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Ripensare il Sud e il Patrimonio pubblico italiano.-di Piero Bevilacqua

Ripensare il Sud e il Patrimonio pubblico italiano.-di Piero Bevilacqua

Sono da poco in libreria due testi che meritano la nostra attenzione e che vanno segnalati per la loro rilevanza scientifica, culturale e politica. Non sottolineerò mai abbastanza l’aggettivo politico, perché esso significa in origine, com’è noto, una delle più nobili e distintive delle azioni umane, il governo degli interessi collettivi.Mentre oggi è un compito drammaticamente eluso da gran parte del ceto politico, che di fatto produce retoriche imbonitorie e pratica un servile vassallaggio a favore di ristretti gruppi dominanti del mondo industriale finanziario.

Il primo libro è quello di Pino Ippolito Armino, Storia dell’Italia meridionale, Laterza 2025,pp.293, € 20.A distanza di oltre 30 anni dal mio Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi , Donzelli 1993, esso si presenta come una nuova più larga sintesi, che mancava nel panorama della pubblicistica sul Sud. Intendiamoci, di storie del Regno di Napoli e anche di Storie del mezzogiorno, perfino in più volumi, ne sono state scritte non poche.

La singolarità del presente volume è che esso costituisce non solo una sintesi che parte da metà ‘700 e arriva ai giorni nostri, ma riesce a dare, in poco meno di 300 pagine, un quadro di grande ricchezza e completezza della storia secolare di questa parte d’Italia. Giova ricordare infatti che il Sud gode di una letteratura sterminata, accumulatasi soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, ma essa è quasi sempre focalizzata nell’esame dello squilibrio con il Nord d’Italia.

Nel libro di Ippolito, all’annosa questione è dedicato, con approcci peraltro originali, lo spazio che merita, ma il Sud è raccontato iuxta propria principia, cioé nel suo svolgimento autonomo oltre che, ovviamente nei suoi nessi con la storia nazionale e generale.Il testo ha il merito di inserire nella vicenda meridionale anche la storia della Sardegna tra la tarda età moderna e quella contemporanea – solitamente espunta dalle ricostruzioni meridionalistiche – ma soprattutto è in grado di tenere insieme, in un racconto organico e con una scrittura di chiarezza esemplare, tutti gli aspetti e i fenomeni che fanno la storia di una società: economia, rapporti sociali, ceto politico, fenomeni culturali, trame criminali ecc.

Il lettore ha così la possibilità di avere una visione dei processi e degli eventi che hanno segnato questa parte d’Italia e la consegnano oggi al nostro presente con le sue luci e le sue ombre, le sue lacerazioni e le sue potenzialità.Un vasto territorio in cui comunque si specchiano, esasperati, i caratteri di un Paese gravemente malgovernato e in declino.Questa Storia costituisce pertanto un invito a ripensare il nostro Sud come parte di un progetto di rinascita politica e culturale dell’Italia tutta.

Il secondo testo che vorrei segnalare è quello di Emanuele Petracca, Lo stato liquido.L’Italia privata del patrimonio pubblico. Introduzione di Paolo Maddalena, Castelvecchi 2025,pp 203,€ 20. Petracca è un giurista, allievo di Maddalena, uno dei più agguerriti difensori del patrimonio pubblico del nostro Paese, che lo presenta con una nitida introduzione.

Ed è a mio avviso significativo delle condizioni culturali dell’Italia di oggi che un simile contributo venga lodevolmente da un giurista e non anche da un economista, come pure sarebbe necessario.Le Facoltà di economia hanno subito un processo di colonizzazione neoliberista da cui non riuscono a riscattarsi.

Petracca ricostruisce con competenza e inappuntabile rigore filologico tutti gli atti di governo, le disposizioni, le leggi con cui nel corso degli anni ’90, i nostri gruppi dirigenti vendettero ai privati il patrimonio industriale che apparteneva agli italiani. La proprietà pubblica, infatti, ricorda l’autore, è da considerare, secondo l’interpretazione costituzionale di un nostro sommo giurista, Massimo Saverio Giannini, <>, cioé proprietà del popolo e pertanto <>.

Ma avanza in quegli anni l’ondata neoliberista avviata nei primi anni ’80 dal capitalismo anglo-americano, con i governi Thatcher e Reagan, da cui si lasciano travolgere con entusiasmo le nostre classi dirigenti, il ceto politico (anche quello di sinistra), il giornalismo, gli intellettuali democratici.E si comprende perché: in tutto il decennio precedente l’industria pubblica è stata investita da una sistematica campagna denigratoria, fondata sulla denuncia delle infiltrazioni partitiche all’interno dei gruppi, che rendevano corrotte e inefficienti le dinamiche industriali.

Denunce in parte ovviamente fondate, ma a cui occorreva rispondere con avvedute correzioni, non certo gettando l’acqua sporca con il bambino. E invece nel corso di un decennio, mentre si realizzava il progetto neoliberista dell’Unione Europea, con il trattato fondativo di Maastricht nel 1992, l’Italia si privò della sua “economia mista” con cui aveva realizzato il miracolo economico e attraversato il “trentennio glorioso”, diventando una potenza manifatturiera mondiale.

E giova qui ricordare l’avvio di questa operazione, più volte raccontato, ma non ancora sufficientemente noto, che l’autore riprende e che anche Maddalena ricapitola nella sua introduzione: vale a dire la presentazione da parte di Mario Draghi – allora direttore generale del Tesoro – del piano di messa in vendita dei nostri gioielli industriali di fronte a cento delegati della City di Londra.

Era il 2 giugno del 1992, a bordo del panfilo Britannia, e Draghi pronunciò allora un discorso che oggi suona, in alcuni passi salienti, come un sinistro manifesto neoliberista, l’atto di resa di un governo sovrano, ai cosiddetti mercati, vale a dire ai poteri selvaggi del capitalismo finanziario:<>.

A distanza di 37 anni la ricompensa che abbiamo ricevuto dai mercati è sotto gli occhi di tutti: un apparato industriale ridimensionato, con interi settori passati in mani estere, disuguaglianze nel corpo del Paese da società medievale, sia economiche che territoriali, e la perdita completa non solo di una autonoma politica economica, ma anche, soprattutto negli ultimi

Uno sfregio al Castello di Roseto Capo Spulico.-di Battista Sangineto

Uno sfregio al Castello di Roseto Capo Spulico.-di Battista Sangineto

Proviamo a mettere insieme le immagini riguardanti la polemica che è scoppiata a proposito della variante della SS106 nei pressi del Castello di Roseto Capo Spulico. In allegato la foto (dall’alto) pubblicata dal Quotidiano del Sud del 20 agosto 2025 a corredo di uno scritto di Fabio Pugliese, direttore dell’associazione “Basta vittime sulla 106”.

Ancora in allegato la foto (da nord verso sud) scattata da Giovanni Manoccio il 13 luglio 2025 e, per ultima, la foto (da sud verso nord) apparsa su “il Fatto Quotidiano” insieme all’articolo di Marco Lillo (del 6 agosto 2025) che ha dato il via ad una polemica alimentata da un editoriale di Tomaso Montanari, sempre su “il Fatto” del 18 agosto 2025.

Lillo e Montanari ritengono che non sia stato per niente opportuno far passare la nuova variante della SS106 -con le relative gallerie, i raddoppi e gli allargamenti- così vicina al Castello da scompaginare il paesaggio nel quale il monumento fridericiano era incardinato da alcune centinaia di anni.

Come è evidente dalla foto di Manoccio, ma anche da quella de “il Fatto”, è davvero incredibile che si possa scrivere, come ha fatto Pugliese, che l’opera è “unanimemente considerata esemplare sotto il profilo ambientale e paesaggistico”. L’opera, che sta per essere portata a termine dalla stessa ditta che costruirà lo scempio del ponte sullo Stretto, è, invece, un altro sfregio irreparabile al paesaggio calabrese, un’ennesima ferita che, nonostante i pareri contrari dei ministeri dell’ambiente e della cultura (a proposito: siamo sicuri che non vi fossero resti archeologici in quel tratto?), si è ritenuto di poter infliggere ad una regione che è considerata ormai perduta, deturpata dal cemento armato, dal consumo del suolo e dalla speculazione edilizia.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT (2023), un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. Una regione che ha il 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Secondo i dati ISTAT, nel 1982 la SAU (Superficie Agricola Utilizzata) ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che contiene -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una parvenza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento armato, sul consumo del suolo dalla battigia fino alla montagna a vantaggio di una speculazione priva di controlli, indirizzata alla rendita immobiliare e, in secondo luogo, volta a favorire un turismo rapace, veloce, superficiale e numericamente sovradimensionato, sia al mare sia in montagna. Classi dirigenti capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Una regione di poveri, ha ragione Montanari, che elegge una classe dirigente inetta che non conta nulla a Roma e che non riesce a far rispettare i propri territori tanto che le grandi imprese se ne approfittano per costruire strade, autostrade, aeroporti, superstrade, sterminati impianti eolici o fotovoltaici, torri di estrazione di gas a poche decine di metri da siti archeologici straordinari, porti e ponti nelle forme, nelle dimensioni e nelle aree che vogliono senza avere una vera opposizione politica. Rimane solo una ferma contrarietà da parte di associazioni e di comitati di cittadini che si sono battuti e continuano a battersi in tutte le occasioni, compresa quella di cui stiamo scrivendo, e che qualche volta, come nel caso del vincolo paesaggistico di Cosenza, riescono persino a vincere.

La sconfitta dei cittadini di Roseto e della costa jonica settentrionale che, negli ultimi decenni, si erano opposti al tracciato di quest’opera, suggerendone al contempo un altro che non è stato preso in considerazione, non può e non deve essere la fine della battaglia.
Possiamo, e dobbiamo, continuare ad opporci non solo agli scempi della nuova SS106, ma anche a tutti gli altri sfregi che si vogliono infliggere al corpo martoriato, ma ancora vivo, dei paesaggi della nostra sciagurata regione, se vogliamo avere un futuro vero, un futuro che non sia fatto di cemento armato. Contro la costruzione dell’inutile e orribile ponte sullo Stretto, in primis, e contro la cementificazione delle coste, delle montagne, dei paesi, delle città e delle campagne calabresi.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 agosto 2025
Foto di Giovanni Manoccio

Roma, mercato privato.- di Sarah Gainsforth

Roma, mercato privato.- di Sarah Gainsforth

Da un quarto di secolo l’area degli ex mercati generali a Roma attende una nuova vita. Su questi 85mila metri quadri, quasi nove ettari di terreno, l’amministrazione capitolina sta concludendo una partita dal valore enorme: poche città europee vantano spazi pubblici così grandi, in una posizione così centrale, da reinventare come parco, edilizia sociale o spazi culturali. Invece il comune di Roma ha accettato la proposta del concessionario dell’area, Sviluppo centro ostiense srl (Soc), inadempiente dal 2006, per la costruzione di un mega-studentato di lusso che sarà finanziato dal fondo immobiliare statunitense Hines.

IL PROGETTO prevede appunto la costruzione di uno studentato da 1.602 camere con canoni di locazione fino a 1.050 euro al mese; 544 posti in camere doppie saranno affittati a 500 euro al mese «escluso iva ed eventuali servizi ad hoc», un canone descritto come ‘calmierato’. Poi ci sarà una mediateca, una biblioteca, una sala conferenze, una palestra, un centro anziani, spazi per start-up innovative e l’immancabile area gastronomica.

SECONDO IL PIANO economico presentato l’anno scorso, il progetto garantirà ricavi per oltre 32 milioni di euro l’anno, di cui 26 milioni dallo studentato, a fronte di un canone per l’area, pubblica, di 165mila euro l’anno. Secondo il comune di Roma la proposta progettuale «pone particolare attenzione al rispetto degli obiettivi di inclusione giovanile, sostenibilità e qualità urbana» si legge in una delibera di luglio 2025 che conferma l’interesse pubblico. In un documento precedente, il comune si limita a ritenere «auspicabile» che lo studentato «preveda una congrua quota di servizi a canone calmierato, al fine di costituire una risposta alle esigenze delle fasce sociali più deboli».

SUL TOTALE DEGLI EDIFICI previsti, poco più del 10% sarà destinato a servizi pubblici, in parte già esistenti da prima della cantierizzazione dell’area. Nel nuovo progetto gli spazi destinati al commercio, a uffici e in parte alla cultura saranno locati a canoni più alti di quelli di mercato. I servizi privati saranno «accessibili al pubblico ma forniranno spazi comuni e amenities pensate per la parte di studentato» si legge nella proposta. Da sempre i servizi, pubblici e privati, aumentano la remunerazione degli investimenti immobiliari e, nel modello degli studentati privati, giustificano alti prezzi all inclusive. È meno chiaro il contrario: in che modo gli investimenti privati beneficiano la città?

L’IDEA DI DESTINARE l’area all’aggregazione giovanile, con servizi culturali e ricreativi, risale al 2003. Dopo una gara e un concorso di progettazione, nel 2006 la Lamaro, capogruppo della Soc, ha ottenuto la concessione dell’area per 60 anni, per realizzare il progetto. Quello definitivo è stato approvato nel 2009 ma, tra le richieste di modifica e i tempi amministrativi per approvarli, non ha mai visto la luce e il periodo di concessione non è mai iniziato. Nel 2021 l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), ha avviato un procedimento di vigilanza sulla concessione (anche per i gravi ritardi) conclusosi nel 2022.

L’ANAC ha contestato la legittimità della seconda variante del progetto, chiesta nel 2013, «che non risponde a nessuna esigenza del concedente», cioè il comune, e che aveva come unico obiettivo quello di «adeguare l’opera alle esigenze del mercato», comportando «l’ampliamento delle aree date in concessione rispetto a quelle destinate ad uso pubblico (…), nonché l’introduzione di aree turistico ricettive». Vista l’asimmetria nel ‘partenariato’ pubblico-privato, l’Anac si è premurata di ricordare all’amministrazione che in un contratto di concessione di opere pubbliche, è il privato che assume il rischio operativo, gestisce l’opera e ne trae i guadagni o subisce le perdite.

IL RISCHIO va valutato in sede di offerta, in base alle condizioni poste dalla gara. A settembre 2022 il concessionario ha presentato la terza revisione del progetto, con una riduzione della parte commerciale: il commercio di vicinato va male, è improduttivo, e dunque quella parte del progetto è ora inattuale. Così è cambiato di nuovo il ‘mix funzionale’: la quota di edifici a destinazione turistico-ricettiva (lo studentato), assente nel progetto originario, è balzata al 61% grazie alla riduzione delle quote di commercio e ristorazione. La quota per ‘cultura e tempo libero’, diminuita dal 2013, è inferiore a quanto richiesto nel bando di gara.

UNA MODIFICA sostanziale del progetto richiederebbe un nuovo affidamento. Ma il Comune di Roma ha confermato l’interesse pubblico dell’operazione pur di non perdere altro tempo e per il timore di dover restituire le «ingenti spese fin qui sostenute dall’attuale concessionario», rinunciando preventivamente a difendere l’interesse pubblico in un eventuale contenzioso. In altre parole, l’Amministrazione si è resa ostaggio di un privato inadempiente, e del suo investimento iniziale, che scarica il rischio d’impresa sul pubblico e modifica il progetto come vuole.

COSÌ ORA IL QUARTIERE si ritroverà uno studentato privato da duemila posti senza neanche un piano attuativo per adeguare i servizi, perché l’ambito rientrerebbe in un «progetto generale di intervento», che però «è quello proposto dal concessionario», si legge nell’ultima proposta progettuale (molto diversa da quella approvata con l’Accordo di programma nel 2005).

DEL RESTO I SERVIZI, sostiene il concessionario, in quell’area ci sono già: è la tesi del ‘modello Milano’ secondo cui si può costruire tutto senza realizzare nuovi servizi. E se l’offerta di servizi giustifica il pubblico interesse di un progetto privato, a Roma è la mancata realizzazione di servizi, da parte del privato, che motiva la concessione di suolo pubblico a condizioni che il concessionario cambia nel tempo per spremere dal suolo sempre più valore: l’importo dell’investimento privato da remunerare è triplicato ed è adesso di 381 milioni. Oggi, a vent’anni dalla prima convenzione, dopo aver arrecato un danno enorme alla città, il privato ritiene che ci siano le condizioni vantaggiose per partire, e che rischiano di trasformare Roma in una città per soli ricchi.

da “il Manifesto” del 15 agosto 2025

Sulla Calabria una lastra di cemento. Troppe abitazioni vuote e troppe abusive.-di Battista Sangineto

Sulla Calabria una lastra di cemento. Troppe abitazioni vuote e troppe abusive.-di Battista Sangineto

La Calabria è sepolta sotto un’enorme ed orribile lastra tombale di cemento, il cemento armato di un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT del 2023 a fronte di un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono neanche davvero residenti in questa regione.

A queste abitazioni vanno aggiunte le altre 143.875 che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate in Calabria, sono totalmente sconosciute al fisco e al catasto. Nella nostra regione, dunque, c’è una casa ogni 1,3 calabresi la qual cosa significa che il cemento ha irreversibilmente impermeabilizzato ogni lembo della regione come dimostrano i dati dell’ISTAT e dell’ISPRA del ‘23 secondo i quali è stato consumato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- inconsueti e multiformi paesaggi composti da valli impervie, altopiani, alte colline e montagne.

Questa varietà e singolarità di orizzonti geografici e climatici che Guido Piovene, nel suo bellissimo “Viaggio in Italia”, descrive mirabilmente così: “Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso tracciato di un labirinto … Rotta da quei torrenti in forte pendenza, non solo è diversa da zona a zona, ma muta con passaggi bruschi, nel paesaggio, nel clima, nella composizione etnica degli abitanti. È certo la più strana delle nostre regioni … Nelle sue vaste plaghe montane talvolta non sembra d’essere nel mezzogiorno, ma in Svizzera, nell’alto Adige, nei paesi scandinavi. Da questo nord immaginario si salta a foreste di ulivi, lungo coste del classico tipo mediterraneo … La Calabria è una mescolanza di mondi … Si direbbe che qui siano franati insieme i detriti di diversi mondi; che una divinità arbitraria, dopo aver creato i continenti e le stagioni, si sia divertita a romperli per mescolarne i lucenti frammenti”.

Come se l’inconcepibile mostruosità della lastra tombale di cemento che ci ha sottratto per sempre la multiforme bellezza della Calabria, non fosse sufficiente per far cambiare mestiere alla classe dirigente calabrese, si apprende, per sovrappiù, che l’ISTAT -nel suo annuale rapporto “Il benessere equo e sostenibile in Italia” pubblicato nel maggio del ‘25- riporta un dato rilevato dal Cresme (Centro di Ricerche di Mercato).

Questo rapporto pone, nel 2022, la Calabria in cima alla classifica dell’illegalità edilizia con il 54,1% delle abitazioni abusive al pari della Basilicata (anch’essa con il 54,1%), ma prima della Campania (50,1%), della Sicilia (48,2%) e della Puglia (34,8%), mentre la media nazionale è del 15,1%.

Al danno irreversibile inferto alla bellezza del paesaggio si deve aggiungere la beffa dell’illegalità delle costruzioni che è intimamente legata, com’è evidente, all’evasione fiscale. In un recentissimo rapporto la CGIA di Mestre rileva che -nonostante la legge in vigore riconosca ai Comuni che segnalano all’Agenzia delle Entrate situazioni di infedeltà fiscale (l’Irpef, l’Ires, l’Iva, le imposte di registro/ipotecarie e catastali) un importo economico del 50% di quanto accertato- solo il 4% dei sindaci ha denunciato irregolarità.

Su 7.900 Comuni presenti in Italia, infatti, solo 296 (pari al 3,7 per cento del totale) hanno trasmesso, in materia di evasione, delle “segnalazioni qualificate” agli uomini del fisco. In Calabria, “ça va sans dire”, solo 10 su 404 Comuni (il 2,5%) hanno inviato le suddette ‘segnalazioni’: Villa San Giovanni (Rc), Reggio Calabria, Bisignano (Cs), Luzzi (Cs), Acquappesa (Cs), Melito di Porto Salvo (Rc), Castrolibero (Cs), Altilia (Cs), Fuscaldo (Cs) e Crotone. Dal 2016 al 2023 dei 5 capoluoghi di provincia calabresi solo Reggio Calabria ha ricevuto regolarmente contributi recuperati dall’evasione (circa 400mila euro dal 2016 al 2023).

Cosenza, Catanzaro e Vibo Valentia, invece, non avendo segnalato nulla non hanno ottenuto alcun contributo, mentre Crotone ha ottenuto ben 3 (tre) euro, ma solo nel 2023.

Si deve aggiungere –grazie, di nuovo, alle statistiche ISTAT del 2023 – che questo profluvio di cemento armato non serviva a soddisfare i bisogni abitativi dei calabresi perché la Calabria è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote.

A chi, e a cosa, servono tutte queste case vuote?

Credo che sia arrivato il momento di smetterla di consumare suolo agricolo, di devastare il paesaggio rurale e quello delle città; è arrivato il momento di porre fine alle colate di cemento sia quelle legalizzate dai PSC e dai PSA sia, soprattutto, a quelle illegali, ma bisogna ristrutturare, ammodernare, abbellire le abitazioni esistenti e abbattere il maggior numero possibile delle case abusive.
Un “vaste programme”, come sarcasticamente avrebbe detto Charles De Gaulle, se un simile proponimento venisse da parte di un Amministratore di un Comune o di una Regione, ma l’imperatore Diocleziano, molti secoli prima, era già convinto che “nihil difficilius est quam bene gubernare”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 giugno 2025
foto: Battista Sangineto, vista di via Popilia dal Castello di Cosenza

Il socialismo umanitario a Rende.-di Battista Sangineto

Il socialismo umanitario a Rende.-di Battista Sangineto

Il risultato del referendum sulla città unica non solo ha statuito che i cittadini di Rende non volevano una prepotente ed ingiustificata annessione a Cosenza, ma ha portato alla luce un sentimento ben più radicato ed importante: l’esistenza di una comunità che possiede un senso d’appartenenza ad un luogo che era un paese antico, prima, e, dopo, quel che sembrava essere solo una ben progettata e costruita periferia della confinante, disordinata e mal disegnata, città capoluogo di provincia.

Un senso di comunità che discende e coincide con il senso politico che ha impedito -in maniera straordinariamente lungimirante sin dagli anni ’60, ma in special modo dagli anni ‘80 in poi del ‘900- che il territorio rendese diventasse un ‘non-luogo’, una delle tante periferie del mondo contemporaneo priva di senso, di bellezza e di socialità cittadina, al pari delle tante che negano la città o che la declinano solo nelle forme di “grands ensembles” costituiti soprattutto da anonimi ed enormi palazzi con, o senza, verde intorno (La Cecla 2015).

Rende, invece, non è diventata un suburbio, ma una città: ha edificato scuole di tutti gli ordini e gradi, compresa l’università, edifici pubblici come il municipio, le case popolari, le case economiche e popolari di nuovissima concezione dello straordinario quartiere CEEP, i tanto celebrati campi da tennis, il palazzetto dello sport, l’area mercatale, i numerosi parchi pubblici ed ha costruito un poliambulatorio per favorire, con grande preveggenza, un sistema di sanità territoriale diffuso, ha piantato moltissimi alberi (che ora andranno ripiantati, dopo l’ultimo decennio di deforestazione urbana) e ha imposto che anche i privati lo facessero, ha costruito chiese.

Ha rimesso a nuovo le strade e gli edifici pubblici del Centro storico dotandolo di Musei e ristrutturando, fra le altre cose, uno storico cinema che ora aspetta solo di essere gestito nella maniera più adeguata.

Una città che è in grado di essere un indispensabile “capitale cognitivo che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, e costruisce l’identità individuale e quella, collettiva, delle comunità” (Settis 2017).

Attorno alla realizzazione di questo disegno urbanistico e sociale di città si sono formate, appunto, una comunità e un senso di identità fra gli abitanti che non vogliono rinunciare alla razionalità, alla bellezza ed all’efficienza che Rende ha posseduto e che, ancora in gran parte, possiede. Quel senso di comunità che ha fatto dire di NO alla città unica dall’81,4% dei votanti rendesi che con questa schiacciante percentuale hanno respinto non solo l’annessione, ma anche un modello di urbanità diverso da quello che vivono quotidianamente.

Ora, a Rende, bisogna solo completare l’opera dell’edificazione di una città, si tratta di realizzare a pieno l’”urbanità” che altro non è che il risultato di un’interazione adattiva fra la ‘urbs’ –che rappresenta i caratteri fisici e architettonici della città- e la ‘civitas’ che contempla i modi d’uso e le relazioni sociali dei cittadini (Consonni 2013).

Per quel che riguarda l’’urbs’, l’aspetto fisico della città, non si può e non si deve a consumare suolo e colare cemento, dato che Rende -secondo i dati ISTAT del 2023- ha nel suo comune 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ed ha il 17% di case vuote, ben 4.931. E se, in tutta l’area urbana, le abitazioni vuote sono addirittura 14.262, a cosa, e a chi, servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050? (Sangineto 2025).

In questo quadro è la proposta di Sandro Principe a convincere: ha detto che nel territorio comunale si costruiranno ‘ex novo’ solo case per i giovani e per i meno abbienti. Non verrà usato il “metodo Milano” che consisteva nell’abbattere un vecchio edificio e sostituirlo con un enorme palazzo – come è già più volte avvenuto in questi ultimi anni anche a Rende, oltre che nel centro vincolato di Cosenza- con la stessa procedura con cui si autorizza il rifacimento di un appartamento, una semplice ‘Scia’. E, infine, si eviterà l’uso indiscriminato delle ormai famigerate ‘perequazioni urbanistiche’ che vanno a vantaggio solo di chi vuole consumare ancora suolo per profitto.

La ‘civitas’, l’uso della città e le relazioni sociali dei cittadini, è un altro imprescindibile elemento dell’”urbanità” di una città che non ha nulla a che fare con le dimensioni di un centro abitato perché l’urbanità è avere piazze e viali alberati, è avere un passeggio mattutino e serale che i cittadini frequentano per lavoro o ‘pour loisir’ guardando le vetrine dei negozi e incontrando amici e conoscenti, ‘urbanità’ è avere bar e gelaterie con tavolini dove si possano consumare caffè e granite senza l’intralcio di ingombranti ‘dehors’.

Una misura dell’”urbanità” è, sicuramente, la vitalità dei luoghi cittadini che non può e non deve essere raggiunta solo, come sembrano credere alcuni amministratori, attraverso la movida notturna, perché se è vero, ed è comprensibile, che la varietà delle presenze e la compresenza di motivi e di modi della frequentazione è uno dei connotati distintivi dell’urbanità è altrettanto vero che l’urbanità si misura anche dall’offerta culturale complessiva che una città mette a disposizione e Rende ha già una buona rete di biblioteche pubbliche, un cinema nel centro storico, uno storico appuntamento settembrino di spettacoli che potrà essere completato con un cartellone teatrale di livello.

Ho sentito evocare da Principe il “socialismo umanitario”, che è la declinazione del socialismo di Proudhon e Fourier adeguata ai nostri tempi di recessione e di guerra. Bene, vorrà dire che sarà il momento in cui i molti ‘beni comuni’ comunali, per prima l’acqua, torneranno ad essere di proprietà dei cittadini. Debbono tornare compiutamente ad essere di nuovo ‘beni comuni’ anche lo stadio ‘Lorenzon’, i campi da tennis, i parchi fluviali, l’area mercatale, il parco acquatico, il palazzetto dello sport et cetera.

Alcuni di questi ‘beni comuni’, oggetto di grandi speculazioni private, devono tornare ad essere valorizzati ed usati nel modo più equo, perché sono fra le più belle ed importanti strutture ed infrastrutture costruite dall’Amministrazione comunale e pagate da tutti i cittadini rendesi.

Il modello al quale sono sicuro che il socialista umanitario continuerà ad ispirarsi è quello della piccola e media città storica italiana la cui principale caratteristica di città bella e buona consiste nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (La Cecla 2024). Un luogo nel quale, insomma, la vita quotidiana sia una buona vita, più gradevole e più equa per tutti coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 maggio 2025

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sulla sanità in Calabria si potrebbero scrivere enciclopedie, Treccani intere; fare dibattiti 2 o 3 volte al giorno; discutere e litigare per anni interi. E si è fatto e si fa anche tutto questo. Da quando? Non ne ho memoria, ve lo confesso. Ho perso il conto.

Grandi esperti, competenti emeriti, studiosi di diritto sanitario, di diritto pubblico, di sociologia, giuristi, docenti, medici e non, si dannano l’anima per cercare di spiegare alla fine una cosa che è talmente semplice da sembrare banale ma che è all’origine dell’incredibile successo che sta riscuotendo l’iniziativa che si terrà domani pomeriggio in piazza a Catanzaro.

E’ nata dalla testa del direttore di questo giornale, Massimo Razzi, che calabrese non è (e si vede dalla semplicità con cui l’ha pensata e messa in campo), il quale mesi fa dinanzi al diluvio di proteste, accuse, reclami etc., ha pensato alla cosa più semplice del mondo: organizzatevi, organizziamoci, prendiamo la parola, prendete la parola e scendiamo in piazza per il diritto alla salute.

DIRITTO ALLA SALUTE, lo scriviamo in grande così si capisce meglio di che parliamo. Finiamola, cioè, con le ardite e dotte discussioni sui piani di rientro che ci sono e forse vanno via come i commissariamenti (chissà chi lo sa), con i bilanci delle Asp che non tornano, con i fondi e le parcelle pagate 2, 3 e 10 volte, con i buchi neri amministrativi e contabili, etc etc. Cose – dio me ne guardi dal sottovalutarle – molto importanti ma alla fine della fiera il cittadino vorrebbe sapere altro.

Vorrebbe, cioè, sapere perché si può morire in ambulanze senza medici, o in ospedale a nemmeno 40 anni incinta alla prima gravidanza. O perché bisogna andarsene lontani da casa per farsi curare. O perché non si trova più un medico di famiglia. E altre amenità del genere, che pullulano sulle pagine ogni giorno dei quotidiani, dei social, dei siti e rendono tutta la vita dei calabresi più pericolosa di quanto non lo sia già. Perché il punto di fondo è centrato, infatti, sul diritto alla salute negato nonostante l’impegno, l’abnegazione, il sacrificio di medici, infermieri, paramedici che si dannano l’anima per tamponare situazioni difficilissime, a volte al limite dell’impossibile, in reparti affollati, emergenze intasate fino al collasso, tempi biblici nelle prenotazioni (quando funzionano), liste d’attesa di cui è meglio non parlare.

Tutte situazioni che si trascinano da tempo e che hanno incancrenito il settore, dove pure esistono eccellenze sparse qua e là nel territorio, stelle in un infinito mare di nebulose dove il povero calabrese paziente (sostantivo e aggettivo, in tutti i sensi) fatica a raccapezzarsi e a trovare risposte all’unica domanda che agita: il diritto appunto alla salute.

Molto si è discusso e si discute anche sull’utilizzo dei medici venuti da Cuba nelle corsie degli ospedali calabresi. I soliti leoni da tastiera non hanno perso tempo fin dall’inizio a gridare allo scandalo, a chiedere che vengano utilizzati medici italiani (domanda: chissà come e dove prenderli), a sollevare questioni di lana caprina sulla provenienza, la lingua, le metodologie utilizzate. Se c’è invece qualcosa da salvare nei tempi agri che viviamo è proprio l’aiuto fornito e che stanno fornendo questi bravi medici venuti da un altro mondo. Senza di loro sarebbe già forse definitivamente collassato il sistema.

Ecco: servono risposte immediate a quelle domande che ogni giorno, ogni ora del giorno, si manifestano dentro e fuori gli ospedali. Organizzarsi e manifestare è un segno che la coscienza civile non è morta e chiede risposte serie e concrete. A chi? Alla politica e alle istituzioni. È la regola base della democrazia. A ciascuno il suo. Domani pomeriggio questo molto semplicemente si fa.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 maggio 2025

Crisi dei dazi, la risposta giusta è la domanda interna.-di Tonino Perna

Crisi dei dazi, la risposta giusta è la domanda interna.-di Tonino Perna

Nessuno sa come andrà a finire la questione dei dazi, ma le mosse di Trump hanno rappresentato un campanello di allarme per il modello di sviluppo che ha guidato l’Italia dagli anni Cinquanta.

Insistere in questa direzione anche quando geopolitica ed economia stanno cambiando vuoldire sbattere la testa al muro.

Augusto Graziani, uno dei più prestigiosi economisti italiani del secolo scorso, nel suo saggio L’economia italiana: 1950-70 metteva in luce la debolezza del nostro modello di sviluppo export oriented, fondato su svalutazione della lira e bassi salari. Nulla è cambiato
dal dopoguerra ad oggi: continuiamo ad essere fortemente dipendenti dalle esportazioni con un rapporto sul Pil tra i più alti della Ue: nel 2024 abbiamo registrato 623 miliardi di export a fronte di un Pil di 2.192 miliardi di euro, generando complessivamente un surplus
di 55 miliardi di euro.

Dato che con l’entrata nell’euro abbiamo finito di usare la svalutazione della moneta per rendere competitive le nostre merci, è grazie al basso costo del lavoro, oltre a capacità innovative e creative, che abbiamo potuto mantenere un livello alto delle nostre esportazioni.

Adesso però, con la recessione alle porte di casa, bisognerebbe ripensare al nostro modello economico. Oltre alla ricerca di altri mercati, che richiede tempo e non è scontata, bisognerebbe puntare a un rilancio della domanda interna sia con un aumento di stipendi e salari, sia con investimenti pubblici a partire dalla cura del territorio, mitigazione degli eventi climatici estremi, sviluppo delle energie rinnovabili e risparmio energetico.

Diversamente la pensa Emanuele Orsini, il presidente di Confindustria, che presenta una proposta al governo in cui richiede «incentivi per aumentare ulteriormente l’export di 80 miliardi nel breve termine e di oltre 400 nel lungo termine». Errare humanum est, perseverare autem…

Crediamo che per i settori dell’industria più esposti alla concorrenza internazionale il governo potrebbe intervenire con sgravi sugli oneri sociali evitando di dare incentivi generici che finiscono solo per far quadrare i bilanci in rosso.

In ogni caso è prioritario aumentare la domanda interna attraverso un aumento del monte salari, ormai una necessità per vivere dignitosamente per una maggioranza di lavoratori, nonché per migliorare i servizi pubblici (sanità, scuola, servizi sociali) dove le magre retribuzioni sono una delle cause del degrado.

Non è un sentiero facile, la Cina ci sta provando da almeno un decennio, ma è una strada obbligata. Per i sindacati dei lavoratori il momento è propizio per richiedere con forza e convinzione un aumento di stipendi e salari, dato che solo la crescita della domanda interna
può farci superare la stagflazione che si sta avvicinando inesorabilmente. L’ideale sarebbe orientare questa domanda aggregata, investimenti e consumi, verso un altro modello di società e qualità della vita. Per adesso è solo un sogno in un tempo di fantasmi e mostri

da “il Manifesto” del 15 aprile 2025

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

L’assegnazione di letti a pagamento al reparto di chirurgia toracica da parte dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza va contro la ripresa della sanità calabrese, che è agli ultimi posti in Italia per la risposta al fabbisogno della popolazione di prestazioni routinarie e specialistiche. Anzi, è una rapina alla sanità pubblica. La spiegazione dei dirigenti dell’Azienda, che per comodo chiamano in causa la legge Bindi, è un balbettio di mala interpretazione della legge stessa. Provo a spiegare la rapina.

Secondo le linee guida nazionali e internazionali della branca specialistica e quelle degli anestesisti e rianimatori sempre coinvolti per necessità, la chirurgia toracica nella maggioranza dei casi richiede assistenza ai pazienti operati nel reparto di terapia intensiva (TI).

Tutti ricordano il serio problema dell’esiguità del numero dei posti letto nelle terapie intensive durante la pandemia del Covid19. E per quanto attiene ai parametri minimi dell’adeguamento alle normative nazionali e ancor più europee in merito al numero di letti di TI, la Calabria era agli ultimi posti nel quadro nazionale.

I parametri minimi europei prevedono che siano attivi 14 letti di TI per ogni 100.000 residenti (in Germania questo parametro è rispettato). In Italia siamo ancora attorno ai 9-10 letti e alcune regioni lentamente si stanno adeguando. In Calabria siamo al di sotto di 7 letti di TI per 100.000 abitanti.

Addirittura durante la pandemia eravamo sotto il 50% dei letti di TI attivi. I parametri richiesti valgono ovunque e non sono assegnati a caso, ma calcolati e codificati per fornire garanzie necessarie a un’assistenza adeguata. Là dove non vengono rispettati, ne scaturisce mala-assistenza che diventa spesso mala-sanità.

L’Azienda Ospedaliera di Cosenza (ospedale Hub della provincia) dovrebbe avere almeno 9-10 letti per ogni 100.000 abitanti residenti, i quali sono complessivamente 750.000. C’è un numero di letti di terapia intensiva e/o sub-intensiva adeguato all’esigenza dell’intero territorio provinciale, assommando a quelli dell’Annunziata anche i sub-intensivi di Castrovillari e Corigliano Rossano? No, non c’è, siamo molto lontani.

Né si può annunciare l’allargamento frettoloso degli spazi e acquisire lo strumentario necessario, perché le terapie intensive non sono limitate alla logistica e agli strumentari, ma per protocollo richiedono un organico medico e infermieristico ultra-specialistico, che non c’è.

La buona assistenza è legata all’adeguamento dell’organico, che impone parametri precisi dettati dalle associazioni nazionali e internazionali degli anestesisti e rianimatori: un medico specialista in rianimazione e TI in turno H24 per non più di 8 pazienti, un infermiere in turno H24 per non più di 2 pazienti.

L’organico attuale in servizio è molto lontano dai parametri richiesti. Per addestrare questi specialisti occorrono anni. È evidente, allora, che se vengono assegnati dei posti-letto (a pagamento) al Reparto di chirurgia toracica, i pazienti che ne fruiranno richiederanno quasi sempre un ricovero in TI, e i pochi letti di TI disponibili verranno sottratti all’attività destinata al servizio pubblico.

Questa manovra ricade inevitabilmente anche sugli altri reparti di chirurgia per gli interventi chirurgici che richiedono assistenza intensiva, allungando, ovviamente, le liste di attesa anche per gli interventi di chirurgia oncologica salvavita

da “il Quotidiano del Sud” del 27 gennaio 2025

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La globalizzazione capitalistica, denunziata da decenni dai movimenti sociali No Global è arrivata al capolinea. Fondata sul free trade, l’abbattimento delle barriere doganali e normative, la liberalizzazione degli scambi, la libera circolazione del capitale, è entrata in crisi. Non è il capitalismo che è stato messo in discussione ma una forma di mercato con cui si è diffuso e imposto nel mondo.

Il mercato, ricordiamolo, è una costruzione sociale, che può assumere le forme più diverse, come il grande Fernand Braudel ci ha insegnato. Oggi, l’emergere delle forze politiche “sovraniste” sta rimettendo sulla scena globale un vecchio arnese, una vecchia teoria economico-politica che la storia sembrava avesse seppellito: il mercantilismo.

Nel XVII secolo prima Antonio Serra, nato a Dipignano-Cosenza, e poi il più famoso Jean Batiste Colbert con le loro opere contribuirono a costruire le fondamenta del pensiero mercantilista che influenzò la politica economica dei governi europei. In breve, i mercantilisti ragionavano così: la potenza di un Regno dipende dalla forza militare, quindi dagli armamenti e dall’esercito che hanno un costo crescente per i quali ci vuole molto oro (con cui si identificava la ricchezza), a sua volta questo prezioso metallo per gli Stati che non hanno miniere devono procurarselo aumentando le esportazioni e riducendo drasticamente le importazioni con tutti i mezzi possibili (dazi, quote, tariffe), dato che l’interscambio con paesi terzi avveniva esclusivamente in monete d’oro o, in subordine, d’argento.

Per tutto il secolo XIX questa è stata la dottrina prevalente, ad eccezione del Regno Unito che si fece paladino del free trade dopo aver praticato per un lungo periodo un mercantilismo draconiano nei confronti delle sue immense colonie. Solo nel secolo scorso si è imposto il libero scambio che ha raggiunto il suo culmine con la caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina al mercato mondiale.

OGGI, CON TRUMP il mercantilismo ritorna, sia pure in una versione ibrida. Il neopresidente Usa si è dato l’obiettivo prioritario di ridurre drasticamente il debito pubblico che ha raggiunto la somma record di 36.000 miliardi di dollari, pari al 138% del Pil. Una
bella eredità che gli ha lasciato Biden che in quattro anni ha fatto crescere il debito pubblico di oltre il 30 per cento, portando il deficit del bilancio federale al 6 per cento del Pil.

Risultato: bisogna trovare quest’anno oltre 7.000 miliardi per i bond in scadenza. Come fare? Aumentando i rendimenti, ma questo comporta un ulteriore esborso per la finanza pubblica: durante l’anno fiscale 2024 gli interessi netti sul debito pubblico sono stati pari a 881,6 miliardi, per la prima volta superiore alla spesa militare pari a 841,8 miliardi di dollari. Meglio puntare sul rafforzamento del dollaro anche attraverso una netta riduzione del deficit della bilancia commerciale che nel 2024 ha raggiunto i mille miliardi di dollari.

Lo farà alzando i dazi all’import, stabilendo quote massime di importazione, incentivando finanziariamente le esportazioni, cosa che per la verità già avviene da tempo nel campo agro-alimentare con relativi danni economici per i paesi del Sud del mondo. Allo stesso
tempo espellerà i migranti poveri e senza expertise mentre continuerà la politica di attrazione/importazione dei giovani “talenti” che hanno fatto la fortuna degli Usa (circa centomila ricercatori, professionisti, docenti universitari, scienziati, ogni anno entrano e la
maggioranza resta nel cuore dell’impero a stelle e strisce).

Ma, a differenza della storia del mercantilismo il ruolo dello Stato all’interno del paese si ridurrà decisamente, smantellando quello che resta del welfare, mettendo in pratica il motto laisser faire , laisser passer: totale libertà di azione per l’impresa, abbattimento delle
tasse, di lacci e lacciuoli, secondo il principio neoliberista che vede nell’accumulazione individuale di ricchezza una crescita di benessere per tutti.

Il neomercantilismo si sposa con il neoliberismo producendo un mostro ibrido che tanto assomiglia alla mitologia greca. Classe operaia e ceto medio statunitense ne subiranno le conseguenze con un aumento dell’inflazione e la caduta di offerta di lavoro in agricoltura, piccola industria e servizi per via del blocco dell’immigrazione e relativa espulsione.. Sul piano internazionale, come la storia ci insegna, il neomercantilismo esaspera i conflitti commerciali che possono trasformarsi in conflitti tout court.

Paradossalmente sarà la Cina con i Brics a difendere il Wto (che Trump vorrebbe cancellare insieme a tutte le istituzioni internazionali) e le regole del commercio internazionale basate sulle regole e la cooperazione.

da “il Manifesto” del 21 gennaio 2025
foto: Di Vladislav Talaev – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25408370

Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia.-di Alessandro Scassellati

Il ritorno delle classi sociali nel dibattito sulla composizione sociale in Italia.-di Alessandro Scassellati

Dopo decenni in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase di Margaret Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul concetto e sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza, Roma-Bari 2024) che fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia politica, una disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società, indagando in modo particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia capitalistica.

Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.

Il merito di Ardeni è quello di riaffermare, portando nuovi dati quantitativi e analisi interpretative, che il capitalismo della globalizzazione e la sua crisi (a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008) sono stati capaci di riportarci in un mondo in cui le divisioni di classe sono tornate a contare, a fare la differenza per gli individui, perché danno luogo a disuguaglianze (di reddito, ricchezza, consumi, stili di vita, status e potere) che condizionano le concrete possibilità di vita (livello di istruzione, competenze, tipo di lavoro, reddito e sistema relazionale sociale). L’ideologia neoliberista, che ha promosso e accompagnato la “lotta di classe” dei grandi capitalisti (l’1% o il 10% più ricco) contro le classi medie e operaie e l’affermazione del capitalismo globalizzatore, ha esaltato per quattro decenni “l’individualismo metodologico”, ossia “che tutto ciò che riusciamo a ottenere nella vita sia il risultato delle nostre scelte, delle nostre aspirazioni e del nostro sforzo. Nasciamo tutti uguali [di fronte alla legge], viviamo in un sistema che offre le stesse opportunità a tutti, impegniamoci senza lamentarci, senza dare la colpa al sistema! Tutto dipende dalla nostra performance, non conta di chi siamo figli o da dove veniamo ma solo il talento e l’impegno, ovvero il merito” (pag. 4).

Le classi superiori hanno lasciato intendere che il sistema avrebbe concesso un’opportunità a tutti, al di là delle disparità sociali “originarie”, bastava volerlo (chi non ce la fa, è perché non è stato capace o non si è impegnato abbastanza, non perché era in una condizione di partenza di inferiorità), essere “imprenditori di sé stessi”, senza però che venissero alterati né i meccanismi di accumulazione né quelli della distribuzione, anzi spingendo perché venisse data maggiore libertà di movimento al capitale. Ma ora, con la crisi conclamata del capitalismo neoliberista, si rende evidente che di fatto non siamo tutti uguali (qualcuno è “più uguale degli altri”, come i maiali nella fattoria degli animali di George Orwell) e non lo siamo in ragione di differenze sociali che sono strutturate, ossia che hanno origine nell’appartenenza di classe, a gruppi sociali con caratteristiche specifiche.

“Le disuguaglianze nella distribuzione del reddito, ad esempio, di cui si è venuto discutendo negli ultimi anni, non sono soltanto dovute a differenze nel merito, nelle capacità individuali e finanche nelle opportunità di acquisire un’istruzione adeguata, né semplicemente ai fallimenti dei mercati o alla scarsa concorrenzialità. Al fondo, ci sono due altri elementi all’opera che sono, ancora una volta, il “conflitto” tra capitale e lavoro – o, se si preferisce, tra redditi da capitale e redditi da lavoro – e l’ereditarietà, che consente la ripartizione del patrimonio per vie familiari, perpetuando la disparità di ricchezza. A chi già non ha è lasciata la via del “merito” in un sistema ove, però, le “enclosures” generate dall’appartenenza a club e circoli si sono fatte sempre più decisive” (pag. 7).

La narrazione di Ardeni, costruita illustrando con dettaglio i dati e le analisi sulla stratificazione sociale italiana sviluppate negli ultimi 50 anni, a partire dal libro epocale di Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma Bari 1974, ci guida nell’esplorazione dei mutamenti nella composizione sociale della società italiana. Un viaggio che parte da una descrizione “classista” della società rimasta egemone fino agli anni ’70, per poi passare a una descrizione “stratificazionista” in cui la classe media sembra ormai occupare quasi tutto lo spazio sociale (la “cetomedizzazione”), divenuta egemone dagli anni ’80, per chiudere il cerchio e tornare oggi a rivalutare il ruolo delle classi nella composizione sociale, in presenza di una divaricazione crescente nei livelli di reddito, di un drastico rallentamento della mobilità sociale ascendente, e di una polverizzazione delle professioni medie, divise tra quelle alte e quelle basse, che contribuisce alla polarizzazione delle disparità nei redditi.

Letture interpretative diverse della struttura sociale italiana che riflettono le diverse fasi storiche delle trasformazioni del capitalismo a livello nazionale e globale nell’arco di questi cinque decenni. Con il mutare delle caratteristiche del modo di produzione capitalistico sono mutate sia le forze di produzione (risorse naturali, tecnologie, divisione del lavoro come funzione lavorativa) sia le relazioni sociali della produzione e distribuzione del reddito che innervano le particolari caratteristiche della struttura sociale (divisione in classi, ceti, strati, categorie, fasce di reddito e gruppi sociali) in ciascuna fase, dando vita a diverse formazioni sociali. Per schematizzare, dal dopoguerra abbiamo avuto due principali diverse tipologie di capitalismo: un capitalismo fordista/keynesiano dei “trenta gloriosi” (1945-1975), basato sul «compromesso tra capitale e lavoro» di stampo socialdemocratico, e un capitalismo globalizzatore regolato dal paradigma neoliberista (dal 1980 ad oggi), basato sulla centralità degli «animal spirits» del libero mercato. Ardeni è anche interessato a mostrare che nel corso del tempo non è solo variato il peso relativo delle classi, ma anche il loro peso politico, nei canali della rappresentanza, con effetti redistributivi non indifferenti.

Marx e Weber

Con un approccio economico politico si prende necessariamente avvio da Karl Marx che, partendo dagli stessi presupposti analitici di Adam Smith e David Ricardo, nei primi decenni del passaggio al capitalismo industriale è stato il primo a proporre una rappresentazione del corpo sociale in tre classi, distinte secondo la proprietà dei mezzi di produzione e la fonte del reddito: i redditieri, la classe dei proprietari della terra; i capitalisti della classe borghese, proprietari dei macchinari e delle imprese industriali; i lavoratori della classe operaia, proprietari unicamente della loro forza lavoro. È attraverso la lotta di classe tra borghesia e classe operaia che, secondo Marx, storicamente si struttura la società.

Nelle sue analisi in diretta sul campo, come si vede in Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte (1851) e Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx applica il suo schema interpretativo, ma è costretto a parlare di frazioni e fazioni di classe per tutte le classi e specialmente per la borghesia. Ogni categoria professionale viene di fatto considerata come una classe o frazione di classe, segno della difficoltà che lo stesso Marx ha incontrato nell’usare il concetto astratto di classe nell’analizzare dei comportamenti sociali e politici concreti.

D’altra parte, con le successive trasformazioni del capitalismo, così come con la crescita del ruolo e delle funzioni svolte dalle grandi imprese e dallo Stato, un attore relativamente ancora poco strutturato a metà del XIX secolo, sono cresciuti i processi di scomposizione e ricomposizione dei fattori capitale e lavoro. Nel campo del lavoro, con il cambiamento tecnologico si sono affermati nuovi, diversi e più articolati rapporti di produzione, per cui sono emerse nuove specializzazioni e divisioni dei ruoli e delle mansioni che hanno dato vita a nuove articolate stratificazioni che hanno diluito e reso inefficace la conglomerazione del lavoro salariato in un’unica “classe operaia”. Un processo di scomposizione e ricomposizione che, insieme alla crescita dello Stato, ha portato alla nascita ed espansione di una “classe media”, formata da professionisti indipendenti, lavoro impiegatizio alle dipendenze del capitale industriale, lavoro autonomo nell’industria e nei servizi, e lavoro dipendente nella pubblica amministrazione (apparato burocratico) (sul metodo composizionista si veda il nostro articolo qui).

Al quadro di riferimento economico politico di Marx, si è poi anche contrapposto quello più eclettico di Max Weber, sostenitore del fatto che le classi non esistono solo in relazione ai mezzi di produzione. In contrapposizione al materialismo di Marx, Weber ha sostenuto che i fattori soggettivi della vita – ideologia, cultura, religione – sono altrettanto importanti rispetto al campo strettamente economico, aggiungendo al concetto di classe quelli di status e potere (inteso come influenza e controllo esercitato su persone e gruppi sociali), con l’introduzione di fattori qualitativi immateriali come onore, prestigio, rispetto, qualità morali, istruzione, stili di vita, linguaggio, arte, rituali, codici culturali e valori che rimandano alla dimensione della coscienza collettiva e dell’identità di classe o ceto, che non sono necessariamente dovuti alla ricchezza o al reddito, e che determinano stratificazioni sociali potenzialmente diverse da quelle di classe (come il ceto sociale). Secondo Weber, è la complessa interrelazione della triade classe, status e rapporti di potere (che definiscono le aggregazioni sociali in termini di partiti) che determina storicamente la struttura della società capitalistica, contribuendo a condizionare le opportunità e le scelte degli individui.

Dalle classi alle classi

L’analisi sociologico-economica italiana dagli anni ’50 agli anni ’70 ha rielaborato le nozioni di Marx e Weber. Quella di sinistra, incardinata sull’impianto marxista, ha elaborato una teoria della struttura sociale fondata sulla relazione tra divisioni di classe e disuguaglianze, a favore della classe operaia, della sua emancipazione nelle direzioni socialista, socialdemocratica e comunista. Quella di stampo liberale ha utilizzato un’impostazione americana per concepire una teoria della struttura sociale di tipo neo-weberiano incentrata sul ruolo chiave della grande e piccola borghesia, in cui le disuguaglianze nella distribuzione del reddito andavano ricercate nei diversi livelli di istruzione e qualificazione, nel potere di influenza di ceti e gruppi, nella diversa conformazione di settori economici e professioni e nel funzionamento più o meno efficiente del mercato del lavoro e del sistema economico.

In questo contesto, il lavoro di Sylos Labini ha rappresentato il tentativo ambizioso di operare una sintesi tra classificazione delle categorie economiche secondo la loro professione e secondo la fonte del loro reddito e un’analisi sullo status, lo stile di vita, il livello di istruzione, la dimensione territoriale e finanche sulle aggregazioni politiche. Nella classificazione di Sylos Labini, supportata da dati quantitativi statistici, agli inizi degli anni ’70 la società italiana era strutturata in almeno tre principali classi sociali (articolate al loro interno) definite soprattutto nell’ambito della sfera della produzione (lavoro), ma anche del modo in cui veniva ottenuto il reddito (rendite, profitti da capitale, salari e stipendi):

1. borghesia vera e propria (2,3%): formata da grandi proprietari di fondi rustici e urbani (rendite); imprenditori (industriali, immobiliari e finanziari) e alti dirigenti di società per azioni (profitti e redditi misti con elevate quote di profitto); professionisti autonomi (redditi misti, con caratteri di redditi di monopolio grazie alle tutele degli ordini professionali);

2. piccola borghesia/classi medie (45,4%):

2a. piccola borghesia impiegatizia (stipendi): costituita da impiegati pubblici e privati, tra cui insegnanti e addetti alla sanità;

2b. piccola borghesia relativamente autonoma (redditi misti): composta da coltivatori diretti, artigiani, piccoli professionisti (lavoratori autonomi), commercianti;

2c. piccola borghesia composta da categorie particolari come militari, religiosi e altri (stipendi);

3a. classe operaia (salari) (52,3% con il sottoproletariato): costituita da lavoratori salariati dell’industria e dell’edilizia (in espansione), da quelli del terziario e dai salariati agricoli (in forte riduzione);

3b. sottoproletariato: composto da coloro che restano per lunghi periodi di tempo fuori dalla sfera di produzione in quanto disoccupati.

Il focus dell’analisi di Sylos Labini era soprattutto concentrato sull’espansione della piccola borghesia (impiegatizia, commerciale e tecnica) e più in generale delle classi medie (con i ceti medi da lui considerati come una “quasi classe”) tra il 1951 e il 1971. Questa espansione veniva spiegata sulla base del progresso tecnico e organizzativo (con l’aumento delle dimensioni e della burocratizzazione delle imprese) e della burocratizzazione dello Stato frutto della mediazione politica, dell’espansione dei servizi e della redistribuzione, e delle pratiche di clientelismo. Una delle conclusioni di Sylos Labini era che il potere politico (partiti, sindacati, burocrazia statale, gruppi della sinistra extra-parlamentare) era nelle mani di questa classe, “ma non sono i dirigenti effettivi”, “la classe dominante” (1974, pag. 71).

Il suo giudizio sulla piccola borghesia è sferzante (bassa moralità, difesa a oltranza della distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale come tra lavoro direttivo e lavoro esecutivo, corruzione, clientelismo, pratiche di sottogoverno, parassitismo, corporativismo, conservatorismo, deriva fascista, con “individui famelici, servili e culturalmente rozzi” (1974, pag. XII). Mette in luce il ruolo chiave giocato dalla politica nella protezione di commercianti, liberi professionisti, piccoli imprenditori manufatturieri e nella promozione dell’espansione della piccola borghesia (attraverso la creazione di posti di lavoro, leggi e interventi amministrativi, accordi contrattuali, clientelismo) in funzione di una stabilizzazione sociale e politica. L’effetto principale di questa azione politica era stato, per Sylos Labini, che il terziario si era gonfiato oltre misura senza modernizzarsi e, quindi, senza che a questo corrispondesse un ampliamento e miglioramento dei servizi pubblici. Una situazione che aveva contribuito a provocare l’ondata di lotta di classe della classe operaia a partire dalla seconda metà degli anni ’60.

Sylos Labini era interessato a riflettere sulla possibilità di alleanze sociali e politiche che potessero favorire o impedire le riforme sociali. Ragionava sui possibili rapporti tra sinistra politica (PCI e PSI) e classe operaia (allora ancora economicamente in ascesa) con le classi medie per realizzare le riforme della pubblica amministrazione, della sanità, dell’urbanistica, dell’università e gli investimenti in edifici scolastici e universitari, ospedali1. Sosteneva che occorreva puntare sulla piccola borghesia degli intellettuali, scienziati, tecnici e dirigenti e che bisognava guardare all’esperienza emiliana e di altre regioni “rosse”, dove si era attuata un’alleanza organica fra ceti medi e classe operaia, con un’evidente egemonia dei primi (1974, pag. 107).

L’analisi di Sylos Labini ha aperto un vivace dibattito con contributi di Luciano Gallino, Alessandro Pizzorno, Massimo Paci, Arnaldo Bagnasco, Carlo Trigilia, Antonio Negri e Carlo Donolo che è durato fino agli anni ’80 e nel corso del quale si è affermata l’idea che vi siano almeno quattro caratteristiche che definiscono le classi: il reddito, secondo le sue fonti; la professione e il tipo di lavoro; le condizioni di vita e i riferimenti socio-culturali, ovvero lo stile di vita; i rapporti di potere. Dal punto di vista della ricerca empirica, però, solo le prime due sono state investigate, dato che solo per queste erano disponibili dati statistici. Le altre due sono quindi rimaste confinate nel campo delle riflessioni teoriche a sostegno dei risultati empirici ottenuti con le ricerche delle prime due.

Con gli anni ’80 il quadro analitico di riferimento muta, al mutare del quadro sociale ed economico. Il sistema economico italiano entra in una fase turbolenta di instabilità e rallentamento della crescita (alta inflazione, “svalutazioni competitive”, contenimento dei salari, riduzione della scala mobile, ristrutturazioni e chiusure aziendali, aumento della disoccupazione, aumento del debito pubblico e crisi fiscale dello Stato). Sono anni in cui la classe operaia e dei tecnici non cresce più, mentre si continua ad allargare la fascia del pubblico impiego, del terziario commerciale e dei servizi. Le classi sociali non spariscono, ma restano sullo sfondo. Arrivano i modelli di analisi socio-metrici posizionali2 messi a punto negli Stati Uniti a partire dagli anni ’40 (in gran parte frutto di un’operazione di mistificazione e di manipolazione del pensiero di Max Weber, mettendo sullo stesso piano potere, autorità legale e burocrazia), per cui si afferma che non ci sono più le classi (si sono “dissolte”), che la società è “liquida”, che tutto è solo middle class, mentre il potere è burocrazia (James Burnham, La rivoluzione manageriale 1941) nella quale lavorano persone della classe media scelte sulla base del merito. Così, il focus del dibattito scientifico si sposta dalle classi alla stratificazione sociale (soprattutto sugli strati che compongono i ceti medi) e su due aspetti a questa strettamente legati: quello della mobilità sociale (orizzontale, ascendente e discendente, ossia la possibilità di passare da un gruppo/strato sociale a un altro) e quello delle disuguaglianze (di reddito e status).

È stato un tentativo di offuscamento del fatto che la storia dell’economia politica degli ultimi quattro decenni è stata caratterizzata da una guerra di classe tra capitale (i dominanti) e lavoro (i dominati) che, come ha sostenuto il finanziere Warren E. Buffett nel 2006, il capitale ha vinto a mani basse (attraverso la «contro-offensiva neoliberale»), per cui aveva notato che lui, un investitore miliardario pagava un’aliquota fiscale più bassa della sua segretaria. Una lotta di classe contro i lavoratori, i loro diritti acquisiti nei “trenta gloriosi”, le politiche di redistribuzione del reddito e di protezione sociale. D’altra parte, come notava Luciano Gallino nel 2012, “la più grande vittoria della classe dominante, di certo, è aver fatto credere agli altri di non esistere più”. Come sottolinea Ardeni, un offuscamento anche del fatto che le barriere per le scelte degli individui derivano ancora dalle divisioni presenti nella struttura sociale: “è un dibattito il cui risvolto ideologico, in realtà, maschera il tentativo di “andare oltre” le classi sociali per rendere le condizioni di origine ineffettuali, come non sono, e per agire solo “a valle”, sui meccanismi di funzionamento del mercato” (pag. 9).

In sostanza, non si tratta di abbattere le barriere tra i gruppi sociali, ma di intervenire sulle storture e inefficienze dei mercati che non permetterebbero agli individui di fare le loro libere scelte, avendo tutti a disposizione le medesime opportunità. Sono state proposte nuove classificazioni (affinamenti della suddivisione della società in tre classi) – come quella del neo-weberiano John Goldthorpe, nota come EPG (che raggruppa le occupazioni in base alla situazione di lavoro e alla situazione di mercato) e adottata anche nello schema europeo ESEC (European Socio-Economic Classification) – e sono state fornite nuove stime, come quelle di Antonio Schizzerotto e dei suoi collaboratori, anche se le fonti statistiche hanno continuato a essere problematiche (soprattutto quelle sulla distribuzione dei singoli ruoli occupazionali).

Il 1992 è stato un anno di svolta per l’Italia con la fine della “prima Repubblica” e del suo sistema di partiti, la più grave crisi finanziaria italiana del dopoguerra (con la svalutazione della lira, l’uscita dal Sistema monetario europeo e una pesantissima “manovra” del governo Amato) e la firma del Trattato di Maastricht che porta all’Unione Europea e apre la lunghissima stagione delle politiche neoliberiste di austerità (che hanno previsto tagli dei servizi pubblici, privatizzazioni, contenimento di salari e stipendi, riduzione degli investimenti in beni pubblici, delocalizzazioni produttive). Si passa al sistema elettorale maggioritario all’insegna della “governabilità”. Innovazione e investimenti (soprattutto pubblici) restano al palo, mentre la struttura produttiva e occupazionale va riducendosi e frammentandosi (con imprese di piccola dimensione). Rallenta di molto la crescita della produttività del lavoro. Si punta su “flessibilità” e precarizzazione, aumentando i contratti a tempo determinato, a tempo parziale, a progetto e saltuari. Le fasce più deboli soffrono di più la disoccupazione e la precarietà dei loro rapporti lavorativi. Prende il via un processo di drastica riduzione di artigiani e lavoratori autonomi, la piccola borghesia autonoma. Anche il lavoro qualificato, sia dipendente sia autonomo, viene colpito. Si riduce il ruolo della contrattazione collettiva, mentre cresce quello della contrattazione individuale (con un conseguente indebolimento del sindacato). Mentre salari e stipendi non aumentano, anzi ristagnano o arretrano, grazie a politiche fiscali favorevoli, i redditi da capitale e altre fonti (rendite, profitti, capital gains), fortemente influenzati dall’ereditarietà, crescono, alimentando le disuguaglianze e il processo di finanziarizzazione crescente dell’economia (si veda il nostro articolo qui).

Mentre il paese attraversa una fase difficilissima e il mondo del lavoro va mutando (ad esempio, si amplia l’occupazione nei settori dei servizi che adesso forniscono anche il maggiore contributo al PIL) – e con esso la struttura sociale – l’analisi e l’interpretazione di quanto avviene si fa più frammentaria. “La narrazione dominante è quella che enfatizza il ruolo della tecnologia, non solo nelle nuove professioni che vanno affermandosi e in come trasforma le vecchie, ma anche nei consumi e negli stili di vita. L’idea che si sia entrati in una società post-industriale si fa strada al punto che pare che lavori e professioni legati all’industria non esistono più, che il lavoro manuale vada scomparendo e che l’economia di oggi sia tutta ‘servizi e tecnologia’. Nelle imprese di tutti i settori le figure si sono moltiplicate, con una stratificazione che riflette competenze e livelli di qualificazione diversi e mansioni diverse.

Alla frammentazione sul piano produttivo – anche retributivo – corrisponde una frammentazione sul piano sociale, che non è che la naturale evoluzione di una società matura in cui il livello di reddito ha consentito – tra gli anni Settanta e Novanta – la quasi totale generalizzazione di stili di vita e consumi tipicamente urbani, quelli che un tempo erano solo piccolo borghesi, alla grande maggioranza dei cittadini (con delle differenze, è ovvio, date comunque dal livello assoluto del reddito). In questo processo, però, è progressivamente sbiadita l’antica identità sociale delle classi che ora si ‘assomigliano’ tutte, per un verso (nella domanda di servizi minimi, nelle aspirazioni sociali e culturali), mentre continuano a differenziarsi, e di molto, sul piano della condizione occupazionale e professionale. Tutti si sentono classe media, pur non essendolo, secondo un processo di omologazione che rende evidente quanto la società dei consumi di massa sia estesa“ (pag. 70).

Negli anni 2000, in presenza di un’economia sostanzialmente bloccata, che non cresce e in cui anche il processo di terziarizzazione verso la modernizzazione dei servizi sembra bloccarsi, gli studi condotti segnalano che anche l’evoluzione della struttura sociale si è bloccata. La mobilità sociale ascendente è rallentata sino a quasi fermarsi e torna l’idea della cristallizzazione delle divisioni di classe, secondo nuove linee di frattura. Si sviluppano anche analisi e dibattiti sulla scomparsa della classe operaia (ma mentre diminuisce quella industriale, aumentano i salariati nei servizi e nelle occupazioni impiegatizie, con sempre più ampie fasce di lavoro precario, part-time e sotto-remunerato, una segmentazione che investe, donne, giovani e immigrati – un proletariato post-industriale) e della classe media. Quest’ultima viene investita da una crisi che è economica, ma che riguarda anche gli stili e le condizioni di vita, le aspettative e finanche le attitudini culturali. Con l’introduzione di flessibilità e precarizzazione, parti delle classi medie si vedono scivolare verso la classe operaia. Un processo di declassamento che genera insicurezza, malessere, paura risentimento e rabbia che viene scaricata contro i deboli, i poveri e i fragili che sono visti solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del ceto medio.

Al tempo stesso, però, nelle nuove condizioni lavorative, più precarie e frammentate, si riduce l’identificazione tra gli individui e il loro lavoro non più visto come un percorso di vita. La stessa classe operaia, oltre a ridursi, si frammenta, mentre il conflitto sociale si disperde e si spezzetta in micro-conflitti. Si riduce la mobilità sociale ascendente, mentre aumenta quella orizzontale, tra professioni e condizioni diverse ma equivalenti sul piano del reddito e dello status. Soprattutto, il precariato è divenuto la nuova condizione proletaria contemporanea e investe sia la classe operaia sia la classe medio-bassa impiegatizia.

La struttura sociale italiana oggi

Ardeni offre una descrizione della situazione odierna (al 2023) delle classi sociali in Italia, riprendendo lo schema di riferimento di Sylos Labini, integrato da alcune modifiche. Ciò che emerge è che la classe operaia pesa ancora per circa un quarto (23,4%), ma è divisa tra una componente garantita e una precaria (attiva soprattutto nell’articolato mondo dei servizi – logistica, manutenzione, distribuzione commerciale, ristorazione, pulizie). Che la classe media è certamente maggioritaria (65,6%), con quella medio-bassa che è più rilevante e anch’essa divisa tra garantiti e precari, mentre quella medio-alta, insieme alla borghesia (11,%), pesa per circa un quarto.

La composizione della forza lavoro occupata indica che ancora il 30,2% dei lavoratori è nell’industria, il 27,1% è nei settori del terziario “maturo” (commercio, pubblici esercizi, trasporti e comunicazioni), il 23,5% è nel terziario dei servizi e il 17,3% nel settore pubblico. Il lavoro dipendente rappresenta quasi i quattro quinti del totale (78,6%): di questo il lavoro operaio (qualificato e non) pesa per un terzo (33,4%) e, se sommato al lavoro impiegatizio esecutivo, arriva al 47,9%, mentre il lavoro impiegatizio qualificato assomma al 30,4%. La precarietà, trasversale alle classi, riguarda oltre un terzo della forza lavoro dipendente, soprattutto femminile e giovanile3.

Si profila una struttura sociale di classe che è sostanzialmente inalterata dagli anni ’90, la risultante di un paese fermo, la cui economia non cresce più e la cui struttura sociale si è cristallizzata. In termini di reddito, la classe media si è ridotta (e sono le fasce alte a guadagnarci di più). La mobilità tra le classi si è ingessata, con una prevalenza della mobilità discendente su quella ascendente (sia quella intergenerazionale sia quella intragenerazionale). Tuttavia, la classe media sembra essersi estesa a (quasi) tutte le classi sociali dal punto di vista degli stili di vita e dei consumi, delineando però una frattura in aumento tra redditi alti e redditi bassi che segnala la chiusura delle classi medio-alte. Un vero e proprio arroccamento che si estende alle classi superiori che adottano una strategia di “secessione privata dalla società” che rafforza l’appartenenza alla propria classe/casta4.

La distribuzione del reddito mostra che il reddito medio delle famiglie italiane è fermo da più di 30 anni5. Sono cresciuti i lavoratori poveri («working poor»), quelli che sono in «povertà relativa», anche nei settori «di punta» (quelli del «made in Italy» e della metalmeccanica che lavorano per i mercati esteri) di un’economia ormai basata soprattutto su ristorazione, turismo, grande distribuzione, logistica e servizi poveri ormai fortemente dipendenti dalla manodopera migrante a basso salario. Difatti, tra il 2014 e il 2023 l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è passata dal 4,9% al 7,6%, e tra gli operai dal 9% al 14,6%. Circa 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui, ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora più ampia: vanno infatti aggiunti oltre 2 milioni di dipendenti con salari medi inferiori ai 17 mila euro lordi annui.

Inoltre, non c’è più una corrispondenza univoca tra posizione lavorativa (classe sociale) e reddito, a causa di due fattori determinanti: il capitale accumulato (anche nella forma di beni immobili) e il livello di istruzione. Quest’ultimo è diventato un motore di mobilità sociale molto meno potente rispetto al passato, superato dall’appartenenza di classe, per cui si sta diffondendo l’idea che si possa anche rinunciare a un titolo di studio. “Il livello di istruzione dipende dal reddito e dalle aspettative (e aspirazioni) e varia con la famiglia di origine e l’orientamento culturale familiare (ovvero dalla classe sociale). Più basso è il reddito, meno si spende (si investe) in istruzione e capitale umano. ‘Far studiare i figli costa, ma se poi questi non fanno neppure carriera, perché non hanno il padre con una certa posizione, allora non ne vale la pena’” (pag. 11). Per cui ogni anno oltre 450mila giovani tra i 18 e i 24 anni abbandonano la scuola prematuramente, mentre circa 55mila se ne vanno via dall’Italia, prendendo atto che non c’è posto per tutti. Oltre al tema del rapporto tra istruzione, distribuzione del reddito e classi sociali, Ardeni offre un’analisi della questione di genere, di quella dell’inattività e dei NEET (si veda anche il nostro articolo qui), e dei divari territoriali.

Infine, Ardeni è anche interessato a esplorare i temi della rappresentanza politica delle classi, la loro rappresentanza nel discorso pubblico e l’evoluzione recente del quadro politico italiano in relazione alla struttura sociale descritta. Cerca di analizzare come si è riflessa la divisione di classe sulle proposte politiche e delle forze in campo. Si interroga sul fatto che visto che le classi esistono ancora – e con esse i divari che le separano – chi rappresenta, oggi, le classi popolari? Da anni ormai non c’è più un partito della classe operaia, ma non c’è neanche un partito che faccia della classe dei precari (i nuovi proletari) la propria base (anche perché nessuno più mette in discussione l’esistenza della precarietà come dello sfruttamento para-schiavistico degli immigrati – per un’analisi sulla relazione bassi salari e immigrazione, si veda il nostro articolo qui).

Emerge il quadro di “una società che è andata separandosi dal potere politico in cui si sente, evidentemente, sempre meno rappresentata, evidenziando, però, una rottura preoccupante perché riguarda le fasce meno protette” (pag. 245) delle classi popolari dei non garantiti. Ardeni si domanda se si può fare qualcosa, almeno, per rimettere in moto l’ascensore sociale: “L’esercito dei tanti precari, degli esclusi, dei marginalizzati, potrebbe essere aggregato in una proposta progressista, non difensiva, né “contro” le classi medie e garantite. La mobilità sociale potrebbe essere riattivata, non tanto verso le posizioni alte, quanto verso quelle medie e medio-alte. Dando così nuovi stimoli anche a quella classe media che languisce, che sopravvive culturalmente ed economicamente” (pag. 247).

Attualmente assistiamo al crescente distacco tra parte debole e marginalizzata del corpo sociale e il sistema politico. Un’economia ferma, in cui produttività e reddito complessivo non crescono, in cui la mobilità sociale è ferma “sta portando le classi medie e medio-basse su posizioni difensive, reclamando la chiusura delle frontiere (di classe) e maggiore protezione. Ed è sulla difesa del ceto medio che ormai si gioca lo scontro politico, dimentico di quelle fasce popolari e marginali che pure esistono. La sinistra, la cui ragion d’essere si fondava sul consenso delle classi popolari, non ha più una prospettiva da opporre e pare aver rinunciato anche solo alla possibilità di un’alternativa. Così, si assiste al progressivo allontanamento di quelle masse dalla stessa prospettiva democratica: escluse, non hanno più voce, non partecipano più, mentre i partiti nell’agone politico si spartiscono il consenso delle classi medie. Un’involuzione che prepara solo il terreno a un’involuzione della democrazia, minandone le basi alla radice” (pag. 252).

Note

Proprio nel decennio ’70 sono state realizzate alcune delle principali riforme del dopoguerra: l’approvazione della legge sul divorzio nel 1972, con la vittoria del No al referendum abrogativo del 1974, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1974 e l’approvazione della legge 194 sull’aborto, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale e l’abrogazione dei manicomi nel 1978. Perseguendo una strategia di attenzione e apertura alla classe media, il PCI raggiunse l’apice con le elezioni del 1975 e 1976.[]
Si tratta di studi descrittivi che raggruppano coloro che condividono posizioni simili nelle relazioni di dominio e subordinazione nelle sfere dell’economia e del lavoro e in quelle della distribuzione di vantaggi e svantaggi che determinano le condizioni di vita.[]
Il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una condizione sufficiente di inclusione se non è affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. Bisogna aggiungere che nel 2023 oltre la metà degli impiegati a tempo parziale avrebbe voluto lavorare di più (era in un part-time involontario, in sostanza), un fenomeno che colpisce di più le donne, in particolare quelle più giovani, che non arrivano a 10mila euro lordi all’anno, mentre il 34% degli occupati laureati (circa 2 milioni di persone) hanno un inquadramento professionale più basso rispetto al titolo conseguito (sono «sovra-istruiti»). Ci sono poi 3 milioni di contratti a termine, persone che lavorano per 6-8 mesi in media all’anno, un milione di persone che lavorano a chiamata (con una media di 50-60-70 giorni all’anno), e un milione di persone che fa lavoro somministrato, mentre sono aumentate le collaborazioni, gli apprendisti e le partite IVA (spesso finte, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei «privilegi» dei colleghi regolarmente assunti).[]
Si tratta di un fenomeno di segregazione sociale volontaria, con le «comunità recintate», le isole private, i super-yacht, i paradisi fiscali e tanti privilegi esclusivi dei super-ricchi, che il filosofo politico Michael J. Sandel (Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato, Feltrinelli, Milano 2013; Democracy’s discontent. America in search of a public philosophy, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA 1998) definisce «sky-boxification of society», utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia.[]
Eurostat ha certificato – con i dati pubblicati nel «Quadro di valutazione sociale» che monitora il progresso sociale in tutta Europa – che il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è aumentata di 10. Se nei 27 paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiorare. Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.[]

da TransformItalia 5 gennaio 2025

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Finanziare il Ponte di Messina e togliere le risorse per completare i lavori sui nodi ferroviari di Reggio Calabria, Catania e Palermo. Soddisfare le velleità e gli interessi che fanno a capo al vicepremier leghista e ministro dei trasporti e non completare le opere la cui mancanza rende faticosa la vita di chi aspetta la velocizzazione della linea tra Catania e Siracusa o il «potenziamento» della linea Sibari-Catanzaro Lido-Lamezia Terme.

Non è un paradosso, è un progetto voluto dal governo Meloni e in particolare dal vicepremier leghista Matteo Salvini. Una volta di più è diventato chiaro quando è passato l’emendamento della Lega alla legge di bilancio che sarà votata venerdì dalla Camera e votata definitivamente dal Senato il 28 o il 29 dicembre. Lungamente annunciato e infine approvato l’altra notte nella commissione Bilancio della Camera, l’emendamento che porta la prima firma del capogruppo leghista Riccardo Molinari aumenterà le risorse per il Ponte sullo Stretto di 1,3 miliardi di euro prendendo le risorse dai Fondi per lo sviluppo e la coesione. Quest’ultimo è stato rifinanziato dalla manovra con 3,88 miliardi, ma quasi la metà di questi soldi sono stati destinati alla mega-opera dedicata al culto di Salvini e al festante codazzo degli interessi che rappresenta.

L’emendamento approvato cambierà sensibilmente la distribuzione dei costi: quelli a carico dello Stato scendono a 6.962 miliardi mentre balzano a 4.600 miliardi i costi sui fondi di coesione delle amministrazioni centrali. Resta il fatto che i fondi di coesione (1,6 miliardi) che avrebbero dovuto essere usati dalle regioni Calabria (1,3 miliardi) e Sicilia (300 milioni) per avere infrastrutture minimamente efficienti sono stati dirottati per costruire un’opera megalomane.

A chi ieri gli ha chiesto dell’aumento delle risorse in più per il Ponte l’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini (il Consorzio che farà il Ponte) ha liquidato la faccenda sostenendo «Sono questioni tecniche legate a come il governo stanzia i soldi. Credo siano sistemazioni di ragioneria e non c’è nessuna modifica rispetto a quelli che erano i numeri precedenti, per quanto ne sappia. Chiedete al vicepresidente Salvini se il Ponte si farà. Noi siamo soldati, eseguiamo gli ordini».

Nello stesso emendamento leghista c’è un miliardo in più alla Tav Torino-Lione, più un altro a Ferrovie per le opere del Pnrr. «E neanche un centesimo per le due linee metropolitane di Torino» hanno commentato i parlamentari e i consiglieri regionali piemontesi dei Cinque Stelle.

Per Legambiente il progetto del Ponte sullo Stretto «continua a drenare ingentissime risorse pubbliche». In valori assoluti «i finanziamenti nazionali per il trasporto su ferro e su gomma sono diminuiti da circa 6,2 miliardi del 2009 a 5,2 miliardi nel 2024, ben al di sotto delle necessità e pari a un -36% se si considera l’inflazione degli ultimi 15 anni».

«Come mai per quello i soldi si trovano, mentre per pensioni, sanità, trasporto pubblico non si trovano e anzi i fondi sono stati tagliati? Si vergognino» ha detto Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra. «Il Fondo di sviluppo e coesione dovrebbe essere usato per le infrastrutture davvero urgenti per il Sud, ma viene usato come un bancomat qualunque – ha osservato Pietro Lorefice (M5S) – Ricordo che altre risorse erano state drenate dall’ex “superministro” Fitto per tappare i buchi da lui stesso aperti nel Pnrr, con un taglio di interventi che ha fatto male a paese».

Il Ponte di Messina «è un’opera perfettamente inutile, imposta per la vanagloria politica di Salvini – ha detto Pasquale Tridico (Cinque Stelle) – per mantenere equilibri fragili all’interno del governo Meloni, che considera il Mezzogiorno un mero serbatoio di voti».

Sul Ponte c’è stata una polemica a un question time alla Camera, tra il ministro Gilberto Pichetto Fratin e Bonelli (Avs). Il primo si è difeso dalle critiche di avere fatto «nomine politiche» nella commissione per la Valutazione di Impatto Ambientale «che è indipendente». Per Bonelli ha «detto il falso» ed è «commissariato da Salvini. State utilizzando i fondi pubblici per foraggiare imprese che non hanno il progetto tecnico validato da nessun organismo dello Stato».

da “il Manifesto” del 17 dicembre 2024

Con la legge ‘Salva-Milano’ città sempre più cementificate e diseguali.-di Battista Sangineto

Con la legge ‘Salva-Milano’ città sempre più cementificate e diseguali.-di Battista Sangineto

La proposta di legge numero 1309 -votata il 21 novembre scorso alla Camera da Pd, Iv, Azione, +Europa e destra- è in discussione, in questi giorni, alla commissione ambiente del Senato e dovrebbe essere votata in aula nelle prossime settimane. Si tratterebbe di un’”interpretazione autentica” delle principali leggi urbanistiche e, sostanzialmente, estende il modo di costruire usato a Milano negli ultimi dieci anni a tutto il Paese.

È stata chiamata “Salva-Milano” ed è la risposta politica alle indagini giudiziarie sull’urbanistica milanese. Nata come un condono per sanare le irregolarità del passato, il “Decreto del Fare” n. 69/2013 del governo Letta, è stata ora trasformata in provvedimento “di interpretazione autentica” che, se approvato definitivamente, imporrà come legge -in tutta Italia e per sempre- la pratica urbanistica seguita a Milano, annullando, in sostanza, le disposizioni che impongono la pianificazione attuativa delle città, a garanzia dei servizi dovuti a tutti i cittadini.

Una pratica, quella milanese, che, del resto, è già stata messa in atto in tutta la Calabria e, in particolare, a Cosenza dove si stanno demolendo piccoli e medi caseggiati per ricostruirvi, al loro posto, enormi e altissimi palazzi in aree già densamente urbanizzate e, spesso, di pregio storico e architettonico.

Questa proposta di legge cambierà radicalmente in peggio il futuro delle nostre città, rendendole sempre più cementificate e più diseguali. Toglierà ai Consigli comunali il potere di controllare che i costruttori e i fondi immobiliari facciano l’interesse pubblico e cioè realizzino, insieme ai nuovi palazzi, anche i necessari servizi per la città: edilizia sociale, parcheggi, marciapiedi, giardini, piste ciclabili, parchi, scuole, biblioteche et cetera.

Grazie a questa proposta di legge -come scrivono i 140 studiosi che hanno firmato una lettera-appello per fermarla- lo spazio urbano sarà occupato da edifici senza un disegno unitario, senza un piano, senza una visione di città, se non quella dei costruttori, degli speculatori edilizi e dei fondi immobiliari. Verrà ampliata a dismisura la categoria della ristrutturazione edilizia, nella quale rientreranno, a maggior ragione, le ri-costruzioni senza alcun rapporto formale e volumetrico con quanto demolito.

In tal modo le demolizioni/ricostruzioni avranno, rispetto alle costruzioni ex novo, oneri concessori molto ridotti perché eseguite in aree già urbanizzate e, di conseguenza, l’enorme risparmio dei costruttori si tradurrà in una drastica riduzione delle entrate e, quindi, delle disponibilità finanziarie dei Comuni per la realizzazione della parte pubblica delle città.

Se dovesse passare questa legge, l’ormai desemantizzata “rigenerazione urbana” si potrà praticare liberamente senza un piano e con oneri ridotti nelle aree già infrastrutturate mentre tutti i cittadini sanno quanto verde, quanti parcheggi, quanta edilizia sociale e quanti servizi come acqua e raccolta dei rifiuti scarseggino, proprio lì dove la città già esiste, soprattutto al Sud ed in Calabria.
La densificazione urbanistica, del resto, fa inevitabilmente salire la domanda di servizi per la cittadinanza e molte città, in particolare quelle meridionali, non se lo possono materialmente permettere già ora.

Questa legge, insomma, impedirà definitivamente, soprattutto nel Mezzogiorno, di promuovere politiche di vera rigenerazione e riqualificazione delle nostre città e delle periferie, ridurrà il verde e i servizi, innescherà dinamiche finanziarie che aumenteranno i prezzi dell’abitare e accresceranno le disuguaglianze nelle nostre città.

Questo provvedimento imporrebbe in tutta Italia un modello neoliberista che vede il pubblico cedere la pianificazione urbana al privato in un momento nel quale le città hanno un estremo bisogno di una strategia pubblica di governo per far riacquistare ai cittadini un indispensabile diritto alla città.

Altro che fusioni di città, bisognerebbe iniziare a fare piani urbanistici davvero a ‘cemento zero’, senza alcuna ‘perequazione urbanistica’, senza nessuna demolizione/ricostruzione con variazione di forme e aumenti di volumetrie, ma con la, vera, ristrutturazione degli antichi edifici dei Centri storici e degli edifici moderni in rovina o fuori norma. Il Consiglio comunale di Cosenza, per esempio, potrebbe fermare l’approvazione del Psc adottato dalla precedente amministrazione e provare a modificarne l’impianto adeguandosi, alla lettera, alle prescrizioni europee del ‘consumo di suolo zero’ e, magari, potrebbe provare ad armonizzarlo con quello, già esistente, di Castrolibero e, soprattutto, con un nuovo Psc che il prossimo Consiglio comunale di Rende appronterà e approverà, da qui a qualche mese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2024

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Una vittoria memorabile dei cittadini e una sconfitta storica per la classe dirigente di questa regione. È questo lo straordinario, letteralmente fuori dall’ordinario, risultato del referendum sull’unificazione di Cosenza, Rende e Castrolibero. L’unificazione promossa e sostenuta con entusiasmo da tutti i partiti, da Sinistra Italiana a Fratelli d’Italia, dagli imprenditori, dagli speculatori edilizi e, persino, da una parte dei sindacati è stata rigettata dai cittadini delle tre città.

Quei cittadini, alcuni dei quali riunitisi in Comitati spontanei, hanno respinto con forza, più del 58 % di NO, questa arrogante e, nei contenuti, irricevibile proposta di unificazione. A Cosenza, in particolare, due Comitati spontanei e autofinanziati –‘NO alla Fusione’ e ‘NO alla fusione. Per una Città Policentrica’, composti da non più di una quindicina di persone in tutto- sono stati capaci di persuadere il 30% dei votanti della città capoluogo a votare NO.

Quasi il 60% dei cittadini ha rifiutato questa proposta soprattutto perché l’unificazione aveva come unica ragione, falsamente di buon senso comune, che, essendo i territori comunali confinanti, la città unica esisteva già nelle cose e nella percezione delle persone.
Ogni città, invece, è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “interno”, la memoria culturale, e di uno “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i giardini, i palazzi, i viali alberati, i beni culturali.

Le città e i paesi italiani sono diversi gli uni dagli altri perché hanno forme, avvenimenti storici e sociali, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano, molto differenti fra loro (Settis). Cosenza, Rende e Castrolibero avevano ed hanno forme e storie diverse che non sono omologabili, così come non sono omologabili neanche i loro cittadini che, infatti, hanno nettamente rifiutato l’unificazione.

I ‘leader’ dei partiti che hanno promosso questa unificazione vanno dicendo, ora, che è stato solo il metodo -senza dubbio impositivo e arrogante- che ha spinto i cittadini a votare contro, ma lo fanno solo per nascondere l’intimo rifiuto che, invece, i loro stessi elettori hanno avuto a conformarsi al pensiero unico della presunta ‘convenienza ed attrattività’ economica e della falsa modernità incarnata dalla grandezza che si otterrebbe con un unico Comune. Dicono queste cose perché fanno finta di non capire che i cittadini hanno bocciato, per sempre, l’unificazione più che il metodo.

Questa, invece, è stata una vittoria sul luogo comune che vorrebbe che il successo di una città sia misurato dalla sua Bigness (Koolhass) e dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione. Una vittoria di coloro che pensano che il successo di una città dipenda, invece, dalla sua capacità di distribuire equamente al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini.

Un’unificazione che è stata bocciata dai cittadini perché avrebbe definitivamente condannato i territori delle loro città ad essere soltanto suolo da ridurre a merce, preda degli speculatori che, dopo aver cementificato quasi del tutto Cosenza, vogliono espandere la metastasi cementizia verso le colline più appetibili di Castrolibero e, soprattutto, verso la pianura di Rende.

Il Sindaco di Cosenza potrebbe cogliere l’occasione per provare, come indicatogli dal voto dei cittadini, a liberare il territorio del suo Comune dal giogo avvilente della speculazione edilizia e rivedere dalle fondamenta il Piano Strutturale Comunale –adottato, ma non approvato dall’allora sindaco Occhiuto- per farlo diventare strumento di progresso urbanistico, civile e sociale invece che approvarlo, ‘sic et simpliciter’, producendo solo mero sviluppo cementizio.

Mi permetto, sommessamente, di suggerire ai Commissari di Rende di non approvare il PSC della città che è l’atto più importante -dal punto di vista non solo urbanistico, ma anche economico, sociale e culturale- di qualunque Amministrazione comunale, ma di lasciarlo alla discussione e all’approvazione democratica del prossimo Consiglio comunale e del Sindaco che i cittadini vorranno eleggere, speriamo al più presto possibile.

Si potrebbe, ora, provare ad aprire, come suggerisce Sandro Principe, una fase di concertazione tra i Sindaci di Cosenza, Castrolibero ed i Comitati del NO per elaborare uno Statuto per l’Unione dei tre Comuni che è l’unico strumento idoneo per imboccare la strada indicata con chiarezza dal voto dei cittadini.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

Meloni taglia la torta: i Comuni ringraziano.-di Tonino Perna

La legge di bilancio comporterà nel triennio prossimo un taglio agli enti locali di 4 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi colpiranno i Comuni. Contemporaneamente nel prossimo triennio verranno meno i fondi del Pnrr, e si passerà alla fase di restituzione dei 90 miliardi prestati dalla Commissione europea all’Italia che vanno a sommarsi al già pesante debito pubblico.

Allo stesso tempo il quadro internazionale non promette niente di buono con una netta divisione del mercato mondiale in due blocchi sempre più in rotta di collisione. Insomma, è finito il tempo delle vacche grasse e sta per iniziare un lungo periodo di vacche magre. A farne le spese saranno innanzitutto i Comuni e chi li amministra che dovrà far fronte alle proteste dei cittadini che verranno penalizzati da questi tagli.

Il direttore Massimo Razzi in un suo recente editoriale aveva posto con chiarezza il nodo politico da affrontare domandandosi: chi vorrà fare il sindaco nel prossimo futuro? Anche il sottoscritto, scusate l’autocitazione, ha scritto un saggio “Le città ingovernabili” (Città del sole ed. 2016) partendo da alcuni casi concreti. Poi, la pandemia, che ha rilanciato il ruolo dei sindaci e messo in secondo piano il deficit comunale e le varie inefficienze, e successivamente il Pnrr che ha riempito il budget degli enti locali, hanno fatto dimenticare la crisi strutturale di molti enti locali soprattutto nel Mezzogiorno.

Si tratta, infatti, di una crisi strutturale che deriva da tre fattori. Il primo è legato ai debiti degli enti locali che sono cresciuti negli ultimi decenni in tutto il mondo (in Cina, per esempio, in maniera esponenziale). Il secondo ad una legge che impone il pareggio di bilancio in alcuni servizi (come la raccolta rifiuti) e costringe i Comuni in deficit a portare le imposte locali al massimo con gravi ripercussioni sui bilanci delle famiglie a reddito medio-basso.

Infine, la recessione economica che finora è stata occultata grazie a una pioggia di miliardi e che dal prossimo anno emergerà chiaramente mettendo in difficoltà famiglie e imprese. Sinergicamente questi tre fattori portano a un risentimento popolare, una rabbia che spesso si scarica sul primo cittadino, anche su chi ci mette l’anima per la propria città.

Se questi elementi accumunano diversi Paesi occidentali, e non solo, lo specifico del caso italiano è che abbiamo un debito pubblico pari a oltre il 140 per cento del Pil che comporta un esborso di quasi 100 miliardi l’anno per pagare gli interessi. Una cifra enorme di cui beneficia la rendita finanziaria e non gli investimenti, di cui hanno goduto finora i rentiers e le banche, ma che sta diventando insostenibile.

Da qui la necessità di ridurre il nostro debito pubblico, che non è un capriccio dei burocrati di Bruxelles ma una necessità se vogliamo trovare le risorse necessarie a mantenere il nostro welfare. Purtroppo, tutte le forze politiche hanno finora criticato l’austerity come una mannaia impostaci dai falchi di Bruxelles, mentre la vera domanda è: “quale austerità” praticare, chi deve pagare la riduzione del debito pubblico?

Con questa manovra finanziaria per il 2025 si potevano colpire gli extraprofitti delle banche (che arriveranno quest’anno a circa 20 miliardi), mentre il governo ha scelto di colpire le Università, la scuola e la sanità. Alle banche ha chiesto solo un timido anticipo su tasse future da pagare, in modo da poter dire alla popolazione, ignara di partite di giro, che anche le banche sono state colpite come nel programma del governo e uno dei cavalli di battaglia della Premier. Purtroppo, anche l’opposizione si limita a criticare questa linea di politica economica senza però indicare con coraggio chi dovrebbe essere tassato e chi dovrebbe avere dallo Stato maggiori sussidi, salari e benefici.

Pochi sanno che nei Paesi della Ue la spesa pubblica rappresenta tra il 45 e il 50 per cento del Pil determinando pesantemente nelle fasi recessive una ripartizione tra salari e profitti nella distribuzione del Reddito nazionale. Qualcuno potrebbe anche pensare che una linea di demarcazione tra Destra e Sinistra dovrebbe passare da una netta scelta nelle voci di spesa e entrata dello Stato, dove si capisce quali ceti e classi sociali si vogliono privilegiare o colpire. E magari la cosiddetta Sinistra potrebbe ricordarsi che era nata e fondata sul principio della giustizia sociale, e non solo quando si sta all’opposizione.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 ottobre 2024
Foto di xiaoou dong da Pixabay

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Altro che fusione, meglio tre città piccole e a misura d’uomo.-di Battista Sangineto

Le città sono la rappresentazione materiale dei più importanti conflitti politici, sociali, culturali ed economici del nostro tempo e l’unificazione dell’area urbana di Cosenza è, in Calabria, quella più importante e gravida di significati e interessi politici, economici e sociali.

Da qualche decennio accade che sull’idea di città in troppi si esprimano in libertà tanto da far diventare luogo comune l’idea che la grandezza, la ‘Bigness’ delle città, e delle loro più o meno sterminate periferie-‘sprawl’, garantirebbe alla nostra società, in un mondo di città sempre più grandi e globalizzate, prosperità e benessere. Secondo questa ricetta neoliberista l’agglomerazione urbana farebbe della dimensione in quanto tale (attraverso le economie di scala e gli effetti di rete) un fattore che innescherebbe di per sé il successo delle grandi città.

La grandezza delle città avrebbe il vantaggio di trasformare la dimensione stessa in un motore di creatività attraverso la competitività di produttività, di successo e, dunque, di felicità. La ‘Bigness’ e l’urbanizzazione delle campagne circostanti alle città, invece, non è altro che uno dei tanti modi che il neoliberismo ha trovato per estrarre più ricchezza dalle città sempre più grandi trasformando lo spazio in merce e aumentando, per mano della speculazione edilizia, la diseguaglianza sociale ed economica (Settis 2017).

Per mettere le mani sulla città gli speculatori e la politica si affidano agli urbanisti e all’urbanistica che era nata, come disciplina autonoma, durante la rivoluzione industriale con la vocazione di correggere lo sviluppo industriale e i danni causati dal capitalismo. A partire dagli anni ’80 essa ha perduto, però, la sua originaria vocazione riformatrice per diventare, con le sue competenze giuridiche e tecniche, un potente strumento nelle mani dei governanti, amministratori pubblici, immobiliaristi e, persino, finanzieri, per manipolare e condizionare lo sviluppo delle città e il governo del territorio nella direzione della speculazione, dello sviluppo edilizio infinito e incontrollato (Scandurra 2024).

Un sviluppo incontrollato che, per esempio, a Cosenza si manifesta con le demolizioni/ricostruzioni nella porzione nobile della città otto-novecentesca in Via Rivocati, Corso Umberto, via Parisio, (come denunciato dal Coordinamento ‘Diritto alla città’), ma ora anche l’ecomostro di lusso alto più di 15 piani con ben 19.000 mq. di estensione che vorrebbero costruire lungo via Popilia, mentre a Catanzaro è, persino, più evidente perché si vogliono demolire, addirittura, l’ex Convento della Maddalena (XVI sec.) nonché il Convento della Stella (XVI-XVII sec.) e l’ex Convento di S. Agostino (XVI sec.) per ricostruirli, tutti, sotto forma di residenze per militari e per altre destinazioni d’uso (come denunciato da un appello di Italia Nostra).

La questione dello sviluppo infinito non riguarda solo gli specialisti di sviluppo urbano, di geografia economica, di architettura e urbanistica, ma deve riguardare la politica, soprattutto quella di sinistra, perché riguarda l’interesse generale dei cittadini. In un recente studio multidisciplinare pubblicato sul prestigioso “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, alcuni studiosi europei sostengono che “il successo di una città non dovrebbe misurarsi dalla sua grandezza né dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione, ma piuttosto dalla sua capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (Engelen, Johal, Salento, Williams 2017).

E se la principale caratteristica di una città bella e buona consiste, come credo fermamente, nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi”, bisogna avere, come già proposto da molti urbanisti e studiosi della città negli anni ’70, città più a misura d’uomo, rifacendosi, per esempio, al modello delle piccole e medie città storiche italiane (La Cecla 2015).

Non capisco, dunque, perché la sinistra politica– o quel che ne rimane a Cosenza, Rende e Castrolibero- non si opponga fermamente alla città unica che si presenta come un’annessione di Rende e Castrolibero alla città capoluogo, configurandosi come un’altra, inutile e ingovernabile, “nebulosa urbana” pensata per ridurre ancor di più lo spazio a merce.

Un’annessione, come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto, che costringerebbe, peraltro, i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini: 1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione 2) il referendum ‘decisivo’ non può avvenire prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala -per altri sei mesi, in tutto due lunghissimi anni- renderebbe l’espressione del voto dei suoi cittadini democraticamente più debole.

Per quel che riguarda il potere esercitato dai tre commissari insediatisi nella Casa comunale di Rende si deve lamentare un abbassamento della tensione democratica perché essi non hanno voluto, in nessun modo, tener conto delle molte, e differenti, istanze avanzate dai cittadini e dalle loro associazioni riguardo ad argomenti importanti quali: la radicale decimazione del verde pubblico, la complessiva riduzione dell’illuminazione delle strade, l’insostenibilità delle piste ciclabili sempre deserte, l’affidamento di beni pubblici come parchi, impianti sportivi o mercatali a privati a titolo gratuito o a prezzi risibili, il disturbo della quiete pubblica provocato da circhi con animali esotici e assordanti luna park nel pieno centro della città, nonché la musica ad altissimo volume proveniente da locali e da sedicenti feste durante 3 settimane in un parco pubblico, addirittura patrocinate dai commissari medesimi, la mancata disinfestazione cittadina mentre si diffonde, in provincia di Cosenza, il contagio del virus West Nile, trasmesso dalle zanzare.

Non sarebbe meglio, forse, continuare ad avere, nell’area urbana cosentina, tre città, due medio-piccole ed una piccola, per poter governare meglio ambiti territoriali a misura d’uomo e a misura delle limitate capacità di governo dimostrate (se si escludono poche lodevoli eccezioni) dalle Amministrazioni comunali? Non sarebbe, forse, meglio avere tre piccole città che facciano insieme scelte e infrastrutture urbanistiche ed abbiano, questo sì, i servizi essenziali unificati: trasporti, spazzatura, mense e viabilità?

Un’opposizione di merito, la mia, dunque e non, come giustamente lamenta il mio amico Enzo Paolini riguardo a quasi tutte quelle fin qui avanzate, di bassa cucina da ‘politique politicienne’.

Il modello al quale bisognerebbe ispirarsi è proprio quello della piccola e media città storica italiana, quella nella quale si va a piedi, si può andare in bicicletta in un reticolo urbano denso e pluristratificato dal punto di vista funzionale, sociale ed economico, con una corposa densità abitativa ed una armoniosa compattezza architettonica che permette tragitti brevi ed elevata funzionalità sociale.

Un modello che non è solo architettonico e urbanistico, ma che rappresenta anche l’unica possibilità di restituire a tutti il ‘diritto alla città’ perché per i cittadini la priorità non è che la loro città diventi più competitiva e più di successo di altre, ma che sia un luogo nel quale la vita quotidiana sia più gradevole e più equa per coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 ottobre 2024

Foto di ZENON JUSZKIEWICZ da Pixabay

Autonomia differenziata, l’autocritica mancata di Bonaccini. – di Francesco Pallante

Autonomia differenziata, l’autocritica mancata di Bonaccini. – di Francesco Pallante

Tra le fake news che – come denunciato da Massimo Villone sul manifesto – circolano in tema di autonomia differenziata, assai radicata è quella secondo cui la posizione dell’Emilia-Romagna sarebbe qualitativamente diversa da quella del Veneto e della Lombardia.

È la tesi sostenuta dal presidente regionale uscente, Stefano Bonaccini in molteplici occasioni, l’ultima delle quali in una recente intervista a Repubblica, in cui formula due argomentazioni: che la decisione emiliano-romagnola di unirsi al Veneto e alla Lombardia è stata «condivisa con tutte le parti sociali e senza mai un voto contrario in consiglio regionale» e che «la richiesta dell’Emilia-Romagna riguardava solo alcune delle 23 materie potenzialmente previste, soprattutto limitate e specifiche funzioni all’interno di queste».

LA PRIMA ARGOMENTAZIONE è, tecnicamente, una chiamata di correi (politici): mira a ricordare che le associazioni, i sindacati e tutte le forze politiche a sinistra e a destra del Pd (incluso il M5S, ovunque lo si voglia collocare) hanno sostenuto la decisione emiliano-romagnola di imboccare la via dell’autonomia differenziata. In questo, Bonaccini ha le sue ragioni: se è vero che la forma di governo regionale iper-presidenzialista assegna al presidente un peso preponderante, è altresì vero che nessuno tra coloro che operavano attorno a lui – nemmeno l’ex vice-presidente dal 2020 della regione, Elly Schlein – ha provato a fare da contrappeso. Non è vero, però, che questo schieramento unanime sia una peculiarità emiliano-romagnola, dal momento che, sia pure a parti inverse, esattamente lo stesso è accaduto ai referendum consultivi tenutisi nel 2017 in Veneto e in Lombardia (sebbene, in quest’ultima regione, con qualche indecisione da parte delle forze di centrosinistra).

Quanto alla seconda argomentazione, occorre ricordare che la gran parte delle richieste delle tre regioni copre, in modo identico, i medesimi ambiti: il Veneto chiede tutte e ventitré le materie in astratto richiedibili, la Lombardia ne chiede venti e l’Emilia-Romagna sedici. Al di là delle materie, è corretto, come dice Bonaccini, guardare alle funzioni in cui ogni singola materia si articola. Chi lo facesse scoprirebbe, però, una realtà diversa da quella edulcorata dal neoparlamentare europeo. Se una differenza d’approccio connota la posizione dell’Emilia-Romagna è, infatti, la propensione ad avanzare richieste forse meno estese, ma all’atto pratico non di rado persino più incisive rispetto a quelle delle regioni a guida leghista.

PARTICOLARMENTE RILEVANTI sono i casi dei musei (che la regione vorrebbe vedere tutti, inclusi quelli statali, acquisiti al proprio governo), del governo del sistema dei trasporti (che include tutte le reti viarie e ferroviarie), dell’ambiente e del territorio (ambiti in cui le richieste regionali mirano alla facoltà di agire in deroga alla normativa statale in modo da allentare gli attuali vincoli di tutela) e degli enti locali (rispetto ai quali l’Emilia-Romagna rivela una spiccata volontà di centralismo regionale).

Il caso forse più eclatante è però quello dell’istruzione, in cui la regione a guida Pd mira a dar vita a un sistema scolastico regionale parallelo a quello statale, da porre in concorrenza con quest’ultimo in modo che le famiglie scelgano se iscrivere i figli a frequentare l’uno o l’altro. Merita ricordare le parole usate nella bozza d’intesa Stato-regione trapelata nel maggio 2019, secondo cui l’obiettivo è «garantire in ambito regionale la realizzazione di un sistema unitario e integrato di istruzione secondaria di secondo ciclo e di istruzione e formazione professionale (Iefp) che, nel rispetto delle autonomie scolastiche, permetta di sviluppare le competenze dei giovani in coerenza con le opportunità occupazionali del territorio e con le professionalità richieste dalle imprese, assicurando il diritto effettivo dei giovani di scegliere se assolvere il diritto-dovere all’istruzione e formazione nel “sistema di istruzione”, di competenza statale o nel “sistema di istruzione e formazione professionale” di competenza regionale».

In tal modo, il più importante strumento di costruzione dello spazio simbolico di appartenenza collettiva, la scuola, passerebbe al controllo regionale: difficile non cogliere le conseguenze negative che ne deriverebbero per la tenuta del sentimento di solidarietà – politica, economica e sociale – nazionale sancito, come dovere inderogabile, dall’articolo 2 della Costituzione.

Insomma: se tra il regionalismo differenziato di Veneto e Lombardia, da una parte, ed Emilia-Romagna, dall’altra, vi è una qualche (modesta) differenza quantitativa, dal punto di vista qualitativo è difficile cogliere uno scarto davvero significativo.

da “il Manifesto” del 26 giugno 2024

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