Il coordinamento “Diritto alla Città” (un insieme di associazioni cosentine, di cittadini, di soggetti formali ed informali) rivendica da tempo il diritto di contribuire alle decisioni riguardanti la città e il quartiere in cui vivono per salvaguardare il patrimonio territoriale inteso come bene comune, e più volte hanno espresso una domanda di nuove forme di democrazia partecipativa.
Soprattutto ha denunciato con forza i rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta su Cosenza negli ultimi anni e anche più recentemente: demolizione di edifici storici come quello primo-novecentesco di piazza Santa Teresa, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati ecc., inutili per la collettività. L’edificazione sulle rive del Crati sarà, a termine di legge, oggetto delle nostre osservazioni al vincolo paesaggistico della Soprintendenza che riteniamo, come avevamo già proposto, debba essere esteso ad entrambe le rive del fiume suddetto.
Decisioni di politiche urbanistiche di piccolo cabotaggio, meramente distruttive, avvolte da una inestricabile ragnatela di omissioni, sparizioni di atti, rimandi a presunte altre responsabilità, sempre eterodirette, comunque prese dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute, costituenti in ogni caso il prodotto di logiche di sviluppo cittadino fondate sulla produzione di profitto, sul calcolo utilitaristico, di interessi privatissimi e inconfessabili, sulla mancanza di qualsiasi idea di comunità locale.
Prendiamo il caso del nuovo PSC – Piano Strutturale Comunale, peraltro parzialmente pubblicato solo dopo nostre formali richieste, che, nonostante alcuni buoni propositi, appare in realtà il contenitore della precedente Amministrazione contenente i vecchi progetti che erano molto diversi tra loro (aumenti di volumetria e consumo di suolo, ristrutturazione di edifici e piazze, arredi urbani, i soliti e ormai irrispettosi murales sulle case popolari) e elaborati secondo una concezione che vede la nostra città solo come fonte di rendita e profitto dimenticandosi che Cosenza è un luogo abitato da uomini e donne, espressione di bisogni e relazioni.
Ci sarebbero oggi tutti gli elementi- politici, culturali, di innovazione economica, di composizione sociale (la città negli ultimi 10 anni è totalmente cambiata) per dare il via ad un’ampia e pubblica discussione tra cittadini, associazioni e istituzioni su come vivere tutti meglio a Cosenza. Avviare i laboratori di quartiere (come formalmente da noi chiesto e come obbligatorio per legge) sarebbe un guadagno per tutti: incontro tra le forme autonome di autorganizzazione dei cittadini e le esigenze dell’amministrazione, spostamenti in basso dei poteri e dei processi decisionali (è o non è una giunta di centrosinistra?), favorire l’affermarsi di un’idea di una città che abbia in mente la cura e la crescita di tutta la comunità locale e non solo dei soggetti economici privati.
Il Sindaco, invece, ha scelto la strada del rifiuto del dialogo: è chiaro che il modello Caruso, nonostante il suo programma elettorale, è quello secondo cui i politici decidono e i cittadini tacciono. Ne è riprova il fatto che pur essendo scaduto il termine previsto dalla legge, nessuna risposta ci è pervenuta alla nostra richiesta di accesso agli atti relativa all’abbattimento di un edificio su Corso Umberto (ma poi, se questa ennesima per noi scriteriata edificazione in atto ha le carte in regola perché, allora, non concedere l’accesso agli atti, peraltro non negabile per legge. Forse perché non segue, davvero, nemmeno i criteri di legge oltre che quelli del buon senso e del rispetto della collettività?).
Eppure eravamo stati lieti delle dichiarazioni dell’assessore Incarnato di impedire la costruzione di nuovi ecomostri anche alla luce dell’apposizione del vincolo paesaggistico e alla dichiarazione di “notevole interesse pubblico” dell’area 8/900esca cosentina fortemente perseguito nei mesi scorsi dal Coordinamento, e di avviare un percorso di confronto e di interlocuzione con le Soprintendenze e gli Ordini degli Architetti e degli Ingegneri. Ma evidentemente vale il detto “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. D’altra parte una piccola e civile richiesta di accesso civico, che in qualsiasi altra città del mondo occidentale sarebbe stata prontamente evasa, alle nostre latitudini diventa l’ennesimo episodio di scostumatezza civica, di arroganza e mal governo.
È quasi certo che il PSC alla fine sarà ratificato secondo quanto pattuito fra poteri forti e che su Corso Umberto sorgerà l’ennesimo ecomostro. Ciononostante chiediamo ancora e con più forza l’istituzione dei laboratori di quartiere e chiediamo all’assessore Incarnato e al Sindaco di includere nel costituendo tavolo tecnico-istituzionale anche la parte sociale (nello specifico il Coordinamento): riqualificare fisicamente il quartiere senza mettere in campo azioni interdisciplinari e senza coinvolgere gli abitanti sarebbe, con tutta evidenza, un’ipocrisia.
Questo modello, deliberare senza ascoltare, consultare e, tantomeno, conoscere, sopprimere le legittime istanze delle associazioni culturali dei cittadini, non ci piace perché non è democratico.
Per ultimo: non sempre chi vince ha ragione e soprattutto non sarà la mancata risposta ad una più che legittima richiesta di accesso agli atti a far cambiare le nostre idee e fermare le nostre azioni. Siamo più che convinti che un’altra città, un altro modo di stare insieme è possibile, e sappiamo che bisogna costruirlo giorno dopo giorno, nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nelle case delle culture, nelle ludoteche, nelle città dei ragazzi, dal basso. Offriamo collaborazione: fare e agire insieme e tramite ciò realizzare una città migliore per sé e per gli altri, un modo per affermare il sacrosanto diritto dei cosentini alla partecipazione attiva alla vita cittadina, al rispetto delle regole, alla bellezza e alla felicità.
Chiudiamo intanto con qualche domanda diretta al Sindaco Caruso e all’assessore Incarnato:
– come mai non avete istituito i laboratori di quartiere malgrado sia obbligatorio per legge e malgrado ve lo abbiamo chiesto formalmente già da circa 4 mesi?
– come mai non consentite l’accesso agli atti per un semplice titolo edilizio di una palazzina realizzata da un privato che utilizza fondi pubblici?
– come mai vi preoccupate di assegnare incarichi retribuiti per studiare come riqualificare il centro storico e ignorate la presenza delle associazioni di quartiere che offrono collaborazione senza aggravio di costi per il Comune?
Cosenza, 25 luglio 2024 Coordinamento ‘Diritto alla città’
Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’
Una nuova violenza alla qualità della vita della nostra città si sta consumando in questi giorni, in queste ore. È infatti in corso l’abbattimento di un edificio su Corso Umberto nel quartiere storico Riforma – Rivocati (il caso vuole iniziato nella distrazione generale di un fine settimana) probabilmente per fare posto ad un altro ecomostro, come i due già esistenti, in sfregio a qualsiasi idea urbanistica e a qualsiasi senso del decoro e della bellezza.
Per avere notizie sulle procedure che hanno portato all’abbattimento dell’edificio, abbiamo già inviato una richiesta di accesso agli atti alle autorità competenti e ci auguriamo che siano accertate regolarità, trasparenza e legittimità. Su quanto invece dovrà sorgere vogliamo esercitare tutto il nostro potere di cittadini e abitanti preoccupati: visti i precedenti, come sarà riempito quel vuoto?
Chiediamo alla politica, alle associazioni che hanno ottenuto importanti e legittimi finanziamenti per la rigenerazione del quartiere, in particolare al nostro Sindaco che recentemente ha dichiarato che “sta prendendo forma la città bella e armonica che ho promesso” di farci capire, di prendere posizione, di mettere in campo tutte le azioni a tutela dalla collettività, compresa la richiesta di parere alla Soprintendenza, affinché non venga realizzato un altro ecomostro come quelli già esistenti nell’area ma edifici che rispettino le leggi cogenti in materia di urbanistica, sicurezza e efficientamento energetico.
E chiediamo pure al presidente dell’ANCE (associazione costruttori) di Cosenza di responsabilizzare tutti gli attori della filiera edilizia per preservare il tessuto urbano ereditato e veicolare il concetto che fare profitto in edilizia si concilia soltanto con il massimo sforzo in termini di qualità del costruito, generando pure benessere per tutti, piuttosto che realizzando palazzoni deformi e totalmente decontestualizzati.
Allo stesso modo invitiamo i presidenti degli Ordini Provinciali degli Ingegneri e degli Architetti di Cosenza a far rispettare i principi cardine dei rispettivi Codici Deontologici che prevedono doveri e responsabilità (di ingegneri, architetti, paesaggisti) nei confronti della collettività, dell’ambiente e del benessere delle persone.
Vogliamo evidenziare l’importanza della qualità architettonica e dell’inserimento del nuovo nel contesto del paesaggio urbano, aspetto, questo, decisamente trascurato nei due casi di edifici abnormi di recente costruzione, e ciò malgrado siano sorti in un’area di valenza storica largamente riconosciuta, non a caso oggetto di recente approvazione del vincolo paesaggistico.
Il Coordinamento Diritto alla Città rivendica l’adozione di ogni provvedimento di legge finalizzato alla massima tutela della qualità del costruito da parte degli Enti preposti, ricordando che ogni nuovo ecomostro deturpa per sempre la città. Siamo ancora in tempo per arrestare l’ennesimo obbrobrio, è il momento di dire basta agli ecomostri a Cosenza.
Comunicato stampa del
COORDINAMENTO ‘DIRITTO ALLA CITTA’
AUSER TERRITORIALE COSENZA ETS
CIROMA
CIVICA AMICA APS
CONFEDERAZIONE ITALIANA GENERALE LAVORATORI (CGIL) di COSENZA
LA BASE
PRENDOCASA
RI-FORMAP APS
RIFORMA – RIVOCATI APS
UNIONE SINDACALE di BASE (USB) FEDERAZIONE di COSENZA
Cosenza unica? Prima va armonizzata.-di Battista Sangineto
L’editoriale di Massimo Razzi ha avuto il merito di aprire un dibattito sull’unificazione dell’area urbana di Cosenza e sul consenso e sulle criticità che questa operazione comporta, interpretando il suo ruolo di direttore di un giornale regionale nel modo più alto ed esemplare.
Voglio dir subito che le supposte economie di scala e i presunti maggiori finanziamenti che si otterrebbero unificando, solo quantitativamente, i tre o quattro Comuni in una città più grande e popolosa non credo che siano davvero decisivi, ammesso che si concretizzino davvero. Quel che più mi preme è capire se la costituzione di una città unica della Media Valle del Crati possa migliorare lo spazio e la vita dei cittadini che vi abitano.
Credo che non sia possibile progettare l’unificazione -né da un punto di vista urbanistico, né da un punto di vista sociale, economico e culturale-prescindendo da una visione più ampia di quella che si può avere dai singoli campanili. La città dovrebbe esser governata avendo un’idea complessiva di tutta la Media Valle del Crati, di come possa armonicamente svilupparsi, di quali interventi strutturali ed infrastrutturali abbisogna e di quali improrogabili ricuciture e restauri necessiti questo vasto territorio.
L’unificazione, senza un’opera preventiva di armonizzazione e risanamento del paesaggio urbano, servirebbe solo ad aumentare quantitativamente quello che Rem Koohlaas (2001) definisce lo spazio-spazzatura, lo junkspace inutilizzabile dai cittadini, ma, con il tempo, eventualmente edificabile.
Non è discutibile che il centro di questo territorio sia la città di Cosenza perché senza di essa non sarebbe stato storicamente possibile che si sviluppassero gli altri paesi e casali. È evidente che non può che essere Cosenza il centro della conurbazione e che quest’ultima debba chiamarsi nello stesso modo. Cosenza ha, del resto, una antica storia di primazia perché, dal IV fino al II secolo a.C., è stata la capitale di questa parte del territorio dei “Brettii” e, più tardi, come colonia augustea e ‘municipium’ è stata il centro dell’”ager Consentinus”, esteso lungo la media valle del Crati.
Cosenza ha continuato, poi, ad essere non solo la capitale della Calabria Citeriore fino “aujord’hui”, essendo stata la città dell’Accademia cosentina e di Telesio, ma, in particolar modo, una città non infeudata e, quindi, a differenza di molte altre città meridionali, formalmente autonoma e indipendente.
La città è cresciuta, soprattutto nel secondo dopoguerra, per mezzo di apporti di popolazioni provenienti da tutta la provincia. Prendendo in considerazione tutta l’area urbana si è passati, grossomodo, da 40.000 a 110.000-130.000 abitanti in pochi decenni. I cosentini da più di tre generazioni sono, ormai, una esigua minoranza.
Chi scrive è l’esempio archetipico dell’abitante dell’area urbana: nato a Cosenza da un padre sanlucidano e una madre fuscaldese e, appena sposato, andato a risiedere in uno dei quartieri nuovi di Rende. Quando mi si chiede di dove sono rispondo, senza esitazione, che sono cosentino così come la maggior parte dei miei amici e conoscenti che ha, più o meno, la mia stessa storia. I quartieri nuovi di Rende, Castrolibero e, ora, anche Montalto sono abitati da vecchi cosentini, da neo-cosentini e da mai-cosentini che sarebbero diventati neo-cosentini se avessero trovato casa nel territorio del Comune capoluogo.
È del tutto evidente che il repentino, tumultuoso e disordinato inurbamento ha creato, e crea, notevoli difficoltà identitarie ai cittadini vecchi e nuovi, ma soprattutto ai mai-cosentini. L’unificazione formale dell’area urbana accompagnata da una radicale riprogettazione urbanistica condivisa con i cittadini potrebbe dare, forse, la possibilità che si formi un’identità riconosciuta e riconoscibile per i tanti cittadini che abitano in questo ampio territorio.
La città che vorrei dovrebbe essere costituita da un’area urbana che avesse come centro direzionale, culturale ed identitario Cosenza con il suo Centro storico restaurato e rivitalizzato, il suo Teatro, i suoi Musei, le sue biblioteche, i suoi antichi palazzi, i suoi uffici, le sue vie di negozi, le sue piazze antiche e moderne rivitalizzate.
Vorrei anche che- così come il Centro storico e le colline intorno alla città- tutta l’area otto-novecentesca di Cosenza sia sottoposta a tutela paesaggistica dal Ministero della Cultura e che lo siano pure le due rive del Crati, in tutto il suo percorso urbano, per impedire che si continui a consumare suolo. Sarebbe, inoltre, necessario che scompaiano le ‘perequazioni edilizie’ favorite dall’adottato, ma non ancora approvato, Psc che furbescamente si sostiene essere a “consumo di suolo zero”.
L’area urbana di Cosenza ha già, è vero, nel proprio territorio una città urbanisticamente ben disegnata come quella di Rende Nuova, verdeggiante d’alberi, con i suoi palazzi residenziali e i relativi servizi. Una città che contiene anche un polo propulsivo e innovativo rappresentato dall’Università, ma anche da aziende a tecnologia avanzata, magari spin-off dell’Unical che si sono insediate e che possono insediarsi nella sua zona industriale. Una città che, negli ultimi anni, ha subìto un evidente depauperamento del verde, si pensi ai tagli delle decine e decine di alberi ad alto fusto sani lungo le strade cittadine, e una preoccupante crescita del cemento armato che stava per essere aumentata dal nuovo Psc.
Per realizzare compiutamente ed armonicamente quest’area urbana, però, ci sarebbe bisogno, come “conditio sine qua non”, di porre termine alla colata cementizia che ha inghiottito l’antica campagna ovunque: nei territori di Cosenza, di Rende, di Castrolibero, di Montalto risalendo ad est fino alle pendici della Sila, Rovito, Celico, a sud fino a Donnici, ad Ovest fino a S. Fili.
Una metastasi cementizia che ha lasciato dietro di sé, oltre che una edilizia perlopiù corriva e dimenticabile, una sparsa moltitudine di segmenti residuali che non sono adatti né per l’agricoltura, né per abitarvi, una cementificazione che ha prodotto una terra di nessuno, il “terzo paesaggio” evocato da Gilles Clement (2005). Si poteva realizzare, come ha teorizzato Rem Koolhaas (2020) per l’Olanda, un “intermedi-stan” o terra intermedia, possibilmente alberata, e contemporaneamente provare a fare una paziente e laboriosa opera di rattoppo fra le città e le periferie, le città e le campagne.
Ho già scritto su questo giornale che, secondo gli ultimi dati Istat (2023), la Calabria ha il 42,2% di case vuote e che la cosiddetta area urbana cosentina ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza il 20,7%, Rende il 17%, Montalto Uffugo il 14,4%. In questa area urbana, dunque, se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero ci sono 14.262 abitazioni vuote.
Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole -grazie ai PSC (ora si chiamano così i Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende- colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?
L’unificazione di questa area urbana così complessa, frammentata e diseguale da un punto di vista urbanistico, sociale ed economico non può esser fatta, ‘ex abrupto’, per legge, ma dovrebbe essere l’esito finale, di un processo lungo, laborioso e faticoso di armonizzazione frutto, anche, di un raccordo fra tutela paesaggistica e Psc municipali.
Sarebbe meglio che l’unificazione iniziasse, per esempio, con l’Unione dei Comuni sperimentando la gestione unica dei servizi più importanti: i trasporti, la viabilità, i rifiuti, il welfare e la scuola. Si deve, inoltre, tener conto dell’equilibrio finanziario fra i Comuni interessati perché se sappiamo che Rende ha un patrimonio di oltre 250 milioni a fronte di circa 40 di debiti, non sappiamo, invece, a quanto ammonta il patrimonio di Cosenza che ha circa 400 milioni di debiti.
Una fusione come quella che vorrebbe il presidente Occhiuto costringerebbe i cittadini di Rende e Castrolibero a pagare, oltre che per i propri, anche per gli enormi debiti fatti dalle Amministrazioni di Cosenza. Ci sono, per di più, almeno due fondamentali questioni che riguardano l’esercizio democratico dei diritti da parte dei cittadini:
1) il referendum non può essere né consultivo, né complessivo, ma deve essere ‘decisivo’ e valevole per ogni singolo comune i cui cittadini devono avere il diritto di manifestare, a maggioranza, la propria volontà di aderire o meno all’unificazione
2) l’unificazione non può avvenire prima della scadenza del mandato, prefettizio e quindi governativo, dei commissari e prima delle nuove elezioni comunali a Rende perché la condizione di una comunità politicamente acefala renderebbe l’espressione del voto dei cittadini rendesi democraticamente più debole.
Sono i cittadini che devono essere al centro della progettazione della città, sono i cittadini che devono riappropriarsi del diritto alla città (Lefebvre 1968 e Harvey 2012). Il diritto di ripensare la città risponde alla sfida più radicale e democratica: rilanciare la centralità del cittadino assicurando alle nuove generazioni dignità sociale e pieno sviluppo della persona (Settis 2014).
da “il Quotidiano del Sud” del 13 maggio 2024
Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna
In tutta Italia sta emergendo una critica incessante e capillare alla diffusione delle energie rinnovabili, in particolare rispetto al solare e all’eolico. Paradossalmente, questa critica proviene in questo momento storico proprio da una parte significativa del mondo ambientalista. È come se persone impegnate da tanti anni in difesa dell’ambiente avessero dimenticato che dobbiamo uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili che ancora rappresentano nel nostro Paese oltre la metà della produzione di energia, pari al 56 per cento del totale dell’energia prodotta.
Certo, l’Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni nel campo delle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolico. Ma, dobbiamo ancora avanzare nella sostituzione dei combustibili fossili, che vergognosamente ricevono notevoli contributi pubblici, anche per gli impegni presi a livello internazionale ed europeo.
Le critiche mosse da una parte del movimento ambientalista, da alcuni noti intellettuali, hanno un fondamento che non va sottovalutato. Questa crescita degli impianti eolici e solari è avvenuta molte volte senza un criterio, sfruttando incentivi e la mancanza di una pianificazione territoriale. Importanti estensioni di terreno sono state sottratte all’agricoltura per essere utilizzate da una miriade di pannelli solari.
Così come impianti eolici in località che hanno una particolare valenza paesaggistica sono stati installati senza tenerne conto. Va detto con chiarezza: non bisogna fermare la crescita degli impianti solari ed eolici, ma bisogna che questo sviluppo avvenga all’interno di una pianificazione sul piano regionale. I pannelli solari vanno messi sugli edifici, ad iniziare da quelli pubblici (scuole, ospedali, ecc.) e vanno collegati (questo è uno scandalo di cui poco si parla, frutto della sciatteria di alcuni enti locali, e di cui potrei fornire un vergognoso elenco).
Gli impianti eolici vanno impiantati dopo uno studio attento e possibilmente, là dove ci sono le condizioni, vanno messi off shore. Chi scrive, in qualità di presidente del Parco Nazionale Aspromonte promosse il primo parco eolico in Italia all’interno di una area protetta, dopo aver avuto il supporto delle principali associazioni ambientaliste, infischiandosene dei soliti Sgarbi, Ripa di Meana e compagnia blasé che nelle pale eoliche avevano visto i mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia.
Infine, vanno moltiplicate le iniziative che vanno nella direzione del risparmio e della gestione migliore dell’energia da fonti rinnovabili come avviene con le “Comunità energetiche”, che andrebbero promosse dovunque come giustamente affermava su questo giornale l’ingegnere Piero Polimeri qualche giorno fa.
E veniamo al dibattito che si è sviluppato in Calabria nell’ultimo anno. Diversi interventi critici sull’avanzata degli impianti solari ed eolici hanno sottolineato il fatto che la Calabria consuma meno energia di quella che produce, e quindi non avrebbe senso continuare a installare impianti per le rinnovabili. Intanto va subito chiarito che questo surplus energetico è dovuto alla presenza della centrale termoelettrica di Rossano, senza la quale dovremmo importare energia dalle altre regioni.
Pertanto, se vogliamo essere veramente indipendenti dal petrolio dobbiamo aumentare la produzione di energia rinnovabile. Ma, soprattutto, ragionare in questo modo fa il paio con chi sostiene l’autonomia differenziata, ovvero guardare al proprio territorio fregandosene del contesto nazionale. Il Mezzogiorno nel suo complesso produce oggi oltre il 90% dell’energia eolica che viene messa in rete e intorno al 45% dell’energia solare. In una logica di autonomia differenziata si dovrebbe dire basta: non mettiamo più pale eoliche nel territorio meridionale.
Se invece superiamo la logica dell’egoismo territorialista allora possiamo far pesare questo grande contributo alla transizione green che sta dando il nostro Sud, rivendicando una logica nazionale anche per la sanità, la scuola, ecc. O siamo un Paese con obiettivi condivisi e camminiamo nella stessa direzione dando a tutti i cittadini gli stessi diritti fondamentali o ritorniamo agli statarelli già condannati dal “grande fiorentino”: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.
da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2024
Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto
Un vero e proprio giallo, un ‘cold case’ il libro che ha scritto Gino Famiglietti sull’ormai famosa ‘scure letterata’ del VI secolo a.C. di San Sosti (CS), per le edizioni Scienze e Lettere.
Un giallo che, come molti fra quelli contemporanei, alterna i capitoli delle vicende del ritrovamento e dello studio della scure bronzea nel XIX secolo ai capitoli con la storia dei tentativi di farsela restituire dal British Museum dove andò a finire, a partire dalla fine del XX secolo.
Un giallo costruito à la manière de Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto” e, più recentemente, di Camilleri ne “La concessione del telefono”, con tanto di documenti, carte bollate, decreti legislativi, ministri più o meno sempiterni e parlamentari, dirigenti e funzionari ministeriali prima borbonici, poi dell’Italia unita e, infine, della Repubblica, affascinanti mercanti d’arte, gentlemen inglesi e del Grand Tour e Musei d’oltremanica, archeologi non troppo fedeli alla tutela del Patrimonio e altri inflessibili difensori. E non mancano sindaci, dotti aristocratici, canonici, studiosi locali o ricchi possidenti che collezionano monete e oggetti antichi pur non sapendone un “frullo” a partire dalla metà dell’800 fino aujourd’hui.
Il caso si apre, come spesso accade nei gialli ben costruiti, con il ritrovamento fortuito, nel 1846, in una località piuttosto impervia e di considerevole altitudine, Casalini della Porta della Serra di San Sosti di una scure-martello in bronzo che reca incisa su una delle facce un’epigrafe redatta in dialetto dorico ed in alfabeto acheo, databile al VI secolo a.C. più esattamente fra la metà e la fine del VI a.C. Il sito del rinvenimento, secondo il canonico Leopoldo Pagano che nel 1857 ne scrive in un opuscoletto, è un’area disabitata e piena di ruderi, forse destinata ad usi civici, a 3 miglia dalla località S. Agata, nei Casalini della Porta della montagna della Serra di fronte al santuario del Pettoruto.
L’iscrizione dedicatoria viene tradotta, nel 1969, dalla grande epigrafista Margherita Guarducci in questo modo: “Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kyniskòs mi dedicò, lo àrtamos (secondo Giovanni Pugliese Carratelli il vittimario), come decima (tributo) dei (suoi) lavori”. Un’iscrizione interessante sia per la forma letteraria dell’iscrizione che fa propendere per una provenienza sibarita dell’oggetto sia per quel che dice, perché indica chiaramente la presenza di un tempio dedicato ad Hera in una pianura, probabilmente un luogo pianeggiante, finora non individuato precisamente neanche dalle ricerche archeologiche più recenti, della Valle del Crati.
Le ultime ricerche archeologiche pubblicate da Domenico Marino e Carmelo Colelli indicano come tutta l’area fosse profondamente antropizzata a partire da epoca protostorica e lo è stata fino alla fine dell’antichità come dimostrano gli scavi stratigrafici condotti nel Centro storico di San Sosti (chiesa del Carmine e Castello della Rocca) e ai Casalini dai quali proviene l’ascia. La presenza di edifici databili fra l’VIII ed il V secolo a.C. e, soprattutto l’ascia, provano la grande espansione e la forte influenza di Sibari su questo territorio che è, in sostanza, il corridoio naturale verso il Tirreno, vitale per la colonia greca. Riguardo all’ubicazione del tempio di Hera in pianura citato nell’iscrizione si ipotizza un’ubicazione sulla riva sinistra del torrente Rosa lungo la quale si trovano tracce consistenti di piccoli luoghi di culto databili fra il VI, appunto, ed il III secolo a.C.
Il certosino lavoro d’archivio di Famiglietti ricostruisce -grazie alla esemplare contestualizzazione storica, politica, culturale e sociale dei documenti- la vicenda del ritrovamento, dello studio preliminare dell’ascia e del suo arrivo a Napoli e a Roma, prima, e della sua esportazione all’estero, poi.
S’inizia con una lettera, finora inedita, del 1852 che l’aristocratico studioso vibonese – anzi monteleonese- Vito Capialbi invia al suo amico Giulio Minervini, eminente antichista, soprattutto epigrafista, napoletano informandolo del ritrovamento dell’ascia. È il primo documento, forse con un disegno del reperto, in cui si nomina e si descrive minutamente la scure che pesa un rotolo (890 gr. ca.) così come viene riferito a Capialbi da un corrispondente del luogo che lui stesso dice non essere molto esperto.
Capialbi e Minervini sono legati da una serie di conoscenze comuni e dall’essere entrambi soci della ‘Reale Accademia Ercolanense’, una Istituzione fondata da Carlo di Borbone che avrà un ruolo decisivo nell’applicazione dei successivi reali decreti borbonici di Ferdinando che il 14 maggio del 1822 -subito dopo la Restaurazione imposta con il Congresso di Vienna- dotò il regno di un strumento giuridico per la tutela del Patrimonio artistico e archeologico, ispirato e migliorativo dell’editto Pacca emesso nel 1820 dal Vaticano.
Nella fitta corrispondenza fra i due, Capialbi sollecita l’amico e collega Minervini a pubblicare la scure perché ritiene che sia il più qualificato a farlo a causa delle sue riconosciute doti di epigrafista. Si deve ricordare che -a cavallo fra l’Italia preunitaria e quella della prima era postunitaria- c’era una serie di figure di importanti archeologi che si erano formati in Germania dove la disciplina era più avanzata, soprattutto la storia dell’arte antica, l’”altertumswissenschaft”, che era stata fondata da Johan Joachim Winckelmann nella seconda metà del XVIII secolo. Fra queste figure di rilievo – insieme a Fiorelli, Conestabile della Staffa, Salinas e Fabretti – c’era proprio Giulio Minervini.
Nel febbraio 1853 Capialbi riceve, finalmente, la risposta tanto attesa da Minervini che lo informa di aver pubblicato l’articolo “La scure di bronzo, con greca iscrizione” che sarebbe uscito sul ‘Bullettino archeologico neapolitano’ nel marzo del 1853 corredato da uno straordinario disegno, quello della copertina del libro, di Giuseppe Abbate, ‘Primo disegnatore dei Reali Scavi di Pompei’.
Bisogna sottolineare che la pubblicazione delle notizie sulla scure, oltre a favorire la circolazione presso la comunità scientifica, si poteva considerare la catalogazione scientifica ufficiale del reperto che in tal modo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto reale del 14.05.1822, la rendeva inesportabile perché era “rilevante per l’istruzione e il decoro della nazione”.
Il problema vero di questo straordinario oggetto era, ed è, che Capialbi non sapeva chi lo possedesse e, nonostante i suoi numerosi tentativi, non riuscì mai a venirne a conoscenza e, neanche, ad acquistarlo per “salvarlo”. Secondo alcune fonti il prezioso reperto era nelle mani di uno dei maggiorenti di San Sosti che esercitavano un potere assoluto e sopraffattorio sull’intera comunità del comprensorio. In ogni caso, secondo il suddetto Decreto reale, il rinvenimento fortuito, pur rimanendo di proprietà dello scopritore, avrebbe comunque dovuto essere oggetto di segnalazione da parte del Sindaco all’intendente della Provincia che avrebbe dovuto, a sua volta, segnalarlo al direttore del Reale Museo borbonico.
Giulio Minervini lo pubblica, ma non fa, neanche lui, una formale segnalazione al direttore del Reale Museo con la conseguenza che del prezioso reperto non si saprà più nulla per quasi 3 decenni, fino a quando riappare nell’asta, a Parigi, della vendita della collezione appartenuta al famoso antiquario romano Alessandro Castellani. In questo trentennio cambiano radicalmente, è vero, gli assetti politici, economici, culturali e sociali con l’Unità, ma, nel territorio di ogni Stato preunitario, rimangono in vigore, fra le altre, le leggi riguardanti la tutela e la salvaguardia del Patrimonio culturale compreso il divieto di esportazione di oggetti ritenuti “rilevanti per l’istruzione e il decoro della nazione”.
L’antiquario Castellani, che dal 1862 si era stabilito a Napoli, intesse rapporti con il bel mondo aristocratico, alto borghese e intellettuale partenopeo allo scopo di procacciarsi venditori, compratori e anche validi ‘expertiseur’ d’arte e antichità. Felice Barnabei, importante archeologo e dirigente statale della fine dell’800, lo descrive in un suo libro (“Le memorie di un archeologo”) come il più grande mercante di antichità e compratore di anticaglie che lui avesse conosciuto, ma anche come un personaggio affascinante, un liberale che aveva partecipato, a Roma, ai moti del 1848 ed era stato arrestato. Un uomo di mondo, insomma, che si teneva buoni e acquiescenti, e forse conniventi, le autorità preposte alla tutela e i controllori del suo commercio illegale di beni archeologici.
L’affascinante antiquario stringe amicizia con Minervini che, dopo l’Unità, è nella fase declinante della sua carriera passata al servizio dei Borbone. Non accetta di andare ad insegnare all’Università perché è convinto che verrà nominato Direttore di quello che ora si chiama Museo Nazionale di antichità e belle arti, ma alla morte del vecchio direttore, il principe Spinelli, il ministro Amari, nomina, invece, Giuseppe Fiorelli, di provata fede liberale tanto da essere arrestato durante i moti del ’48. Minervini viene a trovarsi, dunque, in difficoltà economiche e deve guadagnarsi da vivere sfruttando le sue conoscenze scientifiche e le sue relazioni sociali come quella con il mercante Castellani. Sulla base di alcune lettere che invia al mercante, si può inferire che si fosse stabilita una sorta di ‘entente cordiale’ fra i due a proposito della compravendita di oggetti antichi fra i quali avrebbe potuto esserci, forse, anche la nostra ascia.
Si può ipotizzare che Castellani, venuto a conoscenza dell’esistenza della preziosa scure bronzea pubblicata sul “Bullettino” da Minervini, abbia voluto comprarla a causa non solo della ricchezza delle decorazioni e dell’antichità dell’iscrizione, ma soprattutto a causa del colore del materiale con il quale era realizzata: l’oricalco, ovvero bronzo sottoposto a doratura con una particolare tecnica che gliene ricordava una elaborata proprio nella sua famiglia. Famiglietti ci mette, acutamente, a conoscenza che il padre, Fortunato Pio Castellani, aveva messo a punto, negli anni ’20 dell’800, un processo chimico per ottenere una patinatura dell’oro e del bronzo che dava ai metalli un inalterabile colore giallo chiaro come quello dell’ascia di S. Sosti.
Nel 1870 Castellani torna a Roma, passando il 20 settembre da Porta Pia al seguito del generale Cadorna e, subito, ottiene un posto nella Commissione per la conservazione degli istituti culturali della città, mentre il fratello Augusto entra nella Giunta per la città di Roma.
Nel 1883 Castellani muore e il figlio Torquato si dà da fare per vendere le raccolte di oggetti d’arte antichi nelle case di Roma e Parigi. L’asta, con 4.000 oggetti, di Roma è programmata per il 17 marzo 1884, ma quella che più interessa a noi è quella di Parigi che si svolge dal 12 al 14 maggio 1884 con ben 682 oggetti che erano stati portati, come dice il catalogo parigino, da ‘longtemps’ nella capitale francese a dispetto delle leggi borboniche e vaticane che ne impedivano l’espatrio. Nel catalogo, con il numero 311, compare la nostra ‘hache grecque votive’.
Essendo che l’ascia è citata, in uno studio epigrafico, come presente a Roma nel 1882, mentre già nel 1884 è a Parigi, dobbiamo desumere che in questo breve lasso di tempo, Castellani o suo figlio Torquato, l’avessero portata nella capitale francese e siccome presso l’Archivio Centrale dello Stato non c’è traccia di autorizzazione all’espatrio della scure bronzea ne discende che quest’ultima sia stata esportata illegalmente.
Ad acquistarla nell’asta parigina del 1884, per conto del British Museum, è sir Charles Thomas Newton, già direttore delle antichità del museo e professore di archeologia alla London University, per 5.000 franchi. Dobbiamo aggiungere che sir Charles era intimo amico di Castellani anche perché aveva comprato, per rifornire il British, molte ‘anticaglie’ da lui.
La storia, impeccabilmente ricostruita dall’autore, dei tentativi di riprendersi la preziosa ascia votiva inizia nel 1996 quando il sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, si accorge che l’ascia è nel catalogo della grande mostra “I Greci e l’Occidente’, tenutasi a Palazzo Grassi a Venezia, proveniente dal British Museum e scrive al Ministro Antonio Paolucci chiedendogli di intervenire in un qualche modo, ma a giugno 1996 cade il governo e la XII legislatura. Nel settembre 1996 l’on. Romano Carratelli interroga il nuovo ministro Veltroni, stigmatizzando la colpevole inerzia dello Stato italiano, a proposito della scure-martello in bronzo proveniente da San Sosti, ma questa interrogazione rimane senza risposta. Seguiranno ben altre tre interrogazioni: nel 2016 di Franco Bruno al ministro Franceschini; nell’ottobre 2019 interrogazione di nuovo a Franceschini di Wanda Ferro e altri; nel dicembre del 2019 nuova interrogazione a Franceschini da parte di Margherita Corrado e altri.
Solo nel 24 luglio 2020, Franceschini, per la prima volta, risponde per iscritto all’interrogazione della Ferro dicendo che la risonanza e il buon esito dell’asta parigina del 1884 significava che era tutto regolare e quindi “non esistono presupposti giuridici che possano sostanziare una rivendicazione del bene da parte dell’Italia”. Il ministro, insomma, non voleva saperne di avventurarsi in una lunga e defatigante trattativa con il British Museum.
Famiglietti riassume, per concludere, la situazione per i capi principali: il rinvenimento fortuito in una località della Calabria viene, anche se in maniera contorta, catalogato e reso di pubblico dominio da Capialbi e da Minervini come “bene che riguarda il decoro ed il prestigio della nazione”, e dunque non esportabile secondo il reale decreto del 14 maggio 1822. La proprietà del bene rimane dello scopritore, ma la proprietà privata non interferisce con il divieto di esportazione. Lo status giuridico della scure, acquisito secondo la normativa borbonica, rimane tale dopo la sua migrazione a Roma, avvenuta nel 1870, perché nell’ex stato della Chiesa perduravano le disposizioni dettate dall’editto Pacca del 1820 che vietavano, anch’esse, l’esportazione.
L’autore -da raffinato giurista e, soprattutto, da strenuo difensore del Patrimonio culturale nazionale- indica a noi cittadini italiani e, in particolare, a noi calabresi un’ipotetica, ma praticabile, via legale da percorrere: l’adozione, da parte della competente autorità giudiziaria (a mio giudizio la Procura della Repubblica presso il competente, per territorio, Tribunale di Cosenza), di un decreto che disponga la confisca della scure e la sua restituzione alla Calabria.
da “il Quotidiano del Sud” del 4 aprile 2024
Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista SanginetoUno sviluppo senza progresso
La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.
Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.
Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.
In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.
Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.
Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.
Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?
Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?
Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?
E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?
Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.
La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.
Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?
La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?
Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.
Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.
Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.
dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa
Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto
I Commissari del Comune di Rende hanno proceduto, da sabato mattina 27 gennaio 2024, al taglio dei Pini quasi secolari lungo via Don Minzoni. Giova ricordare che contro l’ennesimo abbattimento di alberi in questa città si erano espressi molti cittadini, Associazioni, Movimenti e Partiti, ma coloro che amministrano, pro tempore, il Comune non hanno sentito ragioni, hanno voluto, comunque, eseguire la delibera della Giunta precedente che aveva previsto e progettato la deforestazione di questa via a partire da nord verso sud.
A nulla è servito il colloquio chiesto e ottenuto, martedì 23 gennaio, da alcune Associazioni e Partiti con la sub-commissaria, dottoressa Rosa Correale, che aveva assicurato ai convenuti che avrebbe valutato attentamente le ragioni tecniche e politiche esposte da questi ultimi prima di procedere al taglio indiscriminato dei pini. Sabato mattina la ditta incaricata ha, invece, iniziato a tagliare gli alberi come da disposizione commissariale.
Le nostre città, ormai, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, con la sola, lodevole e notevole, eccezione di Rende.
Una città che era stata concepita, dagli anni ’60 del ‘900, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di verde-che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico e privato, con il cemento e l’asfalto. Con questi tagli, insieme a quelli già operati in Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni, si vuole ridurre anche Rende ad una città spoglia e senza alberi, ad un’isola di calore al pari di tutte le altre città della Calabria e del Mezzogiorno.
Un recentissimo studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, “Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities”, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura.
Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI (Urban Heat Island), sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.
La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.
I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi.
Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.
Sapremo presto, già dalla prossima estate, nella Rende spogliata degli alberi quali effetti producono le isole di calore perché sono proprio le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo privo di alberi- che formano queste “isole di calore” (UHI) creando e amplificando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani.
da “il Quotidiano del Sud” del 28 gennaio 2024
Fermate quella scure sui grandi Pini di Rende.-di Battista Sangineto
Mi tocca scrivere di nuovo a proposito dell’imminente abbattimento di grandi alberi a Rende perché, come ha già denunciato la sezione rendese della Lipu, è comparsa una locandina -affissa per conto dei Commissari del Comune di Rende – nella quale si avvisano i cittadini che, in attuazione di una delibera approvata dalla precedente Giunta, nei prossimi giorni verranno tagliati i pini piantati più di 60 anni fa sui due lati di Via Don Minzoni.
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Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o domestici, alcuni ormai centenari, che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo -che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto.
La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato. La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini domestici e/o marittimi e i Pini d’Aleppo.
Tutti i suddetti alberi non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati, come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).
Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, nell’estate scorsa, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni e si vuole procedere, ora, ad altri devastanti tagli?
Al posto dei Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera della precedente Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento (ci metteranno alcuni decenni prima di raggiungere la frondosità dei Pini) – a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro.
Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vorranno sospendere i tagli di via Don Minzoni e, anche, vigilare sulla celere e appropriata ripiantumazione dei lecci al posto dei Pini già tagliati, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi nella scorsa estate e dopo le reazioni di sconcerto che, subito, si sono levate alla notizia della ripresa degli prossimi ingiustificati tagli.
La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi”.
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Non si possono e non si devono più tagliare alberi nelle città, perché sono le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo- che formano le “isole di calore” (UHI, Urban Heat Island) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).
da “il Quotidiano del Sud” del 19 gennaio 2024
Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna
Il “Quotidiano del Sud” ha avviato un importante dibattito sull’uso dell’energia eolica che spero continui e coinvolga anche chi ha ruoli di governo del territorio. La questione delle energie rinnovabili è una cosa seria, ma spesso viene affrontata superficialmente e con categorie ideologiche. Tra i contributi più interessanti c’è stato quello del Prof. Ferdinando Laghi, consigliere regionale e vicepresidente dell’Associazione Medici per l’Ambiente. Il contributo di Ferdinando laghi è prezioso perché pone una questione di metodo.
Ogni fonte di energia, infatti, ha i suoi vantaggi e svantaggi rispetto all’ambiente e non va vista in assoluto ma relativamente ad altre fonti energetiche e al territorio che viene coinvolto. I pannelli solari, ad esempio, sono un’ottima fonte di energia rinnovabile, ma nessuno si sognerebbe di metterli sul Colosseo o sulla Cattedrale di Gerace o la Cattolica di Stilo. Invece, purtroppo, per sfruttare gli incentivi diverse imprese agricole li hanno impiantati su terreni agricoli togliendo spazio alla produzione di beni vitali per l’alimentazione umana ed animale.
Lo stesso approccio problematico, ma non preconcetto, bisogna avere rispetto alla installazione di pale eoliche, entrando nello specifico di singoli interventi. Intanto va ricordato che esistono pale eoliche di diverse dimensioni e forme, così come esistono condizioni climatiche che rendono antieconomica questa fonte (ad esempio nel Nord Italia) per la scarsa frequenza di venti con un minimo di intensità. Va quindi utilizzato, per un periodo congruo, un anemometro prima di installare una pala eolica. In secondo luogo va scelta con cura la localizzazione tenendo presente l’impatto acustico, i campi elettromagnetici, l’incidenza sul paesaggio, la vicinanza di insediamenti umani.
Chi scrive, quando era presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, ha promosso la prima installazione di un parco eolico in Calabria, costituendo una società denominata Eolo 21 con la partecipazione dei Comuni aspromontani interessati. Per scegliere la localizzazione sono stati consultati, fra gli altri, il WWF, la Lipu, la Facoltà di Ingegneria di Roma La Sapienza, e naturalmente l’amministrazione comunale coinvolta nella scelta. Abbiamo costituito una società a maggioranza pubblica affinché i Comuni, oltre ad essere protagonisti nella localizzazione di eventuali impianti eolici, ne traessero anche un maggior vantaggio economico rispetto a quanto normalmente offre il privato.
Infine, credo che vada fatta chiarezza sulla presunta autosufficienza energetica della Calabria. E’ vero che questa regione è esportatrice netta di energia ma lo fa grazie agli impianti termoelettrici presenti, mentre la produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico e solare) coprono circa i tre quarti del fabbisogno. Per arrivare all’autosufficienza energetica “pulita” e rendere veramente green questa regione dovremmo cominciare, come suggerisce Ferdinando Laghi, a spegnere progressivamente le centrali termoelettriche mentre aumentiamo la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Facendola finita con inerzie e sprechi, a partire dal completamento di opere rimaste inspiegabilmente sospese, come le previste centrali idroelettriche che dovevano entrare in funzione collegandole alla diga sul Metramo e a quella sul Menta. Per non parlare delle Comunità energetiche che si stanno diffondendo in tutto il Nord Italia dove le condizioni climatiche non solo favorevoli e stentano a partire nella nostra regione. D’altra parte è noto il paradosso: ci sono più pannelli solari per abitante a Bolzano che a Reggio Calabria.
Se si puntasse seriamente ad una vera transizione energetica in Calabria, si potrebbe non solo vivere meglio con minore inquinamento, ma anche rivendicare a livello nazionale ed europeo questo contributo alla riduzione della CO2. Con un programma che utilizzasse veramente questa grande risorsa ci sarebbe una rilevante ricaduta in termini di lavoro qualificato, di riduzione della bolletta elettrica per famiglie e enti pubblici.
Cosa ci manca?
da “il Quotidiano del Sud” del 28 dicembre 2023.
C’era una volta un bel Castello.-di Battista Sangineto
“L’intellettuale è colui il quale si occupa di ciò che non lo riguarda. Non è uno specialista, che difende affari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendista…”(J.P. Sartre). Ciò premesso, ora voglio raccontarvi una storia.
C’era una volta un bel Castello che dominava, dall’alto, la città adagiata sul fianco della collina affacciata sulla vallata del fiume più grande della regione. Il Castello era, come si conviene ad ogni edificio del suo genere, maestoso e minaccioso: aveva le sue altissime e inaccessibili mura, le sue torri ai quattro lati (una era però crollata nei secoli), le sue sale lussuose e i suoi alloggiamenti militari, la sua Piazza d’Armi e tutto, tutto quello che ne faceva proprio un bel Castello.
Il Castello, come la città, era antico, talmente antico che, probabilmente, le sue fondamenta e molte delle pietre e dei conci di cui era composto risalivano a quattro secoli prima della nascita di Cristo. Il Castello aveva avuto, come la città ai suoi piedi, una vita lunga, complicata e segnata dalle vicende storiche; una vita durante la quale aveva subìto demolizioni e ricostruzioni, rifacimenti e riusi, superfetazioni e restauri che ne avevano, inevitabilmente, trasformato, ma non trasfigurato il volto: era, fino a pochi anni or sono, il Castello di Cosenza. Oh che bel castello marcondiro ‘ndiro ‘ndello,/oh che bel castello marcondiro ‘ndiro ‘ndà!
Un bel Castello che ora, però, non c’è più a causa dei “restauri” effettuati: è stato trasformato in una piattaforma dilancio per un improbabile Sputnik-ascensore a sezione quadrata che, tozzo e incongruo, svetta, quasi al centro del monumento, come il manufatto più alto dell’intera città. Uno Sputnik, dall’anima metallica rivestita da pannelli tinteggiati di beige, che sembra in procinto di essere lanciato nello spazio profondo. La tragedia consiste nella consapevolezza non solo che alla guida del missile non c’è Gagarin, ma soprattutto che, purtroppo, rimarrà ben piantato a terra, all’interno e al centro di quel che rimane della settecentesca residenza dell’Arcivescovo. Non si poteva costruirlo, per esempio, al posto della torre sud-ovest che è mancante o, perlomeno, in prossimità di quest’ultima, tanto più che sarebbe stato appoggiato a murature ben più tarde e corrive?
Se lo Sputnik-ascensore appare come il corpo estraneo più evidente rispetto al complesso monumentale, ancor più, se possibile, dissonante e invasiva è la copertura a piramidi, realizzate con costolature in vetro e acciaio, che copre, opprimendola, la Sala d’Armi che, da tempo immemorabile, era priva di tetto. Come nel caso di Piazzetta Toscano, la copertura, ancorata per mezzo di staffe e putrelle profondamente inserite nei muri e poi cementate, interviene in maniera irreversibile sulle murature antiche al fine, in questo caso, di creare un solo, inutile, ambiente coperto.
Si è voluto approntare una voliera per ricoverare eventuali, smarriti, discendenti dei falchi così cari a Federico II di Svevia o, come sembra più probabile, si è voluto allestire una sala per “sponsali”, avendo provveduto a pavimentarla con levigate lastre di pietra di San Lucido? E ancora, le obbligatorie, per legge, rampe di accesso dall’esterno bisognava necessariamente costruirle lasciando a vista la muratura rustica, in pietre di varie dimensioni, come se fosse il muro di cinta di una villetta al mare? E che dire degli improbabili infissi, in metallo brunito, di porte e finestre?
Da archeologo, e da stratigrafo degli elevati che insegna e lavora presso l’Unical, mi chiedo, inoltre, se sia mai stata condotta una propedeutica analisi storica, architettonica ed archeologica di un così importante, articolato e pluristratificato monumento. Mi chiedo anche se la società che si è aggiudicata l’appalto di restauro del Castello, abbia elaborato e fornito una relazione sui risultati di una eventuale indagine archeologica. Scavo archeologico che si rendeva indispensabile per confermare o smentire le ipotesi storico-archeologiche più accreditate che individuano in quel luogo il sito della prima fortificazione dei “Brettii”, nel IV secolo a.C. Sono state trovate tracce della roccaforte bruzia e di quella, successiva, romana della cui presenza ci testimoniano, indirettamente, le fonti letterarie greche e latine? È stata datata, sulla base delle stratigrafie archeologiche, la fondazione, nelle sue forme attuali, del Castello?
È stata eseguita un’analisi dell’intero sistema murario per mezzo di analisi condotte, si fanno regolarmente all’Unical, con strumenti diagnostici avanzati? È stata fatta una previsione e, di conseguenza, un’attuazione degli interventi consolidativi necessari, atteso che il monumento presenta numerosi problemi statici? In quale modo la società aggiudicataria del già discusso appalto di gestione del Castello riuscirà a valorizzarlo, senza questi indispensabili dati storici? Oppure si da già per scontato che la valorizzazione si ridurrà all’organizzazione di feste e di happy hour “nella splendida cornice del Castello svevo di Cosenza”? Tutte queste domande hanno come destinatari anche la competente Soprintendenza BAP e l’allora Direzione Regionale BB.CC.
Mentre si riapriva il Castello, dotato di bar e divanetti bianchi disseminati nell’antica Piazza d’Armi, il centro storico continuava ad implodere, a scomparire, tanto che la sera stessa dell’inaugurazione è venuto giù un altro importante brandello architettonico della nostra storia in Via Abate Salfi, vicino alla “Ficuzza”. Credo che non si possa più sopportare un simile degrado delle forme architettoniche e urbanistiche, ma anche delle forme sociali e culturali storicamente depositatesi nel centro storico di Cosenza.
Cari concittadini bisogna cambiar radicalmente pagina, bisogna che ci si risvegli e che come cittadini, come popolo di questa città si abbia, tutti insieme, come principale obiettivo e alta ambizione il restauro ed il recupero pieno del nostro centro storico. Il popolo di questa città deve prendersi la responsabilità di immaginare e portare a termine un ambizioso e poderoso progetto di restauro strutturale che riporti alla vita la Cosenza storica che dovrebbe e che dovrà rappresentare il volto e la traduzione in pietra e mattoni proprio del popolo che la abita, la conserva e la trasforma.
da “il Quotidiano del Sud” del 17 giugno 2015
foto di Battista Sangineto
Il premio a Iannelli, una vita in difesa dei beni culturali.-di Battista SanginetoUn'archeologa al servizio dello Stato.
Pochi giorni fa Maria Teresa (Silvana) Iannelli, già funzionario della Soprintendenza Archeologica della Calabria, è stata insignita del prestigioso “Premio Nazionale Umberto Zanotti Bianco”, giunto alla XXII edizione, con la motivazione: “per la sua attività di espropri, controllo capillare delle attività di scavo, apposizione di vincoli, realizzazione di nuovi parchi archeologici a Rosarno e a Vibo Valentia e per la direzione di vari musei del territorio, tutti presidi di legalità in un territorio esposto ad infiltrazioni della criminalità organizzata”.
Proprio riguardo alle infiltrazioni della ‘ndrangheta, mi preme ricordare il giudizio che, nel dicembre 2021, il maggiore Francesco Manzone, già in servizio al Ros di Catanzaro, dà -come riportano le cronache del dibattimento giudiziario del processo Rinascita Scott- di Silvana Iannelli, sul suo operato come funzionario archeologo della Soprintendenza: “…è stato un osso duro, che faceva il suo lavoro e che rappresentava un problema per lui (l’indagato Giovanni Giamborino, presunto ‘factotum’ del presunto superboss Luigi Mancuso, ndr.) apparentemente insormontabile per la costruzione di un immobile a Vibo Valentia…Per superare il vincolo archeologico – spiega l’ufficiale dell’Arma – Giamborino coprì la strada romana, vincolata, facendola scomparire sotto una gettata di cemento…”.
Il Premio nazionale di “Italia Nostra” intitolato a “Umberto Zanotti Bianco” fu istituito nel 1964 per onorare la memoria e l’attività del fondatore e primo presidente dell’Associazione. Negli anni ha inteso di segnalare all’attenzione pubblica l’operato di personalità distintesi nel campo della difesa del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale. Vale la pena ricordare che Umberto Zanotti Bianco, non ancora ventenne, accorse tra i primi in Calabria per portare soccorso alle vittime del catastrofico sisma abbattutosi il 28 dicembre 1908 sulle due città dello Stretto di Messina. A seguito di quella immane tragedia si diede a un lavoro di inchiesta e denunzia dei mali endemici del Sud (indigenza, disoccupazione, criminalità, analfabetismo, emigrazione) che la calamità aveva riportato al centro del dibattito nazionale. Si dedicò alla fondazione di asili, scuole, biblioteche, cooperative et cetera.
Promosse nel 1921 la società Magna Grecia che, sotto la presidenza dell’archeologo trentino Paolo Orsi sino al 1935, poi sotto la sua, condusse molti scavi fra i quali quello di Sibari. Fu anche presidente dell’associazione “Italia nostra”, per la tutela del patrimonio artistico e naturale, nonché fu il principale promotore dell’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi). Tra gli scritti meridionalistici di Zanotti Bianco si ricordano “Il martirio della scuola in Calabria”(1925); “Inchiesta sulla Basilicata”(1926); “Tra la perduta gente”(1959). Diresse la rivista di studi storici e archeologici l’”Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, fondato da Paolo Orsi nel 1931.
Silvana Iannelli, calabrese di Locri, è autrice di una vasta e ricca bibliografia scientifica riguardante scavi da lei diretti a Vibo Valentia, Pizzo e Monasterace. Autrice di ricognizioni topografiche di paesaggi antichi come l’agro di Hipponion-Vibo Valentia e quello della Locride, è stata anche fondatrice e curatrice di Musei archeologici come, fra gli altri, quelli di Vibo Valentia e di Monasterace. Si citano, insieme a decine di articoli in volumi e riviste archeologiche, i volumi: “Hipponion-Vibo Valentia: documentazione archeologica e organizzazione del territorio” (1989); “Kaulonia I” (1989); “I volti della città. Hipponion, Monsleonis, Vibo Valentia” (2014); “Eroi, Miti e Cunti della Calabria greca” (2022).
Ho l’onore di lavorare con Silvana da quasi quarant’anni e conosco la sua determinazione e la sua fedeltà allo Stato ed ai principi costituzionali contenuti nell’articolo 9 (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”), nell’articolo 54 (“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”) e nell’articolo 98 (“I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”).
Ecco, Silvana, è stata, ora è a riposo, un pubblico impiegato, all’esclusivo servizio della Repubblica, che ha adempiuto alle sue funzioni pubbliche di tutelare il Patrimonio storico e artistico del nostro Paese con disciplina e onore.
Né più, né meno.
Sono davvero molto orgoglioso di essere un suo collega, ma, ancor di più, di essere suo amico.
da “il Quotidiano del Sud” dell’1 dicembre 2023.
Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”
La città di Cosenza ed il suo paesaggio sono sotto assalto da molto tempo, ma negli ultimi mesi ed anni l’attacco si è fatto più duro, forse è quello finale, quello all’ultimo metro cubo di cemento armato. Un assalto che è rivolto sia alla città antica, a monte, sia alla città otto-novecentesca, a valle. E se il Centro storico è, in teoria, ‘protetto’ da un vincolo diretto con il D.M. del 15.07.1969, poi ampliato a tutte le colline circonvicine nel 1992, la città fine ‘800-primi del ‘900 è priva, se si escludono limitate porzioni confinanti con il Centro storico, di questa dovuta tutela da parte del Ministero della Cultura.
La speculazione edilizia ha iniziato ad aggredire le aree più nobili dei quartieri vallivi con abbattimenti di edifici centenari e ricostruzioni di orribili, enormi e altissimi palazzi di cemento armato che occupano più di 2 o 3 volte la cubatura precedente, in particolare nei quartieri di Via Rivocati e di Piazza Santa Teresa.
L’attacco finale è stato, dunque, sferrato in primo luogo contro i titolari del diritto alla città: i cittadini. Noi cittadini delle Associazioni civiche cosentine-Associazione Riforma-Rivocati APS, Ri-ForMap APS, Ciroma, Civica Amica, ResponsabItaly APS, Comitato Piazza Piccola- costituitici in un Coordinamento denominato Diritto alla città abbiamo deciso di smetterla di subire. Reclamiamo il diritto alla città, rivendichiamo il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite, e iniziamo rivendicare il potere di farlo in maniera radicale.
Il Coordinamento delle Associazioni si oppone alle devastazioni del paesaggio urbano e periurbano e si oppone all’esproprio dei diritti costituzionali e civici dei cosentini. Il Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine Diritto alla città ha deciso di iniziare a rivendicare il ‘Diritto alla città’ dei cosentini ha chiesto, con urgenza, al Mic ed alla Soprintendenza Abap di Cosenza, organo periferico del suddetto Ministero, la rapida pubblicazione, prima, e la celere approvazione, poi, di una DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO ai sensi dell’ART. 136, C. 1 LETT. C, D. L. N. 42/2004 e S.M.I., per l’Ambito territoriale di seguito descritto (vedi cartina allegata).
L’area è stata – per motivazioni storiche, architettoniche, urbanistiche, ambientali e archeologiche- delimitata dai sottoscritti così come di seguito descritto.
Ad Ovest, partendo dal perimetro del vincolo paesaggistico esistente di cui al D.L. del 1969, raggiunge viale della Repubblica, comprende il settore di Via Misasi e scende lungo la Via Arabia fino a comprendere le vie Cattaneo, Mazzini e Marini. Da tale ambito sale a Nord lungo la direttrice di via XXIV Maggio- via Medaglie d’Oro, si raccorda al viale Mancini fino a raggiungere il confine con il Comune di Rende.
Da tale limite comunale scende lungo la riva sinistra del Crati fino a raccordarsi con l’area della vecchia Stazione Ferroviaria e giungere al ponte Alarico a Sud, collegandosi all’area già precedentemente vincolata dal suddetto D.L. del 1969, relativa al settore in sinistra del fiume Crati. Il citato D.M. del 15.07.1969, la cui estensione lungo il lato Est, settore in destra del fiume Crati, interessa le colline presilane, breve tratto della strada statale silana per Aprigliano, lo sviluppo della strada vicinale di Serra Caruso, il tratto del fiume Crati sino alla sua confluenza con il torrente Ispice, i limiti comunali dei Comuni di Rovito e Zumpano fino alla confluenza del canale Cannuzzo col Crati per raccordarsi al ponte di Alarico.
La nostra proposta di vincolo paesaggistico -le cui motivazioni dettagliamo di seguito- completa, pertanto, i contenuti del vincolo paesaggistico già in vigore, contribuendo significativamente alla salvaguardia delle aree oggetto di interventi così da esaltarne il significato e il valore.
DESCRIZIONE E MOTIVAZIONI STORICHE, ARCHITETTONICHE, URBANISTICHE,
ARCHEOLOGICHE E AMBIENTALI DELLA RICHIESTA DI VINCOLO
L’area sita nel comune di Cosenza, posta nell’area valliva compresa tra i due fiumi e in continuità espansiva con l’abitato storico, già sottoposto a tutela ambientale e paesaggistica ai sensi della legge 29.06.1939 n°1497 con decreto ministeriale 15.07.1969, costituisce l’insediamento lungo le rive dei fiume Crati e Busento, completando la composizione urbana, già dotata di impianti pubblici di notevole interesse monumentale, con palazzi privati che riflettono le visioni urbanistiche e architettoniche di sviluppo nella prima metà del Novecento. In tale contesto la città di Cosenza completa, nel periodo indicato, la definizione del processo insediativo urbano portato poi avanti a partire dagli anni ’60 del XX sec.
L’espansione era storicamente presente nel quartiere suburbano dei Rivocati, già in età romana. Insediamento consolidato in età medievale con funzione mercantile (Fiera della Maddalena – 15 al 30 luglio e la fiera dell’Annunciata dal 1551, con il 25 marzo di ogni anno, nella grande spianata del Carmine.
Presenti l’impianto della Riforma, ubicato in corrispondenza dell’altura dominante e derivante da impianti religiosi del XIII sec. e dei Domenicani, dal XV sec.
Tali strutture costituiscono la conferma dei nuovi indirizzi di sviluppo, legati al processo economico di trasformazione ed evoluzione dell’abitato lungo la valle del Crati.
L’asse principale risultava sempre quello costituito dalla via Consolare romana Annia-Popilia con il polo della Riforma, nel quale convergevano gli insediamenti del sistema collinare pedemontano dell’Appennino tirrenico. Era presente un sistema di fondaci nel rione Rivocati-Carmine, posti nel settore Nord appena oltre il Busento.
La presenza della popolazione nella seconda metà del XIII secolo si attestava intorno alle 3.000 unità fino alla metà del XV secolo, con incremento dal 1550 con 7.000 unità circa, sotto il dominio spagnolo, fino a registrare un incremento di circa 10.000 abitanti alla fine del secolo, mantenutosi stabile fino alla fine del ‘700. Gli incrementi demografici si osservano nel primo quarto dell’800, fino a raggiungere il numero di 13.700 nel 1853 e 16.000 con l’Unità d’Italia nel 1861 e oltre 19.000 presenze alla fine del secolo.
Le esigenze della popolazione portarono all’avvio delle opere per il rifacimento dei condotti delle acque nere e potabili, la necessità di dotarsi di strutture pubbliche per le abitazioni e gli uffici e la costruzione di servizi di uso pubblico derivanti anche dalla sistemazione degli alvei fluviali e arginature dei fiumi.
Nella seconda metà dell’800, pertanto, l’edificazione si avvia lungo la direttrice Rivocati- Riforma e in direzione Carmine (via Sertorio Quattromani), su cui si affacciava l’Ospedale Civile (XV sec.). Pertanto in tale contesto dalla fine del XIX sec. si é proceduto all’edificazione degli spazi tra l’ex convento del Carmine e i pochi edifici presenti lungo la via Provinciale (corso Mazzini), fino a giungere alla Riforma a Ovest e la via XXIV Maggio lungo la direttrice Nord della riva sinistra del fiume Crati.
Con il Piano di ampliamento comunale del 1887, predisposto dal Comune, si avvia anche la ristrutturazione dei predetti rioni Carmine e Rivocati, con l’ampliamento delle aree a Ovest e parzialmente a Nord, condotti a termine successivamente nel primo quarto del ‘900. Quartieri già attivi sin dall’età romana con funzioni mercantili, nundinae, e idonei a contribuire allo sviluppo urbano per il costante sviluppo economico, oltre che demografico.
La nuova area urbana, impostata su una viabilità a maglie regolari ortogonali, di probabile derivazione agrimensoria romana, si spinge a valle fino all’attuale Via Piave, con sviluppo lungo il lato Ovest a includere i settori della Riforma e l’attuale via Riccardo Misasi.
Iniziative continuate col Piano di Ampliamento del 1910-1912, tramite il quale si realizzano i progetti di sviluppo ed espansione dell’abitato, mediante la ristrutturazione urbanistica a fini insediativi del rione Rivocati, la costruzione di strutture pubbliche lungo il Busento e il riordino del quartiere Carmine – Annunziata.
Interventi completati nel primo quarto del ‘900 e integrati col piano del 1936, con estensione lungo il settore Nord, oltre alla formazione di piazze urbane di riferimento come direttrici di sviluppo: Piazza Francesco Crispi, Piazza Giovanni Amendola, Piazza Paolo Cappello a monte e Piazza Municipio, Piazza XI Settembre a valle, lungo la direttrice del Corso Mazzini.
L’edilizia privata riporta la composizione formale di estrazione classica rivisitata con gli apparati prospettici ancora visibili lungo il Corso Umberto, Via Trieste, Viale della Repubblica, Via Riccardo Misasi e il già citato Corso Giuseppe Mazzini. Altrettanto individuabili gli interventi privati, all’interno di tale vasto settore, con le direttrici parallele al Corso Mazzini, quali Via San Michele, Via Monte Grappa, Via Monte Santo e le traverse laterali Via Piave, Via Isonzo e Via Brenta; comprendente anche la scala interna di collegamento, proposta per ridurre la consistente differenza di quota (Scala dei due leoni), oltre alla realizzazione di edifici di interesse pubblico tra il Rione Michele Bianchi e la nuova direttrice di Viale degli Alimena.
Interventi, questi ultimi consolidatisi negli anni ’30 del XX sec., con la preliminare dotazione di servizi e completati poi nel secondo dopoguerra. In tali ambiti l’architettura varia tra visioni ottocentesche di cultura essenzialmente classica e rivisitazioni interpretative, intercalate da proiezioni moderniste di stile avanzato, che costituiscono un patrimonio urbanistico e compositivo dotati di interessante personalità, indicativa di un processo di sviluppo da salvaguardare per la complessa e notevole particolarità urbana unita alle espressioni architettoniche.
Pertanto, in tale contesto, l’area si configura come una necessaria palese estensione del centro storico di Cosenza, conservando nel tempo una sostanziale permanenza della evoluzione morfologica urbana, già presente nell’insediamento antico. A tal proposito si evidenzia che tutta l’area della riva sinistra del fiume Crati possa essere interessata da rinvenimenti archeologici perché, come dimostrato dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia subito a nord del Centro commerciale. È molto probabile che in quella area, dal Centro storico verso nord, vi passasse la Via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.
Avendo le indagini archeologiche dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei è del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area che va dalla riva sinistra del Crati fino alla linea degli edifici già costruiti per arrivare fino al confine comunale a Nord.
RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI NEL COMUNE DI COSENZA
Nel complesso il sistema edilizio appare ancora in parte conservato, seppur condizionato in termini episodici da interventi di trasformazione che ne hanno modificato la percezione compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.
Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee.
Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica. Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana e architettonica del contesto.
Tale condizione discende dal riconoscimento che la zona predetta ha notevole interesse pubblico perché essa ha come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie sin dal XIII secolo.
AMBITO DELLA DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO,
ART. 136, C 1 LETT. C, DECRETO LEGISLATIVO N. 42/2004 E S.M.I.
Tale zona, che amplia e completa le località e gli ambiti già sottoposti a tutela ambientale e paesaggistica, ex lege 29.06.1939 n°1497, D.M. 15.07.1969 G.U. n°208 del 14.08.1969, è delimitata nel modo seguente:
Cominciando da Est ha come limite il fiume Crati in direttrice Nord. In corrispondenza della traversa di Via Cesare Marini risale su Corso Mazzini, fino all’innesto con Via Ambrogio Arabia, sulla quale ultima si inserisce fino a raggiungere la chiesa di Santa Teresa che viene lambita lungo il lato Sud, con risalita fino alla soprastante via Roma.
Da tale arteria, che percorre in direzione Nord, raggiunge Via Carlo Cattaneo e, circuendo il parco “Emilio Morrone”, risale lungo il settore Ovest fino a raccordarsi con il Viale della Repubblica.
Da tale arteria principale ritorna in direzione Sud fino a includere, con limitata area, le case popolari per Mutilati e Invalidi di guerra del 1931, per ritornare sulla medesima direttrice verso Sud fino all’incrocio con la Via Domenico Migliori. Indi, da tale confine continua lungo la SS.19 delle Calabrie – SP 241, fino all’incrocio con la Via Francesco Principe. Da tale ultima strada discende in direzione Est raccordandosi interamente al perimetro dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica con il citato Decreto ministeriale 15.07.1969.
Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento di tutela paesaggistica, per i motivi esposti, perimetra il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio. Prosegue lungo tale arteria in continuazione su Via Medaglie d’Oro fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri. Da tale traversa scende fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini proseguendo in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.
Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato. Detto perimetro contiene edifici privati, altri a destinazione sociale (case popolari), infrastrutture collettive e gli impianti pubblici riportati, la cui edificazione spazia dalla fine dell’Ottocento a metà circa del Novecento.
In sintesi, con questa proposta, si ampliano i limiti del predetto decreto dell’anno 1969, completandone e estendendone l’area di tutela e salvaguardia. All’interno di tale area si trovano edifici monumentali di interesse pubblico, costruiti a partire del primo quarto del XX sec. e completati anche nel secondo dopoguerra, in alcuni dei quali hanno prestato opera di progettazione architetti di fama nazionale quali Giovanni Battista Milani, Giorgio Calza Bini, Mario de Renzi, Vittorio Ballio Morpurgo.
La perimetrazione dell’insediamento della “città nuova” a completamento dell’abitato di Cosenza, unita al suo intorno paesaggistico, è soggetto a conservazione integrale. In essa è vietata la realizzazione di interventi, anche puntuali, che comportino il rischio di alterarne i caratteri d’identità paesistica e di continuità percettiva.
BENI IMMOBILI SOGGETTI A TUTELA MONUMENTALE
Sulla base di quanto scritto finora occorre, dunque, la conservazione integrale del sistema urbano (all’interno del perimetro in rosso della cartina in calce si evidenziano le principali emergenze monumentali e architettoniche).
I nuovi interventi edilizi non devono costituire, per forma e per volume, barriere alle visuali verso i principali elementi del sistema urbano e architettonico esistente. Conseguentemente, gli interventi di trasformazione previsti all’interno degli strumenti urbanistici e relativi piani attuativi devono prevedere assetti e composizioni formali tali da rispettare e salvaguardare le visuali compositive e architettoniche finalizzate alla conservazione dei valori esistenti.
Nelle aree ad elevato valore percettivo, deve essere mantenuta la coerenza architettonica degli interventi con il contesto, con esclusione delle opere e degli interventi in grado di alterare gli aspetti qualitativi e formali dell’apparato urbano esistente.
Sul patrimonio edilizio esistente sono ammessi gli interventi di rifacimento e riuso tali da privilegiare dal punto di vista formale l’attuale assetto compositivo, con l’eventuale impiego di materiali naturali e a basso impatto ambientale.
Sono ammessi esclusivamente gli interventi edilizi tendenti alla conservazione, alla manutenzione ed al riutilizzo, anche diverso dalla funzione originaria, con esclusione comunque delle opere di snaturamento dell’apparato formale e compositivo esistente.
Eventuali sistemazioni complementari degli spazi liberi dovranno essere concepiti in modo da non ostacolare la visibilità e l’assetto esistente, al pari del verde esistente. Il tutto nel rispetto delle visuali di fruizione proprie dei luoghi.
Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine “Diritto alla città”
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
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F. Burgarella, Dalle origini al Medioevo, in (a cura di F. Mazza), Cosenza. Storia, cultura, economia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pp. 15-70.
E. Galli, Per la Sibaritide, studio topografico e storico con la pianta archeologica di Cosenza, Ristampa dell’opuscolo del 1907, Cosenza s.d.
Gregorio E. Rubino-Maria Adele Teti, Cosenza, Laterza, Bari 1997.
A. Battista Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie XXXVII, 2014 (2016), pp. 157-182.
F. Terzi, La città ripensata. Urbanistica e architettura a Cosenza tra le due guerre, Progetto 2000, Cosenza 2010.
F. Terzi, Cosenza medioevo e rinascimento, Pellegrini, Cosenza 2014.
Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra
Alberto Magnaghi, da tempo malato di un male incurabile, è morto a Bra (in Piemonte) all’età di 82 anni. Ha continuato fino alla fine dei suoi giorni a ricercare soluzioni inedite (molto discusse nella comunità accademica degli urbanisti) per una pianificazione del territorio in senso ecologico.
Con la sua autorevolezza e con il suo infinito amore per il territorio ha avuto moltissimi allievi “territorialisti” che condividevano il suo approccio e la sua ricerca. Il suo ultimo libro, Ecoterritorialismo (scritto insieme a Ottavio Marzocca), sarebbe stato presentato il prossimo 6 ottobre a Spin Time, a Roma, da dove avrebbe illustrato il concetto, a lui carissimo, di Bioregione, quello che lui considerava lo strumento multidisciplinare per affrontare il progetto eco-territorialista.
Era stato designato professore Emerito di pianificazione territoriale presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove aveva fondato la Scuola Territorialista. Insieme ad Asor Rosa anni fa presentammo l’unico libro che parlava della sua esperienza carceraria, Un’idea di libertà (Derive Approdi, 2014). La libertà, per Alberto, non poteva che venire dalla cura del territorio, dal rapporto virtuoso tra le comunità insediata e i luoghi.
Da qui il concetto di autogoverno del territorio, un territorio abitato da tante comunità, l’opposto di quello metropolitano strombazzato in molte ricerche accademiche.
Questo giornale prese le sue difese quando, nel 1979, venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta 7 aprile come dirigente di Potere Operaio; fu condannato, poi definitivamente assolto 8 anni dopo. Rossana Rossanda parlò di lui su il manifesto, come un uomo giusto e di grande impegno nella sua opera di urbanista militante.
Aveva iniziato le sue ricerche con la pubblicazione de: La città fabbrica, contributi per un’analisi di classe del territorio, tracciando un percorso che si sarebbe sviluppato per 50 anni, da: Il territorio dell’abitare (con R. Paloscia) nel 1990, fino a Il progetto locale (Bollati Boringhieri, 2000), Verso la coscienza di luogo del 2014 e poi con Beccattini di nuovo: la Coscienza dei luoghi, il territorio come soggetto corale del 2015.
Questi ultimi libri pubblicati in diverse lingue. In Francia godeva della stima e dell’ammirazione di personaggi come Francois Choay, autorevole storica dell’architettura e dell’urbanistica francese.
Le facoltà di Architettura di tutta Italia ci tenevano ad averlo presso di loro per sentire i suoi seminari, la sua concezione di territorio che tanto si discostava dalla retorica accademica. Era circondato da tanti amici, compagni, allievi affascinati dalle sue teorie, che lo hanno seguito fino agli ultimi momenti della sua vita.
Difficile riassumere il suo lungo percorso di ricerca e di impegno civile, considerata la sua vastissima produzione tutta volta al rapporto territorio-comunità.
In tal senso si era anche occupato delle vicende di Adriano Olivetti, pubblicando: Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora , insieme a Marco Revelli e Aldo Bonomi (Dervive approdi, 2015).
Sapevamo da tempo che era malato, ma non per questo ci eravamo abituati a perderlo, prima o poi. Ci rimane di lui l’immagine sorridente e luminosa capace di trascinare alle sue idee anche coloro che la pensavano diversamente. Una mente originale e un grande amico. Riposa in pace, Alberto: hai lasciato un segno indelebile in tutti noi, ti ricorderemo sempre.
da “il Manifesto” del 22 settembre 2023
Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto
Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.
Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.
La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.
I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.
Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).
Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.
Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.
Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.
Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.
La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).
Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.
Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.
La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.
da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto
Dissesto idrogeologico: costruire le istituzioni «custodi del territorio».-di Alberto Magnaghi
L’ecocastastrofe socioambientale dell’Emilia Romagna, segna un punto di non ritorno rispetto agli effetti della crisi climatica: l’alternarsi di lunghi periodi di siccità impermeabilizzante e precipitazioni violente aggredisce il territorio in dimensioni inedite, diffuse e interconnesse fra versanti e pianure. L’ennesima riproposizione rituale di politiche emergenziali sul dissesto idrogeologico non serve più. Non serve più fare oggi ciò che non si è fatto in passato.
Ciò che serve, oltre al blocco radicale del consumo di suolo, è un sistema di progetti integrati, multisettoriali a livello di bacini e sottobacini idrografici, capaci di ridefinire globalmente le relazioni fra sistemi insediativi e ambiente, fra versanti e pianure.
Montagne (35%) e colline (41,6) costituiscono più del 70% del territorio italiano. E’ qui che i terreni induriti dalla siccità prolungata, franano e scaricano improvvise e rapide valanghe di acqua e fango in pianure a loro volta impermeabilizzate, i cui fiumi e torrenti non smaltiscono più e allagano campi e città, con tempi di ritorno dei fenomeni sempre più frequenti.
Si impone dunque la priorità strategica di trattenere a monte le acque nei periodi di precipitazioni violente e realizzare in tempo di siccità un rapporto virtuoso di deflusso controllato delle portate richieste per mantenere il minimo vitale ecologico dei fiumi.
Realizzare questo duplice obiettivo è meno semplice che costruire casse di espansione e collettori lungo i fiumi principali: oltre che politiche idrogeomorfologiche, richiede trasformazioni urbanistiche, ambientali, agroforestali, infrastrutturali, socioculturali, paesaggistiche di sistemi collinari e montani, storicamente abitati da comunità agroambientali, costellati da reti di piccole e medie città, paesi, frazioni che, nonostante i fenomeni di spopolamento, mantengono ancora le ricche strutture patrimoniali del loro territorio.
Ciò richiede progetti e politiche che riguardino, ad esempio: sistemi di trattenimento delle acque di prima pioggia (de-impermeabilizzazione dei suoli, riattivazione di cisterne storiche, nuovi sistemi di recupero e stoccaggio urbano e rurale nei piani urbanistici; reti di piccoli invasi multifunzionali e regolazione dei reflui urbani); recupero dei terrazzamenti e delle infrastrutture boschive e dei coltivi (ripiani e strade sostenuti da muri a secco, ciglioni, lunette, canali, fossi, scoline), in funzione produttiva e di regolazione del deflusso delle acque; riqualificazione delle strutture idrauliche di bacino (rii, torrenti, borri, briglie, ecc); infrastrutturazione delle attività agricole per il trattenimento delle acque e estensione del ruolo delle aziende a funzioni di produzione di servizi ecosistemici e di «custodi del territorio», in primis degli equilibri idrogeologici.
Questi progetti integrati non sono attivabili senza due condizioni fondamentali: la prima, l’avvio di un grande processo di ripopolamento dell’alta collina e della montagna, incentrato sull’’innovazione e estensione di funzioni delle attività agroforestali alla cura del territorio, che siano in grado di ricostituire capillarmente, a livello di singoli sottobacini, le condizioni di sicurezza idraulica e geomorfologica dei versanti; la seconda, la trasformazione radicale degli istituti di autogoverno locale verso forme di democrazia comunitaria, stante l’attuale incapacità dei Comuni di gestire progetti integrati e autonomi di pianificazione “dal basso”, data la dipendenza dai partiti centrali e da relative forme settoriali di intervento.
Attualmente queste due condizioni sono scarsamente promosse dalle politiche pubbliche; anche se i processi spontanei di ripopolamento della montagna attivati da “ritornanti, restanti e nuovi abitanti”, accompagnati dalla presenza capillare sul territorio di forme comunitarie di cura (ecomusei, contratti di fiume, parchi agricoli, comunità, distretti e biodistretti del cibo, cooperative di comunità, comunità energetiche, fondazioni, associazioni e imprese a finalità socioterritoriale e ambientale e cosi via), se assunti e valorizzati come riferimenti socioproduttivi, potrebbero dar luogo a una nuova civilizzazione bioregionale in grado di affrontare le due nuove urgenze strategiche di mitigazione e contrasto della crisi climatica.
da “il Manifesto” del 27 maggio 2023
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Legge Calderoli, come fare a pezzi il patrimonio artistico nazionale.-di Battista Sangineto
Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di disegno di legge del ministro Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione di 23 materie alcune delle quali, per prima la Sanità, riguardano aspetti fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione, la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il patrimonio della cultura ed il paesaggio. Il sentirsi italiani, il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese si basa sulla consapevolezza di essere i custodi di un patrimonio culturale unitario che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano e che non ha eguali al mondo.
Perché, come scrive Salvatore Settis: “…La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela non sono due storie parallele che si sono intrecciate per caso. Al contrario, sono due aspetti della stessa storia: se il nostro patrimonio è tanto abbondante e diffuso, è perché abbiamo fino a ieri saputo conservarlo; e abbiamo saputo conservarlo perché vi abbiamo riconosciuto il nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima.”
Il Dl leghista è dotato di un “Elenco delle materie che possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene (art. 117, secondo comma, lettera s) modifiche sostanziali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico, ora in capo alla Repubblica, affidandole alle 20 Regioni che diventerebbero veri e propri staterelli. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.
A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione – voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001 – la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono sciaguratamente diventate oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia-Romagna di Bonaccini. Le tre Regioni avevano chiesto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già con il Governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.
Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato comunista costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché sapeva bene che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.
Se dovessero passare le modifiche anticostituzionali ed antiunitarie proposte, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, verrebbero polverizzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine organico alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto il tessuto storico e sentimentale che tiene insieme il Paese, quel “nostro orizzonte di civiltà, la nostra anima”, quel nostro sentirsi ed essere italiani.