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Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Dopo il Molise, l’Abruzzo; e poi la Basilicata. Certo, ogni regione ha la sua storia, e c’è stata la Sardegna; i risultati si inquadrano in dinamiche nazionali.Ma non si sfugge: le forze del centro-sinistra, e in particolare il Pd, non riescono ad offrire agli elettori del Sud, che pure sono più mobili nelle proprie scelte di quelli del resto d’Italia, forti motivazioni per il voto.

La tendenza era già visibile alle politiche: se nel 2018 solo 11 elettori meridionali su cento si erano recati alle urne per votare Pd e Avs/Leu (il dato tiene naturalmente conto anche degli astenuti) nel 2022 la percentuale era scesa al 9 (17% al Centro-Nord), nonostante il fortissimo declino dei 5 Stelle.

Quelle forze politiche avevano perso, nel 2018-22, il 19% dei voti (il 10% al Centro Nord). Il Pd non riesce a recuperare voti al Sud; ma, senza quei voti, non si potrà mai determinare una vittoria delle attuali forze di opposizione alle elezioni politiche generali.

Perché? A mio avviso per due ordini di motivi: perché il Pd, ormai da tempo, ha “divorziato” dal Sud; perché il Pd, in particolare al Sud, “non esiste”.

Gli elettori meridionali non riescono a vedere proposte politiche del Partito Democratico che possano influire sulle loro vite, sulle loro opportunità e speranze. Dagli esponenti di quel partito vengono declamazioni assai generiche; e proposte di interventi principalmente per destinare più incentivi alle imprese perché investano e assumano al Sud.

Poco, molto poco, quasi niente, che possa migliorare concretamente la loro vita: proposte per potenziare i servizi di istruzione per chi frequenta la scuole (mense/orario prolungato) o le ha abbandonate; per migliorare i livelli di assistenza in sanità, tanto nella fondamentale prevenzione, quanto nei servizi territoriali e ospedalieri; per accrescere e sviluppare qualitativamente il welfare locale, che al Sud ha dimensioni infinitesime, e che inchioda la condizione di molte donne negli obblighi di cura; per garantire ragionevoli servizi di mobilità a corto e medio raggio ai ragazzi e agli anziani prigionieri in piccoli comuni interni.

Un filo rosso lega questi temi: attengono tutti alla disuguaglianza nelle condizioni di vita fra i cittadini; disuguaglianza che non dipende solo dalle caratteristiche socioeconomiche degli individui (età, genere, ceto, lavoro) ma anche dalla situazione dei luoghi in cui essi vivono. E che non si combatte con piccole provvidenze speciali destinate “al Sud” ma con politiche nazionali di ampio respiro ispirate al perseguimento di una maggiore uguaglianza. Che partono dalla definizione e quantificazione di quell’insieme di diritti di cittadinanza di cui ogni italiano dovrebbe godere indipendentemente da dove vive (che pur previsti in Costituzione non sono mai divenuti realtà) e che da essi traggono principi e criteri per tutte le politiche pubbliche, correnti e di investimento.

Insomma, quello che si sta dicendo è che il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno perché ha abbandonato il perseguimento della lotta alle disuguaglianze come grande riferimento della sua proposta politica. Ma vi è di più. È anche da esponenti di quel partito che è venuto un forte sostegno a scelte che hanno significativamente aumentato quelle disuguaglianze.

Dalle politiche di “contrazione cumulativa e selettiva” del sistema universitario italiano, che hanno esplicitamente favorito la migrazione di studenti da Sud a Nord (quanti sanno che dal 2013 la possibilità di reclutare docenti dipende anche dall’ammontare delle tasse universitarie e quindi è maggiore per gli atenei con gli studenti che provengono da famiglie più abbienti?) all’assenza della “deprivazione sociale” come criterio allocativo del fondo sanitario nazionale, pur previsto dalla legge.

Non è un caso che sia stato l’attuale presidente del Pd ad aprire in misura decisiva la strada alle richieste di autonomia regionale differenziata (la “secessione dei ricchi”); lo stesso esponente politico il 5 aprile scorso ha lamentato che il criterio di riparto del Fondo Sviluppo e Coesione sia “troppo sbilanciato sul Sud e poco sul Nord”.

Al Sud il Pd si presenta come una coalizione di singole personalità, ciascuna con il proprio seguito di consenso. Non è organizzato con una rete di comunità, presenti sul territorio, che mirano ad allargarsi, ad avvicinare altri cittadini; che discutono di politica, che perseguono obiettivi comuni su base locale o nazionale. Eppure, il tessuto associativo al Sud è molto più ricco di quanto si possa immaginare: ma molto raramente si tratta di gruppi che si caratterizzano con le insegne del Pd. Se si vuole fare politica non si va in un partito.

Si dirà che questo caratterizza più forze politiche, più luoghi del paese. È vero. Ma per il Pd al Sud si tratta di un tratto fondamentale, dirimente. I suoi due maggiori esponenti, i presidenti di Campania e Puglia, hanno una rete di consenso di carattere strettamente personale; le loro scelte di governo sono innanzitutto finalizzate al mantenimento e all’allargamento di questa rete. Come si è visto dalle recenti vicende giudiziarie pugliesi, questo porta a includere nel perimetro della propria coalizione altri esponenti politici, non per le loro idee, ma in quanto portatori di ulteriori “pacchetti” di sostenitori. Anche indipendentemente dai modi usati per metterli insieme.

Non si aderisce al Pd: si entra nella cerchia di De Luca o di Emiliano. Nel recente caso lucano, le elezioni regionali sono state vinte dal centrodestra (con un Presidente che non risiede nemmeno in Basilicata) perché alcuni esponenti già del Pd sono trasmigrati da quel lato, portando con sé il proprio, cospicuo, “pacchetto” personale di sostenitori.

Una eccellente classe dirigente di origine popolare o diessina caratterizzava tutta la Basilicata: era tenuta insieme da valori comuni, le assicurava un governo locale e regionale di qualità, garantiva un consenso da regione “rossa”. Si è liquefatta nell’ultimo decennio a seguito di una lotta senza quartiere fra singole personalità del Pd. Fino all’incapacità di scegliere un candidato presidente a pochi giorni dalla presentazione delle liste. Si dirà, giustamente, che il quadro a destra non è certo molto differente. Ma, forse, se si vuole riportare alle urne gli Italiani che non votano più, è anche dal segnare questa diversità che si può ricominciare.

Sinora, l’azione della nuova Segretaria si è rivelata, purtroppo, impalpabile. Si guardi la recentissima proposta sulla sanità a firma Schlein: non affronta il tema delle disuguaglianze nel diritto alla vita esistenti in Italia; della circostanza che, specie in Calabria e in Campania, si muore di tumori curabili perché il diritto allo screening preventivo non è garantito e li si affronta quando è troppo tardi. Si leggano le cronache: sugli assetti del partito, sulle giunte, sulle candidature. Cambiare il Pd non è certo una passeggiata. Ma, continuando così, la Basilicata rischia di diventare la regola e la Sardegna l’eccezione.

da “il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2024

Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Se l’autonomia differenziata si abbatte sui beni culturali.-di Battista Sangineto

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente legati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sui paesaggi dell’Italia. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli:

“L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità” (L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, 1974).

La potestà legislativa sul Patrimonio culturale e paesaggistico è stata, finora, prerogativa della Repubblica, della Nazione, del Ministero dei Beni Culturali e non delle Regioni che secondo il disegno di legge di Calderoli, invece, sarà trasferita alle Regioni.

Un trasferimento che comporterà la cessione alla Regioni delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze, organi periferici del Ministero della Cultura, violando l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

Funzioni e competenze delle Soprintendenze e dei Soprintendenti che Matteo Renzi definiva così: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario … Sovrintendente de che?”. Un milieu culturale che, negli ultimi due decenni, è stato assecondato e favorito dalle politiche del Pd come, sopra tutti, la riforma Franceschini del ‘Ministero dei beni culturali’ che non solo ha separato la tutela dalla valorizzazione e sminuzzato i territori e le competenze, ma che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero, addirittura, in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali.

A partire dalla sciagurata modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, purtroppo, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni. Quella modifica aveva attribuito, fra le tante altre cose, potestà legislativa concorrente alle Regioni in materia di valorizzazione dei beni culturali, promozione e organizzazione di attività culturali, ma non si era spinta, per fortuna, fino alla tutela dei Beni culturali.

Le prime richieste di “autonomia differenziata” sono state avanzate, già nel 2017, da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sulla scia della modifica della Carta tanto che stavano per essere approvate proprio da un altro governo di centrosinistra, quello Gentiloni, che, per fortuna, decadde prima della ratifica definitiva, nel giugno 2018.

Il disegno di legge 615 Calderoli, approvato il 23 gennaio 2024 in Senato, grazie all’ultraventennale connivenza dell’opposizione, può ora tranquillamente affermare che : “Le funzioni amministrative trasferite alla Regione in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione possono essere attribuite, nel rispetto del principio di leale collaborazione, a Comuni, Province e Città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie”.

Quel che ci interessa ai fini del presente scritto, oltre alla vituperabile autonomia regionale sanitaria, è il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione regola, dal 2001, il grado di autonomia delle Regioni, consentendo loro di “personalizzare” le deleghe anche in materia ambientale, con i disastrosi risultati -in Emilia Romagna, in Liguria ed in Veneto- che sono sotto gli occhi di tutti.

La modifica del Titolo V della Costituzione contiene l’articolo 116 che richiama l’elenco delle materie trasferibili alle Regioni riportato in quello successivo, il 117. Tra queste materie, alla lettera “s”, figurano: la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali che significa, se non verrà modificata alla Camera, che queste materie saranno governate da ogni Regione. Non finisce qui, purtroppo, perché queste ultime potranno trasferirle, a loro volta, a Comuni, Province e Città metropolitane.

Mi fa ‘tremar le vene ei polsi’ il solo pensiero di quel che potrà accadere, per esempio, in Calabria se il presidente della Regione, chiunque esso sia e sarà, dovesse scegliere i Soprintendenti e i direttori dei Musei statali, dare o negare autorizzazioni a costruire o ristrutturare, apporre e far rispettare vincoli archeologici, paesaggistici e via dicendo. Mi chiedo, soprattutto, come potrà svolgere la stessa persona e la stessa Istituzione il ruolo sia di controllore sia di controllato.

Già nel 1960 Bianchi Bandinelli, forse il più importante antichista italiano del ‘900, amaramente scriveva: “L’Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e tale distruzione […] è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana […] perché è l’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune”.

Se dovesse essere approvato, anche alla Camera, questo Disegno di Legge anticostituzionale ed antiunitario la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale, su cui si fonda il nostro comune sentirsi italiani, non sarebbero più prerogative della Repubblica e della Nazione, ma verrebbero spezzettate regione per regione e non rappresenterebbero più quegli argini, già fragili, che hanno impedito, finora, che dilagassero il cemento e l’oblio definitivo del passato, distruggendo, per sempre, quel tessuto connettivo che tiene insieme la Nazione, quell’ “essenza stessa della nostra personalità”, quel sentimento di orgoglio e di appartenenza all’Italia.

Un vero e proprio attentato all’Unità ed alla percezione collettiva della Nazione (come dice l’art. 9) con il complice avallo dei presunti nazionalisti.

da “il Quotidiano del Sud” del 10 aprile 2024

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il Pnrr comporta importanti scelte politiche: nel suo disegno e nella sua realizzazione. E il governo Meloni ne ha compiute alcune molto nette, di cui è utile avere coscienza.

Il Pnrr è tutt’altro che un documento tecnico che contiene un’ovvia lista di riforme e investimenti. Il governo Draghi ha compiuto molte importanti scelte, senza che il Parlamento e la stessa opinione pubblica potessero dare il loro contributo in una grande, aperta, discussione; senza che ne fossero persino pienamente informati.

Ne è scaturito un Piano con luci e ombre. Fra le più positive l’enorme investimento sui nuovi nidi: in pochi anni tanti posti quanti negli ultimi 50 anni; fra le più negative, la misura sui “borghi”, con una visione da cartolina della complessa realtà delle aree interne.

Licenziato il Piano da un Parlamento plaudente, si è passati all’allocazione delle risorse ai singoli progetti, fino al settembre 2022. Un periodo molto interessante e poco conosciuto, nel quale ministri prevalentemente tecnici hanno compiuto importantissime scelte politiche; un periodo nel quale è davvero esistita la mitica “stanza dei bottoni” di nenniana memoria: tante risorse da allocare, con criteri e destinazioni scelti discrezionalmente.

Quando è entrato in carica il governo Meloni, i bottoni erano stati quasi tutti premuti; e all’esecutivo toccava un compito istituzionale: curare la tempestiva realizzazione di quanto programmato da altri. Una beffa per un governo guidato dall’unico partito che era prima all’opposizione. Ma questo ruolo male si addiceva alla scalpitante nuova maggioranza, che voleva lasciare il suo segno.

Così il ministro Fitto, nelle cui mani erano stati concentrati tutti i poteri e che subito ha fatto piazza pulita delle vecchie strutture tecniche, ha cominciato a preparare il terreno: giudizi sempre più critici sul Piano che doveva realizzare e opinioni sempre più pessimiste sulla sua realizzazione. Si è preso il suo tempo. Tanto tempo.

A maggio 2023 ha infine prodotto un documento sul Pnrr che ne elencava tutte le supposte criticità. Poi a luglio ha colpito. Ha presentato una ipotesi di complessiva, rilevante riformulazione, profittando della necessità di aggiungere un capitolo legato alla nuova iniziativa europea RePower EU, conseguenza della crisi ucraina.

Nel dibattito pubblico, occupato da mille comunicazioni su “target” e “milestone”, su rate da richiedere e da incassare, è sfuggito il senso politico dell’operazione. Intendiamoci: occuparsi delle scadenze per ottenere le risorse è fondamentale; ma è ancora più importante capire che ne facciamo. E il governo Meloni ha scelto: ha spostato circa 15 miliardi dagli investimenti pubblici ai sussidi alle imprese.

Dare incentivi alle imprese non è in sé un male: ma, viste le straordinarie dimensioni di queste misure (fra vecchio Piano e aggiunte siamo a 50 miliardi) e le loro caratteristiche prevalentemente a pioggia, molti dubbi sono leciti. Ma le forze di opposizione sembrano timorose nel criticare qualsiasi misura per le imprese; e la maggioranza è decisa a rafforzare la sua alleanza con le associazioni imprenditoriali, nell’industria, nei servizi, nell’agricoltura.

Sono invece usciti dal Piano importantissimi interventi: nella sanità, nelle aree interne, a Taranto e soprattutto nelle città, a vantaggio dei cittadini. Le motivazioni tecniche per il taglio proprio di questi interventi sono apparse subito molto deboli. È stato un atto politico d’imperio: più alle imprese, meno agli investimenti pubblici.
Nell’estate, di fronte alla protesta dei sindaci il governo ha garantito che gli interventi urbani sarebbero stati rifinanziati. Poi a novembre la Commissione (che lascia le scelte di merito agli Stati membri) ha approvato la proposta italiana, con diverse modifiche.

E siamo all’oggi. Come è fatto il nuovo Piano? Sembra incredibile, ma è impossibile saperlo perché non esiste ancora un testo ufficiale. Che effetti territoriali avranno queste modifiche?

Ci sono seri motivi per pensare che i tagli colpiranno più il Mezzogiorno, ma il governo, semplicemente, non pubblica più l’apposita relazione semestrale. Da dove verranno le risorse per rifinanziare i progetti esclusi? Un decreto promesso da novembre dovrebbe stabilirlo, ma ancora non si è visto. Si naviga nell’oscurità e nell’improvvisazione. E tutto questo ha pesantissime implicazioni: massima incertezza per i “vecchi” progetti, con i nuovi che non possono ancora partire.

Insomma, il Pnrr è assai più interessante di quanto sembri. Perché è anche una cartina al tornasole che fa vedere più aspetti del governo: determinatissimo nell’usare le risorse pubbliche per i propri fini; arrogante e opaco nei modi e nella comunicazione; azzardato e poco capace sui complessi nodi tecnici.

da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2024

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

Tre inganni si nascondono dietro la promessa che i Lep controbilanceranno il regionalismo differenziato: uno formale, uno sostanziale, uno finanziario. La sigla Lep sta per «livelli essenziali delle prestazioni». L’espressione indica quell’insieme di attività e servizi che, pur nell’ambito di un Paese regionalizzato, dovrebbe essere ovunque erogato uniformemente.

Lo schema retrostante è semplice – forse semplicistico – ma chiaro: una volta fornite a tutti i cittadini le medesime prestazioni di base, secondo quanto stabilito nel dettaglio dalla legge del Parlamento (articolo 117 della Costituzione), spetterà poi a ciascuna regione decidere se fornirne ai propri cittadini di ulteriori e quali.

Quanto alle risorse necessarie a sostenerne i costi, la legislazione sul federalismo fiscale prevede che per ciascun Lep sia definito il «costo standard», in modo che dalla loro somma si possa poi ricavare l’ammontare della somma da assegnare a ciascuna regione: il cosiddetto «fabbisogno standard». Spetterà quindi alle regioni che vorranno erogare prestazioni ulteriori procurarsi autonomamente le risorse necessarie, grazie ai risparmi generati dall’efficienza amministrativa o all’introduzione di imposte aggiuntive.

Un quadro, insomma volto a differenziare, ma a partire da un nucleo di uguaglianza: per questo – affermano i paladini delle regioni – nessun pericolo potrà venire dal regionalismo differenziato. Peccato che il disegno di legge Calderoli smentisca sotto tutti i punti di vista tale rassicurante visione.

Anzitutto, il parlamento – vale a dire, l’organo che rappresenta tutti – è escluso dalla definizione dei Lep. E ciò non tanto perché il progetto Calderoli affida tale compito al governo tramite decreti legislativi. Quanto, piuttosto, perché i Lep saranno successivamente soggetti ad aggiornamenti periodici tramite decreti del presidente del Consiglio dei ministri (gli ormai famosi Dpcm) e, soprattutto, perché nell’attesa dei decreti legislativi è previsto che i Lep siano anticipati tramite Dpcm – o, se il premier dovesse ritardare, tramite intervento di un Commissario: come se definire il contenuto di un diritto equivalesse a realizzare un’infrastruttura! – la cui normativa «è fatta salva… alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi».

In sintesi, i Lep saranno definiti con Dpcm, i decreti legislativi li recepiranno pro forma e potranno poi essere modificati con Dpcm: tutto nelle mani del governo.

Di seguito, il lavoro preparatorio compiuto dalla commissione Cassese incaricata di una prima ricognizione dei Lep risulta nel merito del tutto insoddisfacente. Come messo per iscritto dall’ex governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (lettera alla commissione del 10 ottobre scorso), «le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Non diversa la valutazione fornita a inizio mese dall’Ufficio parlamentare di bilancio, per il quale ai Lep sono stati ricondotti, oltre alle prestazioni, procedure di selezione dei beneficiari, modalità di accesso e presa in carico, profili organizzativi e programmatori e numerosi altri elementi eterogenei. Nessuna definizione sostanziale del nucleo di uguaglianza a partire dal quale differenziarsi, dunque: con il risultato che la differenziazione non potrà che tradursi in (ulteriore) disuguaglianza. Più in radice, la verità è che ridurre i diritti ai Lep è – oltre che in molti casi impossibile – profondamente sbagliato, perché l’obiettivo dovrebbe essere la piena, e non l’essenziale, tutela dei diritti.

Infine, il meccanismo di finanziamento delle regioni che si differenzieranno previsto dal disegno di legge Calderoli è definito in modo tale da svincolare i Lep dai costi standard e affidare la determinazione delle risorse a un’apposita commissione paritetica tra lo Stato e la regione interessata. Dunque, in concreto: una commissione nominata per metà da Calderoli e per metà da Zaia, nel caso del Veneto; per metà da Calderoli e per metà da Bonaccini nel caso dell’Emilia Romagna; e via dicendo. Malizioso immaginare che a muovere gli orientamenti di tali organi sarà un’attitudine più attenta all’egoistica rivendicazione del residuo fiscale che alla solidaristica perequazione inter-regionale?

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Oggi dunque nelle piazze e davanti le Prefetture scenderanno in strada sindaci e cittadini per una protesta si spera corale contro il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata.

Un DDL già approvato al Senato e prossimo alla Camera, che una vulgata non si capisce bene da chi orchestrata dipinge come un provvedimento che tanto non entrerà mai in attuazione, che non si farà mai, statevi tranquilli voi meridionali, i LEP (acronimo divenuto leggendario che pero’ in pochi sanno davvero cosa sia) non ci sono i soldi, è tutta una manovra politica, etc. etc. Insomma tranquillanti soporiferi diffusi a volontà per acquietare gli animi (peraltro nemmeno tanto bellicosi).

Nulla però di più falso e ingannevole.

Il problema non è l’autonomia in sé e la gente sarebbe bene che iniziasse a ragionarci sopra. C’è l’autonomia e va benissimo, c’è una legge di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione, rispettiamola e andiamo avanti. La legge – infatti – prevede i famosi livelli essenziali delle prestazioni, quei LEP di cui sopra, ma questa autonomia prevista dal disegno di legge Calderoli è un trucco, di questo dobbiamo essere consapevoli.

Perché non è l’autonomia secondo Costituzione: è piuttosto la costituzionalizzazione della spesa storica, esattamente quello che la legge Calderoli del 2009, la 42, diceva di voler eliminare». «Ed è un trucco – spiega bene Adriano Giannola, presidente SVIMEZ – perché si dice che tutto quello che è legato ai Lep almeno per due anni non si tocca, perché non ci sono i soldi e non sono definiti’’.

Ma tutto il resto – questo il richiamo allarmatissimo del presidente Svimez – si tocca subito e questo poca gente lo ha capito. Non è la sanità, non è la scuola che il Nord ha già. Il resto sono le strade, le autostrade, gli aeroporti, la protezione civile, tutto ciò per cui non è specificata la necessità di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni è infatti trasferibile oggi.

Per Giannola la conclusione è presto detta «quando passa alla Camera questo disegno di legge, si attivano subito le intese per tutta una serie di materie di cui oggi non si discute. E quando l’intesa va in Parlamento non potrà essere emendata, è una legge rafforzata che può essere accolta o bocciata e non c’è la possibilità di referendum.

Sono veramente preoccupato perché nessuno parla di ciò che c’è veramente dietro, si mette il carro davanti ai buoi perché i Lep non bloccano ma ritardano un pezzo che solo apparentemente è tutto. Invece il tutto viene subito messo in contrattazione e una volta raggiunta l’intesa se rispettiamo la categoria di legge rafforzata la situazione è inemendabile e irreversibile’’.

Fatta questa doverosa chiarezza sarebbe perciò giunta l’ora che si sveglino i cittadini, appresso ai sindaci che – seppure in ritardo, in grave ritardo – hanno capito l’antifona. Le manifestazioni di oggi a Catanzaro, Cosenza, Reggio, Vibo e Crotone hanno infatti un senso se accompagnate da una diffusa presa di coscienza che sin qui è mancata per colpa di partiti, sindacati e associazioni varie, tutti intenti a macinare grandi discussioni ma non a far capire nel concreto cosa si nascondeva dietro il disegno leghista.

O, peggio, a tracciare linee di distinzione tra opposizioni e maggioranze, destra o sinistra, aprendo la classica autostrada a quattro corsie a chi vuole invece distruggere il Paese. Speriamo che non sia troppo tardi.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 febbraio 2024.
foto da “il Quotidiano del Sud”.

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L “PIANO MATTEI” DI GIORGIA MELONI. Qualcuno potrebbe perfino dare atto alla presidente Meloni della sua determinazione nel convocare venticinque capi di stato e di governo africani, coinvolgendo anche i vertici della Ue. Finalmente, si potrebbe dire, l’Italia e l’Ue capiscono che non possono ignorare un Continente con il più alto tasso di crescita demografica del mondo, con i più bassi livelli di reddito, trafitto da guerre interminabili e che per giunta subisce, come poche altre aree al mondo, gli effetti perversi del mutamento climatico.

C’è da dire in realtà che l’attuale presidente del Consiglio ha capito come pochi leader politici che viviamo nella società dello spettacolo, come scrisse Guy Debord nel ’68, per cui non hanno importanza i contenuti ma conta solo la kermesse, la qualità e quantità della comunicazione di un evento. Usando un apparato retorico capace di comunicare con la maggioranza degli italiani che non conoscono le realtà africane se non attraverso luoghi comuni, la Meloni ha rispolverato categorie come la cooperazione e lo sviluppo, ormai obsolete per chi si occupa da decenni di questi temi.

Il primo messaggio falso è che la povertà dei paesi africani è dovuta alla mancanza di investimenti che generano il cosiddetto sviluppo. Se si vanno a osservare i 20 paesi in fondo alla classifica relativamente all’ ISU (Indice Sviluppo Umano) troviamo che per i due terzi si tratta di paesi che sono attraversati da conflitti interni, da guerre di lunga durata, da permanente instabilità politica, come emerge chiaramente dai Report Last Twenty 2022 e 2023. Se si continuano ad alimentare questi conflitti, che in diversi casi durano da decenni, parlare di investimenti e sviluppo è offendere l’intelligenza umana, e pure quella artificiale. Ma, in questa performance della Patriota parlare di armi e guerre è vietato.

Una seconda causa di impoverimento è legata all’indebitamento esterno che nell’Africa sub-sahariana ha raggiunto nel 2020 il 72% del Pil, di cui il 20 per cento è detenuto dalla Cina e il resto da Usa, Ue e Arabia Saudita/Emirati. Un rapporto debito/Pil più basso di quello europeo che si sta avvicinando al 90%, ma che per essere rifinanziato costringe i governi africani a pagare rendimenti altissimi sui titoli di Stato.

Una terza causa di impoverimento è lo scambio ineguale. Non sono mancati grandi investimenti in Africa negli ultimi venti anni, soprattutto da parte cinese, ma la forbice tra l’andamento dei prezzi delle materie prime e beni alimentari che vengono esportate dall’Africa e quello dei beni di consumo è aumentata. Soprattutto, nella catena del valore ai contadini e operai africani rimane una misera parte di quello che producono. Se non si interviene su questa struttura del commercio internazionale, come ci ha insegnato l’esperienza del fair trade, è fare demagogia parlando di sviluppo e cooperazione.

Infine, una buona notizia che viene volutamente taciuta: sono quasi 40 milioni di famiglie africane, vale a dire circa quattrocento milioni di persone, un terzo della popolazione africana, che sopravvive grazie alle rimesse dei migranti. Sono gli immigrati che con il loro sudore, rischiando la vita, facendo enormi sacrifici inviano mediamente 200 dollari/euro al mese nei paesi africani e, più in generale, nei Sud del mondo.

A livello globale, secondo la Banca Mondiale, si tratta di una cifra enorme: 626 miliardi nel 2022, di cui oltre 50 sono andati nell’Africa sub-sahariana. Insomma, sono gli africani che salvano l’Africa, mentre noi ci salviamo la coscienza con quello che chiamiamo “aiuto allo sviluppo”. Ma, quello che è grave e dove potremmo intervenire è sugli alti costi delle transazioni bancarie. In altri termini, per inviare il denaro alle proprie famiglie gli immigrati devono pagare una sorta di “pizzo” al sistema bancario internazionale. Si tratta in media di circa il 9% , ma i dati sono variabili, si può arrivare anche al 20 per cento di commissioni bancarie. Una vera e propria rapina su cui si dovrebbe intervenire.

Così come noi tutti dobbiamo prendere coscienza del fatto che la prima forma di cooperazione internazionale, la più efficace, è una buona accoglienza dei migranti, consentendogli di avere un lavoro dignitoso e legalmente retribuito, con cui possono sostenere direttamente, e meglio di tanti altri soggetti istituzionali, le loro famiglie.

da “il Manifesto” del 31 gennaio 2024

Autonomia, il coraggio che manca al Pd.-di Gianfranco Viesti

Autonomia, il coraggio che manca al Pd.-di Gianfranco Viesti

Sono ormai molti anni che il centrosinistra italiano e il Mezzogiorno hanno divorziato. Il primo sembra non avere più interesse, capacità, di capire il Sud; di interrogarsi sulle leve possibili del suo sviluppo; di intraprendere concrete iniziative.

Tanti meridionali non hanno ceduto alle lusinghe della destra, ma hanno dato prima fiducia ai 5 Stelle e poi si sono astenuti. Fenomeni nazionali, ma al Sud assai più intensi.

Perché il Pd non parla con il Sud, non costruisce e persegue iniziative politiche? Non sembra difficile capirlo. Da un lato, la questione delle disuguaglianze ha perso da tempo centralità nella sua riflessione. Esse non sono, si è sentito spesso dire in questi anni, che il frutto del merito e dell’impegno; che siano di tipo sociale, di genere o territoriali non possono essere la stella polare della strategia politica di un partito «riformista».

Se il Sud è indietro, è prevalentemente per colpa dei suoi cittadini e delle sue classi dirigenti; destinare risorse è controproducente (Rossi, ex parlamentare Pd); o, al meglio, inutile. Dall’altro, e parallelamente, è forte la sfiducia nella centralità dell’azione pubblica: meglio lasciar funzionare il mercato e magari aggiustarne un po’ gli esiti; favorendone i meccanismi, ad esempio differenziando sempre più i salari fra Nord e Sud (Ichino, altro ex parlamentare Pd).

Non appare casuale che alcune delle scelte più antimeridionali degli ultimi anni portino la firma di parlamentari (allora) del Pd: dall’autonomia differenziata di Gian Claudio Bressa al federalismo fiscale di Luigi Marattin. E che proprio la strada dell’autonomia regionale differenziata sia stata aperta dall’intesa siglata a febbraio del 2018 dall’attuale presidente del Pd Bonaccini e dall’attuale commissario europeo Gentiloni.

Certo, il quadro è oggi un po’ diverso, quantomeno in alcuni protagonisti. La nuova segreteria apre speranze. Ma la concreta azione politica sembra ancora limitarsi ad agire di rimessa sulle iniziative del governo. Non che ne manchi ragione. Ma questo sembra insufficiente a ricreare fiducia e a rendere più tangibile un diverso esito elettorale.

Se non si sana questo divorzio entrambe le parti vanno incontro a un futuro difficile. Il Pd non può pensare di costruire uno schieramento che vinca le elezioni senza i voti del Sud. Il Mezzogiorno, lasciato alle dinamiche spontanee della demografia e dell’economia, in condizioni strutturali di evidente minorità rispetto al Centro-Nord e a gran parte dell’Europa, non può che vedere rinsaldarsi le sue «trappole del sottosviluppo».

Come farlo? Più facile dire cosa sarebbe bene evitare: dal lasciare carta bianca a presidenti di regione meridionali che da tempo ormai giocano in proprio, al tirare fuori dal cilindro iniziative estemporanee, come fatto da alcuni ministri della coesione, destinate a sfiorire rapidamente.

Per il resto, non si sfugge all’impressione che occorra una lunga e paziente ricostruzione di un pensiero politico generale, che parta proprio dalla centralità della lotta alle disuguaglianze (come suggerisce Carlo Trigilia in un bel libro recente) e delle grandi politiche pubbliche, a cominciare da sanità, istruzione e welfare; e in questo quadro occuparsi dei venti milioni di abitanti della più grande area in ritardo di sviluppo d’Europa. Come sempre nella storia, il futuro del Sud dipende molto più dalle grandi politiche generali del paese che da misure specifiche.

Una splendida occasione per allenarsi, e per fare i conti con franchezza con il proprio passato, potrebbe essere proprio quella dell’autonomia differenziata. Da contrastare non solo ed esclusivamente al Sud, come sembra stia avvenendo, per raccogliere qualche voto per le prossime europee, ma glissando sul tema nel resto del paese. Ma da leggere come grande questione politica nazionale ad opera di un grande partito nazionale.

Un progetto scellerato non perché è «contro il Sud», e quindi implicitamente «a vantaggio del Nord», che per bontà dovrebbe evitarlo. Ma perché frammenta e indebolisce le grandi politiche pubbliche nazionali e la loro capacità di costruire un paese migliore; perché lega i diritti dei cittadini ai luoghi dove essi vivono; perché esclude il Parlamento dalle scelte più importanti, oggi e in futuro (una concreta anticipazione del premierato).

Un’occasione per una riflessione sui propri principi politici di fondo applicata ad un caso concretissimo. Non facile, certamente. Ma in fin dei conti, considerare che su questo tema la Conferenza Episcopale e la stessa Banca d’Italia sono più «a sinistra» del Pd di oggi potrebbe far riflettere e dare coraggio.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2024

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Gentile Presidente
ho avuto modo di conoscerla e di apprezzare le sue capacità e un indubbio coraggio ad affrontare situazioni complesse (per usare un eufemismo) come quelle della sanità. Per questo sono rimasto stupito che lei non abbia protestato per la sottrazione di risorse alla nostra Regione, finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto, come ha fatto energicamente il presidente della Regione Sicilia, per altro del suo stesso partito.

Ma, questo taglio effettuato dal governo alle risorse regionali non è niente al confronto dei danni irreparabili che comporterà l’adozione della “autonomia differenziata”, che sta per essere approvata dal Parlamento. Infatti, sta per essere trasformato in legge l’esiziale progetto della Lega che spaccherà radicalmente il nostro paese. Quello che era il progetto originario di Bossi si sta realizzando dopo trent’anni. Me ne sono occupato in tempi non sospetti e ho dedicato un capitolo del volume “Lo sviluppo insostenibile “ (Liguori ed. 1994, oggi ristampato dalla casa ed. Città del sole) per quantificare i danni inflitti al Mezzogiorno dalla secessione fiscale del Nord.

Come scriveva negli anni ’80 il noto economista Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno, una variazione verso l’alto o il basso ha una immediata ripercussione sul reddito pro-capite, investimenti, occupazione. Non solo tra spesa pubblica e struttura socio economica del Mezzogiorno c’è una forte correlazione, ma gli effetti di una significativa variazione sono percepibili già in capo ad un triennio. Per questo possiamo prevedere l’impatto di breve e medio periodo della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero della “secessione del Nord”.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le sole regioni che hanno un surplus consistente tra le tasse che pagano e quello che ricevono dallo Stato, tutte le altre o sono in pareggio con piccoli scostamenti positivi (le regioni del Centro-Italia) o sono in deficit come la Liguria e tutte le regioni a Statuto Speciale, e naturalmente il Mezzogiorno con in testa la Calabria. Se la spesa per la sanità e la scuola dovesse essere regionalizzata le regioni in deficit si troverebbero nell’impossibilità di pagare gli attuali salari e stipendi e mantenere, contemporaneamente, l’occupazione in questi settori.

La coperta diventerebbe improvvisamente corta. Sicuramente ci sarebbe un blocco totale e di lungo periodo nel turn over, anzi verrà favorito il pensionamento anticipato, le tasse regionali portate al massimo, nuovi contratti con i sindacati su base regionale. Lo scontro sociale, il blocco delle attività sarebbe inevitabile e il caos regnerà sovrano. Quando l’autonomia differenziata sarà messa a regime, dopo un triennio le conseguenze sull’economia del Mezzogiorno, tenendo conto della correlazione della spesa pubblica con le altre variabili socio-economiche, possono essere così prefigurate: il reddito pro-capite subirà una caduta intorno al 12% , l tasso di disoccupazione arriverà sopra la soglia del 25%, gli investimenti subiranno un tracollo di quasi il 30%.

Possono apparire dati esagerati se non si conosce l’effetto a spirale, quello che Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia, chiamava il principio di “causazione circolare”. Il delinking del Nord non avrà solo un impatto negativo su una gran parte del paese (non solo nel Mezzogiorno) ma porterà ad una frantumazione politica del nostro paese, ad una Unità fittizia in un territorio diviso in tanti statarelli.

Quello che meraviglia è come FdI, il partito della Nazione, possa accettare tutto questo in cambio di un presidenzialismo inseguito come un mantra dai tempi di Almirante. Diversamente Forza Italia, se non avesse la memoria corta, potrebbe rivendicare il fatto che il suo fondatore riuscì a bloccare strategicamente quella secessione del Nord che, all’inizio degli anni ’90, sembrava inarrestabile. I “patrioti” meridionali, per usare le categorie della presidente del Consiglio, debbono essere ricompensati così dopo aver dato il proprio sangue per liberare Trento e Trieste, dopo aver dato braccia e cervelli alla ricostruzione del Nord uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale.

Caro Presidente, Lei ha in questo momento una grande responsabilità: l’autonomia differenziata è la tomba della Calabria e segna la fine dell’Unità nazionale. Non si illuda che i Lep possano risolvere la questione, ci sono tanti modi per renderli inefficaci. Mi creda, non è una questione di appartenenza politica (anche il Pd ha il suo scheletro emiliano nell’armadio), ma di rivendicare il diritto ad una esistenza degna per le popolazioni meridionali, a partire da quella calabrese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2023

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

Di antifascismo c’è ancora bisogno, perché non è ancora finita come la vergognosa farsa dei giorni scorsi a Roma, con centinaia e centinaia di saluti romani ad Acca Larentia e il più o meno silenzio imbarazzato della politica di Governo. Ma c’e’ bisogno soprattutto oggi di un antifascismo a difesa e a tutela della Costituzione, attaccata su piu’ fronti concreti dai provvedimenti legislativi in discussione nei due rami del Parlamento.

Premierato e autonomia differenziata sono i piu’ importanti di questi strumenti legislativi che la nuova destra al Governo propone e che alla fine contrastano con alcuni principi di fondo della nostra carta Costituzionale, frutto – è sempre bene ricordarlo soprattutto in questi giorni – della lotta partigiana. Di tutto questo ne ha fatto motivo di un interessante libro (che martedì 16 sarà presentato a Catanzaro) il presidente nazionale dell’ANPI, l’associazione dei partigiani italiani, Gianfranco Pagliarulo.

Anche l’ANPI infatti è seriamente preoccupata del tema dell’autonomia differenziata ‘’perché’ – dice Pagliarulo – aumenterebbe il divario, e dunque le diseguaglianze, tra aree forti e aree deboli del Paese aggravando ancora di piu’ il differenziale negativo del Mezzogiorno’’.

È pur vero – per tornare ai nodi anticostituzionali – che l’art.116 della nostra Carta prevede forme particolari di autonomia come possibilità ma è verissimo che al suo art.5 c’è il principio dell’unicità e della indivisibilità della Repubblica. Essere antifascisti oggi significa dunque, oltre lo smascheramento del ritorno a forme che ricordano il fascismo storico (i fattacci di Acca Larentia seguono decine e decine di altri casi mai repressi o semplicemente impediti da chi ha invece il preciso dovere di farlo), proporre un’alternativa che è tutta contenuta nella Costituzione, mai interamente applicata, che va difesa nella cura della memoria partigiana e con una nuova narrazione della Resistenza.

L’ANPI da questo punto di vista è avviata ad un racconto del passato come guida per l’azione del presente, per una ripartenza civile e sociale, non trascurando i mali di fondo che affliggono il Paese. Primi tra tutti povertà, disoccupazione, sfiducia.

In questa direzione serve, e in che forme, l’associazionismo democratico? Serve perché le forze politiche eredi di quelle che furono protagoniste della Resistenza non esprimono più l’egemonia esercitata nei decenni successivi alla Liberazione, sono addirittura scomparsi quei partiti e lo stesso contrasto agli attacchi piu’ veementi alla Costituzione, come è appunto il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata, vive momenti alti e bassi, a volte confusi e non pienamente percepibili dall’opinione pubblica.

C’è perciò bisogno di un rinnovato e corale impegno civile, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invocato nel suo tradizionale messaggio il 31 dicembre scorso, ma senza una difesa e una piena attuazione dei principi costituzionali la deriva che si sta prospettando è quella di un espandersi di un impasto di nazionalismo camuffato da primato patriottardo, di razzismo come paura patologica dell’altro, di dirigismo autoritario, persino di pensiero anti scientifico. Alla fine erano tutti elementi propri del fascismo. Oggi si sono rinnovati e la cultura antifascista ha urgente bisogno anch’essa di un rinnovamento chiaro e netto.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 gennaio 2023

Assemblea di “Diritto alla città” a Cosenza.

Assemblea di “Diritto alla città” a Cosenza.

Sabato 18 novembre si è tenuta, nell’Aula magna dell’Istituto Nitti di Piazza Cappello a Cosenza, l’Assemblea pubblica organizzata dal Coordinamento “Diritto alla città” avente per tema la richiesta di “Vincolo paesaggistico” per la città otto-novecentesca avanzata dal suddetto Coordinamento al Ministero della Cultura. Il Coordinamento ha chiesto, per mezzo del “Vincolo paesaggistico”, di porre un argine all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi e che si manifesta non solo nella demolizione di edifici storici e di ricostruzioni con abnormi aumenti di volumetria, ma anche con l’edificazione ex novo di palazzoni nelle aree non ancora edificate soprattutto sulle rive del Crati.

Gli organizzatori dell’incontro hanno sottolineato che queste nuove colate di cemento non solo deturpano gli armonici quartieri storici del Centro cittadino e consumano il suolo nelle aree libere, ma sono del tutto ingiustificate, anche economicamente, visto che è documentato, dati Istat e Ispra, un continuo e deciso calo demografico nella città (a fronte di 6.402 edifici esistenti, 500 sono vuoti) e della Regione (1.243.643 alloggi di cui 482.736 vuoti).

Nel corso dell’Assemblea -molto affollata, attenta e partecipativa- è stata data lettura della risposta che il Direttore generale del MiC, dott. Luigi La Rocca, ha inviato, per conoscenza al Coordinamento e al Sindaco Franz Caruso, ma indirizzata al Segretario regionale calabrese e alla Soprintendenza Abap di Cosenza alla quale “…si chiede di voler fornire, con ogni consentita urgenza, elementi utili a verificare la portata delle trasformazioni in atto nell’area segnalata …. valutando la possibilità di estendere ulteriormente il dispositivo di tutela all’area segnalata, per la cui precisa individuazione si rimanda alla documentazione allegata dall’istante (il Coordinamento), anche in considerazione della sua vicinanza al corso del fiume Crati”.

Al Segretario regionale, invece, scrive che “si ritiene opportuno richiamare – più in generale oltre al caso de quo – l’intensa attività di interlocuzione condotta da questo Ministero nei confronti della Regione Calabria che ha condotto ad una serie di confronti tecnici, tesi a risolvere le pesanti criticità puntualmente individuate nella legge regionale 7 luglio 2022, n. 25 (Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione e il riuso), attraverso una revisione sostanziale del disegno normativo, condivisa tra Regione e Ministero, infine convogliata nella proposta di legge regionale n. 127/2022, depositata in Consiglio Regionale per l’esame di merito, ormai un anno fa, in data 17/11/2022.

Per tutto quanto sopra, ribadendo la necessità e l’urgenza che la corrente attività edilizia sia ricondotta, nella città di Cosenza come in tutta la Regione Calabria, entro un sistema di regole idonee a garantire l’equilibrato sviluppo del territorio ed il sostanziale rispetto dei valori storici-paesaggistici, si rinnova a codesto Segretariato regionale del MiC l’invito a fornire eventuali aggiornamenti sull’iter di approvazione della suddetta proposta di legge, intraprendendo, se necessario, formali contatti con i preposti uffici dell’ente regionale”.

Sulla base della risposta del MiC e, soprattutto, sulla base della spinta calorosa data al Coordinamento dai cittadini nel corso dell’Assemblea, si è proposto di organizzare una seconda Assemblea da tenersi nelle prossime settimane in preparazione di un confronto pubblico che si chiederà di avere con il Sindaco di Cosenza per discutere non solo del Vincolo –che, si auspica, vorrà apporre a brevissimo la Soprintendenza Abap di Cosenza-, ma anche, prima che sia approvato in via definitiva dal Consiglio Comunale, del Piano Strutturale Comunale (PSC), per suscitare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Autonomia, manca la vera ribellione.-di Filippo Veltri

Autonomia, manca la vera ribellione.-di Filippo Veltri

Il percorso dell’autonomia differenziata del leghista Roberto Calderoli corre e nessuno protesta sul serio. Martedì scorso il testo il testo e’ arrivato nell’aula del Senato, dopo essere stato licenziato dalla Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama.

Pietro Massimo Busetta ha lanciato un allarme ma i sordi e i ciechi continuano ad essere la maggioranza. Tutti sanno infatti che l’autonomia cosi’ voluta dal ministro leghista danneggera’ ulteriormente il Sud e in assenza di una crescita a due cifre la spesa storica rimarra’ invariata. La domanda che Busetta si e’ posta e’, dunque, scontata e naturale: se cosi’ e’ come mai non si ribella una realta’ che sia nel passato che oggi e’ penalizzata, dove non arriva manco piu’ il Giro d’ Italia ciclistico? Come mai il Sud non si ribella e anzi (sempre Busetta) continua a dare consenso e aiuti agli ascari locali che da Roma governano il Paese?

C’e’ davvero un punto politico irrisolto in questo assordante silenzio e in questo vuoto di iniziative continue (e non episodiche e marginali come purtroppo stiamo assistendo da mesi e anni). Riguarda destra e sinistra dello schieramento politico, ma ovviamente piu’ la sinistra non fosse altro che per la provenienza del DDL Calderoli, ora oggetto di scambio per il disegno della Meloni sul premierato. Invece unica voce forte delle ultime ore paradossalmente (ma poi non tanto) e’ stata quella del presidente di Forza Italia della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, il quale in un’intervista alla ‘Stampa’ di Torino nei giorni scorsi non ci e’ andato leggero. Anzi.

Leggete quello che ha detto: ‘’…il percorso che Calderoli propone per l’Autonomia differenziata non è quello che avevamo pattuito’’. Il ministro leghista vorrebbe prima approvare la legge sull’Autonomia, poi garantire le risorse per finanziare i Lep, ”ma è un approccio sbagliato. Le due cose devono viaggiare insieme, altrimenti – ha ancora detto il governatore azzurro, molto ascoltato a Roma e assai vicino al vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani – per il Sud l’Autonomia rischia di diventare una trappola”.

E ancora: “temo che il primo vagone del treno, quello con la legge sull’Autonomia, arrivi puntuale in stazione mentre gli altri vagoni, che contengono il finanziamento dei Lep e il meccanismo di perequazione, finiscano su un binario morto.
Senza il finanziamento dei Lep e senza il fondo perequativo (destinato ai territori con minore capacità fiscale pro-capite, ndr), i vantaggi per il Mezzogiorno sarebbero pochi. L’effetto finale, in altre parole, sarebbe quello di avere un aumento del divario tra Sud e Nord. Esattamente il contrario di quello che potremmo ottenere. Trovo quindi assurdo che per la possibilità dell’Autonomia si vada di corsa e ci sia un’attenzione spasmodica, mentre per ottemperare a due obblighi costituzionali non ci sia alcuna fretta.

Anche l’idea di permettere delle pre-intese è una fuga in avanti, se non sono finanziati i Lep. Questo modo di procedere non va bene a me e penso non vada bene nemmeno a Forza Italia. Credo di non parlare a titolo personale. I governatori del Sud hanno le mie stesse preoccupazioni. Anche il gruppo parlamentare ha molti deputati e senatori meridionali che come me non hanno pregiudizi verso l’Autonomia, ma vogliono garanzie sulle risorse per i servizi da fornire ai cittadini. Altrimenti la conclusione è chiara a tutti: l’Autonomia non sarebbe più un’opportunità per il Mezzogiorno’’.

Domanda finale: perché al di là degli schieramenti, delle cose dette e fatte in precedenza dallo stesso Occhiuto (pesa come un macigno il suo sì in Conferenza Stato Regioni al progetto Calderoli), dei posizionamenti tattici etc etc (si ha notizie di un tardivo anche in questo in caso ravvedimento del fratello di Occhiuto, il senatore Mario nella Commissione di Palazzo Madama) non si raccoglie, si amplia, si fortifica questo seppur tardivo grido d’allarme?

Se ci sono strumentalismi o giochini da politicanti si verificherà (al tavolo del poker, grande metafora della politica, si arriva fino in fondo e se e’ un bluff le carte bisogna svoltarle) ma intanto si prenda per buono quanto detto e si allarghi schieramento e lotta comune. Il resto e’ altrimenti solamente silenzio o grida nel deserto!

da “il Quotidiano del Sud” del 18 novembre 2023

Riforma costituzionale, progetto sgangherato e autoritario.-di Enzo Paolini e Felice Besostri

Riforma costituzionale, progetto sgangherato e autoritario.-di Enzo Paolini e Felice Besostri

Una proposta di riforma definita “light”, come se fosse un cocktail di mezza sera.
Soli cinque articoli per demolire l’impianto costituzionale costruito in maniera certosina, intelligente, lungimirante ed efficace e poggiato sui pesi e i contrappesi nella distribuzione del potere di un ordinamento seriamente ed effettivamente democratico.

Il primo cambiamento, il nucleo, quello più demagogico e distruttivo introduce l’elezione diretta del Presidente del Consiglio ed il premio di maggioranza per le liste ad esso collegate in modo da raggiungere “sulla base dei principi di rappresentatività e governabilità” il 55% dei seggi.

Così, senza soglie minime di votanti e/o di voti ottenuti. Semplicemente chi vince con un voto in più prende tutto.
La scrittura del DDL è costruita con l’uso di frasi demagogiche e terminologie atte a rassicurare il cittadino che, ovvio, vuole essere rappresentato e vuole governi politicamente seri.

Ma sono frasi di distrazione di masse perché a rifletterci anche solo un poco ci si accorge che non è così .
La prima osservazione è che i due termini – “rappresentatività”’ e “governabilità” – cosi come proposti nel DDL sono del tutto incoerenti e, per quanto riguarda il secondo – la asserita “governabilità” – anche pericoloso.
Come può essere rispettato il principio di rappresentatività se chi vince, poniamo con il 25% (cioè una maggioranza relativa), prende il 55% dei seggi delle Camere lasciando al restante 75% del corpo elettorale il residuo 45% da dividere tra tutti?

La “governabilità” poi è un concetto dannoso ; ed infatti non c’è nella Costituzione.-
E’ stato introdotto con subdola demagogia – e sublimato dalla “narrazione” berlusconrenziana – per giustificare il sistema elettorale dei nominati e dei premi di maggioranza a chi non è maggioranza per poter cantare stucchevolmente il ritornello suggestivo, dei vincitori che si devono sapere la sera delle elezioni, del chi vince prende tutto.-

Ma le elezioni non sono una partita di calcio da raccontare, con vincitori e vinti, la sera alla domenica sportiva
Le elezioni sono fatte per fotografare il paese e tradurre la rappresentanza proporzionalmente nelle aule parlamentari. Per organizzare la traduzione del consenso in leggi parlamentari la Costituzione prevede altri organismi: i partiti.-
Ma se i parlamentari non sono eletti in base al consenso bensì in base alla indicazione dei capi allora i partiti non hanno più motivo di esistere.

Ed infatti sono morti. Esistono liste fatte da cinque/sei persone che nominano tutto il Parlamento.
Il nostro sistema non è più fondato sul consenso, sul legame sociale tra elettore ed eletto quanto piuttosto sul rapporto fiduciario tra nominante e nominato.

Un rapporto tra pochi che restringe il campo del dialogo sociale e crea di fatto una oligarchia.
E provoca il fenomeno dell’astensionismo.
E’ quello che avviene oggi nel nostro Paese.

Dove una classe dirigente che tutti definiscono inadeguata ma che sarebbe più rispettoso definire semplicemente non legittimata propone la più sgangherata ed autoritaria delle riforme.-
Come una responsabilità del genere possa essere consentita ed anzi affidata a chi ha devastato il Paese con una legge elettorale che ci ha condotto sin qui e che nonostante i ripetuti moniti della Corte Costituzionale (e gli inutili gargarismi di tutti i politici a parole contro ma nei fatti a favore) non si riesce ad estirpare, è un fatto che appare incredibile ma ha una sua logica.

Un’ultima considerazione su un’affermazione che spesso si sente dire ma è sbagliata: “l’Europa ci chiede una Costituzione e una legge elettorale che diano stabilità e chi rema contro rappresenta la solita Italia dei gattopardi”. Chiariamo: l’Europa non ci chiede stabilità politica con leggi truffa. Ci chiede la stabilità fatta dal lavoro di mediazione, della ricerca del consenso, di ciò che unisce e non divide la maggior parte dei cittadini, un duro lavoro che si chiama, appunto, politica. Ed è l’Europa dei popoli. Il contrario di ciò che ha fatto e sta facendo questo ceto politico di destra o di sedicente sinistra.

Nel gergo dell’Europa delle multinazionali, nel mondo delle Casellati, stabilità invece vuol dire decisioni di pochi senza tante chiacchiere, senza leggi da discutere e da emendare, senza dover sentire le opinioni altrui, senza dover indicare e magari cambiare qualcosa. Chi vince la sera delle elezioni, anche se rappresenta una minoranza rispetto alla somma di tutti gli altri, prende tutto il cucuzzaro, e comanda. Non si deve impegnare a ricercare le alleanze, quelle che fanno poi la stabilità. No. Comanda uno e fine della storia.

Ma se governare non è comandare, se governare è convincere gli altri della giustezza delle proprie idee e delle proprie proposte, perché si ha paura delle idee diverse? Perché per poter avere la fiducia si devono attribuire per legge centinaia di seggi non corrispondenti alla volontà popolare? Questo è un segnale di debolezza e non di forza, e la storia insegna che i sistemi fondati sulla debolezza delle idee prima o poi si sostengono con la forza della dittatura. Non è un’esagerazione, perché se ci si riflette, con pacatezza e senza pregiudizi, ci si accorge che una maggioranza forzata – cioè attribuita per legge in favore di quella che, secondo le urne , è una minoranza – è una forma di dittatura. I “partiti unici”, sono nati così.

L’esatto contrario della democrazia, che prevede l’incontro tra le forze politiche per formare i governi DOPO le elezioni; dopo cioè, che si è verificato cosa, come e chi vogliono gli italiani.

Come recentemente ha detto Gustavo Zagrebelsky la parola “governabilità” è ambigua, parola impropria, sdrucciolevole che prevede arrendevolezza da parte dei “governati”. Le mandrie sono governabili. Ciò che si vuole con quella parola ingannatrice – continua il Presidente emerito della Corte Costituzionale – è rafforzare il potere “pastorale” con un rovesciamento del paradigma democratico: dalla legge come confluenza delle libertà sociali, operanti nel Parlamento rappresentativo, alla legge come imposizione decratata dal governo. Sono prospettive radicalmente diverse.

Una ultima notazione su una parte del DDL che passa inosservata perché viene proposta come un ulteriore salutare “dimagrimento” del numero dei parlamentari. Parlo del cosiddetto “superamento” del numero dei senatori a vita, ridotti ai soli ex Presidenti della Repubblica. Niente più nomine di personaggi che hanno illustrato il Paese nel campo sociale, culturale, artistico e scientifico.

Ma le intenzioni dei Costituenti non erano quelle di incrementare banalmente i laticlavi senatoriali con cinque persone ( peraltro di rilievo assoluto).

Era quello di elevare proprio il tasso di rappresentatività in maniera tale da far entrare in Parlamento un pezzo – di livello massimo – di società civile tale da poter influire – per quanto possibile – sul censo tutto politico.
Oggi si fa il contrario: è bene che la “casta” rimanga da sola, pochi, fedeli e tutti con gli stessi orizzonti e gli stessi interessi: il potere ed il mantenimento del potere.

Così non si avrà il fastidio di sentire, ad esempio un tal Norberto Bobbio il quale, appunto, da senatore a vita ebbe a dire: “meglio cinquanta governi in cinquanta anni che un solo governo per venti”.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 novembre 2023.

Italia-Albania: una lunga storia che passa per la Calabria.-di Tonino Perna

Italia-Albania: una lunga storia che passa per la Calabria.-di Tonino Perna

Il recente accordo tra il governo italiano e albanese, per la gestione di una quota di immigrati che arrivano sulle coste italiane, sta suscitando molte polemiche sia in Albania che in Italia perché i rispettivi parlamenti non sono stati coinvolti. Da parte italiana è nota l’incapacità di gestire i flussi migratori malgrado ci sia una crescente domanda di lavoro insoddisfatta: secondo Confindustria mancano all’appello circa 300mila posti di lavoro che si vanno a sommare alla carenza di manodopera stagionale in agricoltura e nel turismo.

Basterebbe organizzare veri corsi di formazione, in accordo con le aziende, per trasformare quello che viene sbandierata come una “emergenza” in una opportunità per il nostro paese, che fa registrare da anni un pesante e crescente deficit demografico. Sull’altra sponda, il presidente Rama ha accettato questo accordo con la nostra premier motivandola, in primo luogo, come riconoscenza all’Italia che ha accolto negli anni ’90 gli albanesi che fuggivano dalla miseria (91-96) e dalla guerra civile (1997).

Per la verità sulla qualità di questa accoglienza ci sarebbe qualche dubbio. Val la pena ricordare che gli “invasori”, così furono definiti nell’estate del ’91, furono stipati nello stadio del Bari come fossero prigionieri politici. Ma, soprattutto, il Venerdì Santo del 1997, esattamente il 28 marzo, in piena guerra civile, che causò la morte di oltre mila albanesi, il governo italiano decretò il blocco navale con conseguenze tragiche: la nave Kader y Radesh , carica di donne e bambini, fu affondata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana causando più di cento morti.

Che il presidente Rama parli di riconoscenza per giustificare l’accordo con il governo italiano per trasferire sul territorio albanese 36.000 immigrati l’anno, suona un po’ strano. Non solo per quanto sopradetto, ma anche perché si può parlare di reciprocità se l’Albania accogliesse dei profughi italiani e non i flussi migratori che provengono da altri paesi. La reciprocità, la vera riconoscenza, tra una parte d’Italia e l’Albania si è verificata nel XV secolo e ha lasciato segni visibili e duraturi, come dimostra il legame che esiste ancora oggi tra gli albanesi di Calabria, detti arbereshe, e il Paese delle Aquile.

Quando l’impero ottomano invase l’Illiria, come si chiamava un tempo, gli albanesi che riuscirono ad attraversare l’Adriatico con mezzi di fortuna, sbarcarono sulle coste pugliesi e furono accolti, in migliaia, dal Re di Napoli, Alfonso V di Aragona, per l’appoggio militare ricevuto da Scanderberg, quando era stato in difficoltà, sia per la rivolta dei baroni, sia perché attaccato dai turchi sulle coste pugliesi.

Come mi ha spiegato un caro amico albanese, Ilir Ghedeshi, direttore di un Centro di Ricerche Economiche e Sociali, la vera posta in gioco che ha determinato la firma dell’accordo è l’entrata dell’Albania in Europa. Il Presidente Rama ha bisogno dell’appoggio italiano per vincere la resistenza del governo greco che da sempre osteggia questa opportunità che è molto cara agli albanesi. Non si capisce, infatti, perché siano entrati altri paesi dell’est europeo che in passato erano in condizioni economiche e giuridiche messe peggio dell’Albania.

Un paese che ha mantenuto una stabilità monetaria anche quando altre valute fuori dall’euro crollavano, un paese dove vivono circa ventimila italiani , centinaia di imprenditori, che ha una forte integrazione economica con l’Italia nel settore dell’abbigliamento e delle calzature, che ha fatto registrare negli ultimi anni un vero e proprio boom turistico. Insomma, non si capisce perché Bruxelles rimandi continuamente la data dell’entrata dell’Albania nella Ue. Adesso sembra che anche il 2030, che era stato fissato per ufficializzare questo passaggio, possa saltare.

Al di là di questo poco presentabile accordo, l’impegno italiano per l’entrata dell’Albania nella Ue è un atto dovuto. Lo chiedono i 242.000 cittadini albanesi che hanno ottenuto la cittadinanza italiana, gli altri centocinquantamila regolarmente soggiornanti nel nostro paese, brillantemente inseriti nel nostro tessuto economico, sociale e culturale. E, a mio modesto avviso, dovrebbe chiederlo anche la Regione Calabria per i forti legami che ha con questo popolo, come testimonia fra l’altro la recente visita in Calabria del presidente albanese Bajram Begaj e il suo caloroso incontro con il presidente Occhiuto. La Regione non ha questi poteri ma una iniziativa in tal senso avrebbe un valore simbolico e politico da non sottovalutare.

L’integrazione europea dell’Albania è già avvenuta attraverso il nostro paese, si tratta di avere un po’ di coraggio e diplomazia per convincere il governo greco a togliere il veto, legato a storiche, e superabili, rivendicazioni territoriali.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 novembre 2023

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

Ho aspettato un po’, forse troppo, per scrivere di una cosa che avevo
ascoltato in diretta sin dai primi d’agosto e che poi ho, più o meno
ritrovato identica ma su pagina scritta alcune settimane dopo: parlo
della pensata di Mimmo Cersosimo, docente dell’Unical (e non solo)
sulla Calabria.

Ho atteso perché mi sembrava (ed ancora oggi in parte mi sembra)
un quadro dipinto a tinte fosche, forse troppo fosche, con le tante
maglie nere collezionate dalla Calabria ma che poi alla fine disegna
uno sviluppo possibile.

I guai della sanità, il tasso di disoccupazione, i giovani che scelgono
di vivere e lavorare lontano dalla loro terra, la pressione della
criminalità organizzata. Una societa’ definita da
Cersosimo «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una
modernizzazione passiva». In una parola «estrema».

Andiamo a rileggere il saggio scritto per il Mulino “Calabria, l’Italia
estrema“: Cersosimo si sofferma sui mali di una regione «dove la
somma delle patologie nazionali si raccolgono». E poi ci sono i soliti
stereotipi. La ‘ndrangheta genera altra ‘ndrangheta? «C’è una
narrazione negativa sulla Calabria: terra degli ultimi, maledetta, di
‘ndrangheta, di scansa fatiche, di illegalità, di evasione fiscale. Siamo
entrati in un meccanismo perverso dove se evadi quasi quasi ti
seguo, se tendi a sopraffare le idee altrui lo fanno anche gli altri,
quindi lo stereotipo alimenta lo stereotipo e alcune volte quando
succede la realtà si avvicina molto allo stereotipo».
Chi è, o chi sono, i colpevoli di questo inesorabile declino? «Le colpe
sono tante, soprattutto di alcune politiche. 

Il liberismo ha mortificato
e marginalizzato le aree più lontane dal centro», dice Cersosimo che
poi ammette: «anche i calabresi hanno le loro colpe, in qualche modo
si sono assuefatti adattandosi a questo status quo, c’è una sorta di
convenienza al non sviluppo, una convenienza sociale diffusa». Cosa
si può fare? «Si potrebbe fare molto, è difficile che le forze interne
riescano a risolvere e superare il problema. C’è bisogno di un
destabilizzatore esterno.Qualcuno che ha interesse a rompere questo
equilibrio, ad interrompere il sottosviluppo ma non siamo noi, deve
essere qualcuno esterno».

Ad esempio? Forse lo Stato o l’Europa, sicuramente noi non ce la
facciamo da soli». Magari gli studenti dell’Unical e delle altre
Università calabresi. «Da soli non ce la fanno, molti vanno via. I
migliori spesso tendono ad andare via, quindi c’è una sorta di exit, c’è
l’abbandono e molte energie sane – quelle che potrebbero contribuire
al cambiamento – mollano la Calabria e svanisce qualsiasi possibilità
di cambiare le cose».

La Calabria è dunque perduta? È destinata a
svuotarsi come indicano le proiezioni statistiche? Resterà lontana e
impenetrabile, nonostante la sua bellezza variopinta, che Leonida
Repaci descrisse a futura memoria? Continueremo, noi che ci
abitiamo, a ignorarne i dati e fatti crudi, a esorcizzarli, per esempio,
con il ricordo stucchevole e inattuale dell’antica scuola
pitagorica? Per quanto tempo potremo ancora sottovalutare le
storture e le risorse in ombra di questa regione? A chi gioverà
nascondere le nostre colpe, in perpetua malafede, dietro al mostro, al
mito della ’ndrangheta? Sono domande in cerca di risposte.

Alcune settimane fa di tutto ciò se ne è poi parlato all’Unical,
all’interno di un seminario proprio sul saggio di Cersosimo e
l’economista è andato ancora più giù: la Calabria ha un disperato
bisogno di «liberarsi dalle edulcorazioni retoriche: la tipicità senza
tipico, i borghi senza comunità, i paesi appesi sul mare senza acqua
nei rubinetti delle case, l’accoglienza senza ospedali umanizzati».
Conclusione: Cersosimo ha ragione nel quadro d’assieme.

Pessimista? Semplicemente realista? Ma il punto é ragionare su
come fare: dove può andare la Calabria con tali limitazioni? Non è
giunto il momento di dirci la verità, di svecchiare ad esempio – tanto
per dirne una – i reparti amministrativi, di reclutare risorse giovani, che
sono il leitmotiv di tanta retorica politica? Non c’è bisogno, nel settore
amministrativo pubblico della Calabria, nei Comuni e altrove, di
formazione adeguata ai tempi e di una capillare verifica dei risultati?
Cambierebbero le cose? Forse ma e’ l’unica strada.

Il resto sta nei calabresi stessi, se sapranno mettere in rete le cose
buone e respingere quelle cattive. Una botta di vitalita’ in un mare di
guai e’ quello che ci vorrebbe.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2023.
Foto: Salvatore Piermarini.