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Autonomia, la battaglia prosegue.-di Filippo Veltri

Autonomia, la battaglia prosegue.-di Filippo Veltri

L’anno si chiude come era iniziato: ora che la Corte di Cassazione ha deciso che si farà il referendum sullo scempio dell’autonomia differenziata di Calderoli e soci inizia, infatti, una nuova battaglia che l’Italia tutta e il Mezzogiorno e la Calabria dovranno combattere.

Era abbastanza ovvio che finisse così: le sentenze della Corte costituzionale, pur se accoglievano le eccezioni di incostituzionalità avanzate, non avevano effetti abrogativi ma rendevano solo inefficaci le leggi (o parti di esse) una volta dichiarate incostituzionali. Cioè, esse non possono essere più applicate, ma restano nell’ordinamento giuridico fino a quando il legislatore non legifera di nuovo.

Nel caso in questione, pertanto, la legge Calderoli era stata in parte resa inefficace, ma c’era il quesito referendario giacente dinanzi alla Cassazione ne chiedeva appunto l’abrogazione totale.

Ora i tempi sono stretti e piuttosto presto si verrà a capo di questa incredibile e intricata matassa creata dal vento di una destra incalzante. La mobilitazione creata da un’infinità di forme associative di base, l’evolversi positivo e incoraggiante di importanti contraddizioni all’interno di alcuni partiti della sinistra, nonché la presenza assidua e attenta delle migliori intelligenze costituzionaliste, riaprono il campo.

Si era tentato di sminuire per prima proprio questa portata storica della sentenza della Corte Costituzionale da quanti erano e restano interessati a confondere le idee: “niente di particolare, metteremo qualcosa a posto in Parlamento e andremo avanti…”. Era questo il senso dei commenti successivi al comunicato stampa della Corte che preannunciava l’uscita della sentenza da parte di chi si è inventato lo scempio della cosiddetta autonomia differenziata.

Dopo che la sentenza è stata pubblicata e la Cassazione ha detto la sua, l’atteggiamento del Governo e dei suoi resta ancora questo, pur in presenza di riflessioni, argomentazioni, ricostruzioni giuridiche e studi. Tutto materiale prezioso che conferma l’impressione iniziale: la Corte ha smontato e fatto a pezzi il progetto secessionista della Lega. Il regionalismo solidale e cooperativistico, originalissimo, del quale tutta la scienza giuridica italiana del secondo dopoguerra andava fiera, si collega infatti alle persone, al popolo che troviamo protagonista in tutta la Carta costituzionale.

Vi sono una sola Nazione e un solo Popolo; quindi, una sola rappresentanza politica nazionale per la cura delle esigenze unitarie, affidata al Parlamento nazionale.

Il pluralismo regionale genera “concorrenza e differenza tra regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche”, ma non potrebbe mai minare la solidarietà tra Stato e regioni e tra regioni; neanche l’unità della Repubblica, l’eguaglianza dei cittadini, la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti, la coesione sociale etc.

Il nostro regionalismo è di tipo cooperativistico/solidaristico e non mette le regioni fra loro in una competizione ed è completato dal principio di sussidiarietà che è animato dal principio di adeguatezza. Le norme generali sull’istruzione non sono dunque materia devolvibile alle regioni. Poi c’è il nodo della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni.

Questo articolo, il 3 del ddl Calderoli, avrebbe voluto conferire sostanzialmente al Governo il compito di definire i LEP che la Costituzione affida espressamente al Parlamento ed è stato gravissimo il tentativo di prorogare al 31 dicembre prossimo la Commissione sui LEP (Commissione Cassese). E vedremo ora che accadrà dopo il pronunciamento della Cassazione della scorsa settimana.

La destra in verità dovrebbe fermarsi, se ci fosse accordo nella maggioranza, per riscrivere tutte le parti dichiarate incostituzionali. Non si tratterebbe di “aggiustamenti perfettamente applicabili” bensì di una rinuncia a quella secessione dei ricchi tanto desiderata dalla Lega e dai suoi generali.

Sarebbe però rinunciare a una delle tre colonne che reggono il castello dell’accordo di governo: devoluzione secessionista-premierato-separazione delle carriere dei magistrati e sarebbe, peraltro, una penosa ammissione di sconfitta in una battaglia dove vincono la mobilitazione in difesa della Costituzione e anche l’accorta vigilanza degli organi di garanzia.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 dicembre 2024

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Ci sono due Calabrie: una di chi sta bene (benino diciamo) e una di chi sta male (malissimo diciamo). E convivono sotto lo stesso tetto in una situazione globale che non è certo finita a somma zero.

E dove sta – direte voi – la novità? Lo sappiamo da tempo! Ma la novità stavolta c’è, se uno si prende la briga di leggere tutto e fino in fondo un saggio bello lungo e corposo, denso di dati, cifre, proiezioni, riferimenti, pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia, in questo mese di dicembre 2024 di Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò.

Si intitola ‘’Le due società. Del benessere passivo e delle povertà dei calabresi’’ e non parla solo di economia con freddi dati, micro e macro, ma parla anche, alla fine, di politica. Cioè in una sola parola di quello che la politica, le classi dirigenti nel suo complesso dovrebbero fare e invece non fanno. Ed è questo il punto di fondo.

Riassumere nel contesto di una pagina di giornale il pensiero di Cersosimo e Nisticò non è semplice ma provandoci per i nostri lettori abbiamo ammirato la lucidità, la compostezza, il rigore scientifico di questi due studiosi calabresi, molto noti peraltro da tempo e autori di diversi saggi proprio sulla struttura economica e sociale della nostra regione.

La Calabria – iniziano – è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società. La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%)

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Cersosimo e Nisticò rilevano come più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese.

L’incremento dei calabresi a “rischio di povertà passa dal 34,5 al 40,6% e quelli con “grave deprivazione materiale e sociale” nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, il saggio dei due economisti nota come i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. ‘’Da un lato – scrivono – ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore’’.

I primi calabresi, quelli che definiamo ricchi per comodità, si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

La “seconda” Calabria, quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati non disturba l’estetica della “prima” Calabria, è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

Qui c’è lo scatto che dovrebbe interessare di più la politica perché Cersosimo e Nisticò scrivono testualmente così: ‘’a questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante. I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider’’.

La chiusura parla invece a tutti noi: ‘’le rare imprese di “successo”, le micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”’’.

È il problema dei problemi alla fine quello che riemerge e che anche noi giorno dopo giorno ci sforziamo di fare nella denuncia puntuale delle mille cose che non vanno e nel cercare di dare voce a chi non ne ha affatto e, nello stesso tempo, di dare voce a quelle che i due economisti chiamano le ‘’rare imprese di successo’’, che forse meriterebbero maggiore attenzione.

In mezzo c’è una rete che dovrebbe tenerle assieme e farle crescere queste positive esperienze ma chi se non una classe dirigente, politica e non, ha questo compito? Chi deve agire se non una politica sana che si dedica all’interesse collettivo? Questo è il vero problema delle due Calabrie, che forse sono pure 3 o 4, o anche una sola che vive tutta assieme sotto un’unica capanna, mischiandosi e confondendosi tutti i giorni in una melassa sempre più insopportabile.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024.

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Cosenza. Fusione, il cuore dice no.-di Filippo Veltri

Il mio amico e collega catanzarese Sergio Dragone (ma per tanti anni al lavoro a Cosenza nel Giornale di Calabria diretto da Piero Ardenti) non ha avuto dubbi: lui se potesse – ha scritto- voterebbe no. Io invece, potendo, voterò proprio NO a quel referendum che forse – come dicono in molti -non servirà a nulla, essendo già tutto deciso a tavolino con una procedura arruffona, senza senso e tutta piegata a logiche di potere.

Ma voglio proprio vedere se e come si andrà avanti egualmente se tra un mese e mezzo arriverà una valanga di NO da Cosenza, Rende e Castrolibero! Io intanto vi dico il mio NO in maniera molto semplice e poco intellettualistica se volete e poco politica: voterò NO perché non si cancellano identità, storia, radici, appartenenza in questo modo pasticciato, accelerato, senza un vero coinvolgimento dei cittadini e nemmeno delle istituzioni dei tre comuni.

Senza soprattutto un dibattito che vada a vedere quello che già c’è da decenni e che potrebbe, può, andare avanti e anzi rafforzarsi senza appunto distruggere secoli di storia. Se è vero che Cosenza Rende e Castrolibero sono infatti ormai un’unica cosa dal punto di vista urbanistico e logistico il lavoro da fare sarebbe magari quello di una definitiva unificazione dei servizi primari, un abbattimento dei costi di gestione e altre utility come oggi si chiamano.

Ma non vado avanti su questo terreno perché altri molto più competenti di me in materia di urbanistica lo stanno scrivendo da anni, per ultimo Battista Sangineto su questo giornale.https://www.osservatoriodelsud.it/2024/10/03/altro-fusione-meglio-tre-citta-piccole-misura-duomo-battista-sangineto/

Oltre c’è però il cuore, il senso profondo cioè di una comunità che non può e non deve essere cancellato e mischiato. Questo discorso vale ovviamente per tutte e tre le comunità ma per me cosentino nativo della Massa ancor di più forse. Cioè del cuore vecchio e antico della città, che mi sentirei storpiato in una ammucchiata improvvisa.

Non sono un urbanista nè un esperto di logistica (lo ripeto fino alla noia) e nemmeno uno dei tanti politici di professione che oggi sono per il sì e domani cambiano idea (o viceversa ma il risultato alla fine è lo stesso), ma il mio NO è solo di cuore, di sentimento e di amore.

Troppo poco? Troppo sentimentale? Troppo antico? Troppo antistorico? Sarà tutto questo forse ma una città e una comunità se non vivono anche di quelle cose di che cosa vivono? Che cosa saranno? Che ci saranno oltre i palazzi che già oggi uniscono Cosenza Rende e Castrolibero ? Che ci sarà dentro quei palazzi e dentro quelle case? Pensiamoci un attimo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 ottobre 2024

Partiti dove siete? Tornate in campo!-di Filippo Veltri

Partiti dove siete? Tornate in campo!-di Filippo Veltri

La conclusione della crisi al Comune di Catanzaro, di cui potete leggere nelle quotidiane e puntuali cronache del Quotidiano, una cosa alla fine la suggerisce: i partiti sono spariti. O perlomeno si sono frantumati e fatti a pezzi, sotto il peso predominante di chi aveva ed ha il potere di vita o di morte dell’istituzione in questione. Il Sindaco e il Comune nel caso d’esempio.

Ora non ci interessa tanto approfondire lo specifico del capoluogo regionale (ci torneremo con piu’ calma nei prossimi giorni) ma andare oltre in una riflessione che nei mesi scorsi aveva riguardato, ad esempio, anche la frantumazione dei partiti in quel del Comune di Reggio Calabria.

E’ un fatto grave di cui da decenni si discute nel nostro Paese ma che poi ci ritroviamo tra i piedi nelle occasioni di casa nostra, come per ultimo Catanzaro, senza potere dare una degna risposta. Eppure gli sforzi non mancano per tentare di ricostruire un tessuto connettivo disperso e lacerato (sabato scorso sul Quotidiano abbiamo ad esempio segnalato la rinascita delle Feste dell’Unità in Calabria su iniziativa del PD) ma è poco ed è slegato dalla vita concreta e quotidiana in cui vivono gli stessi partiti, o meglio quel che resta di loro.

Ancora una volta il caso Catanzaro insegna che non bastano certo le Feste dell’Unità per fare contare davvero il partito!
Nel tramonto della Repubblica dei partiti, Diari 1985-1989 di Antonio Maccanico che qualcosa dei vecchi partiti sapeva, Sabino Cassese nella prefazione ha così scritto: «… un mondo in briciole, dove uomini di partito e di governo, capitani d’industria, giudici, si muovono disordinatamente, senza un obiettivo che non sia quello personale, senza rispettare sequenze e procedure o altre regole, richiedendo continue cuciture, arbitrati, compromessi. Insomma, il contrario dei tanto favoleggiati “poteri forti” o della sempre evocata “stanza dei bottoni”».

Nell’ultimo decennio sono venuti al pettine tutti i nodi irrisolti della democrazia repubblicana il cui rinnovamento è stato impedito da gruppi di potere, vecchi e nuovi, e da partiti immobilisti. Il mancato ricambio periodico degli esponenti della classe politica, la più importante risorsa delle democrazie dell’alternanza, ha prodotto guasti per l’economia, per la società, per il sistema politico. La novità rilevante non sta nella semplificazione del quadro politico con la nascita di un sistema bipolare, ma nel cambiamento delle forme di organizzazione della politica che vede mutata la natura stessa dei partiti o, per dirla più semplicemente, vede la scomparsa del partito politico di massa.

Il pensiero di Luciano Canfora è netto: le forze politiche hanno ormai ceduto il passo a oligarchie fondate sulla ricchezza. E scrive così: «Obbrobrio di tutti i partiti, tremate! È il secondo verso della quarta strofe della Marsigliese. Il verso precedente recita: «Tremate, tiranni!», cui segue appunto la drastica condanna dei «partiti» in quanto potenziale fonte di «obbrobrio». L’invettiva è interessante, ancor più se si considera che prima della Rivoluzione non vi erano «partiti», e che essi erano sorti, proprio come effetto e come vettori della Rivoluzione’’.

Appunto: sta qui la contraddizione delle contraddizioni. O i partiti si rendono conto che possono essere i vettori se non di una rivoluzione quantomeno di un vero cambiamento o la crisi si aggraverà. Sempre più aumenterà il distacco tra cittadini e istituzioni, sempre più dilagherà il malessere e il mugugno e al comando ci saranno e ci resteranno i vertici delle istituzioni e i loro commensali, che da 2 mila a 9 mila euro al mese (queste le retribuzioni medie lorde di consiglieri, assessori e sindaci dei comuni capoluoghi) governeranno indisturbati Comuni e Regioni. Alla faccia di quel che resta dei partiti.

da “il Quotidiano del Sud” del 22 settembre 2024

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, i conti non tornano.-di Filippo Veltri

Sull’autonomia differenziata infuria la buriana politica soprattutto dopo la raccolta firme per il referendum (è andata al di là di ogni più rosea aspettativa per i promotori) e in vista della prevedibile battaglia elettorale. Ma è nel merito che ci si sofferma poco, al Nord come al Sud, nonostante studi e ricerche non manchino.

Proviamo a fare due conti, con l’aiuto dell’Osservatorio dei conti pubblici Italiani dell’Università Cattolica. In attesa che vengano definiti i famigerati LEP (livelli essenziali di prestazione) che andranno garantiti su tutto il territorio nazionale, tre economisti dell’Osservatorio (Rossana Caccamo, Alessio Capacci e Giampaolo Galli) hanno fatto un paio di conti e viene fuori che, dato che l’economia del centro nord vale il 78% del PIL nazionale contro il 22 del Sud, ogni punto del PIL trattenuto dalla Regioni piu’ ricche peserebbe tre volte e mezzo in più per quelle più povere.

Si tratterebbe di un guadagno relativamente piccolo per le prime ma di una perdita consistente per le seconde finendo di mettere a rischio la tenuta dei servizi. Prendiamo la Calabria nella simulazione effettuata: su una spesa primaria di 24,5 (tutti i valori sono in miliardi di euro) c’è una entrata di 16,4, con un residuo fiscale di più 8,2.

La Lombardia ha invece una spesa primaria di 140,5, entrate per 189,3 e dunque un residuo fiscale in negativo di 48,5. Dunque la legge Calderoli finirebbe con l’estremizzare le disparità che già oggi dividono l’Italia anziché ridurle e non responsabilizzando la politica locale. In più il sistema della verifica anno per anno dell’allineamento tra il fabbisogno di spesa delle Regioni e il loro gettito fiscale renderebbe ancor più farraginoso il problema.

Anche su questo insistono due noti economisti italiani – Francesco Drago e Lucrezia Reichlin – in aperto contrasto con Sabino Cassese. Prendono in esame la sanità e scrivono: ‘’…La storia dei LEA (livelli essenziali di assistenza, già introdotti nel nostro paese nel 1999) insegna che quando la capacità amministrativa e le infrastrutture sono di bassa qualità come nelle Regioni del Mezzogiorno il finanziamento per ridurre i divari di prestazione non è sufficiente.

La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud e la questione è importante perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Con l’autonomia differenziata gli incentivi alla formazione di classi dirigenti del Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono’’.

I principi su cui poggia la riforma, inoltre, spiegano Drago e Reichlin – sono difficilmente attuabili e se ne discute dal famigerato anno 2001. Come hanno evidenziato la Banca d’ Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio in piu’ di 20 anni poco o nulla e’ stato fatto. Determinare il finanziamento dei LEP è molto difficile ed occorre conoscere i costi standard di ogni bene e servizio che viene erogato in maniera efficiente, determinare il livello di prestazione minima e stabilire i fabbisogni. Missione quasi impossibile.

In sostanza i due economisti alzano l’allarme sul fatto che saranno allontanate le forze piu’ dinamiche della società e della politica locale e invece della responsabilizzazione delle classi dirigente del Sud si otterrà il contrario. ‘’Comunque si rigiri la frittata – secondo Drago e Reichlin – questa legge fa male sia al Nord che al Sud e rischia di gettare il Paese in un caos amministrativo di cui veramente non abbiamo bisogno’’.

Ora la parola passerà nuovamente ai partiti e alle istituzioni, forse alla Corte Costituzionale e probabilmente agli elettori. I dubbi espressi a livello scientifico sono quelli sopra espressi. Vedremo che accadrà nell’immediato futuro.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 settembre 2024

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Il silenzio e la vergogna.-di Filippo Veltri

Poi dici che il turismo va male, che la Calabria è abbandonata, che le cose vanno male etc etc. Poi tenti una narrazione un po’ diversa , meno catastrofica e un tantino più ottimistica. Ma poi ti imbatti in una notizia peraltro un po’ datata anche ma di cui nessuno parla nella vergogna più assoluta e allora ti cadono le braccia e dici: nooo! Dal 22 al 25 luglio cancellati tutti i treni in partenza ed in arrivo dalla Calabria per una interruzione nel tratto Sapri-Battipaglia.

Sono settimane che è accaduto un incidente e i disagi sono pesantissimi per pendolari, turisti etc. Il tutto nel silenzio assoluto di istituzioni nazionali e regionali che promuovono stratosferici risultati per export e turismo. La verità è quella che ha ben riassunto il segretario regionale della Cgil angelo sposato, l’unico che abbia detto una cosa. “Ci troviamo ancora una volta una Calabria isolata e con costi proibitivi per i voli in entrata ed uscita.

Il tema della mobilità, della sanità, delle politiche ambientali, non sono un affare privato, sono i cardini del sistema pubblico di una regione e di un Paese.Il Presidente della Regione Roberto Occhiuto, già in passato interpellato sul tema dei servizi e delle tariffe, intervenga su Rfi e Trenitalia per capire quello che sta succedendo e poi spieghi ai cittadini calabresi che fine hanno fatto i fondi del Pnrr per l’alta velocità in Calabria”.

Potremmo finirla qui e invocare pietà per noi tutti, dimenticati da dio e dagli uomini sulle cose più semplici. Ancora una volta ci viene in aiuto il grande poeta Franco califano: tutto il resto è noia.

da “il Quotiando del Sud” del 20 luglio 2024

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

La strada stretta di Occhiuto.-di Filippo Veltri

Per il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, la strada sull’autonomia differenziata si fa sempre piu’ stretta, tra alleati interni e opposizioni. Da un lato Occhiuto ribadisce le perplessità sui modi e sui tempi dell’approvazione della legge sull’autonomia differenziata e per ultimo al consiglio nazionale di Forza Italia ha usato parole nette. «Il ddl Calderoli, purtroppo, è arrivato all’ok finale delle Camere senza che contemporaneamente sia giunto al traguardo anche il superamento della spesa storica.

Spero che Forza Italia, così come ha sempre detto il nostro leader Antonio Tajani, metta al centro della sua azione proprio il superamento delle differenze territoriali, archiviando definitivamente la spesa storica a favore dei fabbisogni standard. Il mio auspicio è che Forza Italia non voti in Consiglio dei ministri e in Parlamento alcuna intesa con singole Regioni se prima non saranno interamente finanziati i Lep, e se non ci sarà la matematica certezza che determinate intese possano produrre danni al Sud».

Forza Italia ha anche dato vita all’Osservatorio sull’Autonomia differenziata costituito dai massimi responsabili istituzionali e politici del movimento, il vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, il Ministro per le Riforme istituzionali Elisabetta Casellati, il sottosegretario all’Economia Sandra Savino, i presidenti delle Regioni di Forza Italia, i capigruppo alla Camera, al Senato e al Parlamento europeo, i vice segretari nazionali, e una selezionato gruppo di tecnici, economisti e studiosi, che avrà il preciso compito di vigilare sugli effetti pratici dell’attuazione della legge, che deve valorizzare tutte le regioni, con particolare attenzione a non penalizzare il Sud.

Ma ci sono precise puntualizzazioni. «E’ un Osservatorio – ha detto subito la Casellati – che deve solo monitorare questo processo, perché noi abbiamo una legge cornice e adesso c’è tutto il procedimento da mettere in atto, che va dalla definizione dei Lep agli accordi tra lo Stato e le Regioni».

Dell’Osservatorio dunque fa parte anche, nella duplice veste di presidente di Regione e vicesegretario nazionale di Forza Italia, anche il governatore calabrese Roberto Occhiuto. Secondo diversi analisti politici, in realtà, la nascita dell’Osservatorio sarebbe stata dettata dalla necessità per Foza Italia e il suo leader nazionale Tajani di venire incontro alle richieste dei governatori forzisti nelle regioni del Sud, tra cui Occhiuto e il lucano Vito Bardi, che hanno manifestato molte preoccupazioni per le ricadute territoriali del Ddl Calderoli, entrando in rotta di collisione anche con la Lega.

Ma questa strada e’ stretta assai. L’ex Governatore Agazio Loiero, ad esempio, non gliel’ha certo mandato a dire ad Occhiuto. Loiero infatti definisce «tardive» le critiche dell’attuale presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, al Ddl Calderoli’’ ed ha dato un consiglio al governatore: «Può accodarsi alle cinque Regioni del centrosinistra che presentano ricorso e che presentano due ricorsi, uno di abrogazione totale e uno di abrogazione parziale. Si accodi a queste regioni e lui diventa un alfiere, un difensore del proprio territorio, che viene sempre prima del partito e della coalizione».

Ovviamente piu’ drastico il segretario del Pd Nicola Irto: «Serve una battaglia meridionalista e da sud, serve una battaglia calabrese. Sono inaccettabili e anche un po’ ridicole le giravolte di Occhiuto, che prima vota la legge che poi contesta’’.
Insomma Occhiuto e’ stretto ed alla fine una posizione netta e chiara dovra’ pure assumerla: o sarà ligio alla disciplina del suo partito o sceglie il mare aperto della battaglia meridionalista. Restiamo in attesa di capire.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 luglio 2024

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Questi giochini tattici, i distinguo in punta di penna, le fandonie che si stanno leggendo a due settimane dal voto in Parlamento per cercare di giustificare lo scempio che si consumerà sull’autonomia differenziata hanno, in verità, stancato. Ora che Mattarella ha promulgato la legge sarebbe l’ora di pensare a che fare.

La maggioranza di governo (che intanto in Calabria è già andata sotto ai ballottaggi di domenica e lunedì a Vibo, dopo essere stata ridicolizzata al primo turno a Corigliano-Rossano, ed è già un segnale per chi vuol capire) è invece testarda ma i fatti lo sono ancora di più. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata emerge, infatti, in tutta evidenza la realtà di un’Italia già ammalata di regionalismo e che avrebbe bisogno, semmai, di maggiore coesione. Ci pensano però diversi istituti di ricerca a dimostrare dove porta la narrazione del Ddl Calderoli: l’Italia della salute si presenta, ad esempio, già fratturata in più punti con il federalismo che c’è e quello che verrà rischia di spaccarla definitivamente con la Calabria fanalino di coda.

Il rapporto del «Centro per la ricerca economica applicata in Sanità» dell’università di Tor Vergata, presentato a Roma, parla chiaro: la mappa che ne riassume il contenuto si mostra in verde al di sopra dell’Umbria, gialla dal Lazio in giù e tristemente rossa in Basilicata, Calabria e Sicilia. I colori rispecchiano le performance di salute, sintetizzate in un indice che tiene conto di equità, esiti, appropriatezza e innovazione del servizio sanitario.

«La valutazione 2024 delle Performance regionali in tema di opportunità di tutela socio-sanitaria offerta ai propri cittadini – si legge nel rapporto – oscilla da un massimo del 60% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) a un minimo del 26%: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria». Desolante la conclusione: «Il divario fra la prima e l’ultima Regione è decisamente rilevante: un terzo delle Regioni non arriva a un livello pari al 40% del massimo ottenibile».

Se «sembra essersi registrato una significativa riduzione delle distanze in termini di opportunità di tutela della salute fra Meridione e Settentrione», spiega il rapporto, è perché le Regioni con le performance migliori hanno smesso di migliorare «probabilmente a indicare l’esistenza di limiti strutturali nell’attuale assetto del sistema sanitario».

Un altro rapporto, quello dell’Istat, conferma in «Noi Italia 2024» pubblicato 5 giorni fa con un capitolo su «sanità e salute». Anche l’Istat mostra che l’Italia è fatta da più Paesi in uno. Gli abitanti di Calabria e Campania, ad esempio, dispongono di 2,2 e 2,5 posti letto in ospedale ogni mille abitanti e la Calabria è quella che ne ha tagliati di più tra il 2020 e il 2022 (-17%).

In Emilia-Romagna (3,6) e in Trentino (3,7) sono quasi il doppio e in entrambe le Regioni si è registrato un aumento di posti letto del 7% in un biennio. Il risultato in termini clinici è crudo quanto diretto: nel Nord-est il tasso di mortalità evitabile è di 16,9 decessi per diecimila abitanti e nel sud di 21,8, quasi 5 in più. Campania, Molise e Sicilia sono le regioni in cui si muore di più sia per patologie trattabili (cioè che potrebbero essere curate con un’assistenza migliore) che per quelle prevenibili con interventi su stili di vita e vaccinazioni. Persino la mortalità infantile del mezzogiorno (3,2 ogni mille nati vivi) è più alta rispetto alla media nazionale (2,6).

La mobilità sanitaria, cioè il numero di pazienti che si spostano da una regione all’altra per le cure, infine è in aumento. La regione più ricercata è l’Emilia-Romagna, dove l’immigrazione sanitaria è in costante aumento dal 2018 e il saldo tra chi arriva e chi parte supera anche quello della Lombardia.

Dopo la lettura dei dati assumono un significato sinistro le parole con cui il ministro della salute Schillaci commenta l’impatto della riforma sul diritto universale alla salute: «L’autonomia differenziata già esiste in sanità – ha provato a rassicurare il radiologo – Le Regioni hanno grande autonomia e in questo settore cambierà poco». In peggio ovviamente. Questi, dunque, sono i fatti, il resto chiacchiere.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 giugno 2024.

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti (Italo Calvino).

Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno.

Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano gia’ venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria.

Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.

Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi.

Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica. Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno.

Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia.

Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza. Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo?

Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato l’esatto contrario però.

Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni.

Esse non potevano avere più le finalità proprie dell’impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato. Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare.

Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori.

Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!

da “il Quotidiano del Sud”.

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Sono passati quasi 20 anni, 19 per l’esattezza. Il PD non c’era ancora, c’erano i DS, i Democratici di Sinistra: accadde tutto una mattina del luglio del 2005 al Parco dei Principi di Roma, hotel per attrici e indossatrici, dove quel venerdì si stava svolgendo il Consiglio nazionale dei Ds.

Inaspettatamente Fabio Mussi sfoderò un lessico crudissimo per denunciare «l’esistenza in Campania di veri e propri capibastone», avvertendo: «Su questi argomenti sono pronto a fare uno scandalo!». Cesare Salvi rincarò le dosi contro consulenze e commissioni speciali in terra di Campania («C’è una nuova questione morale!») e alfine il parlamentino della Quercia approvò un ordine del giorno Mussi-Salvi-Napolitano col quale si mettevano all’indice quelle regioni «governate dal centro-sinistra che moltiplicano gli incarichi amministrativi».

Quattro giorni dopo il «capobastone» Antonio Bassolino, dicendosi «rattristato dal calderone», produsse questo contro-argomento: «In Campania si vince sempre dal 1993, altrove a volte si vince e si perde…».
Dunque, guai ai capibastone.

Quell’invettiva deve essere rimasta nell’orecchio di Walter Veltroni che tre anni dopo, dicembre 2008, da leader del Pd la rilanciò con foga ed efficacia spettacolare davanti all’assemblea dei giovani democratici. Nell’ultimo congresso provinciale di Napoli Andrea Cozzolino, il candidato di Bassolino, era stato però battuto dal veltroniano Luigi Nicolais, docente universitario. Ironia della sorte!

Il termine capobastone istintivamente evocava comunque il Sud, dove alle Europee del 2004 Massimo D’Alema aveva conquistato nientedimeno che 832.000 preferenze, anche grazie ad una rete di accordi locali con una miriade di «capibastoncini».

E anche allora c’era il capopopolo Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd. Insomma una maledizione, che aveva poi portato sempre Veltroni in una famosa intemerata pronunciata a Reggio Calabria nel 2008, appena eletto segretario del Pd nella sua prima visita in Calabria, a usare l’espressione biblica (*) ‘’statue di sale’’ (in verità già usata un anno prima ma con altro significato, il 30 giugno 2007: “Questo paese ha la testa rivolta al passato e, se non cambia, rischia di trasformarsi in una statua di sale”). Ma in Calabria allora apriti cielo! Successe un mezzo finimondo, con vere e presunte statue di sale a polemizzare con Walter.

Ora tra una settimana torna in Calabria Schlein per concludere la Conferenza programmatica del PD regionale a Soveria Mannelli e si accettano scommesse se non si ritroverà, più o meno, con lo stesso problema!

La verità è che oggi la Puglia è come una metafora di un partito irrisolto e senza linea non perché ha troppe linee che confliggono tra loro, ma perché nato per essere un partito di governo ed è subito diventato un partito di potere. E di potentati: in Puglia ma anche in Campania, in Toscana, in Basilicata, in Piemonte, nel Lazio, in Calabria etc. etc.

Sono sempre lì i cacicchi e i capibastone che la segretaria diceva di non voler più vedere, i collettori di voti pronti a indirizzare i loro pacchetti in base alle convenienze, o a usarli come armi di deterrenza e il trasformismo cresce di pari passo con l’accresciuto potere dei moltiplicatori di pani e di pesci. Solo che i nuovi cacicchi a differenza dei vecchi, che i voti almeno l’avevano, spesso non hanno nemmeno i voti della loro famiglia e qualche volta solo la promessa dei voti!

La segretaria si è opposta con nettezza alla cancellazione del tetto dei due mandati e sta cercando di costruire – con fortissime resistenze – liste per le europee che con alcune candidature civiche e la sua stessa presenza dovrebbero rianimare lo spirito dei gazebi che la hanno portata alla guida del Pd. Ma il rinnovamento non si fa con una manciata di nomi, per quanto di prestigio. Si fa nei famosi territori, che vanno battuti e disossati palmo a palmo. E costruendo anche alleanze virtuose prima di tutto dentro al partito, aprendo porte e finestre. Con gli “inner circle” non si va lontano. E Schlein da questo punto di vista non pare proprio abbia iniziato a lavorare sul partito.

Quanto alla possibilità, passata la buriana e scavallate le europee, di costruire una alleanza con il movimento 5 Stelle, al momento sembra quasi lunare. Il leader dei 5S ha sferrato un colpo basso proprio alla segretaria del Pd, con l’azzeramento delle primarie come dato di fatto. Il tutto per capitalizzare i guai del Pd alle Europee, sognando il sorpasso. Comunque andrà quel voto, dopo sarà comunque più difficile ricucire lo strappo, ammesso che l’ex premier lo voglia.

*Immagine: La moglie di Lot è una figura menzionata per la prima volta nella Bibbia, in Genesi 19,26, che descrive come la donna divenne una statua di sale dopo aver guardato Sodoma.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 aprile 2024
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L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

Nei giorni scorsi ci siamo soffermati a lungo sui guasti che provocherebbe nel sistema sanitario italiano, e calabrese in particolare, il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata: una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione. Il Ddl Calderoli, cioè, non farà altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Tutto giusto e corretto e moltissimi hanno, infatti, apprezzato. Ma moltissimi sono stati anche i lettori che sollecitano a fare nel contempo, se non prima, una critica tutta calabrese sui guasti del nostro sistema sanitario a prescindere cioè da quelli che provocherebbe il Ddl Calderoli. Moltissimi hanno scritto in privato per denunciare altri clamorosi casi di disastri e di ruberie varie, di un malaffare che ha fatto penetrare la ‘ndrangheta, della sanità usata come bancomat dalla classe politica calabrese per arricchimenti clamorosi e/o clientele a raffica financo nella scelta dei primari, che hanno alla fine solo impoverito lo stesso sistema della tutela della salute dei calabresi.

Come a dire: guardiamo prima in casa nostra e proviamo a vedere il disastro in salsa calabrese, che già esisteva prima di Calderoli. Del resto 14 anni di commissariamento della sanità hanno pure una ragione, o no? E lo Stato, mandando in tutti questi anni gente che con la sanità non aveva alcun rapporto ha peggiorato la situazione, con la domanda che resta sullo sfondo ma che diventa centrale ai fini del ragionamento: perché Roma ha inviato al capezzale del servizio sanitario regionale persone sicuramente rispettabili ma che con la sanità non c’entravano praticamente nulla (e spesso persino in pensione pure dai loro lavori)? Risposta: per tutelare i grandi interessi nazionali, politici e non, che stanno dietro, davanti, sopra e sotto il settore. Un magma di società, corporazioni, aziende, ditte, potentati di vario genere.

Di fatto l’emergenza della sanità in Calabria è diventata quindi endemica e dai buchi disastrosi dovuti alla clientela politica nel settore si è passati alle voragini. Il commissariamento doveva in teoria servire a rimettere ordine nel disordine gestionale e contabile, a migliorare la qualità delle prestazioni negli ospedali pubblici della Calabria, a porre un freno al pagamento delle doppie e delle triple fatture e all’insinuarsi della ‘ndrangheta e della corruzione ma nulla di tutto questo è avvenuto, nemmeno dopo la coraggiosa denuncia di Santo Gioffrè da responsabile dell’ ASP reggina, al momento unico episodio di una pubblica e forte denuncia sul malaffare che aveva portato al commissariamento.

Su quella poltrona di commissario si sono via via seduti carabinieri, prefetti, finanzieri, manager, generali, ingegneri etc. Gente che, però, arrivò addirittura ad ammettere dinanzi alle telecamere della TV di Stato che si era persino scordato di varare il piano anticovid chiesto dal Governo, tanto per capirci! La verità è, dunque, quella di un fallimento totale, dietro cui sono continuate quelle ruberie, quel malaffare e quella malagestione, che hanno avuto come effetto solo quello di moltiplicare diseguaglianze e privazioni, in una regione che già scontava condizioni di sanità diseguale.

Ora c’è Roberto Occhiuto alla guida del commissariamento ma di strada da fare ancora ce n’è tantissima, come del resto lo stesso presidente di Regione riconosce. In questo quadro già terremotato per i motivi suddetti interverrebbe il DDL Calderoli: un motivo in più per allontanarlo e respingerlo ma un motivo in più per aprire una vera operazione verità sul pozzo senza fondo in cui le classi dirigenti calabresi hanno trascinato in tutti questi decenni il settore primario per la vita di tutti noi.

Un pozzo senza fondo – ultima ma non ultima notazione su cui anche qui andrebbe fatto un serio ragionamento per capirne le ragioni – su cui troppo poco si è indagato anche da parte di chi ha e aveva il dovere di farlo. Anzi, si è fatto l’esatto contrario se solo ricordiamo (e sempre occorre farlo) l’incredibile vicenda proprio di Gioffrè: appena nominato Commissario, il 13 marzo 2015, si è imbattuto nel sistema di furti che per decenni hanno saccheggiato l’Asp di Reggio, denunciando transazioni false, il sistema di furti in vari modi delle risorse e cercato di ricostruire i bilanci dell’Asp che da anni non esistevano.

Scoprì per primo il termine “contabilità” orale, che, in sostanza, tutt’ora tiene dentro il Piano di Rientro la Calabria. Ostacolato, isolato e strenuamente lottato, fu sollevato dall’Anac per un cavillo in quanto, anni prima, era stato candidato a Sindaco, sconfitto, di Seminara. Assolto alla fine per non aver commesso il fatto: nelle motivazioni venne scritto che Santo Gioffrè ha difeso l’Asp di Reggio Calabria con “diligenza’’. Sul resto del malaffare vero invece tutto tace.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 aprile 2024

Autonomia differenzata e sanità. Allarmi inascoltati-di Filippo Veltri

Autonomia differenzata e sanità. Allarmi inascoltati-di Filippo Veltri

L’allarme era, è, di quelli che non lasciano dubbi: l’autonomia differenziata “non solo porterà al collasso la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti”. Parola di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, per illustrare i risultati del report ‘L’autonomia differenziata in sanità‘ che esamina le criticità del Disegno di legge Calderoli approvato al Senato e ora in discussione alla Camera.

Non sembra che l’allarme abbia suscitato particolari scossoni nel mondo politico e istituzionale, tranne Rubens Curia con la sua Comunità Competente ed i Vescovi calabresi riuniti in conclave. In Consiglio Regionale un centrosinistra titubante dà invece ancora spazio ad un centrodestra diviso e lacerato, senza affondare i colpi.

Il report analizza il potenziale impatto sul Ssn delle maggiori autonomie richieste dalle regioni in materia di “tutela della salute”. Un de profundis largamente annunciato, che documenta dal 2010 enormi divari in ambito sanitario tra il Nord e il Sud del Paese e solleva preoccupazioni riguardo l’equità di accesso alle cure.

Se per le Regioni del Sud, già in fondo alle classifiche per cure essenziali e aspettativa di vita, si profila infatti il pericolo di collasso del reparto sanitario, al Nord si rischia il sovraccarico da mobilità sanitaria. Numerosi gli esempi che possono portarsi al riguardo: nessuna regione del Sud nella top 10 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel decennio 2010-2019; una mobilità sanitaria dal Centrosud al Nord, con tutte le regioni del Sud ad eccezione del Molise, che hanno accumulato complessivamente un saldo negativo pari a 13,2 miliardi di euro nel periodo 2010-2021, mentre sul podio si trovano proprio le tre regioni che hanno già richiesto le maggiori autonomie; scarse performance delle regioni del Centro-Sud per il raggiungimento degli obiettivi della Missione Salute del Pnrr.

“Complessivamente questi dati – spiega Cartabellotta – confermano che in sanità, nonostante la definizione dei Lea nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali”.

Siamo perciò oggi davanti ad una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione.

I dati Gimbe dovrebbero essere, in una nazione normale, la pietra tombale sul progetto della Lega ed un Governo responsabile metterebbe da parte subito questo progetto perché il Ddl Calderoli non fa altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Se un istituto terzo come Gimbe (e non un fiero oppositore della Meloni o i pericolosi estremisti (sigh!) Schlein, Conte, Fratoianni o Santoro) certifica che l’autonomia differenziata di Calderoli spacca l’Italia e uccide la sanità pubblica del nostro Paese, di fatto regalando il servizio sanitario nazionale ai privati e a chi si potrà permettere di pagare, qualcosa dovrebbe pure succedere. E invece niente!

Il Sud si vedrà privato delle risorse necessarie per garantire qualità nei servizi, equità di accesso vedendo rinnegato il diritto stesso alla salute in favore di interessi particolari che avranno come effetto paradossale quello di accentuare il pendolarismo sanitario dal Sud al Nord. La disuguaglianza è sempre negativa, ma se c’è un campo in cui è nefasta e vergognosa è proprio quello della salute: se sei in una condizione di povertà sei discriminato, se ti viene tolto o ridotto l’accesso al servizio sanitario sei messo in pericolo di vita.

In Calabria tutto questo ragionamento deve essere moltiplicato per 2,3,4…Per mille, fate voi. La voce piu’ forte appare però ancora quella dei Vescovi.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 marzo 2024

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Anche in Calabria è nata La Via Maestra, un comitato regionale composto da Cgil Calabria, Arci, Acli, Anpi, Collettivo Valarioti, Cdc, Associazione Controcorrente, Emergency, Legambiente, Libera, Associazione Giuseppe Dossetti.

È un fatto molto importante perché il Comitato sta pensando a concrete iniziative sui temi del lavoro, dell’ambiente e della giusta transizione, con una particolare attenzione alla vera e propria torsione democratica del Paese, in particolare all’Autonomia Differenziata che tra poco andrà in discussione alla Camera dopo l’approvazione in Senato.

Queste associazioni, in linea con quanto sta avvenendo a livello nazionale, saranno le protagoniste di un percorso che porterà al coinvolgimento e alla mobilitazione in difesa della Costituzione, contro l’autonomia differenziata, la precarietà e lo stravolgimento della Repubblica parlamentare. Una strada nuova, dunque, che dal basso punta alla partecipazione e alla mobilitazione reale. E dio solo sa quanto ce n’è bisogno in tempi in cui così scarsa è la mobilitazione financo alle competizioni elettorali (ultimo test le regionali in Abruzzo non hanno bisogno di ulteriori commenti).

In Calabria ovviamente tutto questo si colora di molti altri significati, legati alla accoglienza e all’uguaglianza, alle lotte sociali e a quelle civili (si pensi solo alla sanità e alla tutela della salute), tant’è che dopo la nascita del comitato regionale sono sorti provincia per provincia i comitati territoriali de La Via Maestra, che stanno già lavorando alla riappropriazione dei famigerati Livelli Essenziali di Prestazione (Lep), garantendo a tutti i cittadini italiani gli stessi diritti e le stesse opportunità nei settori cruciali come sanità, istruzione, trasporti, ambiente e servizi amministrativi.

«La Calabria non ha bisogno di differenziarsi – spiega Angelo Sposato, segretario regionale della Cgil – ma di armonizzarsi con le altre regioni per garantire servizi primari adeguati. La proposta di autonomia differenziata mina l’unità nazionale e rischia di accentuare ulteriormente gli squilibri tra Nord e Sud, abbandonando le regioni meridionali ai propri problemi’’.

Il Coordinamento Nazionale per la Democrazia Costituzionale aveva già proposto, insieme ad altri, di dare vita ad una discussione a tutto campo ne La Via Maestra per mettere al centro la Costituzione, il contrasto agli attacchi che le vengono portati a partire dal premierato, e il contrasto all’autonomia differenziata nella versione Calderoli.

Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale insiste da tempo sull’esigenza di dare vita ad iniziative larghe e unitarie e La Via Maestra è certamente la prima naturale sede di convergenza di una parte importante della società e della cultura. La strada che indica è chiara: quella dei referendum.

I referendum sono in questo momento l’unica possibilità per fermare le scelte su autonomia a premierato. Spiegano ancora quelli de La Via Maestra: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio porterebbe ad uno sconvolgimento della Costituzione e del suo assetto istituzionale perché cambierebbe la sostanza democratica e antifascista della nostra Repubblica, riducendo nettamente i poteri del Quirinale e ridimensionando drasticamente il ruolo del Parlamento che, da architrave delle istituzioni diventerebbe definitivamente subalterno al capo del governo, complice il ricatto della fine della legislatura, trasformando così la nostra Repubblica in una sorta di “capocrazia”.

L’autonomia differenziata targata Calderoli, su cui tante perplessità sono nate recentemente anche in Calabria in settori non marginali del centrodestra, la si può bloccare eventualmente solo così. Con partecipazione e strumenti concreti a partire dai referendum.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 marzo 2024.

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Oggi dunque nelle piazze e davanti le Prefetture scenderanno in strada sindaci e cittadini per una protesta si spera corale contro il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata.

Un DDL già approvato al Senato e prossimo alla Camera, che una vulgata non si capisce bene da chi orchestrata dipinge come un provvedimento che tanto non entrerà mai in attuazione, che non si farà mai, statevi tranquilli voi meridionali, i LEP (acronimo divenuto leggendario che pero’ in pochi sanno davvero cosa sia) non ci sono i soldi, è tutta una manovra politica, etc. etc. Insomma tranquillanti soporiferi diffusi a volontà per acquietare gli animi (peraltro nemmeno tanto bellicosi).

Nulla però di più falso e ingannevole.

Il problema non è l’autonomia in sé e la gente sarebbe bene che iniziasse a ragionarci sopra. C’è l’autonomia e va benissimo, c’è una legge di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione, rispettiamola e andiamo avanti. La legge – infatti – prevede i famosi livelli essenziali delle prestazioni, quei LEP di cui sopra, ma questa autonomia prevista dal disegno di legge Calderoli è un trucco, di questo dobbiamo essere consapevoli.

Perché non è l’autonomia secondo Costituzione: è piuttosto la costituzionalizzazione della spesa storica, esattamente quello che la legge Calderoli del 2009, la 42, diceva di voler eliminare». «Ed è un trucco – spiega bene Adriano Giannola, presidente SVIMEZ – perché si dice che tutto quello che è legato ai Lep almeno per due anni non si tocca, perché non ci sono i soldi e non sono definiti’’.

Ma tutto il resto – questo il richiamo allarmatissimo del presidente Svimez – si tocca subito e questo poca gente lo ha capito. Non è la sanità, non è la scuola che il Nord ha già. Il resto sono le strade, le autostrade, gli aeroporti, la protezione civile, tutto ciò per cui non è specificata la necessità di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni è infatti trasferibile oggi.

Per Giannola la conclusione è presto detta «quando passa alla Camera questo disegno di legge, si attivano subito le intese per tutta una serie di materie di cui oggi non si discute. E quando l’intesa va in Parlamento non potrà essere emendata, è una legge rafforzata che può essere accolta o bocciata e non c’è la possibilità di referendum.

Sono veramente preoccupato perché nessuno parla di ciò che c’è veramente dietro, si mette il carro davanti ai buoi perché i Lep non bloccano ma ritardano un pezzo che solo apparentemente è tutto. Invece il tutto viene subito messo in contrattazione e una volta raggiunta l’intesa se rispettiamo la categoria di legge rafforzata la situazione è inemendabile e irreversibile’’.

Fatta questa doverosa chiarezza sarebbe perciò giunta l’ora che si sveglino i cittadini, appresso ai sindaci che – seppure in ritardo, in grave ritardo – hanno capito l’antifona. Le manifestazioni di oggi a Catanzaro, Cosenza, Reggio, Vibo e Crotone hanno infatti un senso se accompagnate da una diffusa presa di coscienza che sin qui è mancata per colpa di partiti, sindacati e associazioni varie, tutti intenti a macinare grandi discussioni ma non a far capire nel concreto cosa si nascondeva dietro il disegno leghista.

O, peggio, a tracciare linee di distinzione tra opposizioni e maggioranze, destra o sinistra, aprendo la classica autostrada a quattro corsie a chi vuole invece distruggere il Paese. Speriamo che non sia troppo tardi.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 febbraio 2024.
foto da “il Quotidiano del Sud”.

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

L’antifascismo costituzionale.-di Filippo Veltri

Di antifascismo c’è ancora bisogno, perché non è ancora finita come la vergognosa farsa dei giorni scorsi a Roma, con centinaia e centinaia di saluti romani ad Acca Larentia e il più o meno silenzio imbarazzato della politica di Governo. Ma c’e’ bisogno soprattutto oggi di un antifascismo a difesa e a tutela della Costituzione, attaccata su piu’ fronti concreti dai provvedimenti legislativi in discussione nei due rami del Parlamento.

Premierato e autonomia differenziata sono i piu’ importanti di questi strumenti legislativi che la nuova destra al Governo propone e che alla fine contrastano con alcuni principi di fondo della nostra carta Costituzionale, frutto – è sempre bene ricordarlo soprattutto in questi giorni – della lotta partigiana. Di tutto questo ne ha fatto motivo di un interessante libro (che martedì 16 sarà presentato a Catanzaro) il presidente nazionale dell’ANPI, l’associazione dei partigiani italiani, Gianfranco Pagliarulo.

Anche l’ANPI infatti è seriamente preoccupata del tema dell’autonomia differenziata ‘’perché’ – dice Pagliarulo – aumenterebbe il divario, e dunque le diseguaglianze, tra aree forti e aree deboli del Paese aggravando ancora di piu’ il differenziale negativo del Mezzogiorno’’.

È pur vero – per tornare ai nodi anticostituzionali – che l’art.116 della nostra Carta prevede forme particolari di autonomia come possibilità ma è verissimo che al suo art.5 c’è il principio dell’unicità e della indivisibilità della Repubblica. Essere antifascisti oggi significa dunque, oltre lo smascheramento del ritorno a forme che ricordano il fascismo storico (i fattacci di Acca Larentia seguono decine e decine di altri casi mai repressi o semplicemente impediti da chi ha invece il preciso dovere di farlo), proporre un’alternativa che è tutta contenuta nella Costituzione, mai interamente applicata, che va difesa nella cura della memoria partigiana e con una nuova narrazione della Resistenza.

L’ANPI da questo punto di vista è avviata ad un racconto del passato come guida per l’azione del presente, per una ripartenza civile e sociale, non trascurando i mali di fondo che affliggono il Paese. Primi tra tutti povertà, disoccupazione, sfiducia.

In questa direzione serve, e in che forme, l’associazionismo democratico? Serve perché le forze politiche eredi di quelle che furono protagoniste della Resistenza non esprimono più l’egemonia esercitata nei decenni successivi alla Liberazione, sono addirittura scomparsi quei partiti e lo stesso contrasto agli attacchi piu’ veementi alla Costituzione, come è appunto il DDL Calderoli sull’autonomia differenziata, vive momenti alti e bassi, a volte confusi e non pienamente percepibili dall’opinione pubblica.

C’è perciò bisogno di un rinnovato e corale impegno civile, come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha invocato nel suo tradizionale messaggio il 31 dicembre scorso, ma senza una difesa e una piena attuazione dei principi costituzionali la deriva che si sta prospettando è quella di un espandersi di un impasto di nazionalismo camuffato da primato patriottardo, di razzismo come paura patologica dell’altro, di dirigismo autoritario, persino di pensiero anti scientifico. Alla fine erano tutti elementi propri del fascismo. Oggi si sono rinnovati e la cultura antifascista ha urgente bisogno anch’essa di un rinnovamento chiaro e netto.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 gennaio 2023

Mezzogiorno, gli allarmi più allarmanti.-di Filippo Veltri

Mezzogiorno, gli allarmi più allarmanti.-di Filippo Veltri

Lo Svimez nel suo rapporto annuale ha fatto un’analisi a 360 gradi sullo stato dell’arte del meridione italiano.
Due sono gli aspetti particolari che vanno pero’, a distanza di alcuni giorni, ripresi e amplificati. Sono allarmi più allarmanti in ottica Calabria, se ci si passa la bruttura linguistica.

In testa c’è sicuramente la questione demografica. La diminuzione delle nascite e il progredire della speranza di vita, che hanno portato l’Italia tra i paesi europei più anziani e’ ormai una emergenza ogni giorno di più. Le migrazioni interne e internazionali hanno ampliato gli squilibri demografici Sud-Nord. Se da un lato, le comunità immigrate si concentrano prevalentemente nel settentrione “ringiovanendo” una popolazione sempre più anziana; dall’altro, il Mezzogiorno continua a perdere popolazione, soprattutto giovani qualificati.

Dal 2002 al 2021 hanno lasciato il sud oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti. Le migrazioni verso ilCentro-Nord hanno interessato soprattutto i più giovani: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808 mila under 35, di cui 263 mila laureati.

Al 2080 Svimez stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno, pari a poco meno dei due terzi del calo nazionale (–13 milioni). La popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8% nel 2080.

Ma non e’ finita qui: la popolazione in età da lavoro si ridurrà nel Mezzogiorno di oltre la metà (–6,6 milioni), nel Centro-Nord di circa un quarto (–6,3 milioni di unità). Il Mezzogiorno diventerà quindi l’area più vecchia del Paese nel 2080, con un’età media di 51,9 anni rispetto ai 50,2 del Nord e ai 50,8 del Centro.
Per invertire la tendenza pluridecennale al calo delle nascite Svimez propone politiche attive di conciliazione dei tempi di vita e lavoro e rafforzare i servizi di welfare

Il secondo elemento tra i tanti sollevati da Svimez nel suo corposissimo rapporto e’ quello legato ai divari di offerta di servizi educativi che ormai riguardano anche la scuola primaria. Dai dati dell’Anagrafe dell’edilizia scolastica del Ministero dell’Istruzione e del Merito relativi all’anno scolastico 2021-2022, emerge che solo il 21,2% degli allievi della primaria nel Mezzogiorno frequenta una scuola dotata di una mensa; il 53,5% al Centro-Nord.

Solo un allievo su tre (33,8%) frequenta una scuola primaria dotata di palestra. A livello nazionale, il tasso di occupazione dei giovani laureati (74,6%) è significativamente superiore rispetto ai diplomati (56,5%). Nel Mezzogiorno, il differenziale è di 26 punti percentuali (61,6% contro 35,6%), mentre nel Centro-Nord è di 13 punti (80,6% contro 66,8%).

Il premio per l’istruzione si riflette anche nelle retribuzioni, con un laureato al Sud che guadagna mediamente il 41% in più di un diplomato, mentre nel resto del Paese il vantaggio è del 37%. La promozione di politiche che convergano la percentuale di laureati verso la media dell’UE appare opportuna, specialmente considerando le maggiori opportunità occupazionali, soprattutto nel Mezzogiorno; quasi un allievo su due (45,8%) nel Centro-Nord.

Questi tipi di gap generano effetti negativi diretti sulla performance degli studenti e indiretti sulle famiglie e sul mercato del lavoro. La crescita complessiva dell’occupazione in Italia nel periodo post-Covid è stata del 1,8% tra il 2019 e il 2023, con un aumento degli occupati diplomati del 3,6% e dei laureati dell’8,3%. Nel Mezzogiorno, la crescita è stata del 15,4% per gli occupati laureati (+203 mila occupati). A livello nazionale, il tasso di occupazione dei giovani laureati (74,6%) è significativamente superiore rispetto ai diplomati (56,5%). Nel Mezzogiorno, il differenziale è di 26 punti percentuali (61,6% contro 35,6%), mentre nel Centro-Nord è di 13 punti (80,6% contro 66,8%).

Il gap istruzione si riflette anche nelle retribuzioni, con un laureato al Sud che guadagna mediamente il 41% in più di un diplomato, mentre nel resto del Paese il vantaggio è del 37%. Questi tipi di gap generano, infine, effetti negativi diretti sulla performance degli studenti e indiretti sulle famiglie e sul mercato del lavoro.
Tutto ciò moltiplicato per 4 in relazione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 dicembre 2023