Quella modifica aveva attribuito, fra le tante altre cose, potestà legislativa concorrente alle Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, promozione e organizzazione di attività culturali, ma non si era spinta, per fortuna, fino alla tutela dei Beni culturali.

Le prime richieste di “autonomia differenziata” sono state avanzate, già nel 2017, da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sulla scia della modifica della Carta tanto che stavano per essere approvate proprio da un altro governo di centrosinistra, quello Gentiloni, che, per fortuna, decadde prima della ratifica definitiva, nel giugno 2018.

Il disegno di legge 615 Calderoli, approvato il 23 gennaio 2024 in Senato, grazie all’ultraventennale connivenza dell’opposizione, può ora tranquillamente affermare che : “Le funzioni amministrative trasferite alla Regione in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione possono essere attribuite, nel rispetto del principio di leale collaborazione, a Comuni, Province e Città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie”.

Quel che ci interessa ai fini del presente scritto, oltre alla vituperabile autonomia regionale sanitaria, è il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione regola, dal 2001, il grado di autonomia delle Regioni, consentendo loro di “personalizzare” le deleghe anche in materia ambientale, con i disastrosi risultati -in Emilia Romagna, in Liguria ed in Veneto- che sono sotto gli occhi di tutti.

La modifica del Titolo V della Costituzione contiene l’articolo 116 che richiama l’elenco delle materie trasferibili alle Regioni riportato in quello successivo, il 117. Tra queste materie, alla lettera “s”, figurano: la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali che significa, se non verrà modificata alla Camera, che queste materie saranno governate da ogni Regione. Non finisce qui, purtroppo, perché queste ultime potranno trasferirle, a loro volta, a Comuni, Province e Città metropolitane.

Mi fa ‘tremar le vene e i polsi’ il solo pensiero di quel che potrà accadere, per esempio, in Calabria se il presidente della Regione, chiunque esso sia e sarà, dovesse scegliere i Soprintendenti e i direttori dei Musei statali, dare o negare autorizzazioni a costruire o ristrutturare, apporre e far rispettare vincoli archeologici, paesaggistici e via dicendo. Mi chiedo, soprattutto, come potrà svolgere la stessa persona e la stessa Istituzione il ruolo sia di controllore sia di controllato.

Già nel 1960 Bianchi Bandinelli, forse il più importante antichista italiano del ‘900, amaramente scriveva: “L’Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e tale distruzione […] è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana […] perché è l’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune”.

Se dovesse essere approvato, anche alla Camera, questo Disegno di Legge anticostituzionale ed antiunitario la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale, su cui si fonda il nostro comune sentirsi italiani, non sarebbero più prerogative della Repubblica e della Nazione, ma verrebbero spezzettate regione per regione e non rappresenterebbero più quegli argini, già fragili, che hanno impedito, finora, che dilagassero il cemento e l’oblio definitivo del passato, distruggendo, per sempre, quel tessuto connettivo che tiene insieme la Nazione, quell’ “essenza stessa della nostra personalità”, quel sentimento di orgoglio e di appartenenza all’Italia.

Un vero e proprio attentato all’Unità ed alla percezione collettiva della Nazione (come dice l’art. 9) con il complice avallo dei presunti nazionalisti.

da “il Quotidiano del Sud” del 10 aprile 2024

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il Pnrr comporta importanti scelte politiche: nel suo disegno e nella sua realizzazione. E il governo Meloni ne ha compiute alcune molto nette, di cui è utile avere coscienza.

Il Pnrr è tutt’altro che un documento tecnico che contiene un’ovvia lista di riforme e investimenti. Il governo Draghi ha compiuto molte importanti scelte, senza che il Parlamento e la stessa opinione pubblica potessero dare il loro contributo in una grande, aperta, discussione; senza che ne fossero persino pienamente informati.

Ne è scaturito un Piano con luci e ombre. Fra le più positive l’enorme investimento sui nuovi nidi: in pochi anni tanti posti quanti negli ultimi 50 anni; fra le più negative, la misura sui “borghi”, con una visione da cartolina della complessa realtà delle aree interne.

Licenziato il Piano da un Parlamento plaudente, si è passati all’allocazione delle risorse ai singoli progetti, fino al settembre 2022. Un periodo molto interessante e poco conosciuto, nel quale ministri prevalentemente tecnici hanno compiuto importantissime scelte politiche; un periodo nel quale è davvero esistita la mitica “stanza dei bottoni” di nenniana memoria: tante risorse da allocare, con criteri e destinazioni scelti discrezionalmente.

Quando è entrato in carica il governo Meloni, i bottoni erano stati quasi tutti premuti; e all’esecutivo toccava un compito istituzionale: curare la tempestiva realizzazione di quanto programmato da altri. Una beffa per un governo guidato dall’unico partito che era prima all’opposizione. Ma questo ruolo male si addiceva alla scalpitante nuova maggioranza, che voleva lasciare il suo segno.

Così il ministro Fitto, nelle cui mani erano stati concentrati tutti i poteri e che subito ha fatto piazza pulita delle vecchie strutture tecniche, ha cominciato a preparare il terreno: giudizi sempre più critici sul Piano che doveva realizzare e opinioni sempre più pessimiste sulla sua realizzazione. Si è preso il suo tempo. Tanto tempo.

A maggio 2023 ha infine prodotto un documento sul Pnrr che ne elencava tutte le supposte criticità. Poi a luglio ha colpito. Ha presentato una ipotesi di complessiva, rilevante riformulazione, profittando della necessità di aggiungere un capitolo legato alla nuova iniziativa europea RePower EU, conseguenza della crisi ucraina.

Nel dibattito pubblico, occupato da mille comunicazioni su “target” e “milestone”, su rate da richiedere e da incassare, è sfuggito il senso politico dell’operazione. Intendiamoci: occuparsi delle scadenze per ottenere le risorse è fondamentale; ma è ancora più importante capire che ne facciamo. E il governo Meloni ha scelto: ha spostato circa 15 miliardi dagli investimenti pubblici ai sussidi alle imprese.

Dare incentivi alle imprese non è in sé un male: ma, viste le straordinarie dimensioni di queste misure (fra vecchio Piano e aggiunte siamo a 50 miliardi) e le loro caratteristiche prevalentemente a pioggia, molti dubbi sono leciti. Ma le forze di opposizione sembrano timorose nel criticare qualsiasi misura per le imprese; e la maggioranza è decisa a rafforzare la sua alleanza con le associazioni imprenditoriali, nell’industria, nei servizi, nell’agricoltura.

Sono invece usciti dal Piano importantissimi interventi: nella sanità, nelle aree interne, a Taranto e soprattutto nelle città, a vantaggio dei cittadini. Le motivazioni tecniche per il taglio proprio di questi interventi sono apparse subito molto deboli. È stato un atto politico d’imperio: più alle imprese, meno agli investimenti pubblici.
Nell’estate, di fronte alla protesta dei sindaci il governo ha garantito che gli interventi urbani sarebbero stati rifinanziati. Poi a novembre la Commissione (che lascia le scelte di merito agli Stati membri) ha approvato la proposta italiana, con diverse modifiche.

E siamo all’oggi. Come è fatto il nuovo Piano? Sembra incredibile, ma è impossibile saperlo perché non esiste ancora un testo ufficiale. Che effetti territoriali avranno queste modifiche?

Ci sono seri motivi per pensare che i tagli colpiranno più il Mezzogiorno, ma il governo, semplicemente, non pubblica più l’apposita relazione semestrale. Da dove verranno le risorse per rifinanziare i progetti esclusi? Un decreto promesso da novembre dovrebbe stabilirlo, ma ancora non si è visto. Si naviga nell’oscurità e nell’improvvisazione. E tutto questo ha pesantissime implicazioni: massima incertezza per i “vecchi” progetti, con i nuovi che non possono ancora partire.

Insomma, il Pnrr è assai più interessante di quanto sembri. Perché è anche una cartina al tornasole che fa vedere più aspetti del governo: determinatissimo nell’usare le risorse pubbliche per i propri fini; arrogante e opaco nei modi e nella comunicazione; azzardato e poco capace sui complessi nodi tecnici.

da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2024

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

Tre inganni si nascondono dietro la promessa che i Lep controbilanceranno il regionalismo differenziato: uno formale, uno sostanziale, uno finanziario. La sigla Lep sta per «livelli essenziali delle prestazioni». L’espressione indica quell’insieme di attività e servizi che, pur nell’ambito di un Paese regionalizzato, dovrebbe essere ovunque erogato uniformemente.

Lo schema retrostante è semplice – forse semplicistico – ma chiaro: una volta fornite a tutti i cittadini le medesime prestazioni di base, secondo quanto stabilito nel dettaglio dalla legge del Parlamento (articolo 117 della Costituzione), spetterà poi a ciascuna regione decidere se fornirne ai propri cittadini di ulteriori e quali.

Quanto alle risorse necessarie a sostenerne i costi, la legislazione sul federalismo fiscale prevede che per ciascun Lep sia definito il «costo standard», in modo che dalla loro somma si possa poi ricavare l’ammontare della somma da assegnare a ciascuna regione: il cosiddetto «fabbisogno standard». Spetterà quindi alle regioni che vorranno erogare prestazioni ulteriori procurarsi autonomamente le risorse necessarie, grazie ai risparmi generati dall’efficienza amministrativa o all’introduzione di imposte aggiuntive.

Un quadro, insomma volto a differenziare, ma a partire da un nucleo di uguaglianza: per questo – affermano i paladini delle regioni – nessun pericolo potrà venire dal regionalismo differenziato. Peccato che il disegno di legge Calderoli smentisca sotto tutti i punti di vista tale rassicurante visione.

Anzitutto, il parlamento – vale a dire, l’organo che rappresenta tutti – è escluso dalla definizione dei Lep. E ciò non tanto perché il progetto Calderoli affida tale compito al governo tramite decreti legislativi. Quanto, piuttosto, perché i Lep saranno successivamente soggetti ad aggiornamenti periodici tramite decreti del presidente del Consiglio dei ministri (gli ormai famosi Dpcm) e, soprattutto, perché nell’attesa dei decreti legislativi è previsto che i Lep siano anticipati tramite Dpcm – o, se il premier dovesse ritardare, tramite intervento di un Commissario: come se definire il contenuto di un diritto equivalesse a realizzare un’infrastruttura! – la cui normativa «è fatta salva… alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi».

In sintesi, i Lep saranno definiti con Dpcm, i decreti legislativi li recepiranno pro forma e potranno poi essere modificati con Dpcm: tutto nelle mani del governo.

Di seguito, il lavoro preparatorio compiuto dalla commissione Cassese incaricata di una prima ricognizione dei Lep risulta nel merito del tutto insoddisfacente. Come messo per iscritto dall’ex governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (lettera alla commissione del 10 ottobre scorso), «le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Non diversa la valutazione fornita a inizio mese dall’Ufficio parlamentare di bilancio, per il quale ai Lep sono stati ricondotti, oltre alle prestazioni, procedure di selezione dei beneficiari, modalità di accesso e presa in carico, profili organizzativi e programmatori e numerosi altri elementi eterogenei. Nessuna definizione sostanziale del nucleo di uguaglianza a partire dal quale differenziarsi, dunque: con il risultato che la differenziazione non potrà che tradursi in (ulteriore) disuguaglianza. Più in radice, la verità è che ridurre i diritti ai Lep è – oltre che in molti casi impossibile – profondamente sbagliato, perché l’obiettivo dovrebbe essere la piena, e non l’essenziale, tutela dei diritti.

Infine, il meccanismo di finanziamento delle regioni che si differenzieranno previsto dal disegno di legge Calderoli è definito in modo tale da svincolare i Lep dai costi standard e affidare la determinazione delle risorse a un’apposita commissione paritetica tra lo Stato e la regione interessata. Dunque, in concreto: una commissione nominata per metà da Calderoli e per metà da Zaia, nel caso del Veneto; per metà da Calderoli e per metà da Bonaccini nel caso dell’Emilia Romagna; e via dicendo. Malizioso immaginare che a muovere gli orientamenti di tali organi sarà un’attitudine più attenta all’egoistica rivendicazione del residuo fiscale che alla solidaristica perequazione inter-regionale?

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Oggi dunque nelle piazze e davanti le Prefetture scenderanno in strada sindaci e cittadini per una protesta si spera corale contro il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata.

Un DDL già approvato al Senato e prossimo alla Camera, che una vulgata non si capisce bene da chi orchestrata dipinge come un provvedimento che tanto non entrerà mai in attuazione, che non si farà mai, statevi tranquilli voi meridionali, i LEP (acronimo divenuto leggendario che pero’ in pochi sanno davvero cosa sia) non ci sono i soldi, è tutta una manovra politica, etc. etc. Insomma tranquillanti soporiferi diffusi a volontà per acquietare gli animi (peraltro nemmeno tanto bellicosi).

Nulla però di più falso e ingannevole.

Il problema non è l’autonomia in sé e la gente sarebbe bene che iniziasse a ragionarci sopra. C’è l’autonomia e va benissimo, c’è una legge di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione, rispettiamola e andiamo avanti. La legge – infatti – prevede i famosi livelli essenziali delle prestazioni, quei LEP di cui sopra, ma questa autonomia prevista dal disegno di legge Calderoli è un trucco, di questo dobbiamo essere consapevoli.

Perché non è l’autonomia secondo Costituzione: è piuttosto la costituzionalizzazione della spesa storica, esattamente quello che la legge Calderoli del 2009, la 42, diceva di voler eliminare». «Ed è un trucco – spiega bene Adriano Giannola, presidente SVIMEZ – perché si dice che tutto quello che è legato ai Lep almeno per due anni non si tocca, perché non ci sono i soldi e non sono definiti’’.

Ma tutto il resto – questo il richiamo allarmatissimo del presidente Svimez – si tocca subito e questo poca gente lo ha capito. Non è la sanità, non è la scuola che il Nord ha già. Il resto sono le strade, le autostrade, gli aeroporti, la protezione civile, tutto ciò per cui non è specificata la necessità di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni è infatti trasferibile oggi.

Per Giannola la conclusione è presto detta «quando passa alla Camera questo disegno di legge, si attivano subito le intese per tutta una serie di materie di cui oggi non si discute. E quando l’intesa va in Parlamento non potrà essere emendata, è una legge rafforzata che può essere accolta o bocciata e non c’è la possibilità di referendum.

Sono veramente preoccupato perché nessuno parla di ciò che c’è veramente dietro, si mette il carro davanti ai buoi perché i Lep non bloccano ma ritardano un pezzo che solo apparentemente è tutto. Invece il tutto viene subito messo in contrattazione e una volta raggiunta l’intesa se rispettiamo la categoria di legge rafforzata la situazione è inemendabile e irreversibile’’.

Fatta questa doverosa chiarezza sarebbe perciò giunta l’ora che si sveglino i cittadini, appresso ai sindaci che – seppure in ritardo, in grave ritardo – hanno capito l’antifona. Le manifestazioni di oggi a Catanzaro, Cosenza, Reggio, Vibo e Crotone hanno infatti un senso se accompagnate da una diffusa presa di coscienza che sin qui è mancata per colpa di partiti, sindacati e associazioni varie, tutti intenti a macinare grandi discussioni ma non a far capire nel concreto cosa si nascondeva dietro il disegno leghista.

O, peggio, a tracciare linee di distinzione tra opposizioni e maggioranze, destra o sinistra, aprendo la classica autostrada a quattro corsie a chi vuole invece distruggere il Paese. Speriamo che non sia troppo tardi.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 febbraio 2024.
foto da “il Quotidiano del Sud”.