Tag: legge elettorale

Referendum elettorale, ricordando Besostri.-di Enzo Paolini

Referendum elettorale, ricordando Besostri.-di Enzo Paolini

Lo scorso 23 aprile il comitato promotore del referendum contro la legge elettorale detta Rosatellum, presieduto da Elisabetta Trenta, ha depositato i quesiti in Cassazione. Un punto di partenza che costituisce anche il compimento di un lavoro magistrale, infaticabile e straordinariamente professionale fatto da Felice Besostri, l’uomo che ci sempre ricordato che la qualità di uno Stato democratico dipende dalla sua legge elettorale. Felice, scomparso a gennaio scorso, ha fatto dichiarare incostituzionale sia il Porcellum che l’Italicum e dinanzi alla protervia di un parlamento sistematicamente elusivo delle sentenze della Corte costituzionale era diventato l’anima del movimento referendario. Ci eravamo scambiati delle idee sul senso della nostra iniziativa. Queste.

Indifferenza è la parola dalla quale si può ripartire per una disamina politica che allarghi la visuale. L’indifferenza verso una politica identitaria e coraggiosa aperta alle nuove generazioni, alla società civile, alle esperienze culturali ed alla partecipazione. La politica che l’elettore non trova, non percepisce, non intercetta di fronte a trasformismo, instabilità di centinaia di notabili che si spostano da un (sedicente) partito a un altro solo in base alle convenienze del momento, senza neanche il pudore di una parvenza di dibattito ma solo sulla base del mantra «le elezioni non servono per rappresentare le idee e per consentire le giuste alleanze tra diversi per governare, servono solo per sapere chi vince». E chi vince deve avere, mediante una legge elettorale ad hoc, una maggioranza tale da comandare, senza fastidi, per tutta la legislatura.

Su questo altare sono stati sacrificati i principi ed i valori sui quali è stata edificata la Repubblica, e cioè la funzione costituzionale dei partiti come metodo di selezione della rappresentanza istituzionale su base proporzionale. Partiti che da luogo di discussione e ricerca sono stati ridotti a sito di momentanea «appartenenza», parola che non significa più un modo di sentirsi parte di una comunità capace di condividere bisogni, speranze, aspettative e timori, bensì posizionamento in difesa di interessi particolari.

Questo è il motivo profondo dell’indifferenza, della disaffezione dei cittadini rispetto all’esercizio, allo spettacolo e alla bellezza della politica.
Negli ultimi venti anni la gran parte di noi, italiani che hanno creduto e credono nel valore della politica, ha dovuto prendere atto che la scelta e la proposta dei suoi rappresentanti non sono state fatta sulla base di capacità, competenze e impegno ma sulla creazione di rapporti personali o di cerchi magici. In questo modo il senso di comunità ha finito per non avere più alcun valore.

Il tutto ormai senza alcun alibi per chi sostiene che comunque tutto ciò assicurerebbe stabilità, perché l’esperienza dimostra come nessun artificio maggioritario abbia potuto garantire davvero la governabilità mentre, almeno nel caso italiano, ha invece certamente contribuito a destrutturare il sistema politico.

È ben chiaro a tutti al contrario come un parlamento ampiamente rappresentativo – composto da senatori e deputati che del loro comportamento nelle istituzioni rispondono agli elettori, sia stato (e sarebbe) il miglior elemento di stabilità per un paese diviso e confuso.
Nel nostro Paese continua l’indifferenza – in alcuni casi il disgusto – verso una classe dirigente indigeribile. Essa ha prodotto un altissimo tasso di astensione e prevale ancora il voto connotato da percorsi familistici o clientelari.

È questa antipolitica o, peggio, rifiuto della politica? Noi pensiamo di no. Questa crisi non è ascrivibile agli elettori ma a chi elabora la proposta elettorale evidentemente sempre più scadente o autoreferenziale di fronte alla quale il cittadino, anche il più motivato, decide di non partecipare. È un problema, ma allo stesso tempo un segnale. Di fronte a una politica così predatoria e opportunista dobbiamo alzare il livello dello scontro e ritornare nei luoghi della politica. Tornare nelle piazze per fare in modo che l’entusiasmo, la passione, la rabbia e la voglia di esserci e di contare entrino nelle case, negli uffici, nelle scuole.

da “il Manifesto” del 30 aprile 2024
Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Cacicchi e capibastone metafore di un partito irrisolto.-di Filippo Veltri

Sono passati quasi 20 anni, 19 per l’esattezza. Il PD non c’era ancora, c’erano i DS, i Democratici di Sinistra: accadde tutto una mattina del luglio del 2005 al Parco dei Principi di Roma, hotel per attrici e indossatrici, dove quel venerdì si stava svolgendo il Consiglio nazionale dei Ds.

Inaspettatamente Fabio Mussi sfoderò un lessico crudissimo per denunciare «l’esistenza in Campania di veri e propri capibastone», avvertendo: «Su questi argomenti sono pronto a fare uno scandalo!». Cesare Salvi rincarò le dosi contro consulenze e commissioni speciali in terra di Campania («C’è una nuova questione morale!») e alfine il parlamentino della Quercia approvò un ordine del giorno Mussi-Salvi-Napolitano col quale si mettevano all’indice quelle regioni «governate dal centro-sinistra che moltiplicano gli incarichi amministrativi».

Quattro giorni dopo il «capobastone» Antonio Bassolino, dicendosi «rattristato dal calderone», produsse questo contro-argomento: «In Campania si vince sempre dal 1993, altrove a volte si vince e si perde…».
Dunque, guai ai capibastone.

Quell’invettiva deve essere rimasta nell’orecchio di Walter Veltroni che tre anni dopo, dicembre 2008, da leader del Pd la rilanciò con foga ed efficacia spettacolare davanti all’assemblea dei giovani democratici. Nell’ultimo congresso provinciale di Napoli Andrea Cozzolino, il candidato di Bassolino, era stato però battuto dal veltroniano Luigi Nicolais, docente universitario. Ironia della sorte!

Il termine capobastone istintivamente evocava comunque il Sud, dove alle Europee del 2004 Massimo D’Alema aveva conquistato nientedimeno che 832.000 preferenze, anche grazie ad una rete di accordi locali con una miriade di «capibastoncini».

E anche allora c’era il capopopolo Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd. Insomma una maledizione, che aveva poi portato sempre Veltroni in una famosa intemerata pronunciata a Reggio Calabria nel 2008, appena eletto segretario del Pd nella sua prima visita in Calabria, a usare l’espressione biblica (*) ‘’statue di sale’’ (in verità già usata un anno prima ma con altro significato, il 30 giugno 2007: “Questo paese ha la testa rivolta al passato e, se non cambia, rischia di trasformarsi in una statua di sale”). Ma in Calabria allora apriti cielo! Successe un mezzo finimondo, con vere e presunte statue di sale a polemizzare con Walter.

Ora tra una settimana torna in Calabria Schlein per concludere la Conferenza programmatica del PD regionale a Soveria Mannelli e si accettano scommesse se non si ritroverà, più o meno, con lo stesso problema!

La verità è che oggi la Puglia è come una metafora di un partito irrisolto e senza linea non perché ha troppe linee che confliggono tra loro, ma perché nato per essere un partito di governo ed è subito diventato un partito di potere. E di potentati: in Puglia ma anche in Campania, in Toscana, in Basilicata, in Piemonte, nel Lazio, in Calabria etc. etc.

Sono sempre lì i cacicchi e i capibastone che la segretaria diceva di non voler più vedere, i collettori di voti pronti a indirizzare i loro pacchetti in base alle convenienze, o a usarli come armi di deterrenza e il trasformismo cresce di pari passo con l’accresciuto potere dei moltiplicatori di pani e di pesci. Solo che i nuovi cacicchi a differenza dei vecchi, che i voti almeno l’avevano, spesso non hanno nemmeno i voti della loro famiglia e qualche volta solo la promessa dei voti!

La segretaria si è opposta con nettezza alla cancellazione del tetto dei due mandati e sta cercando di costruire – con fortissime resistenze – liste per le europee che con alcune candidature civiche e la sua stessa presenza dovrebbero rianimare lo spirito dei gazebi che la hanno portata alla guida del Pd. Ma il rinnovamento non si fa con una manciata di nomi, per quanto di prestigio. Si fa nei famosi territori, che vanno battuti e disossati palmo a palmo. E costruendo anche alleanze virtuose prima di tutto dentro al partito, aprendo porte e finestre. Con gli “inner circle” non si va lontano. E Schlein da questo punto di vista non pare proprio abbia iniziato a lavorare sul partito.

Quanto alla possibilità, passata la buriana e scavallate le europee, di costruire una alleanza con il movimento 5 Stelle, al momento sembra quasi lunare. Il leader dei 5S ha sferrato un colpo basso proprio alla segretaria del Pd, con l’azzeramento delle primarie come dato di fatto. Il tutto per capitalizzare i guai del Pd alle Europee, sognando il sorpasso. Comunque andrà quel voto, dopo sarà comunque più difficile ricucire lo strappo, ammesso che l’ex premier lo voglia.

*Immagine: La moglie di Lot è una figura menzionata per la prima volta nella Bibbia, in Genesi 19,26, che descrive come la donna divenne una statua di sale dopo aver guardato Sodoma.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 aprile 2024
Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=10614351

Riforma costituzionale, progetto sgangherato e autoritario.-di Enzo Paolini e Felice Besostri

Riforma costituzionale, progetto sgangherato e autoritario.-di Enzo Paolini e Felice Besostri

Una proposta di riforma definita “light”, come se fosse un cocktail di mezza sera.
Soli cinque articoli per demolire l’impianto costituzionale costruito in maniera certosina, intelligente, lungimirante ed efficace e poggiato sui pesi e i contrappesi nella distribuzione del potere di un ordinamento seriamente ed effettivamente democratico.

Il primo cambiamento, il nucleo, quello più demagogico e distruttivo introduce l’elezione diretta del Presidente del Consiglio ed il premio di maggioranza per le liste ad esso collegate in modo da raggiungere “sulla base dei principi di rappresentatività e governabilità” il 55% dei seggi.

Così, senza soglie minime di votanti e/o di voti ottenuti. Semplicemente chi vince con un voto in più prende tutto.
La scrittura del DDL è costruita con l’uso di frasi demagogiche e terminologie atte a rassicurare il cittadino che, ovvio, vuole essere rappresentato e vuole governi politicamente seri.

Ma sono frasi di distrazione di masse perché a rifletterci anche solo un poco ci si accorge che non è così .
La prima osservazione è che i due termini – “rappresentatività”’ e “governabilità” – cosi come proposti nel DDL sono del tutto incoerenti e, per quanto riguarda il secondo – la asserita “governabilità” – anche pericoloso.
Come può essere rispettato il principio di rappresentatività se chi vince, poniamo con il 25% (cioè una maggioranza relativa), prende il 55% dei seggi delle Camere lasciando al restante 75% del corpo elettorale il residuo 45% da dividere tra tutti?

La “governabilità” poi è un concetto dannoso ; ed infatti non c’è nella Costituzione.-
E’ stato introdotto con subdola demagogia – e sublimato dalla “narrazione” berlusconrenziana – per giustificare il sistema elettorale dei nominati e dei premi di maggioranza a chi non è maggioranza per poter cantare stucchevolmente il ritornello suggestivo, dei vincitori che si devono sapere la sera delle elezioni, del chi vince prende tutto.-

Ma le elezioni non sono una partita di calcio da raccontare, con vincitori e vinti, la sera alla domenica sportiva
Le elezioni sono fatte per fotografare il paese e tradurre la rappresentanza proporzionalmente nelle aule parlamentari. Per organizzare la traduzione del consenso in leggi parlamentari la Costituzione prevede altri organismi: i partiti.-
Ma se i parlamentari non sono eletti in base al consenso bensì in base alla indicazione dei capi allora i partiti non hanno più motivo di esistere.

Ed infatti sono morti. Esistono liste fatte da cinque/sei persone che nominano tutto il Parlamento.
Il nostro sistema non è più fondato sul consenso, sul legame sociale tra elettore ed eletto quanto piuttosto sul rapporto fiduciario tra nominante e nominato.

Un rapporto tra pochi che restringe il campo del dialogo sociale e crea di fatto una oligarchia.
E provoca il fenomeno dell’astensionismo.
E’ quello che avviene oggi nel nostro Paese.

Dove una classe dirigente che tutti definiscono inadeguata ma che sarebbe più rispettoso definire semplicemente non legittimata propone la più sgangherata ed autoritaria delle riforme.-
Come una responsabilità del genere possa essere consentita ed anzi affidata a chi ha devastato il Paese con una legge elettorale che ci ha condotto sin qui e che nonostante i ripetuti moniti della Corte Costituzionale (e gli inutili gargarismi di tutti i politici a parole contro ma nei fatti a favore) non si riesce ad estirpare, è un fatto che appare incredibile ma ha una sua logica.

Un’ultima considerazione su un’affermazione che spesso si sente dire ma è sbagliata: “l’Europa ci chiede una Costituzione e una legge elettorale che diano stabilità e chi rema contro rappresenta la solita Italia dei gattopardi”. Chiariamo: l’Europa non ci chiede stabilità politica con leggi truffa. Ci chiede la stabilità fatta dal lavoro di mediazione, della ricerca del consenso, di ciò che unisce e non divide la maggior parte dei cittadini, un duro lavoro che si chiama, appunto, politica. Ed è l’Europa dei popoli. Il contrario di ciò che ha fatto e sta facendo questo ceto politico di destra o di sedicente sinistra.

Nel gergo dell’Europa delle multinazionali, nel mondo delle Casellati, stabilità invece vuol dire decisioni di pochi senza tante chiacchiere, senza leggi da discutere e da emendare, senza dover sentire le opinioni altrui, senza dover indicare e magari cambiare qualcosa. Chi vince la sera delle elezioni, anche se rappresenta una minoranza rispetto alla somma di tutti gli altri, prende tutto il cucuzzaro, e comanda. Non si deve impegnare a ricercare le alleanze, quelle che fanno poi la stabilità. No. Comanda uno e fine della storia.

Ma se governare non è comandare, se governare è convincere gli altri della giustezza delle proprie idee e delle proprie proposte, perché si ha paura delle idee diverse? Perché per poter avere la fiducia si devono attribuire per legge centinaia di seggi non corrispondenti alla volontà popolare? Questo è un segnale di debolezza e non di forza, e la storia insegna che i sistemi fondati sulla debolezza delle idee prima o poi si sostengono con la forza della dittatura. Non è un’esagerazione, perché se ci si riflette, con pacatezza e senza pregiudizi, ci si accorge che una maggioranza forzata – cioè attribuita per legge in favore di quella che, secondo le urne , è una minoranza – è una forma di dittatura. I “partiti unici”, sono nati così.

L’esatto contrario della democrazia, che prevede l’incontro tra le forze politiche per formare i governi DOPO le elezioni; dopo cioè, che si è verificato cosa, come e chi vogliono gli italiani.

Come recentemente ha detto Gustavo Zagrebelsky la parola “governabilità” è ambigua, parola impropria, sdrucciolevole che prevede arrendevolezza da parte dei “governati”. Le mandrie sono governabili. Ciò che si vuole con quella parola ingannatrice – continua il Presidente emerito della Corte Costituzionale – è rafforzare il potere “pastorale” con un rovesciamento del paradigma democratico: dalla legge come confluenza delle libertà sociali, operanti nel Parlamento rappresentativo, alla legge come imposizione decratata dal governo. Sono prospettive radicalmente diverse.

Una ultima notazione su una parte del DDL che passa inosservata perché viene proposta come un ulteriore salutare “dimagrimento” del numero dei parlamentari. Parlo del cosiddetto “superamento” del numero dei senatori a vita, ridotti ai soli ex Presidenti della Repubblica. Niente più nomine di personaggi che hanno illustrato il Paese nel campo sociale, culturale, artistico e scientifico.

Ma le intenzioni dei Costituenti non erano quelle di incrementare banalmente i laticlavi senatoriali con cinque persone ( peraltro di rilievo assoluto).

Era quello di elevare proprio il tasso di rappresentatività in maniera tale da far entrare in Parlamento un pezzo – di livello massimo – di società civile tale da poter influire – per quanto possibile – sul censo tutto politico.
Oggi si fa il contrario: è bene che la “casta” rimanga da sola, pochi, fedeli e tutti con gli stessi orizzonti e gli stessi interessi: il potere ed il mantenimento del potere.

Così non si avrà il fastidio di sentire, ad esempio un tal Norberto Bobbio il quale, appunto, da senatore a vita ebbe a dire: “meglio cinquanta governi in cinquanta anni che un solo governo per venti”.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 novembre 2023.

Insieme per la Carta, ma non dimenticate la legge elettorale.-di Felice Besostri

Insieme per la Carta, ma non dimenticate la legge elettorale.-di Felice Besostri

Da Milano arriveremo in molti a Roma il 7 ottobre per la manifestazione nazionale “La via maestra-Insieme per la Costituzione”. Per quanto mi riguarda, tra le organizzazioni che hanno firmato ce sono alcune di cui sono associato da più di un decennio e di altre sono stato tra i fondatori. Respingere gli attacchi alla Costituzione è uno dei miei impegni permanenti. Ma devo esprimere una perplessità che è anche una seria preoccupazione. Nell’appello non c’è una parola sulla legge elettorale.

Se è una dimenticanza è sorprendente, perché è stato definitivamente accertato dalla Corte Costituzionale che abbiamo rinnovato il Parlamento nel 2006, 2008 e 2013 con una legge incostituzionale non in aspetti secondari ma per l’assegnazione di un premio di maggioranza e la previsione di liste di candidati totalmente bloccate. Non solo. Maggioranze costituzionalmente illegittime hanno adottato, grazie all’imposizione al Camera di tre voti di fiducia, una successiva legge elettorale dichiarata costituzionalmente illegittima in parti qualificanti prima che fosse mai applicata. Ed è sufficiente una lettura di queste due sentenze per capire che anche la terza legge elettorale, quella in vigore con la quale abbiamo eletto due parlamenti compreso l’attuale, non è indenne da problemi di costituzionalità.

Basta un dato: la coalizione vincente, con un consenso del 43,79% alla Camera, ha 237 seggi su 400, cioè più del 59% dei seggi. Al Senato con il 44,02% ha ottenuto 115 su 200 elettivi, cioè il 57,5% dei seggi.

Se non aver citato la legge elettorale nell’appello di convocazione della manifestazione è stata una scelta, è una scelta grave. Se è stata fatta per non mettere in imbarazzo i partiti, responsabili delle leggi elettorali e del taglio eccessivo dei parlamentari, è ancora più grave perché senza una critica alla legge elettorale vigente (frutto dei governi Gentiloni e Conte 1 e delle mancate promesse del Conte 2) non è credibile la difesa della Costituzione. Ed è più debole anche l’opposizione a presidenzialismo, semipresidenzialismo e premierato.

Oggi, i vincitori delle ultime elezioni hanno nel parlamento in seduta comune il 58% dei seggi, decisivi per l’elezione del presidente della Repubblica – o per controllarlo attraverso l’articolo 90 della Costituzione. Se l’ottimo presidente in carica si agitasse, questa maggioranza potrebbe tenerlo sotto scacco. E se lasciasse potrebbe eleggere, anche grazie ai 31 delegati regionali su 58, alla quarta votazione, un suo candidato in solitudine.

La critica alla legge elettorale in vigore avrebbe reso più credibile anche la giusta e netta opposizione all’autonomia differenziata, perché senza questa maggioranza artificiale il progetto di Calderoli non avrebbe futuro.

Tutto ciò in sintesi è possibile grazie alla legge elettorale in vigore, che è incostituzionale per violazione dei principi ribaditi proprio dalle sentenze della Corte costituzionale. Se gli elettori non possono scegliere i candidati, questi una volta eletti non possono rappresentare la nazione senza vincolo di mandato, ma saranno agli ordini dei partiti che li hanno nominati con le liste bloccate e le multicandidature in violazione dell’articolo 49 della Costituzione.

Se non si contesta per incostituzionalità la legge elettorale si finisce con l’accettare il risultato dello scorso settembre, che è stato possibile solo grazie a una legge incostituzionale. È una posizione debole e controproducente. È una dimenticanza che andrebbe corretta.

da “il Manifesto” dell’11 agosto 2023
Foto di OpenClipart-Vectors da Pixabay

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

Il ministro Calderoli ha tradotto il termine spacca-Italia – giudizio indiscutibilmente politico – in una offesa alla sua onorabilità. Minaccia addirittura le vie legali.

Per quanto ci riguarda, del suo onore non dubitiamo affatto. Ma nemmeno dubitiamo che il suo progetto di autonomia differenziata sia dannoso per il paese. Un danno che si produce su due versanti.

Il primo. Il ministro ha infilato nella legge di bilancio una decina di commi sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Sembrerebbe cosa buona e giusta, perché l’art. 117.2, lett. m), affida i Lep alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla pari con politica estera, difesa, sicurezza e altro ancora. Un presidio apparentemente fortissimo.

Ma nei commi in questione non troviamo quali sono le materie Lep, quali gli ambiti, quali le risorse, quali i tempi. C’è solo una via tecnico-burocratica per la definizione, per di più in una dichiarata assenza di risorse. Un percorso che vede l’adozione con decreti del presidente del consiglio dei ministri e la marginalità del parlamento, nonostante il presidio dell’art. 117.2. I Lep sono sottratti di conseguenza anche al controllo del capo dello Stato in sede di promulgazione della legge e della corte costituzionale nel giudizio di legittimità. Si aggiunga che mettendo i Lep nella legge di bilancio il ministro sottrae il relativo procedimento anche al referendum abrogativo ex art.75. Un “pacco”.

Il secondo è la legge di attuazione. Un altro “pacco”. È consegnata all’eternità della rete una dichiarazione di Calderoli di aver ritenuto inizialmente la legge (legge-quadro o di attuazione è lo stesso) non necessaria, potendosi stipulare le intese anche in mancanza. Poi ha cambiato idea. Peccato, perché era buona la prima.

La legge di attuazione è inutile, perché non è sovraordinata alla legge che concede maggiore autonomia. Ad esempio, se anche la legge di attuazione escludesse la regionalizzazione di scuola, infrastrutture strategiche, lavoro, energia, porti, aeroporti, autostrade, ferrovie o altro ancora, la legge sulla maggiore autonomia di una o più regioni potrebbe ugualmente concederla. Lo stesso vale per il caso di mancata determinazione dei livelli essenziali nelle materie Lep.

Un referendum abrogativo della legge di attuazione Calderoli sarebbe ammissibile, ma inutile, perché non precluderebbe la stipula di singole intese con singole regioni. Mentre la legge recante la maggiore autonomia per la singola regione ai sensi dell’art. 116.3 sarebbe – quella sì – sottratta a referendum abrogativo in quanto legge “rinforzata”, secondo una antica giurisprudenza della Corte costituzionale. Al tempo stesso, la maggiore autonomia acquisita attraverso l’art. 116.3 è potenzialmente irreversibile, perché la modifica successiva dovrà comunque essere fatta con lo stesso procedimento.

Quindi, in base a nuova intesa con la regione, che potrebbe ovviamente negarla. Né infine è credibile che una maggiore autonomia conseguita con trasferimento di risorse umane, organizzative, strumentali, finanziarie si cancelli o si riveda agevolmente, Un paese non si governa con apparati pubblici in fluttuazione costante.

La legge di attuazione è una cortina di fumo. Nel modello Calderoli la vera scommessa è sulla concertazione tra esecutivi, e cioè sulla trattativa con i ceti politici regionali e locali, potenzialmente interessati a frattaglie di potere. Là si cerca il consenso. Rimane invece necessario emarginare il parlamento, popolato di soggetti che nella gran parte nulla guadagnano personalmente dalla cannibalizzazione delle strutture statali.

Non se ne abbia a male Calderoli. Il paese non si mantiene ragionevolmente unito ed efficiente quando ogni componente territoriale definisce a trattativa privata il proprio regime economico e giuridico in modo potenzialmente irreversibile. Il danno c’è, e non si diffama nessuno evidenziandolo. Certo, non è tutto imputabile a lui. Ha ragione quando dubita del neurone che ha scritto l’art. 116.3. Non a caso, raccogliamo le firme su una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a una modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Intanto, Meloni farà bene a frenare la voglia leghista di spacchettare l’Italia in tante repubblichette. Ricordiamo il Nenni della stanza dei bottoni. Al suo capo eletto direttamente Meloni una stanza potrebbe anche darla. Ma con l’autonomia differenziata scomparirebbero i bottoni.

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023

Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale.-di Enzo Paolini

Una campagna su autonomie regionali e legge elettorale.-di Enzo Paolini

Quello della governabilità è un concetto dannoso ed infatti non c’è nella Costituzione.
E’ stato introdotto con subdola demagogia – e sublimato dalla “narrazione” berlusconrenziana – per giustificare il sistema elettorale dei nominati e dei voti obbligatoriamente spalmati sulle liste congiunte indipendentemente dalla volontà degli elettori, per spalmare impunente premi di maggioranza, espliciti o nascosti per poter rispondere stucchevolmente il ritornello suggestivo, dei vincitori la sera delle elezioni, del chi vince prende tutto.-

L’esatto contrario della democrazia, che prevede l’incontro tra le forze politiche per formare i governi dopo le elezioni; dopo cioè, che si è verificato cosa, come e chi vogliono gli italiani.-

Le elezioni sono fatte per fotografare il paese e tradurre la rappresentanza nelle aule parlamentari. Per organizzare la traduzione del consenso in leggi parlamentari la Costituzione prevede altri organismi: i partiti.-

Ma se i parlamentari non sono eletti in base al consenso bensì in base alla indicazione dei capi allora i partiti non hanno più motivo di esistere.Ed infatti sono morti.

Il nostro sistema non è più fondato sul consenso, sul legame sociale tra elettore ed eletto quanto piuttosto sul rapporto fiduciario tra nominante e nominato. Un rapporto tra pochi che restringe il campo del dialogo sociale e crea di fatto una oligarchia. E provoca il fenomeno dell’astensionismo.E’ quello che avviene oggi nel nostro Paese. Dove una classe dirigente che tutti definiscono inadeguata ma che sarebbe più rispettoso definire semplicemente non legittimata propone la più sgangherata ed autoritaria delle riforme, quella della autonomia differenziata.-

Come una responsabilità del genere possa essere consentita ed anzi affidata ad un sedicente legislatore che ha devastato il Paese con una legge elettorale che ci ha condotto sin qui e che nonostante i ripetuti moniti della Corte Costituzionale (e gli inutili gargarismi di tutti i politici a parole contro ma nei fatti a favore) non si riesce ad estirpare, è un fatto che appare incredibile ma ha una sua logica.

La semina dell’odio sociale nasce da lontano, è stata sopita e dominata per tanto tempo dalle grandi scuole politiche del dopoguerra, per esplodere nel momento in cui le forze illiberali del mercatismo e dell’iperliberismo hanno preso il sopravvento: prima con il programma “Rinascita” di Gelli e poi con quello scritto da J.P Morgan ed interpretato da Renzi.

Ambedue apparentemente sconfitti, è vero, l’uno dalla Magistratura l’altro dal popolo referendario, ma presenti ed infettanti, eccome, grazie al cavallo di Troia della legge elettorale, l’arma che ha spezzato ogni tipo di connessione politica e sociale tra il paese reale ed il paese legale, che ha creato il Parlamento che conosciamo, dimezzato ed irrilevante sul piano della rappresentanza, rilevantissimo su quello del potere obbediente. Che non è un ossimoro ma la triste realtà.

Per questo, ora più che mai occorre aderire a due progetti di Legge di iniziativa popolare che possono invertire la direzione che hanno preso le cose nel nostro Paese e che suscitando la discussione possono essere portati in aula sostenuti da un movimento d’opinione.

E’ l’unica cosa veramente rivoluzionaria che possiamo fare: sostenere Massimo Villone sulla autonomia differenziata e Felice Besostri sulla legge elettorale.

Stiamo con loro, diffondiamo le loro idee, facciamoci alimentare dal loro spirito sinceramente democratico. Perché è il patrimonio politico del nostro popolo. E non ha prezzo. In tutti i sensi.-

da “il Manifesto” del 29 novembre 2022

Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione.-di Felice Besostri e Enzo Paolini

Il primo obiettivo è mettere in salvo la Costituzione.-di Felice Besostri e Enzo Paolini

Ormai l’hanno capito tutti che il Rosatellum non è il nome di un buon vino giulian-friulano, ma di una pessima legge elettorale, che blocca non solo le liste elettorali ma anche la libertà e la personalità di voto nei collegi uninominali, con il voto congiunto obbligatorio a pena di nullità. Un obbrobrio non previsto dal Mattarellum, che alla Camera consegnava 2 schede e al Senato scorporava per la parte proporzionale i voti utilizzati per eleggere i candidati uninominali maggioritari.

Se non si aveva la forza numerica e la volontà politica di modificare la legge elettorale, come promesso in caso di taglio dei parlamentari, sarebbero bastate queste due piccole modifiche per rendere costituzionalmente potabile il Rosatellum: non ci hanno nemmeno provato.

La ragione è, come ha ben scritto Gian Giacomo Migone sul manifesto, nell’articolo “Quel Rosatellum che piace a tutti i partiti”, che fa comodo nominare i parlamentari, per aggirare di fatto l’art. 67 della Costituzione sul divieto di mandato imperativo, in attesa di introdurlo con modifiche dei Regolamenti parlamentari di Camera e Senato e pertanto sottratte al controllo della Corte Costituzionale.

Altro vantaggio del Rosatellum è che assegna, in caso di coalizione, al partito egemone della coalizione, il diritto di proporre, in caso di vittoria, al Presidente della Repubblica il nome del/della presidente del consiglio dei ministri, sempre che non scattino veti informali europei o atlantici.
Il Rosatellum va bene anche alla coalizione arrivata seconda, che avrebbe il monopolio dell’opposizione, perché decide chi ammettere come lista minore della coalizione.

Se lo scopo è quello di salvare la Costituzione, come ha suggerito Gaetano Azzariti, non si possono mettere paletti programmatici: la coalizione deve essere aperta a tutti, a cominciare dal M5S e dalle liste rosso-verdi di ogni ispirazione socialista, comunista e ambientalista. La nostra Costituzione prevede il voto, oltre che segreto, eguale, libero, personale e diretto: il voto utile non è una prescrizione costituzionale, ma una scelta politica, una coalizione larga con scopo limitato ad impedire che il centro-destra prenda il 70% dei seggi uninominali. Diventa un voto utile, ma se è una coalizione con un ruolo politico e programmatico privilegiato per Calenda, senza un’apertura a soggetti di sinistra, è inutile perché non competitiva per vincere i collegi uninominali maggioritari.

Alle votazioni partecipa appena il 28% delle classi popolari e più sfavorite, quel voto va recuperato altrimenti non c’è partita, come non è seria un’alleanza elettorale col solo scopo di far eleggere un paio di leader politici, garantiti dal Pd.
Infine per mettere in salvo la Costituzione basta chiedere fin da subito a tutti i partiti un impegno per un Ddl costituzionale, che ogni modifica della Parte Prima della Costituzione, della forma di governo e della elezione e composizione degli organi costituzionali debba essere approvata con referendum, anche se approvata con i 2/3 dei membri del Parlamento.

In questo scorcio di legislatura si è approvata con decreto-legge (art. 6 bis d.l. 41/2022 una norma in materia elettorale che esenta dalla raccolta firme liste coalizzate che avessero raccolto almeno l’1% alle elezioni del 2018: una norma che viola gli artt. 3, 48 e 51 della Costituzione, perché esclude liste non coalizzate che hanno raccolto la stessa percentuale di voto sia alla Camera, che al Senato. O si rimedia con urgenza ovvero si chieda l’assoluta neutralità del governo in caso di ricorso: è possibile e urgente prima della scadenza del termine per la presentazione delle liste.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2022

Democrazia e ricorsi elettorali in Calabria.- di Felice Besostri, Caterina Neri, Enzo Paolini

Democrazia e ricorsi elettorali in Calabria.- di Felice Besostri, Caterina Neri, Enzo Paolini

La legge elettorale vigente, costituita dalla legge165/2017 (Rosatellum come integrata e modificata dalla legge n. 51/2019 e completata dal decreto legislativo 23 dicembre 2020, n. 177 sui nuovi collegi elettorali), presenta profili di contrasto con norme costituzionali fondamentali, quali gli articoli 3, 6. 48, 51, 56 e 58, che garantiscono un voto eguale, libero e personale oltre che diretto e il diritto di candidarsi in condizione di eguaglianza alla luce dei principi affermati nelle sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 e n. 35/2017.

La situazione si è aggravata con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1/2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari con la Camera che passa da630 a 400 membri e il Senato da 315 a 200 membri elettivi, e con la conseguente estensione dei collegi uninominali maggioritari (3/8) e quindi dei loro voti, che alterano i risultati della quota proporzionale (5/8), senza la possibilità del cosiddetto “scorporo”.

Tecnicismi che non interessano a nessuno perché con quello che ci succede intorno, dalla pandemia alla guerra, c’è altro cui pensare. Ma questo non è un argomento.

La legge elettorale è la legge che regola il rapporto tra rappresentati e rappresentanti, non proprio una minuzia nella vita democratica. Dalla legge elettorale discende la selezione della classe dirigente e la sua qualità, dal Parlamento fino all’ultimo Comune e all’ultima ASL. Solo che siccome è difficile da capire giornaloni e TV hanno deciso di non occuparsene, cosi i cittadini non se ne interessano e restano sudditi.

Il fatto è che – come acutamente osservato da Silvia Truzzi sul Fatto Quotidiano, -più una legge elettorale è difficile da capire, meno bisogna fidarsi.

Gli elettori si sono stancati di fare ricorsi per affermare il loro diritto di votare in conformità alla Costituzione e d’aver avuto ragione, ben due volte, dalla Corte Costituzionale e constatare che i parlamentari non ne tengono conto, anzi se ne infischiano. La ragione è semplice:con le liste bloccate devono solo ubbidire agli ordini dei capi partito, che li nominano collocandoli nelle teste di lista e non rendere conto agli elettori, che non possono esprimere preferenze e neppure contrarietà a singole candidature.

In vista delle elezioni municipali del 12 giugno è ripreso il dibattito sulla legge elettorale per il rinnovo del Parlamento. Le prossime elezioni alla scadenza naturale della primavera 2023 o anticipate in caso di crisi del Governo Draghi saranno le prime con il Parlamento tagliato in media del 36,50%, come conseguenza della legge costituzionale n.1/2020.

Con il voto congiunto obbligatorio, l’assenza di scorporo dei voti ottenuti nel maggioritario, le soglie nazionali anche per il Senato, (benché l’art. 57 Cost. preveda la sua elezione su base regionale,)c’è il rischio che nel prossimo parlamento siano rappresentate non più di 4/5 liste e al Senato ,nelle regioni più piccole ,non più di 3. Sono inoltre favorite le coalizioni, che non hanno più, dopo la riscrittura dell’art. 14 bis del dpr n. 361/1957, un unico capo politico e nemmeno un programma comune.

Le liste coalizzate per essere conteggiate a favore delle coalizioni nella parte proporzionale basta che superino la percentuale dell’1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere la soglia del 3%. La violazione degli articoli 3, 48 e 51 Cost., nonché degli artt. 56 e 58 è evidente. Non c’è voto diretto, eguale. libero e personale.

E’ una legge elettorale “di palazzo” fatta per perpetuare il potere e tenere fuori i cittadini elettori che non contano assolutamente niente . Poche persone nominano l’intero parlamento . Dall’entrata in vigore del Porcellum nel 2005 e del Rosatellum nel 2017 sono 18 anni che non possiamo scegliere i parlamentari causa delle liste totalmente bloccate delle elezioni 2006, 2008 e 2013 e nel 2018 nemmeno scegliere liberamente il candidato uninominale maggioritario, a causa della sanzione della nullità del voto disgiunto.

Tuttavia, questa legge non sarà cambiata, se non viene mandata in Corte Costituzionale quest’anno, affinché si possa pronunciare prima delle elezioni 2023. Ed e’ questo il senso di questo articolo . Attualmente pendono 3 ricorsi presso le Corti d’ Appello di Bologna, Messina e Roma e 4 presso i Tribunali di Catanzaro e Reggio Calabria e di recente Torino e Trieste.

Quelli presso i Tribunali calabresi evidenziano più di altri le disparità di trattamento, quindi la incostituzionalità della legge elettorale perche sottopongono ai Giudici l’incredibile disparità che le normative applicabili comportano ad esempio in Calabria e nella Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol.

Nel Senato il Trentino-Alto Adige/sudtirol, che aveva 7 seggi come Abruzzo e Friuli-V.G., con il trucco di dare il minimo di 3 alle Province Autonome ne avrà 6, quindi il taglio è stato del 14,28% e non del 36,50% come nelle altre regioni.

Con 6 senatori il Trentino A.A. ne ha più dei suoi ex-compagni di 7 ABRUZZO e FRIULI, che ne hanno 4 ma anche di Liguria, Marche e Sardegna che ne avevano 8 ed ora 5. Tutte queste 5 Regioni sono più popolate del Trentino-Alto ADIGE, che al censimento 2011 aveva 1.024.000 abitanti.

MA E’ IL CONFRONTO CON LA CALABRIA CHE E’ SCANDALOSO .
Con 1.959.000 abitanti, quasi il doppio (i trentini-sudtirolesi sono il 52,27% dei calabresi) aveva 10 senatori ed ora ne ha 6, con un taglio del 40%. Prima per eleggere un senatore bastavano 195.900 residenti calabresi, ora ne servono 326.500, mentre nella regione trentina-sudtirolese ne bastano 170.666.

Ma i privilegi non finiscono qui: per la legge 51/2019 sia alla Camera che al Senato ci sono 3/8 di seggi maggioritari e 5/8 proporzionali.

Ebbene alla Camera, in Trentino A.A. i seggi maggioritari sono 4 e i proporzionali 3. Al Senato sono 6 maggioritari., mentre in Calabria ,con il doppio degli abitanti ,sono 2 maggioritari e 4 proporzionali.

L’altra discriminazione è per le minoranze linguistiche, che hanno norme speciali di favore solo nelle Regioni Autonome a statuto speciale, eppure la Calabria ha tre minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/1999, di cui la grecanica antichissima, millenaria e l’albanese di insediamento plurisecolare.

Gli albanofoni, peraltro colpiti dall’emigrazione, hanno una consistenza numerica superiore alle minoranze linguistiche slovena, ladina e francese, tutelate in regioni a statuto. Nei ricorsi si censura la discriminazione tra minoranze linguistiche e tra le minoranze linguistiche tutelate e le minoranze politiche con la stessa consistenza elettorale.

Queste discriminazioni degli elettori ed elettrici calabresi meritano un vaglio di costituzionalità, che spetta ai Tribunali Civili di Catanzaro e Reggio Calabria promuovere dovendo giudicare sui ricorsi da noi proposti .

da “il Quotidiano del Sud” del 13 giugno 2022

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

La prima: una spietata guerra si sta svolgendo sulla pelle dei cittadini calabresi. Nel vero senso della parola, dal momento che il commissariamento del servizio sanitario (cioè di tutto ciò che muove soldi in Calabria insieme alle opere pubbliche) a tutto guarda tranne che alla salute dei calabresi.

NESSUNA IDEA sul potenziamento (o meglio sull’adeguamento, non pretendiamo la luna) dei servizi di emergenza urgenza e sull’efficientamento di quelli territoriali (ambulatori, medici di famiglia, laboratori, specialistica), nessun sussurro sul riassetto della rete ospedaliera, non diciamo nuovi ospedali o eccellenze assolute ma livelli qualitativi sufficienti dei reparti normali; nessuno, proprio nessuno, (solo il Presidente Spirlì, che non è poco, ma nel settore non può fare più di tanto) dice niente, non uno straccio di idea su come far rimanere in Calabria i soldi ed i malati che sono volontariamente e consapevolmente e dolosamente espulsi, mandati a curarsi in altre regioni per prestazioni che potrebbero essere rese in Calabria a costi ridotti e senza disagi per viaggi (ancora) della speranza. Una vergogna che costa ai calabresi 320 milioni all’anno.

È LA QUESTIONE – gravissima – del ceto politico e dirigenziale della Regione, perché non è vero che in Calabria ci sono medici inadeguati in un sistema di livello; al contrario c’è una organizzazione amministrativa e politica inadeguata (nel migliore dei casi, o criminale, nel resto) che mortifica medici bravi ed ottime strutture.

Ed il commissariamento non risolve alcun problema semplicemente perché il rientro dal debito (cioè il deficit che ha prodotto e produce un servizio sanitario siffatto) non è un problema ma è solo una parte di esso e la sua soluzione (cioè l’atto – l’acta – cui è preposto il Commissario) non può essere raggiunta se non si mette mano anche – e contestualmente – a tutti gli altri settori di cui ho detto prima.

In questo sfacelo istituzionale al Commissario sono stati assegnati invece tutti i compiti che spetterebbero al Consiglio regionale, i cui componenti sono evidentemente ritenuti così poco affidabili ed incompetenti da indurre il Governo ad espropriarne le funzioni che assegna loro quel libretto che si chiama Costituzione.

E qui comincia la seconda storia. La rinascita di un popolo, quello calabrese, paradigma di un Paese in ginocchio, passa solo attraverso la riqualificazione della propria classe dirigente che ha perso ogni contatto con i cittadini ed i loro problemi quotidiani.
Alcuni occupanti le Istituzioni sono finanche seri, onesti e preparati, ma è il sistema che non funziona ed ha raggiunto ormai un livello di decozione politico-morale da renderlo scollato dalla realtà.
Da cosa dipende?

APRIAMO GLI OCCHI. Dalla legge elettorale che ha scientemente spezzato, reciso ogni legame tra elettori ed eletti, creando il sistema dei nominati e consolidato un ceto politico autoreferenziale che risponde dei suoi atti e delle sue scelte non ai cittadini ma ai sedicenti capipartito del momento. La Corte Costituzionale con sentenza 1/2014 ha già dichiarato incostituzionale una prima legge elettorale (il Porcellum) invitando il Parlamento a farne un’altra che tenesse conto della necessità di rispettare la connessione tra l’espressione di voto ed il sistema di elezione (in poche parole, preferenze e rappresentanza proporzionale, senza abnormi premi di maggioranza).

Allora il Parlamento dei nominati ne ha fatta un’altra, peggiore, l’Italicum. E qui la Consulta interviene con una nuova dichiarazione di incostituzionalità (sent. 35/2017). Ma siccome il sistema è questo, gli occupanti abusivi del Parlamento hanno spudoratamente prodotto l’ennesima legge elettorale che premia e consolida lo sconcio delle nomine. Il Rosatellum.

INSOMMA, per chiudere, il vecchio sistema proporzionale puro con le preferenze assicurava un contesto istituzionale stabile e controllabile dagli elettori (ed infatti ha condotto l’Italia alla crescita del dopoguerra, alla stagione delle grandi riforme ed alla sconfitta del terrorismo).

Questo attuale papocchio, ci porta – per tornare da dove sono partito – a tollerare, senza un plissé, che un organo istituzionale come un Consiglio regionale sia ridotto al silenzio ed alla inutilità da dieci anni, e alla sua sostituzione con Commissari provenienti ora dalla Guardia di Finanza, ora dall’Arma dei Carabinieri, e attualmente dalla Polizia di Stato i quali, giustamente e conformemente alle loro professionalità, fanno indagini per scovare il malaffare. E lo trovano. Il che, ovviamente, non vuol dire governare il sistema sanitario.

Verrebbe da domandare: le elezioni sono una farsa, le Istituzioni mortificate, serpeggia un certo razzismo, si affermano gli uomini soli al comando, precisamente di quale secolo parliamo? Scherzi a parte: occorre adesso una resistenza organizzata che respinga questo pericolosissimo attacco alla democrazia.

da “il Manifesto” del 23 maggio 2021
Foto di David Mark da Pixabay

Rifiutare i voti della ‘ndrangheta. – di Gaetano Lamanna

Rifiutare i voti della ‘ndrangheta. – di Gaetano Lamanna

Enzo Ciconte chiede a tutti i candidati del prossimo Consiglio regionale della Calabria «la disponibilità a sottoscrivere un impegno formale a non chiedere i voti ai mafiosi e a rifiutarli se venissero offerti» (Quotidiano del Sud del 14 febbraio).

Non è poco e con impazienza aspettiamo di conoscere quanti degli aspiranti consiglieri e, aggiungerei, degli aspiranti presidenti risponderanno all’appello di Enzo Ciconte. Con Enzo mi lega una lunga amicizia, ormai cinquantennale. Eravamo studenti universitari fuori sede, iscritti alla federazione giovanile comunista, lui a Torino, io a Roma.

A quei tempi in Calabria non esistevano Università. Terminatigli studi, Ugo Pecchioli, responsabile di organizzazione del Pci e stretto collaboratore di Enrico Berlinguer, ci propose di tornare in Calabria, Enzo a Catanzaro, io a Crotone.

Dovevamo fare esperienza, farci le ossa, misurarci con i problemi e le difficoltà, rinnovare il partito nella “continuità”, cioè imparando anche da chi ci aveva preceduto, senza spocchia e arroganza. Non si diventava dirigenti per caso. Erano le regole del nostro partito, della nostra «formazione politica». «Formazioni politiche», così, anche se sembra strano, venivano definiti i partiti ancora negli anni settanta del secolo scorso.

Un termine niente affatto peregrino, che calzava a pennello ai partiti di una volta: strutture complesse, organizzate, dove cultura, società e politica si intrecciavano; partiti come centri di educazione alla democrazia, punti di riferimento del dibattito delle ideee dell’iniziativa politica e di massa. Se oggi Enzo sente l’esigenza di fare un appello accorato ai candidati perché sottoscrivano un impegno antimafia significa che la politica regionale ha preso una china sempre più degradante.

I partiti si sono liquefatti, non garantiscono sulla moralità e sui comportamenti dei candidati (e degli eletti). Leggendo l’articolo di Enzo sono riaffiorati alcuni ricordi personali, uno dei quali mi permette di spiegare perché sono d’accordo con l’iniziativa di Ciconte, ma con qualche dubbio. Nel 1990 fui candidato al Consiglio regionale senza essere eletto. C’erano allora le preferenze e ce ne volevano tante. Nel mio giro elettorale nel vibonese, in un piccolo paese mi avvicinò un signore, presentandosi come vigile urbano, chiedendomi se fossi interessato a cento preferenze. Avrei dovuto però incontrare un “amico” che mi stava aspettando. Ho subito capito l’antifona e, senza esitare, ho declinato l’invito.
Quella volta ho capito dal vivo che cos’è il voto di scambio, come nasce e come si materializza, come può irretire chi non ha un’adeguata coscienza politica e morale o chi è mosso dall’ambizione e dall’interesse personale. Risultai il secondo dei non eletti, subito dopo Simona della Chiesa.

Oggi, come dice Nicola Gratteri, non sono più i mafiosi ad offrire il loro aiuto ai candidati, ma sono i candidati che fanno la fila per rabbonire i boss locali con promesse, stringendo legami d’affari e patti scellerati. Enzo, nel suo articolo, usa l’argomento dell’utilità: «è conveniente chiedere voti ai mafiosi?». Ne vale la pena? Quanti voti controllano effettivamente?

Fa anche un richiamo ai sentimenti, all’«amor proprio» e alla dignità personale. Mi permetto di osservare che non siamo davanti a ragazzi cui fare un predicozzo, ma a persone adulte (e vaccinate), politici scaltri e furbi, magari ignoranti e poco intelligenti. Questo offre oggi il mercato. La responsabilità individuale e collettiva è diventata un bene scarso. Siamo abituati ormai allo spettacolo desolante di esponenti politici che tendono a liquidare con sufficienza le inchieste della magistratura, che si incensano da soli, che tendono a minimizzare qualsiasi forma di illegalità e a giustificare tutto e tutti.

In questo clima si dà tempo e modo ai mafiosi di evolversi, magari diventare venerabili, passando dalla lupara al compasso e al grembiule, come raccontano le cronache. Il problema è estremamente serio. Richiede che si ritorni alla militanza. O di qua o di là. Le zone grigie favoriscono la mafia e mettono a rischio la tenuta democratica. Serve che l’azione della magistratura sia accompagnata da una battaglia politica e ideale, come si sarebbe detto una volta .Serve creare le condizioni per impedire che gli amici degli ‘ndranghetisti o gli ’ndranghetisti in prima persona entrino nella stanza dei bottoni e continuino a procurare danni alla nostra regione. Mi piacerebbe comprare il giornale e leggere, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, che molti dei candidati o aspiranti alla presidenza regionale hanno accettato di sottoscrivere la dichiarazione antimafia proposta da Enzo Ciconte. Aspettiamo.

La mia convinzione è che spetti ai partiti, pur ridotti male, la responsabilità primaria delle scelte. Sono le forze politiche ad avere consentito a mafiosi e massoni di “pesare” laddove si prendono decisioni sui ncarichi, su appalti, su come spendere i soldi dei calabresi. Spetta alle forze politiche, in vista del prossimo appuntamento elettorale, la responsabilità di fare pulizia e cacciare i “nuovi mercanti”dal tempio.
Al partito democratico, alle forze di sinistra e alla miriade di associazioni che pullulano in Calabria, consiglierei di aprirsi alla società civile, composta in maggioranza da persone oneste e serie, evitando la trappola dei circoli chiusi e dei conciliabili, luoghi ideali per calcoli sbagliati e perdenti. C’è ancora tempo per avviare una discussione a tutto campo sul destino della nostra terra, per trovare un terreno comune d’intesa e per selezionare donne e uomini che non chiedano voti ai mafiosi e li rifiutino qualora venisse l’offerta. Se non vogliamo regalare alla destra una vittoria facile, ognuno faccia la sua parte.

da “il Quotidiano del Sud”
Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay

La democrazia rappresentativa non si fa con un click.- di Enzo Paolini e Felice Besostri.

La democrazia rappresentativa non si fa con un click.- di Enzo Paolini e Felice Besostri.

Non ce ne siamo accorti. L’aver atteso che la cosiddetta piattaforma Rousseau pronunciasse il suo sì alla proposta di governo Draghi ha reso icasticamente evidente che una forza politica rappresentata in Parlamento, la cui delegazione è stata consultata dal Presidente della Repubblica e dal Presidente del Consiglio incaricato, esprime il suo parere in ordine al sostegno (parlamentare) ad una ipotesi ed ad un programma di governo, non sulla base della valutazione dei suoi rappresentanti eletti (nominati) nelle Istituzioni esattamente per questo, ma sulla scorta di un…webinar.

Intendiamoci, non è affatto in discussione il coinvolgimento dei militanti e l’ascolto della base ma il fatto che al tempo dei partiti queste attività si realizzavano intensamente e ciascuno si sentiva veramente partecipe mentre oggi si svolgono con la modalità volubile del clic che suscita dubbi e perplessità. Un modo che non appare coerente non tanto con l’esercizio del coinvolgimento democratico della propria comunità, quanto con le modalità di formazione di un governo o con altre scelte istituzionali. Non contestiamo – ed è apprezzabile l’intenzione di “sentire” il popolo anche a costo di esiti laceranti – ma una riflessione sulla mutazione della democrazia rappresentativa.

Purtroppo, in questi ultimi 15 anni tra leggi elettorali incostituzionali e improvvide revisioni costituzionali, di cui solo due respinte dal popolo, siamo stati costretti a difendere la Costituzione dalle aggressioni, invece che fare della sua attuazione l’asse centrale della politica della sinistra. Sarebbe paradossale, ma un governo che nasce dal fallimento di partiti e gruppi parlamentari, potrebbe essere il primo che rispetta, nella forma e di fatto l’art. 92 Cost., dell’esclusiva responsabilità del Presidente del Consiglio incaricato di presentare una lista di ministri al Presidente della Repubblica non preceduta da una trattativa con i singoli partiti.

Nessuno si è sentito a disagio per questo, nessuno lo trova deprimente per la democrazia rappresentativa. Dobbiamo dedurne che la scatoletta è stata aperta, ed il tonno è stato mangiato. L’unica salvezza per la nostra democrazia, oggi mortificata e soverchiata via wi-fi, sarebbe una seria e responsabile legge elettorale. Se c’è diritto di votare secondo Costituzione, questa volta deve essere accertato prima del voto, non dopo tre legislature rinnovate con una legge elettorale incostituzionale. Pandemia e crisi politica non mettono la Costituzione tra parentesi.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, principalmente, in una democrazia rappresentativa come corpo elettorale partecipando collettivamente alle elezioni e ai referendum e individualmente esercitando il diritto di voto personale ed eguale, libero e segreto, come prescrive l’articolo 48 della Costituzione.

Per rispettare il popolo non bisogna dargli la parola, in una democrazia ce l’ha per conto suo, ma piuttosto ridargli il diritto di voto, che gli è stato rubato nell’anno 2005, con la legge Porcellum di Calderoli, e mai più restituito con l’Italicum incostituzionale come la legge precedente e nemmeno con il Rosatellum, attualmente in vigore, persino peggiorato durante il governo giallo-verdebruno, oggi ancora meno compatibile con i principi della rappresentanza (come sono stati definiti dalle sentenze numero 1 del 2014 e numero 35 del 2017 della Corte costituzionale), una volta approvato e confermato con il referendum il taglio del Parlamento.

La legge elettorale è costituzionalmente necessaria e pertanto necessariamente costituzionale, perché con essa si elegge un Parlamento, in cui ogni membro non rappresenta il partito che l’ha candidato né gli elettori che l’hanno votato e nemmeno il collegio, ma la nazione senza vincolo di mandato. La nazione, cioè il popolo, non sue frazioni, beneficate da norme incostituzionali.

Per questo se c’è diritto di votare secondo Costituzione, questa volta deve essere accertato prima del voto, non dopo tre legislature rinnovate con una legge elettorale incostituzionale, com’è successo nel 2006, 2008 e 2013. Non si può votare con il Rosatellum senza verificarne prima la costituzionalità, sarebbe la quinta volta consecutiva in 16 anni. Se non venisse cambiata ci dovranno pensare i cittadini elettori a mandarla in Corte costituzionale, con decine di ricorsi ai Tribunali civili competenti. È quello che noi cercheremo di fare se il nuovo governo non dovesse mettere – come auspichiamo e speriamo – la questione della legge elettorale tra le priorità di un nuovo corso.

da “il Manifesto” del 17 febbraio 2021
Foto di Kevin Phillips da Pixabay