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Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Quella ricerca del benessere che non è effimera.- di Piero Bevilacqua

Mettere al centro della propria riflessione la felicità può facilmente apparire, di primo acchito, occuparsi del godimento effimero, dell’edonismo individualistico che domina l’epoca. Fraintendimento a cui sfugge subito chi un po’ ricorda l’origine storica di questo lemma e soprattutto chi conosce l’autore che ne tratta. Domenico De Masi nell’agile e denso libretto La felicità negata (Einaudi), fuga subito il possibile equivoco, mostrando come il termine sia figlio dell’Illuminismo. Esso compare nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 quale diritto di tutti gli uomini alla «vita, la libertà, la ricerca della felicità».

Sappiamo peraltro che la felicità civile di cui parla De Masi diventa lo scopo del buon governo nelle teorizzazione degli illuministi napoletani, da Galiani a Filangeri e si ritrova nella Costituzione giacobina del 1793 in Francia. Ma l’autore la rintraccia addirittura nel 1759, addirittura in Adam Smith. Il fondatore dell’economia politica, che per decenni è stato evocato da migliaia di politici e intellettuali orecchianti per nobilitare il più sfrenato mercatismo, considera virtuosa la ricerca della felicità. Come fa nella Teoria dei sentimenti morali, dove tuttavia considera vera virtù solo la ricerca della felicità comune, mentre «il meno virtuoso… è quello che non tende ad altro che alla felicità di un individuo». Quale grandezza in questa borghesia del Settecento, di fronte alla famelica ottusità di quella dei nostri anni.

In questo testo arioso, scritto con il nitore narrativo di chi ha lunga familiarità con i temi trattati, l’autore compie a mio avviso un’operazione compositiva geniale, che contiene alla fine una critica dirompente al sistema capitalistico giunto a questa fase estrema di sviluppo. Un’apertura di orizzonte di cui dovrebbero impossessarsi e trasformare in discorso corrente la politica radicale, le nuove generazioni. De Masi, dopo una breve introduzione in cui elenca tutte le conquiste grazie alle quali potremmo essere tutti felici, ricostruisce la vicenda di due grandi e contrapposte scuole di pensiero: la Scuola di Francoforte e la Scuola austriaca, che da cui è nato neoliberismo. Seguono due capitoli, uno dedicato al lavoro, com’era e come è diventato, e un altro all’ozio, nel quale l’autore offre 5 soluzioni possibili per risolvere il problema della sua crescente rarefazione del lavoro nella società postindustriale e per il conseguimento della felicità civile.

Non mi soffermerò sulla vicenda delle due scuole nelle quali il lettore, oltre a una ricostruzione agile ma circostanziata, troverà un vero repertorio di notizie particolari, che rendono l’analisi ricca di sorprese. A dispetto della vasta letteratura accumulatasi su queste due grandi correnti che hanno attraversato il Novecento, De Masi rende nuova questa pagina storica soprattutto grazie alla sua competenza e al suo sguardo di osservatore dei nostri anni. Egli può mostrare le ragioni per cui il rinnovato marxismo incarnato dalla Scuola di Francoforte, portatore di originalissimi contributi di analisi dei fenomeni culturali della società capitalistica, abbia avuto scarsa efficacia politica.

Fatta eccezione per l’annus mirabilis 1968 e la fine di quel decennio, in cui Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse, diventarono testi sacri per una intera generazione, il resto della produzione non ebbe l’ influenza che arrise alla scuola avversaria. Intellettuali della statura di Theodor Adorno, Max Horkheimer, autori di un testo memorabile come Dialettica dell’illuminismo, Friedrich Pollock, Erich Fromm, Walter Benjamin che ancora gettano luce sul nostro tempo, non andarono oltre una influenza di natura intellettuale. Ma quasi tutti i grandi studiosi che diedero vita all’Institut für Sozialeforschung fondato nel 1923, erano ricchi borghesi che fecero poco o nulla per diffondere le loro idee e per imprimere ad esse efficacia politica.

Diversamente da come operarono Böhm Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e altri economisti, che nella Vienna tra fine Ottocento e primi del Novecento (formidabile crogiolo intellettuale prima del tramonto), diedero vita a quella corrente che verrà chiamata neoliberismo. Costoro, anch’essi ricchi borghesi, erano intenzionati a combattere il socialismo e la classe operaia e misero in piedi circoli per diffondere le loro idee, entrarono nei consigli delle banche, delle imprese, nelle università, nelle redazioni delle riviste più prestigiose. Insomma misero in piedi, sul piano culturale, una esplicita lotta di classe. Alcuni di loro guardarono con favore perfino al nazifascismo.
De Masi ricostruisce la fortuna di questa scuola che negli ultimi decenni si è trasformata nel pensiero unico dell’umanità, la «nuova ragione del mondo» e ci regala anche una pagina storica di applicazione di quel pensiero all’economia italiana: la svendita del patrimonio industriale pubblico da parte di Mario Draghi.

Ma il messaggio più profondo e dirompente del libro, in pagine ricche di analisi in cui splendono i pensieri di Marx, di Keynes, di Simon Weil è che l’infelicità presente, il disorientamento psichico e morale dell’epoca è frutto dello sfruttamento sempre più totalitario del lavoro. Sfruttamento e disoccupazione strutturale che, come dice André Gorz, «è anche un’arma per stabilire l’obbedienza e la disciplina nelle imprese». Uno strumento di ricatto con cui il potere non contrastato del capitale distrugge per cieca ricerca del profitto la società e saccheggia le risorse della Terra. Eppure, ricorda l’autore: «Già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero al lavoro un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità».

Noi potremmo consentirci, grazie al patrimonio tecnologico di cui disponiamo, la possibilità «di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria». La felicità civile è a portata di mano ma l’enorme squilibrio nei rapporti di forza fra capitale e lavoro, ha come esito una società ingiusta, frenetica, fonte di alienazione e malessere. Eppure, luminoso messaggio affidato alle parole di Marx, può esserci felicità anche nella lotta, nell’impegno a migliorare la vita degli altri: «L’esperienza definisce felicissimo l’uomo che ha reso felice il maggior numero di altri uomini. Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti; allora non proveremo una gioia meschina, egoistica, limitata, ma la nostra felicità apparterrà a milioni di persone, le nostre azioni vivranno silenziosamente, ma per sempre».

da “Left” del 27 agosto 2022
immagine: La risata, Umberto Boccioni

Cari grillini, una risata vi seppellirà.- di Tonino Perna

Cari grillini, una risata vi seppellirà.- di Tonino Perna

Lettera aperta ai grillini

Cari grillini
Siete cresciuti velocemente. In pochi anni avete conquistato prima le città, poi le regioni, e infine siete arrivati a essere il primo partito in Italia. Il vostro strepitoso successo ha stupito il mondo ed ha riempito di speranze le nuove generazioni. Con le piazze del “Vaffa…” avete mandato a quel paese la classe politica, incapace e corrotta, avete sognato e sperimentato i primi tentativi di democrazia diretta grazie ad internet, avete immaginato un mondo in cui tutti i cittadini, come nell’antica Atene, a turno potevano esercitare il potere politico e amministrativo.

Per questo avete introdotto paletti al numero dei mandati, per questo avete imposto che i rappresenti politici del M5S si dimezzassero gli emolumenti, investendoli in un fondo per le start up delle nuove generazioni. Avete portato un’aria fresca pensando che come piove sui buoni e sui cattivi, così potessero sostenere questo progetto tanto persone di destra che di sinistra.

Giovani, sognatori, con la faccia pulita, avete raccolto i voti della rabbia sociale, di una parte della sinistra radicale quanto della destra xenofoba, avete entusiasmato e portato a votare milioni di italiani stanchi e insoddisfatti. Avete sfiorato il potere nell’elezioni politiche del 2013, ma non avete ceduto alle lusinghe del mite Bersani, perché voi rifiutavate le alleanze, gli inciuci, i compromessi.

Qualcuno vi ha accusato di non volervi prendere le responsabilità che il voto di massa vi aveva affidato. E nel marzo del 2018 avete risposto a queste critiche con un grande senso di responsabilità: andando al governo con la Lega di Salvini. Un matrimonio che è durato un anno e mezzo per colpa del leader leghista che pensava di far fuori Conte e, sull’onda dei consensi che si gonfiavano a dismisura, conquistare i pieni poteri.

Avete tremato un attimo, ma poi vi siete subito ripresi e fidanzati con il maledetto, nel senso del partito di cui avete più parlato male, il famigerato PD. Tutto sembrava filare liscio finché il toscanaccio non vi ha rotto le uova sotto il sedere. E allora, di fronte al fatto di tornare a casa avete abbracciato tutti i partiti possibili e impossibili, compreso il Berlusca che avete sbeffeggiato per un decennio.

Allo stesso tempo, avete mandato in soffitta i limiti al mandato parlamentare, i vostri capi si sono tenuti stretti alle poltrone come nemmeno i più beceri dei vecchi democristiani. Ma, il massimo è stato quando il presidente Mattarella ha indicato Draghi, il banchiere, l’uomo della Troika che ha spezzato le gambe alla Grecia. Ho scommesso, con uno dei pochi giornalisti che vi ha seguito fin dall’inizio, che sareste andati all’opposizione. Ho perso ovviamente. Ma, quello che supera ogni fantasia, che mi ha letteralmente piegato in due dalle risate, che è stato un colpo di genio degno di un grande comico è stata la frase di Grillo su Draghi: è uno di noi, un grillino!

Se un caro amico non mi fermava avrei continuato a ridere con le lacrime, come un fiume in piena. Non ridevo così da tanto tempo. Un grande Grillo. Lui vi ha creato e lui vi ha seppellito… con una risata.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2021

Foto di Gianni Crestani da Pixabay

Il governo Draghi non definisce il perimetro della sinistra.- di Felice Besostri e Enzo Paolini

Il governo Draghi non definisce il perimetro della sinistra.- di Felice Besostri e Enzo Paolini

Giuramento, previsto dall’art. 93 Cost., del Governo Draghi nelle mani del Presidente della Repubblica, 12 febbraio 2021. La formula del giuramento (art. 1 c. 3 l.n. 400/1988) è solenne “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.
Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021, fiducia al Governo Draghi con 262 senatori favorevoli, 40 voti contrari, 2 astenuti e 17 non partecipanti al voto. Camera dei Deputati, 18 febbraio 2021 con 535 favorevoli, 56 contrari, 5 astenuti e 33 assenti.
Questi sono i fatti, tutto nella norma, a parte la curiosità della data in cifre 12.02.2021, che è palindroma, fatto di un certo interesse per numerologi pitagorici, schiera, cui siamo estranei.

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La discussione
Nella sinistra, cui le gatte da pelare non mancano, stiamo assistendo a una discussione, che se volesse mettere in luce la sua irrilevanza politica, non si potrebbe inventare niente di meglio: il giudizio negativo, senza appello, su chi si appresta a votare in Parlamento la fiducia al Senato e alla Camera, in quanto insensibili ai suoi valori tradizionali e corrotta dal potere e dalle lusinghe dei poteri forti, fino al punto di accettare la Lega ex Nord nella maggioranza e sdoganare il suo leader Salvini.

Fossimo ai tempi dei processi staliniani, che qualcuno ancora rimpiange, ci si spingerebbe fino a qualificarli come servi del nemico di classe o agenti della CIA e/o del sionismo internazionale.
Stiamo parlando di una sinistra, che alle elezioni del 2018 per la Camera dei Deputati ha avuto, nel suo complesso di 5 liste, di cui solo LeU sopra la soglia del 3%, il 4,97%, cioè meno del 5.9% del PSU, (il più votato delle tre liste di sinistra (PSU-PSI-PCdI,) del 5,03% del PSI e appena lo 1,2% in più del PCdI), ai primi vagiti alle elezioni del 6 aprile 1924, mentre i suoi eredi hanno avuto da allora 97 anni di pratica politica.

E non bisogna, dimenticare che si trattava di elezioni svolte, – in un clima di brogli e violenze squadriste denunciate da Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso del 30 maggio 1924 – con la legge Acerbo, la prima con premio di maggioranza, seguita dalla legge 31 marzo 1953, n. 148, meglio nota come legge-truffa, per le elezioni politiche del 7 giugno di quell’anno, dalla legge n. 270/2005 (Porcellum) berlusconian-leghista e, annullata la renziana legge n. 52/2015 (Italicum) prima che fosse applicata, infine la gentiloniana legge n. 165/2017 (Rosatellum), approvata, grazie al precedente Boldrini del 2015, di sconfessione del “Lodo Lotti” del 1981, con ben 8 voti di fiducia: una legge peggiorata con la legge n. 51/2019 del Conte I, giallo-verdebruno, e non modificata, malgrado il taglio del Parlamento ad opera della maggioranza giallo-rossa del Conte bis.

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La costituzione
Se il perimetro della sinistra fosse determinato dalla fedeltà alla Costituzione, nata dalla Resistenza e dalla Liberazione dal nazi-fascismo, avremmo già dovuto amputarla prima delle elezioni del 2018, ma giustamente non è stato fatto, anche se la violazione dei principi costituzionali con le leggi elettorali del centro-sinistra e con le revisioni costituzionali, fallita quella Renzi-Boschi nel 2016 e approvata nel 2020 quella voluta sotto i due governi Conte, sia, in termini valoriali, molto più grave di un voto di fiducia a Draghi, che non ha nominato la Costituzione nel suo primo discorso parlamentare. Tuttavia, a meno di accusarlo a priori di essere uno spergiuro, ricordo che altri, che pure avevano giurato nelle mani del Presidente della Repubblica e nominato la Costituzione, hanno tentato di manometterla e approvato leggi elettorali incostituzionali.

Il governo Draghi è privo di una qualificazione politica fin dall’investitura presidenziale e non l’ha acquisita, fortunatamente, nemmeno dopo, come maggioranza Ursula. La maggioranza URSULA era inaccettabile perché comprende un PPE, con dentro FORZA ITALIA di Berlusconi e la FIDESZ di Orban, e i 26 voti decisivi (è passata per appena 9 voti sopra la maggioranza assoluta) dei clerical-conservatori polacchi di Diritto e Giustizia (PiS) del gruppo politico, ora presieduto dalla Meloni ed esclude la Sinistra europea e i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi. La Lega dopo la sua conversione europeista, per quanto improvvisa e improvvisata, oltre che strumentale, ora potrebbe farvi tranquillamente parte.

Nessuno a sinistra è in grado di dare lezioni. I ricorsi contro le leggi elettorali incostituzionali sono state o iniziative individuali di avvocati elettori, il Porcellum, o di giuristi democratici organizzati nel gruppo avvocati antitalikum, collegati al CDC (Coordinamento per la Democrazia Costituzionale). Tra i ricorrenti solo tre deputati di Sinistra, una della lista Monti e 15 M5S. Contro il Rosatellum i ricorsi diretti alla Corte costituzionale sono stati solo di parlamentari di M5S e di una deputata centrista. Nei ricorsi giudiziali, invece, è rimasto solo un parlamentare di Sinistra Italiana.

Contro Draghi? Ma per cosa in positivo, con quali programmi credibili e realistici per ridurre le diseguaglianze cresciute negli ultimi 25 anni, anche con governi di centro-sinistra? Il collante è stato di volta in volta l’antiberlusconismo, per di più avallando il suo schema bipolare e maggioritario, perché alla sera delle elezioni si deve sapere chi governerà, anche se lontano dalla maggioranza del corpo elettorale. Un impegno, peraltro mai rispettato tra ribaltoni e compravendite vincolo, invece, rispettato dal centro-sinistra, con democristiani e socialisti già investiti dalle inchieste giudiziarie di massa, nelle elezioni 1992. (53,24% e 358 seggi su 630 il pentapartito del governo Andreotti VI (1989-1991) ed anche il quadripartito dell’Andreotti VII(1991-1992) si conquistò 331 seggi, la maggioranza assoluta, con il proporzionale).

Poi il pericolo della rivincita della destra, favorito dalle leggi elettorali maggioritarie e bipolari, fatte saltare dal tripolarismo delle elezioni comparso nel 2013 ed esploso a danno della sinistra nel 2018 grazie ad una legge demenziale, come il Rosatellum, che avvantaggia coalizioni senza programma comune e capo politico unico, con liste bloccate e voto congiunto obbligatorio a pena di nullità e multi-candidature: il diritto ad un voto diretto, uguale, libero e personale è stato rubato agli italiani nel 2005 e mai più restituito, altro che dare la voce al popolo, che in democrazia se la prende da solo.

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Le elezioni
La verità è che non si può votare per queste ragioni, non per la pandemia, visto che nel settembre 2020 è stata creata un’illegittima concentrazione elettorale accorpando il referendum costituzionale e 7 elezioni regionali, ma né la ex maggioranza giallo-verdebruna, né l’uscente giallo-rossa lo possono dire perché la legge elettorale vigente l’hanno voluta loro e l’assenza di tempestivi efficaci controlli preventivi di costituzionalità ha consentito l’entrata in vigore di un taglio del Parlamento, che al Senato viola l’uguaglianza degli elettori e che nel complesso del Parlamento amplifica le distorsioni tra voti in entrata e seggi in uscita e facilita il controllo della maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune da parte di coalizioni con consenso compreso tra il 30 e il 35% dei votanti, in costante diminuzione.

Quella vigente è, quindi, una legge, che rende il vincitore delle elezioni il dominus della nomina del Presidente della Repubblica, in scadenza nel gennaio 2022, e delle nomine di un terzo della Corte costituzionale e del CSM e del rinvio a giudizio del Capo dello Stato, se non si piegasse ai suoi voleri: lo stesso obiettivo dell’Italicum e della deforma costituzionale Renzi-Boschi.

Con questi problemi da affrontare e risolvere, insieme con la pandemia, il risanamento finanziario, la ripresa economica, la disoccupazione di massa e la tutela ambientale, il voto di fiducia è inevitabile ma il suo significato dobbiamo considerarlo uno stato di necessità, derivante dall’assenza di alternative: non c’è un’altra maggioranza e non si può votare con questa legge e se si vota prima della fine del mandato del Presidente Mattarella, la destra deciderà da sola il nome del Presidente della Repubblica, cui spetterà di nominare altri 4 giudici costituzionali.
Il governo Draghi andrà giudicato sui singoli provvedimenti, questo è l’unico metro di giudizio di una sinistra, che voglia dare un segno di esistenza e non di testimonianza di un passato altrimenti glorioso.

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Il Presidente
Approfittiamo della tregua elettorale, che il Governo Draghi impone e del semestre bianco per preparare sia una maggioranza presidenziale, che metta in sicurezza la Costituzione repubblicana e la forma di governo parlamentare, sia una sinistra alternativa. Il governo o di opposizione, lo potrebbe decidere finalmente il popolo nella sua maggioranza reale solo con una legge a impianto proporzionale, che garantisca alle minoranze politiche la presenza e la rilevanza parlamentare prevista dai principi costituzionali.

Con la Costituzione messa in sicurezza, con l’elezione di un suo garante affidabile, l’altro compito del nuovo soggetto politico della sinistra ampia sarà finalmente l’attuazione della Costituzione e dei suoi diritti fondamentali di estensione delle libertà, di eliminazione delle diseguaglianze, del diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione, con gli strumenti previsti dal suo titolo III della Parte Prima, a cominciare dalla tassazione progressiva.

Nel 2022, 130° anniversario della fondazione del primo partito di massa dei lavoratori italiani, dovranno essere poste le fondamenta del nuovo soggetto politico dei lavoratori, che faccia la sua prova alle elezioni del 2023, scadenza naturale della legislatura, con salde radici nei movimenti sociali e la cui collocazione all’opposizione o al governo sarà deciso finalmente da un voto libero e uguale del popolo.

Allora e solo allora, quando sapremo chi siamo e dove vogliamo andare con un’idea forte di futuro, e non più soltanto da dove veniamo con nostalgia del passato, si stabilirà il perimetro della sinistra, senza mosche cocchiere o grilli parlanti che dettino la linea.
Chi non vota la fiducia, merita rispetto, per la scelta che fa responsabilmente. Non sarà per questo un avventuriero o un settario, e neppure, l’unico depositario della verità.

Per concludere, se il governo Draghi definisse, in un senso o nell’altro il perimetro della sinistra: NON CI STIAMO!
Ormai in politica il contingente, addirittura l’effimero, diventa determinante: purtroppo, dopo il voto di fiducia del Parlamento al governo Draghi i buoni e i cattivi saranno-reciprocamente-chi ha votato a favore o contro: una divisione deprimente.
Se la sinistra deve dividersi allora meglio tornare indietro al passato all’uso, denunciato da Alain Touraine, delle parole “socialdemocratico” e “stalinista”, semplici qualificazioni, che come fossero insulti.

Allora, sarebbe, su un altro piano più nobilmente ideologico, contrapporre LENIN a KAUTSKY, la LUXEMBURG a BERNSTEIN o, in casa nostra, in tempi commemorativi del centenario del 1921 TURATI a BORDIGA o MENOTTI SERRATI, o più recentemente NENNI a TOGLIATTI o BERLINGUER a CRAXI, almeno avremmo a che fare con grandi personaggi, per quanto tragica possa essere la divisione, che hanno comportato.
Diversamente, meglio stare a casa, in quarantena, fino all’elezione del Presidente della Repubblica: la maggioranza presidenziale, chi elegge il Presidente e chi è eletto è più importante della maggioranza di governo. Su Gramsci e Matteotti torneremo più avanti.

I media, i partiti, il paese reale.-di Piero Bevilacqua

I media, i partiti, il paese reale.-di Piero Bevilacqua

Più che sulla composizione del governo Draghi, la quale merita certamente una riflessione a sé, vorrei appuntare l’attenzione sulla funzione disvelatrice dell’intera operazione che ha avuto protagonista l’ex presidente della Bce. Non senza tuttavia mostrare stupore di fronte alla nomina di Mara Carfagna a titolare del ministero per il Mezzogiorno.

E’ evidente che quel nome e quella collocazione rispondono al dosaggio spartitorio che ha ispirato la composizione del governo. Ma è questo il rilievo che il nuovo governo assegna a questa vasta parte del paese?

Un Sud devastato da una disoccupazione cronica che la pandemia ha reso disperata, soprattutto per le donne e per i giovani; dalla povertà di centinaia di migliaia di famiglie, alle prese con una sanità inadeguata, con un sistema scolastico e universitario fra i più penalizzati d’Italia, con un territorio che va in rovina ad ogni evento climatico avverso.

Ma vorrei qui sottolineare la portata rivelatrice dello stato di salute delle istituzioni e del mondo politico e mediatico nazionale in queste settimane di crisi e di trattative. Non abbiamo solo assistito a una umiliazione del Parlamento e di conseguenza della volontà politica degli italiani. Forse la manifestazione più clamorosa, che ha esasperato sino al ridicolo, un connotato di antica data del sistema Italia, è stato il vertice di infantilismo giubilante nell’esaltazione della figura di Mario Draghi.

Questa avvilente manifestazione folklorica, che può far sorridere, rivela quanto i media non facciano informazione ma politica, surrogando i partiti, creando un romanzo quotidiano, con le sue trame, personaggi, colpi di scena.

Essi assumono l’aspetto più degradato del comportamento del ceto politico, le sue mosse, personali o di gruppo, dicerie e compongono la narrazione fantasiosa da vendere agli spettatori. I quali vedono così restringersi ed involgarirsi più del reale la loro immagine del mondo politico.

Scompaiono dall’orizzonte i grandi problemi che almeno una parte del ceto politico pone e rimane la vicenda da rotocalco. E’ così che i media, con la loro degradata autoreferenzialità (esclusa la grande stampa, che a qualcuno riferisce) costituiscono un grave problema di immiserimento culturale del paese.

Si rivela l’aspetto forse più grave sullo stato di salute della nostra democrazia.

I partiti e il Parlamento non forniscono più da tempo, ma ora in una forma drammaticamente stridente, alcuna rappresentanza a milioni di italiani. Commentatori ed esponenti politici che teorizzano l’equivalenza fra destra e sinistra, o la conclamata sparizione dalla scena di quest’ultima, magari con un contorno di derisione, sbagliano per superficialità.

In Italia si è assottigliata la sinistra partitica, ma nel paese esiste una “sinistra reale”, milioni di cittadini che in gran parte non votano, non possono esercitare il loro diritto per assenza di rappresentati corrispondenti alle loro aspirazioni. La sinistra reale italiana è composta da lavoratori, stabili o precari, esponenti del sindacato, da una parte del popolo delle periferie, da uomini e donne impegnate nel volontariato, da tanti insegnanti e operatori della scuola, da un ampio e variegato campo di intellettuali, docenti universitari, scrittori, figure dell’editoria, del teatro e dei settori dello spettacolo, giovani ricercatori, spesso pendolari fra l’Italia e vari paesi del mondo.

Questo vastissimo e culturalmente avanzatissimo fronte è spesso raggruppato in associazioni, circoli, blog, comitati locali in difesa dell’ambiente, movimenti, come quelli delle donne, altri capaci di aggregazioni tematiche, come quello coordinato da Fabrizio Barca sulle disuguaglianze, tantissimi raggruppamenti in rete che si occupano di Sud, di ambiente, ravvivati di recente dalle manifestazioni dei Fridays for future. Ebbene, chi rappresenta in Parlamento questa parte rilevante del Paese? Si pone oggi drammaticamente alla responsabilità di questa parte del mondo politico un salto di qualità nella sua condotta.

Può l’attuale gruppo dirigente del Pd liberarsi delle scorie renziane e riorganizzarsi come una formazione di centro sinistra? Può quel che resta della sinistra partitica aggregare per singole battaglie – per una riforma fiscale progressiva, per un sistema elettorale proporzionale, contro lo spreco di danaro del Tav, per la scuola e gli ospedali del sud, per lo jus soli, per il teatro e la piccola editoria – le tante forze disperse nel territorio nazionale?

E’ credibile che un tale sforzo di coordinamento su obiettivi condivisi non farebbe esplodere le convulsioni narcisistiche cui hanno dato luogo i passati tentativi di creare un soggetto politico in vista delle elezioni. Forse si trarrebbero fuori dallo sconforto milioni di italiani, si gioverebbe a tante buone cause, si potrebbe creare col tempo una formazione politica non partorita da tre o quattro leader seduti attorno a un tavolo.

da il “Manifesto” del 14 febbraio 2021

Draghi ingegnere del sistema e non un pilota automatico.-di Alfonso Gianni

Draghi ingegnere del sistema e non un pilota automatico.-di Alfonso Gianni

Tutto si può dire del governo Draghi, se si farà, tranne che si tratti di un governo tecnico. I precedenti, nati sotto quella definizione, Ciampi, Dini, Monti sono tra i governi che hanno più inciso nella vita materiale del paese – vedi per esempio le pensioni – e quindi hanno fatto politica, nel senso più pregnante del termine. Nello stesso tempo troppo diverse sono le condizioni oggettive e soggettive per poter fare paragoni stringenti con quelle situazioni. Con Draghi abbiamo una compenetrazione tra governance europea e governo nazionale.

È persino riduttivo dire che per l’ignavia delle classi dirigenti politiche ed economiche del nostro paese ci tocca il «pilota automatico», un commissario tecnocrate. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore, non solo il suo robot. Mario Draghi ha interpretato diverse fasi della costruzione dell’Europa, qualunque fosse il suo ruolo pubblico o privato. Almeno quattro e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali.

L’epoca delle grandi privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia, per cui il nostro paese divenne il secondo dopo l’Inghilterra thatcheriana per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo Fiscal compact e l’accanimento brutale nei confronti della Grecia. La famigerata lettera assieme a Trichet al governo italiano del 5 agosto del 2011 che tracciò un percorso di lacrime e sangue puntualmente eseguito dai governi che seguirono. Il lancio, seppure tardivo rispetto ad altre parti del mondo, della politica monetaria espansiva, con il Quantitative Easing.

Per arrivare all’intervento sul Financial Times del 25 marzo dello scorso anno, nel quale il debito (quello «buono», non per fini assistenzialistici o per tenere in vita imprese zombie, preciserà altrove) smetteva di essere un tabù e allo stesso tempo si denunciavano i limiti di una politica monetaria espansiva non accompagnata da modifiche strutturali.

Svolgendo la pellicola si ha la visione precisa del costruirsi di una politica, quella del tempo della lotta di classe dopo la lotta di classe – avrebbe detto Luciano Gallino – agìta dal punto di vista dei vincitori. Con Draghi quindi non assistiamo alla morte di tutte le politiche. Ma al funerale di quella di cui sopravviveva solo un ingannevole crisalide, una volta che la rappresentanza politica di una delle parti del conflitto sociale era stata – e si era – cancellata.

Le modalità di formazione del nuovo governo presentano non poche anomalie, anche sotto il profilo costituzionale. Lo si può anche definire un governo del Presidente nei limiti in cui questa definizione ha senso in un sistema che ancora mantiene la forma del governo parlamentare.

Senza indulgere a disutili dietrologie, l’insolito attivismo del Capo dello Stato ne ha certamente determinato l’atto di nascita, nel vuoto umiliante di iniziativa delle forze politico-parlamentari, in una situazione che tutti a parole hanno dipinto tanto drammatica da assimilarla a quelle postbelliche. Se si guarda dal buco della serratura dell’oscillazione dello spread non si sono verificati crolli drammatici come nel passato.

Ma questo dimostra solo la compenetrazione della nostra economia nel quadro internazionale e le attese legate all’innovativo intervento europeo. Ma non risolve il problema della diminuzione dell’occupazione, con giovani e donne le prime vittime, o lo sprofondare del nostro mezzogiorno. I ritardi del Recovery Plan non sono temporali, quanto culturali.

Una classe dirigente cresciuta nel mito dell’austerità e del rigore, naturalmente applicati non a sé (si pensi all’isterica reazione a fronte di una timida proposta di patrimoniale) ma ai più deboli, ovvero alla stragrande maggioranza della popolazione, con difficoltà può essere rieducata alla capacità di spesa. Chi ha negato in ragione di principio la possibilità dell’intervento pubblico diretto a impostare un nuovo tipo di sviluppo economico, trova incompatibile l’idea stessa di programmazione. Le questioni che ha davanti Draghi sono queste, assai più gravi del nome dei ministri, della loro estrazione, se dal mondo delle competenze o da quello di una esangue nomenclatura partitica.

Il tentativo della destra nostrana di riaccreditarsi, anche a livello europeo, dimostrandosi disponibile e vogliosa di partecipare in prima persona nel nuovo governo va respinta non inFoto di Harri Vick da Pixabay nome del perimetro «Ursula», ma sulla base di scelte di programma e di senso del bene pubblico. Su questo fronte era lecito attendersi un atteggiamento più prudente da parte dei vertici sindacali, i quali hanno subito espresso un inusitato endorsement per Draghi, prima ancora dell’incontro promesso.

Tanto più che l’intesa raggiunta sul contratto dei metalmeccanici, che dovrà essere validata dai lavoratori, dimostra che si poteva produrre una breccia nel muro confindustriale, riaprendo uno spazio sociale e democratico che è l’unico modo per influire anche sulle scelte del governo che verrà.

da “il Manifesto” del 7 febbraio 2021
Foto di Harri Vick da Pixabay

Dalla politica all’economia come scienza esatta.-di Tonino Perna

Dalla politica all’economia come scienza esatta.-di Tonino Perna

Non ci è bastato il governo Monti. In ogni fase difficile sembra che in questo paese si possa venirne fuori solo con tecnici prestigiosi, perché i politici sono parolai incapaci. L’idea che passa è che la buona politica coincida con una buona tecnica. La politica non è più l’arte del possibile, secondo una antica definizione, ma un mestiere come quello dell’ingegnere informatico o del dentista. Dietro questo pensiero, sempre più diffuso, c’è l’ideologia della scienza economica come scienza esatta, come la scienza che trova la soluzione migliore per collocare risorse scarse. Per questo sono gli economisti i tecnici più idonei a guidare un paese durante una crisi economica pesante come quella che stiamo attraversando (e non abbiamo visto ancora niente), così come sono i generali a guidare un paese in guerra. Questa è l’ideologia prevalente e, finora, vincente.

E cosa farà il premier Draghi, sempre che riesca a formare un governo stabile, quando si troverà di fronte a scelte difficili? Per esempio: continuerà a bloccare i licenziamenti, come ha fatto finora Conte, o li permetterà indiscriminatamente come vorrebbe Confindustria? E il reddito di cittadinanza, così odiato dalla gran parte delle forze politiche, ma sostenuto strenuamente dal M5S, che fine farà? E rispetto alle diseguaglianze sociali crescenti, rispetto ad un debito pubblico che è arrivato al 160% del Pil quale formula di politica economica potrà adottare per non farlo pagare ai ceti popolari e medi? E la famosa svolta green sarà ancora una volta una riverniciata o una vera conversione ecologica che mette in discussione questo modello di accumulazione capitalistica?

Molte di queste domande contengono le risposte che conosciamo. Purtroppo, quella che si preannuncia è una svolta di segno autoritario per spegnere il fuoco sotto la cenere: la rabbia sociale non avendo più una mediazione partitica esploderà e verrà repressa duramente in nome della salvezza dell’Italia dal caos. In nome della stabilità e della governance dopo aver perso l’articolo 18 i lavoratori dovranno rinunciare ad altri diritti, sempre in nome della salvezza della nazione.

Certo Draghi è molto stimato a Bruxelles e negli ambienti della finanza. Gli va riconosciuto il merito di aver salvato l’Euro e sicuramente il nostro paese dalla speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato. Ci potete scommettere che il giorno che lui dovesse diventare premier la Borsa di Milano, e non solo, avrà un sussulto di gioia, come già i primi segnali dicono. Ci potete anche scommettere che le istanze dei sindacati saranno ascoltate e poi probabilmente bypassate.

Da Bruxelles arriverà il mitico flusso di denaro che momentaneamente potrà dare una boccata di ossigeno. Ma tutte le contraddizioni sociali, territoriali, e istituzionali (rapporto Stato-Regioni) che la pandemia ha fatto esplodere non si risolvono con un semplice aumento del Pil, sia pure rilevante. Dovranno essere prese delle decisioni «politiche», che avvantaggeranno territori e classi sociali diverse, che rafforzeranno il settore pubblico o continueranno a perseguire quei processi di privatizzazione che ci hanno portato tanti danni.

È quasi un anno che serpeggiava il nome del Prof. Draghi, corteggiato dai poteri della finanza e dell’industria, e alla fine è arrivato sulla scena della politica italiana ridotta a tecnica della gestione dell’esistente. Una politica «dragata» potrà avere inizialmente una fase euforica per poi farci cadere nella depressione come fanno tutte le droghe. Con tutti i rischi che conosciamo forse andare a votare sarebbe stato democraticamente più giusto che affidarci all’ennesimo Uomo della Provvidenza.

Vogliamo concludere con una nota di ottimismo: l’essere stato allievo dell’indimenticabile Federico Caffè e avere fatto la specializzazione al Mit con Modigliani, vale a dire con due prestigiosi keynesiani, può aver lasciato una traccia nell’approccio di Mario Draghi alla politica economica. Lo vedremo dal programma e dai fatti.

PS. Ritorna di grande attualità «Per la critica dell’economia politica».

da “il Manifesto” del 5 febbraio 2021