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Un argine al dilagare delle falsità veicolate dal senso comune.-di Lelio La Porta

Un argine al dilagare delle falsità veicolate dal senso comune.-di Lelio La Porta

«Gli immigrati ci rubano il lavoro»: è una delle affermazioni più ricorrenti dei sovranisti nostrani che insinuano fra gli italiani una forma particolarissima di odio fondata sul fatto che gli immigrati rubino il lavoro ai nostri operai: questa narrazione, oltre a essere infondata, serve, invece, «a rendere ancora più deboli i braccianti» sfruttati dai caporali e dai padroni e favorisce la lievitazione smisurata dei profitti. Altro che esaltazione del popolo italiano («Prima gli italiani»); si tratta di uno schierarsi esplicito dalla parte del grande capitale nell’ottica della prosecuzione e dell’estensione del dominio delle classi dominanti sui lavoratori italiani.

QUESTA APPENA RIASSUNTA è una delle contronarrazioni presenti nella raccolta “Contronarrazioni. Per una critica sociale delle narrazioni tossiche” (a cura di Tiziana Drago, Enzo Scandurra, con Prefazione di Piero Bevilacqua, Castelvecchi, pp. 148, euro 17,50).

Il volume, dedicato a Franco Cassano, è il frutto di un lavoro collettaneo di intellettuali, provenienti da discipline diverse, raccolti intorno al sito dell’Officina dei saperi con l’obiettivo di proporre voci in grado di erigere un argine al dilagante senso comune delle narrazioni false e pericolose (come quella esposta all’inizio), che sono in grado, però, di diventare egemoniche poiché, di fatto, ripropongono quanto scriveva Manzoni nel suo romanzo storico a proposito del rapporto fra buon senso e senso comune: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Per sconfiggere la paura del senso comune diffuso, sostenuto da narrazioni che diventano tossiche in quanto producono consenso antidemocratico e conformista, cioè conforme al pensiero neoliberista, e provare a costruirne uno nuovo, sono raccolti testi di Abati, Agostini, Angelucci, Aragno, Bevilacqua, Budini Gattai, Cingari, Drago, Ferri, Fiorentini, Lorenzoni, Marchetti, Masulli, Novelli, Pazzagli, Sangineto, Scandurra, Toscani, Vacchelli, Vavalà, Vitale, Ziparo.

Questi scritti, come fa presente il sottotitolo del libro, si propongono nell’ottica di una critica sociale delle narrazioni, come quella riportata all’inizio. Dalla loro lettura emerge come e quanto il concetto di critica sia usato nell’accezione kantiana del termine, cioè come espressione di giudizi che si contrappongono, in quanto contronarrazioni, alle narrazioni correnti, ricettacolo di falsità e bugie.

«Tutti al centro»: lo spopolamento delle aree interne italiane (60% del territorio) è un fenomeno che non può essere ricondotto a una prosecuzione nel secolo presente di un processo di urbanizzazione iniziato molto prima; è molto di più e ha come prima conseguenza la frattura tra città e campagna.

L’estate appena trascorsa ha visto la realizzazione di alcune lodevoli iniziative in zone interne del nostro paese, nella fattispecie in Abruzzo, con l’obiettivo di «riabilitare i paesi, coltivare le campagne, ricostruire un rapporto equilibrato con la natura». Quindi una contronarrazione operativa che ha messo in discussione, decostruendola, la «metafora sbiadita della stanca modernità del nostro tempo» costituita dal «Tutti al centro».

L’INSIEME delle contronarrazioni costituisce un nucleo di controtendenza nei confronti di una forma egemonica nella quale il capitale, e il suo dominio, ha un ruolo di primo piano. E il capitale, vero convitato di pietra nell’elaborazione dei vari contributi, non è un quid astratto in quanto si concretizza in figure il cui potere, la cui filocrazia determinano l’infuturarsi del rapporto fra gli sfruttati e gli sfruttatori, fra gli oppressi e gli oppressori in forme di ineguaglianza non meno feroci di quelle a cui sono stati sottoposti i subalterni di altre epoche storiche.

Per avvicinarsi all’obiettivo e creare una coscienza collettiva, ossia un «nuovo senso comune» che sappia cogliere nell’urgenza della soluzione dei problemi immediati la prospettiva di una nuova dimensione del vivere in comune, quello che Marx definiva «Das Kommunistische Wesen» e Gramsci «vita d’insieme», c’è bisogno di operare nella realizzazione di una nuova volontà collettiva che, una volta, era veicolata dall’opera dei partiti politici (la cui assenza è sottolineata nel volume), ma ora è carente a causa di mancanza di discussione e di confronto e di incapacità di prendere decisioni e assumersi responsabilità.

ANCHE IN QUESTO GLI SCRITTI che compongono il volume si presentano come pars construens rispondendo all’affermazione di Seneca, nella lettera 104 a Lucilio, secondo la quale «Non è perché le cose sono difficili che non le affrontiamo, è perché non le affrontiamo che sono difficili».

Le autrici e gli autori delle varie contronarrazioni affrontano le cose difficili, con l’onestà intellettuale di chi è gramscianamente partigiano, ossia schierato da e con una parte. L’indicazione sembra essere quella di procedere alla ricerca delle strade che più possano avvicinare la democrazia, intesa come pedagogia della solidarietà e nel rispetto del dettato costituzionale, al socialismo come sistema economico-politico in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna si pongano soltanto come elemento di riflessione e di studio su una storia passata.

La fatica del concetto, di cui scriveva il vecchio filosofo, si concretizza nei testi della raccolta laicamente, al di fuori della politica intesa come potere, bensì come discussione libera ed aperta nella polis, alla ricerca di un’alternativa: l’alternativa come contronarrazione rispetto al «non c’è alternativa su cui il capitalismo fonda il suo potere e il suo linguaggio».

da “il Manifesto” del 4 settembre 2021

Polifonia di voci per immaginare e costruire una città di fratelli. -di Ilaria Agostini

Polifonia di voci per immaginare e costruire una città di fratelli. -di Ilaria Agostini

In vista delle elezioni comunali, un intellettuale collettivo, chiamato a raccolta da Piero Bevilacqua ed Enzo Scandurra, delinea in un «libricino» un nuovo «paradigma urbano». Roma: un progetto per la capitale (da oggi in libreria per Castelvecchi, pp. 96, euro 15) è il palinsesto di un programma politico a sinistra: «è un libro di parte», asseriscono i due curatori introducendo il lavoro, ascrivibile alla categoria della «cultura della proposta».

IL LIBRO GUARDA al passato e, tramite «impietosa» indagine critica, procede verso il futuro in una prospettiva convincente e non priva di creatività. Come nella proposta di Bevilacqua per una Casa delle Scienze Umane, dove, liberati dalle pastoie della «immediata e spendibile utilità economica», i saperi umanistici sono messi al lavoro e divengono occasione di impiego nella conoscenza, per modellare una nuova «cultura di ecologia urbana».

UN INNEGABILE MERITO di questo libro polifonico è rinvenibile nella sua indole «didattica», rivolta a una classe politica carente (quando non ne sia priva) di immaginativa progettuale sulla città e di consapevolezza della materia urbanistica (molto tecnica invero, ma nondimeno politica). L’urbanistica diviene così, nel libro, la cornice narrativa entro la quale riprende forma una «città sciolta nell’acido del mercato», che ha perso la sua dimensione pubblica a seguito dell’assalto privatistico alla ricchezza sociale, della managerializzazione dei servizi, della estrazione – pervasiva e feroce – di rendita fondiaria e immobiliare.

Citando un articolo di Luigi Cosenza (Rinascita, 1944) – «i piani regolatori sono problemi di solidarietà umana» – Scandurra propone al lettore un paradigma profondamente umano – «paradigma urbano» lo definisce, mutuando l’espressione da Bergoglio – nel quale Roma possa affrontare il «passaggio da una città di soci ad una di fratelli». È urgente far pendere la bilancia verso gli esclusi – continua l’urbanista – riducendone «il dolore quotidiano», costruendo un nuovo welfare e sottraendo gli spazi comuni alle «bande organizzate» che li privatizzano.

LE LINEE LUNGO LE QUALI si muove il «Progetto» per Roma si dipanano nelle pagine che seguono, dove si fa irruzione: nelle pratiche solidali dell’accoglienza messe in atto ai margini della metropoli (Roberto De Angelis); nell’agricoltura urbana e periurbana, attuabile da «cooperative di comunità» sui 10mila ettari di terre pubbliche ricadenti nel comune capitolino (Matteo Amati); nella proposta di un parco letterario dedicato a Carlo Levi, che Filippo La Porta innerva di preziose citazioni. La falsa narrazione del social housing e l’urgenza di avviare un piano di edilizia residenziale pubblica, anche tramite il riuso di edifici dismessi, rientrano nel capitolo di Gaetano Lamanna che fornisce inoltre suggerimenti per mettere in atto esperienze di residenzialità alternative alle Rsa, quali i condomìni solidali o i portierati sociali.

DIECI IN TUTTO gli autori, ma un solo pezzo – troppo poco – è a firma femminile, quello peraltro dedicato al più erculeo dei problemi delle città: la trasportistica. Le due urbaniste, Maria Rosa Vittadini e Alessandra Valentinelli, si cimentano in un esercizio di alfabetizzazione sulle possibili vie d’uscita praticate in tema nelle capitali mondiali, che promettono buoni risultati nel segno della messa in comune dei mezzi di trasporto.

L’APPORTO ESEMPLARE, tuttavia, non ha solo natura esogena. Roma è stata capace di formulare progetti memorabili, che Vezio De Lucia tratteggia con autorevole sintesi, ripercorrendo le vicende del governo urbano, da Argan a Petroselli, fino ad approdare al Progetto Fori che, nell’epigrafe che lo condensa, dischiude tutt’oggi il suo fascino: «accorciare le distanze fra centro e periferia, accorciare le distanze fra i tempi della storia». Com’è noto, il progetto viene travolto da una città in piena espansione (Paolo Gelsomini), dove l’urbanistica privatistica – e le invenzioni del Prg: dalle «compensazioni» alle mal congegnate «centralità», dal «pianificar facendo» ai «diritti edificatori» – ha vanificato i «sogni» per una «nuova Roma».

da “il Manifesto” del 27 gennaio 2021
Foto di djedj da Pixabay