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Lettera aperta al Ministro Sangiuliano sul Museo di Alarico e sulla statua ‘Brettia’ a Cosenza.

Lettera aperta al Ministro Sangiuliano sul Museo di Alarico e sulla statua ‘Brettia’ a Cosenza.

LETTERA APERTA AL MINISTRO SANGIULIANO SUL MUSEO DI ALARICO E SULLA STATUA ‘DONNA BRETTIA’ A COSENZA.

I sottoscritti ritengono che l’attuale Amministrazione comunale di Cosenza commetta un grave errore nel continuare l’opera dell’ex Sindaco Occhiuto non opponendosi alla costruzione del Museo di Alarico già fermata nel novembre 2018 da un provvedimento dell’allora direttore generale del Mibac, Gino Famiglietti, che revocava, in autotutela, il permesso paesaggistico concesso, all’epoca, dal Soprintendente ABAP di Cosenza Mario Pagano.

I sottoscritti chiedono che l’Avvocatura dello Stato -su impulso del Ministro e della competente Soprintendenza- si appelli presso il Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar Calabria che, nel dicembre 2022, ha annullato il suddetto provvedimento del Mibac dando sostanzialmente il via libera alla costruzione del sunnominato Museo di Alarico.

I sottoscritti si chiedono cosa spinga a voler costruire un Museo -in totale assenza della più piccola testimonianza materiale alariciana e per un costo fra i 7 e i 10 milioni di euro- dedicato ad un invasore che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C. -secondo un racconto del solo Iordanes, uno scrittore vissuto 150 anni dopo i fatti- muore, per caso, nei pressi di Cosenza.

I sottoscritti segnalano, inoltre, che all’inutile e costosissima erezione di un Museo alariciano si è, di recente, aggiunto un altro tentativo di falsificazione della Storia costituito dal posizionamento nei pressi del Centro storico cosentino, da parte dell’Amministrazione comunale, di una discutibile opera bronzea, alta circa 2 metri, che raffigurerebbe, nelle intenzioni della scultrice e dei committenti privati, un mitico personaggio femminile la cui esistenza non è mai stata provata. ‘Brettia’ è una figura leggendaria dalla quale alcune mitopoietiche ricostruzioni vorrebbero far discendere non solo l’etnonimo degli abitanti di gran parte della Calabria di età ellenistica, ma persino l’ancor più fantasiosa fondazione di Cosenza.

I sottoscritti ritengono che questi due elementi facciano parte di uno stesso offuscamento della coscienza collettiva e della conoscenza della Storia e che esso conduca all’estrema e perversa conseguenza di una pericolosa e manipolatoria invenzione identitaria che, peraltro, poggia su basi palesemente false.

I sottoscritti sono convinti che solo il restauro complessivo e capillare -che deve necessariamente comprendere gli edifici privati e non, come l’attuale Amministrazione comunale sta facendo, solo gli edifici di proprietà pubblica- della Cosenza storica potrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso nel quale la “redditività” del patrimonio culturale cosentino e calabrese non risiederebbe solo nella sua commercializzazione e nel turismo che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo ed indispensabile senso di appartenenza e di cittadinanza ispirato dalla propria Storia e dai valori simbolici ad essa collegati.

I sottoscritti chiedono, dunque, al competente Ministro, Gennaro Sangiuliano, di usare gli strumenti a sua disposizione -amministrativi, di governo e anche di impulso legislativo- per impedire la costruzione del Museo di Alarico ed il posizionamento su suoli e locali pubblici della statua della cosiddetta “Donna Brettia” e auspicano, invece, il restauro degli edifici pubblici e privati del Centro storico di Cosenza che permetterebbe di restituirlo ai cosentini, prima che un acquazzone un po’ più forte lo porti via.

Carla Maria Amici archeologa, Università del Salento
Alessandra Anselmi storica dell’arte, Università di Bologna
Pier Giorgio Ardeni storico, economista, Università di Bologna
Pino Ippolito Armino ingegnere nucleare, Politecnico di Torino
Paul Arthur archeologo, Università del Salento, presidente S.A.M.I.
Domenico Belcastro già Soprintendenza della Calabria
Piero Bevilacqua storico, Università La Sapienza Roma
Vittorio Cappelli storico, Università della Calabria
Club Telesio associazione, Cosenza
Comitato Piazza Piccola associazione, Cosenza
Massimo Covello sindacalista, dirigente CGIL Calabria
Mariafrancesca D’Agostino sociologa, Università della Calabria
Giovanna de Sensi Sestito storica, Università della Calabria
Massimo di Salvatore storico, Como
Lucia Faedo archeologa, Università di Pisa
Amedeo di Maio economista, Università l’Orientale Napoli
Mario Fiorentini giurista, Università di Trieste
Pier Giovanni Guzzo archeologo, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte
Donatella Loprieno costituzionalista, Università della Calabria
Maria Teresa Iannelli archeologa, Soprintendenza della Calabria
Marta Maddalon linguista, Università della Calabria
Mauro Francesco Minervino antropologo, ABACatanzaro
Tomaso Montanari storico dell’arte, Università per stranieri Siena
Enzo Paolini avvocato costituzionalista
Tonino Perna economista, Università di Messina
Maurizio Pistolesi archeologo, Cosenza
Edina Regoli archeologa, Rosignano Marittimo (LI)
Mimmo Rizzuti sindacalista, Osservatorio del Sud
Battista Sangineto archeologo, Università della Calabria
Francesco Santopolo agronomo, Università La Sapienza Roma
SeminAria cultura associazione, Cosenza
Enzo Scandurra urbanista, Università La Sapienza Roma
Salvatore Settis archeologo, Scuola Normale Superiore Pisa
Nicola Siciliani de Cumis pedagogista, Università La Sapienza Roma
Roberto Spadea archeologo, Soprintendenza della Calabria
Lucinia Speciale storica dell’arte, Università del Salento
Mara Sternini archeologa, Università di Siena
Armando Taliano Grasso archeologo, Università della Calabria
Vito Teti antropologo, Università della Calabria
Giovanni Turone
John Trumper linguista, Università della Calabria
Alberto Ziparo urbanista, Università di Firenze

foto di Ercole Scorza
per adesioni all’appello: osservatoriodelsud@gmail.com

I fallimenti di una sinistra che affida alle urne la sua identità.-di Tonino Perna

I fallimenti di una sinistra che affida alle urne la sua identità.-di Tonino Perna

Il lungo titolo annuncia: «Un milione di voti di cui si parla dal ’68. Una storia di camere sciolte, di un grande movimento e di piccoli partiti. Scritta, naturalmente, col senno di poi». Facendo un po’ d’ordine tra vecchie carte, documenti e articoli di giornali ritagliati, mi sono imbattuto in un articolo di Ritanna Armeni e Rina Gagliardi pubblicato il 20 aprile del 1979.

Vengono percorse, partendo dal 1968, le tappe cruciali delle elezioni politiche e amministrative, passando per il 1972 (elezioni politiche), 1975 (regionali), 1976 (politiche), 1979 (politiche).

In questi appuntamenti elettorali scenderanno nell’agone politico via via il Manifesto-Pdup, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria, Lotta Continua, e tanti gruppuscoli marxisti-leninisti che sono presenti in alcune realtà territoriali.

Come viene ricordato dalle due autrici, nel ’68 finisce la delega dei movimenti rispetto al Pci e si comincia, in una parte del movimento anticapitalista, a riflettere sulla necessità di formare un partito e candidarsi alle elezioni.

In questo giro di boa entra anche il manifesto con posizioni diverse al suo interno, in particolare tra Luigi Pintor e Rossana Rossanda (come ha ricordato Norma Rangeri, nell’articolo del 14 ottobre scorso, all’indomani delle elezioni amministrative).

Scriveva Pintor: «Giudico la battaglia elettorale un’occasione positiva e feconda per noi e per tutta la sinistra, una prova da affrontare con serietà e slancio, un terreno come un altro su cui misurarci con lo stesso spirito che ha sempre animato la nostra impresa politica…». A cui ribatteva Rossanda: «So bene che nei compagni che si battono per le liste c’è il bisogno di esistere, contarsi, contare. Ma credo per fermo che questo modo di esistere, contarsi e contare sia ambiguo e pericoloso…». Parole profetiche, inascoltate per quarant’anni!

Con l’eccezione del periodo di Rifondazione Comunista con segretario Bertinotti, a sinistra del Pci–Pds-Pd si sono, di volta in volta, formati dei raggruppamenti che, quando è andata bene, hanno preso il minimo di voti per superare la soglia di sbarramento.Ogni volta un simbolo diverso, un nome diverso, che non sono sopravvissuti al di là del ciclo elettorale, non hanno sedimentato un pensiero politico, una visione capace di attrarre e coinvolgere al di là del proprio giardino.

Quante energie sprecate, quante amare delusioni che hanno prodotto conflitti all’interno di queste embrionali forze politiche, spesso più intente a litigare fra loro che a trovare convergenze e strategie comuni.

Anche il Prc, che pure aveva avuto un grande seguito giovanile forgiatosi durante e dopo i fatti di Genova del 2001, si è nel tempo arenato perché non è riuscito a “rifondare” un pensiero politico che facesse i conti con la disfatta dell’Urss e la trasformazione del maoismo in capitalismo di Stato, a tracciare una credibile alternativa di sinistra che facesse tesoro con ciò che ci ha insegnato il ‘900.

«E tuttavia il dubbio maggiore che ci attraversa- scrivevano la Armeni e Gagliardi nell’introdurre questa cronostoria politica- proprio a proposito di elezioni, investe la validità della concezione politica generale che ha ispirato questi undici anni di peripezie: l’idea di partito e organizzazione, la pratica della politica come sfera specialistica e separata, la difficioltà profonda di uscire, in avanti, dagli schemi della II e III Internazionale».

Esistere, contarsi, contare può essere ambiguo e pericoloso, scriveva Rossana Rossanda, perché la qualità del lavoro sociale, culturale, politico, non lo si può pesare unicamente con il voto, non si può dare alle competizioni elettorali la funzione del Giudice Supremo, di colui che decide della tua esistenza.

Non significa che sia inutile partecipare alle competizioni elettorali, come una parte dei movimenti della sinistra radicale ha sempre sostenuto, ma avere un atteggiamento lucido e distaccato, non sopravalutando i risultati delle urne, non pensando che ci giochiamo tutto nell’ultima tornata elettorale.

E poi, dovremmo saperlo, i cambiamenti sociali e culturali non passano necessariamente attraverso la formazione di una forza politica vincente sul piano elettorale.

Se riflettiamo a come è cambiato positivamente il ruolo della donna nella nostra società o ai diritti delle persone diversamente abili, ci rendiamo conto che è stata una lotta quotidiana, trasversale, che ha pagato molto di più che se si fosse fondato un partito delle donne o dei disabili.

Sarebbe come dire che il valore di un quotidiano come il manifesto, con la sua storia e le sue battaglie, lo si misura solo dal numero delle copie vendute e non, al contrario, dalla sua funzione informativa, politica e culturale.

Se chi ci lavora la pensasse così avrebbe fatto chiudere questo giornale da tempo. Se continua ad esistere, dopo cinquant’anni, è perché rappresenta per chi lo legge e per chi ci scrive molto di più di quello che i numeri del mercato editoriale possono raccontare.

da “il Manifesto” del 18 novembre 2021

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Qualcuno si stupirà, forse, nell’apprendere che, nel caso dei 90 milioni di euro per il Centro storico di Cosenza, sono d’accordo con il Sindaco Mario Occhiuto. Sono d’accordo, sia ben chiaro, con quel che afferma l’architetto solo da un paio d’anni a questa parte, perché negli otto anni precedenti -nonostante i miei, i nostri, pressanti suggerimenti- era convinto, come testimoniano le sue innumerevoli dichiarazioni per ‘verba’ e per ‘scripta’, che le abitazioni private del Centro storico di Cosenza non solo non potessero essere comprate e/o espropriate dall’Amministrazione comunale per farne un “bene comune”, ma era convinto che l’unica possibilità che avesse l’Amministrazione comunale per evitare il peggio, fosse quella di abbattere i palazzi pericolanti, come fece con quelli compresi fra Corso Telesio, via Bombini e via Gaeta.

Per convincersi della liceità dell’acquisto e dell’esproprio sarebbe bastato ricordare, invece, un caso celeberrimo: quello del Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965.

La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini. Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.

Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a meno di 14 milioni di euro, 6 milioni meno del solo Ponte di Calatrava.

Pur sapendo che ogni finanziamento statale è prezioso, non possiamo non essere sconcertati nell’apprendere che i 90 milioni di euro (più di 6 volte il costo dell’intera operazione di ristrutturazione di Bologna!) destinati al Centro storico di Cosenza da parte dell’allora, ma ora di nuovo, ministro Franceschini nel 2017, saranno utilizzati, tutti e soltanto, per il recupero di 20 (venti!) immobili pubblici a valenza culturale (alcuni di essi sono stati più e più volte già finanziati), per il miglioramento dell’accessibilità, per la costruzione di nuove reti idriche e fognarie, per l’adeguamento di linee elettriche e della pubblica illuminazione e per la riqualificazione di spazi pubblici degradati.

Niente, neanche un centesimo, per tutto il resto, per il grosso del tessuto edilizio privato della città perlopiù degradato o, addirittura, in rovina. Niente per il Centro storico che, nella sua articolata complessità, Antonio Cederna, già nel 1982, riteneva dovesse essere “…considerato come un monumento unitario da salvaguardare e risanare a fini residenziali e culturali, e che, invece, ridiventa terra di conquista, affinché i nostri bravi architetti possano lasciare in esso lo loro “impronta” ovvero affermare lo loro “creatività progettuale”.

Niente per i cittadini che vogliono o vorrebbero continuare ad abitare le case in quelle strade ed in quelle piazze e piazzette, niente per i magazzini degli ultimi commercianti, ristoratori e artigiani, niente per il popolo che ha abitato ed abita la città, che ha conservato e trasformato nel corso dei millenni quei muri di pietre e mattoni che, inesorabilmente, si ridurranno in rovine e macerie.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, proceduto all’elaborazione di un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, può darsi che questi 90 milioni sarebbero stati spesi come a Bologna, ma un finanziamento di questa portata destinato esclusivamente ai fini sopradetti è del tutto pleonastico e spropositato.

Si potrebbe chiosare la natura dell’intero provvedimento finanziatore considerato come salvifico: lampioni a led per illuminare rovine deserte.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 settembte 2020
foto di Ercole Scorza