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Un nuovo fisco. Relazione introduttiva di Piero Bevilacqua. Per un'alternativa politica e sociale.

Un nuovo fisco. Relazione introduttiva di Piero Bevilacqua. Per un'alternativa politica e sociale.

Provo a chiarire nel più breve tempo possibile il senso di questa iniziativa. Intanto due parole sul metodo.Ci mettiamo insieme, studiosi, dirigenti politici e sindacali, soggetti provenienti da mondi diversi, non per creare una lista elettorale, ma per esaminare un rilevante problemi della vita nazionale, per tentare di eleborare proposte e soluzioni. Al tempo stesso proviamo a ricostruire esperienze di unità, intesa, empatia umana tra tutti noi. La politica si fa anche coi sentimenti. E la sinistra è stata storicamente portatrice di sentimento generosi, alla base della sua ragion d’essere: la solidarietà, li spirito di fratellanza. D’altra parte la nostra iniziativa ha senso se l’urgenza che pur ci muove non guarda semplicemente alle prossime elezioni, ma si iscrive in un processo di lunga lena.

Perché il fisco? Ricordo brevemente che la rivoluzione conservatrice, quella che è poi universalmente conosciuta come politica neoliberista, parte nel Regno Unito e in USA con due iniziative convergenti: la lotta aperta contro i sindacati e la demolizione del sistema fiscale progressivo fondato dopo la Seconda guerra mondiale. La sociolga americana Monica Prasard ha definito l’ Economic Recovery Tax Act varato da Reagan nel 1981<> (The politics of free markets.The rise of neoliberal economic policies in Britaim, France, Germany & the United States, Chicago University Press, Chicago 2006, p. 45) Negli ultimi 40 anni l’emarginazione della classe operaia e la riduzione del carico trubutario ai ceti ricchi e alle imprese sono andati di pari passo. Hanno costituito la leva (insieme alla ristrutturazione delle imprese e altri processi che qui non possono essere neppure accennati) per lo smantellamento dello stato sociale, per realizzare vasti processi di privatizzazione, ridurre il potere e il valore lavoro, in fabbrica e nella società. La storia economica e sociale degli ultimi 40 anni in gran parte dei paesi del mondo si svolge lungo quest’asse.

La vicenda del fisco italiano non si discosta da tale traiettoria. Non entrerò nel merito della questione. Lo faranno con più competenza di me i tanti studiosi che parleranno fra poco. Mi limito a rammentare che dal 1974, da quando entrò in funzione l’Irpef, gli scaglioni che allora erano ben 32, con un impronta progressiva, oggi sono diventati 5. È progressivamente aumentato il carico sugli scaglioni più bassi e diminuito quello sui redditi più alti. La flat tax è già operante. Ma tutto il sistema è squilibrato e costruito in danno dei ceti popolari. Ricordo che le imposte indirette che colpiscono indiscriminatamente tutti i cittadini sono passati dall’8,4% del 1982 al 14,4% del 2016.E come diceva Don Milani <>
Oggi quasi l’intero gettito dell’Irpef grava sui ceti proletari: il 54% proviene dal lavoro dipendente, il 5% da lavoro autonomo, il 30,5 % dalle pensioni.

Il contributo dei patrimoni – la grande ricchezza nascosta degli italiani – nel 2016 contribuiva col 7,2%. (Per questi dati ho utilizzato il ricco dossier, Fisco & debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, consultabile in rete, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi)

E a questo proposito, di fronte alla razionalizzazione recente operata della “riforma Draghi”, che non ha cambiato nulla dell’assetto classista e antipoplare del sistema fiscale italiano,vi ricordo i dati aggiornati della concentrazione abnorme della ricchezza privata nel nostro Paese. La Relazione della Banca d’Italia per il 2020 mostra un forte incremento della ricchezza finanziaria delle famiglie, che passa da 4.445 miliardi di fine 2019 a 4.777 del 2020. Con un incremento della quota destinata ai risparmi di oltre il 15%, il doppio del 2019. Sono dati di una ingiustizia drammatica. Mentre nel paese infuriava la pandemia da Covid 19, una delle pagine più buie della nostra storia, mentre migliaia di persone cadevano in povertà, pativano la morte e lunghe malattie dei loro cari, tante famiglie già ricche continuavano a gonfiare il loro conti correnti in banca. E ricordo che sfuggono a questo quadro i soldi volati nei paradisi fiscali.

Permettetemi un’ultima considerazione sul tema fisco. Com’è universalmente noto tra elusione ed evasione fiscale vengono sottratti al bilancio statale tra i 120 e i 150 miliardi all’anno. Ora non indulgerò nella solita retorica recriminatoria. Svolgo una considerazione di natura storica e politica. Il sistema fiscale è un accordo tra governanti e governati, e costituisce, per eccellenza il patto fondativo degli stati moderni. Le rivoluzioni borghesi del XVIII secolo partono da qui. Che cosa si deve allora pensare di un paese nel quale da decenni si pratica e si tollera una gigantesca evasione fiscale, tanto da essere diventata un elemento sistemico dell’assetto finanziario dello stato ?

È evidente che il patto solidale fra cittadini è gravemente incrinato. L’evasione ormai si configura come un accordo omertoso tra i ceti dominanti e le istituzioni, tra gruppi delinquenziali e potere pubblico. Il rapporto di fiducia tra la maggioranza degli italiani che paga le tasse e le istituzioni si porta dietro da anni questa profonda ferita. E’ come se l’intera Repubblica si reggesse su questa violazione, la violazione dell’art. 53 della Costituzione, su una illegalità fondativa che getta un’ombra di sospetto e sfiducia su tutto il ceto politico. Nel momento in cui le condizioni di vita di milioni di famiglie peggiorano per la mancanza di lavoro, la pandemia, e oggi l’inflazione dilagante, che getterà nella disperazione chi è già povero, questo segreto patto scellerato deve essere messo al primo posto delle nostre denunce.

Ma la critica che noi muoviamo ai partiti, quasi tutti i partiti, ha motivazioni più ampie e di carattere storico. Sono critiche che servono a illuminare e spiegare i problemi presenti della vita italiana. Tutti siamo consapevoli della grave decadenza che ha investito la politica, questa antica arte del governo degli uomini.

In Italia, come al solito, i fenomeni sono più esasperati che altrove, con qualche elemento di folklore in più, ma la degradazione della politica investe tutti i paesi avanzati. E una delle ragioni di questo declino, che costituisce la perdita rilevante di una conquista della modernità, quando la politica è nata e si è presentata per la prima volta nella storia come progetto di mutamento e miglioramento della condizione umana – sottratta alla sua immodificabile naturalità – proviene da una scelta suicida dei partiti occidentali. I partiti di Mitterand, di Schroeder, di Clinton, di Blair, di D’Alema.

Sono stati i gruppi dirigenti di questi partiti che hanno completato l’opera, già avviata dalle destre neoliberiste, con un lavoro di riduzione sistematica del potere pubblico e hanno permesso, con la retorica di liberare l’economia da lacci e lacciuoli, lo scatenamento su scala mondiale degli interessi economici e finanziari privati. (Esiste ormai una ricca letteratura sul tema, mi limito a ricordare i testi di S.Halimi, Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi Editore, Roma 2006; e D.Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore Milano 2005)
Negli ultimi decenni la rivoluzione informatica, i processi di concentrazione oligopolistica della ricchezza, i fenomeni della cosiddetta globalizzazione, hanno portato alla nascita di colossi transnazionali, nuove Compagnie delle Indie, di età medievale, che hanno la forza di veri e propri stati.

Il potere politico, detentore per tutti i secoli della storia umana del monopolio della violenza, è oggi subordinato al mercato e ai suoi imperativi. E oggi la logica unilaterale e preminente dello scambio di merci ha plasmato l’intelaiatura sociale, dissolto l’etica della politica, è penetrata in ogni ambito del vivente, si è imposta come l’unica razionalità del mondo. Al punto che siamo giunti al supremo paradosso. Le politiche neoliberistiche che in tutti questi anni hanno assegnato al potere pubblico il limitato compito di regolare la competizione tra i soggetti privati ci hanno condotto a questo stadio: ora è il mercato che mette in competizione gli stati fra loro. L’Europa fornisce uno spettacolo edificante in proposito.I governi gareggiano a chi offre maggiori condizioni fiscali, lavoro più flessibile e a buon mercato alle grandi imprese che investono nel loro territorio. Sgomitano per favorire gli interessi privati in danno dei lavoratori e dei cittadini.

Per decenni la Germania, il paese leader del Continente, ha fatto concorrenza a tutti gli altri stati accrescendo i suoi mercati d’esportazione grazie la riduzione salariale, la flessibilità del lavoro e altre forme di dumping.

Ma non basta questo. La piena libertà di cui gode il capitale, non solo quello finanziario, anche quello d’impresa, di delocalizzare i propri impianti, ha creato una asimmetria rovinosa nel rapporto tra capitale e lavoro, e nel meccanismo dinamico della vita sociale. Se il capitale si muove su uno spazio planetario e la classe operaia rimane inchiodata al suo territorio, il conflitto operaio viene depotenziato sul nascere. E il conflitto, ricordo, è stato il meccanismo dinamico che ha trasformato la società industriale, l’ha portata dagli esordi schiavili della prima industrializzazione settecentesca all’assetto avanzato dello stato sociale contemporaneo. Ma se il sindacato viene indebolito in questo punto nodale, anche i partiti, tutti i partiti non possono rappresentare e difendere più di tanto la grande massa della popolazione. Possono solo operare piccole mediazioni al ribasso. Se il potere pubblico non riacquista una nuova centralità sulla vita economica e i domini privato, a livello nazionale e soprattutto sovranazionale, la politica non uscirà dalla propria condizione ancillare.

Da quanto abbiamo detto non stupisce se in tutti questi anni i partiti, di qualunque schieramento, non hanno fatto altro che accrescere la flessibilità, quindi la precarietà del lavoro. E’ anche in ragione di tale debolezza fondativa in cui sono precipitati, che anche le forze di sinistra si sono progressivamente allontanate dai ceti subalterni, per cercare sempre più consenso nei ceti medio alti.E’ esattamente per tale subalternità strutturale al mercato – ormai poggiante su un meccanismo che si autoalimenta – che tutti i partiti, qualunque sia il loro linguaggio pubblicitario, corrono verso il centro, si orientano cioé verso una politica moderata, che non modifica in nulla l’assetto mostruosamente disuguale della società italiana, tentando di conservare il consenso su quella porzione sempre più minoritaria di cittadini che ancora si reca alle urne.

Tutti corrono al centro, perché in quel luogo sociale c’è l’impresa, c’è il ceto medio abbiente, ci sono i grandi media, c’è il potere. Ma non ci sono gli operai poveri – miracolo del capitalismo del nostro tempo – non ci sono le donne perennemente disoccupate del Sud, e quelle del Nord pagate meno degli uomini per la stessa fatica, non ci sono i rider, i braccianti semischiavi delle campagne, non ci sono i nostri giovani.

E’ questo il meccanismo che presiede e alimenta il declino italiano. I partititi ormai da decenni condannano il paese all’immobilità, alla permanenza degli squilibri economici e delle disuguaglianze che lo lacerano, facendo scarseggiare le risorse alla scuola, alla sanità, alla ricerca, ai comuni, alla gestione delle città, alla soluzione dei nostri problemi ambientali.

Non voglio indulgere nelle denuncia, non c’è n’è bisogno. Ricordo semplicemente che l’Italia vede diminuire di anno in anno la propria popolazione. Da quando esiste la scienza economica non c’è stato indice più significativo per valutare la decadenza di un paese del suo declino demografico. Alla fine della pandemia, che ci auguriamo definitiva, noi avremo di fronte un paese con un debito pubblico accresciuto, 2 milioni di famiglie povere censiti nel 2020 che non avranno cambiato stato, la disoccupazione dei giovani intatta, quelle delle donne ulteriormente aumentata, la condizione del nostro Sud peggiorata, interi settori della nostra economia, piccole imprese e piccolo commercio messi fuori gioco. Chi rappresenterà realmente questa vastissima area di sofferenza sociale? L’affideremo al plebeismo criptofascista della Meloni, agli slogan a buon mercato di Salvini, ai moderati italiani i quali gridano “al ladro al ladro” appena si pronuncia la parola patrimoniale?

Ma questo quadro necessariamente rozzo e schematico non tiene conto di ciò che è del tutto assente dalla cultura del ceto politico italiano. La questione ambientale. Non è un problema del futuro, ma di oggi. Lasciatemi fare due considerazioni. Guardiamo a un problema drammatico fuori d’Italia. In alcune regioni dell’Africa non piove da anni. Quel continente è oltre il Mediterraneo, certo e appare come un mondo lontano. Ma la prolungata siccità di quelle terre è un evento che ci riguarda da vicino e immediatamente, perché il pianeta è diventato piccolo e tutti ci accumuna e ci riavvicina coi suoi problemi. Che faremo dei milioni di africani che stanno scappando da terre rese inabitabili dal calore e dalla siccità?
Ma guardiamo in casa nostra. Lo spettacolo televisivo dei ghiacciai che collassano ci impressiona. Ma il fenomeno è destinato a colpirci in maniera devastante. Se scompaiono i ghiacciai delle Alpi, già gravemente compromessi, verrà sconvolto il più complesso sistema idrografico d’Europa, quello mirabilmente tratteggiato da Carlo Cattaneo nell’800. Il Po e i suoi affluenti e tutte le acque alpine non saranno più alimentate, e nella Pianura padana verrà a mancare l’acqua, la risorsa fondamentale su cui si è fondata la sua ricchezza. L’intera economia, non solo quella agricola, della parte più ricca del Paese sarà colpita con esiti che non possiamo prevedere.

Quale partito si sofferma in Italia su questi problemi, accenna a progetti di adattamento al mutamento climatico? Noi siamo impegnati nel PNRR-Next generation, che richiede risorse ingenti per la transazione ambientale. Eppure nel 2021 il nostro governo ha autorizzato una spesa in armamenti, richiesti dalla Nato, per 12 miliardi di euro. Sono anni che sottraiamo risorse fondamentali ai nostri bisogni per produrre e comprare armi, cioé per uccidere essere animali, distruggere territori, habitat selvaggi, città, opere dell’uomo. Noi che siamo riuniti qui abbiamo una logica infantile. Riteniamo tutto questo incompatibile con i bisogni della vita, con le sfide del futuro. Gli armamenti non si combinano con la transizione ambientale.

La Nato è una macchina da guerra, come ha dimostrato coi fatti negli ultimi 30 anni, e noi abbiamo bisogno della pace, di un assetto multilaterale del mondo, di una Costituzione della Terra, come ci indica Luigi Ferrajoli (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli Milano ,2022) se vogliamo davvero assicurare la sopravvivenza degli uomini sul pianeta. Condanniamo senza se e senza ma l’aggressione della Russia all’Ucraina, ed esprimiamo totale solidarietà alla sua popolazione gravemente colpita. Ma senza lo smantellamento della Nato, di questa centrale del disordine internazionale, sorgente di spese militari sempre più insostenibili, il pianeta – quanto meno l’umanità su questo pianeta – non avrà futuro.

Allora che possiamo fare noi piccola e volenterosa aggregazione di fronte a problemi così giganteschi? Intanto possiamo cominciare a mostrare, con una analisi seria e tecnicamente fondata, che una una riforma generale del fisco potrebbe rimettere in moto in Italia la macchina economica, accrescendo i redditi bassi e incrementando la domanda, fornire risorse per il welfare, per i comuni, che possono rafforzare i propri servizi, migliorare complessivamente la qualità della vita, ricostituire un rapporto di fiducia tra cittadini e stato. Dobbiamo dire con forza che la sinsitra non è il partito delle tasse, ma dell’equità fiscale, che le tasse vengono prelevate dove c’è ricchezza, ma diminuite ai ceti medio-bassi, l’ambito il cui una forza di sinistra degna di questo nome deve radicare il proprio consenso. Abbiamo bisogno di una posizione classista, apertamente schierata dalla parte degli ultimi, se vogliamo fondare una nuova forza politica, senza strizzare l’occhio di qua e dlà.
Ma noi non solo vogliamo alimentare posizioni politiche radicali – radicali, non estremiste, come pensano le menti semplici -necessarie in un paese in cui i partiti non rappresentano più quasi metà della popolazione.

Vogliamo cambiare la cultura della politica. Questa iniziativa sul fisco sarà proseguita da forum consimili in cui si affrontano i temi dell’autonomia differenziata, della sanità, della scuola, dell’agricoltura. Lo vogliamo fare coinvolgendo i saperi esperti che in Italia, a sinistra, si mobilitano ancora senza fini di lucro, per affrontare in maniera non ideologica i problemi. E voglio sottolineare un aspetto che fa onore ai nostri amici che sono qui ospiti, ma anche al nostro paese, alla sinistra. Chi legge la locandina del convegno può osservare quanti studiosi vi prendono parte. Eppure, tutti, non solo lo fanno senza compenso, ma alcuni sono venuti anche da lontano a proprie spese. Dobbiamo dunque cambiare la cultura politica dell’Italia perché quella attuale è chiusa dentro i paradigmi del secolo scorso, o si è ridotta a mera tecnica comunicativa che sguazza nel pantano mediatico. I dirigenti politici in genere non leggono più libri, non hanno bisogno di Bauman, o di Piketty, o di Edgar Morin. Non avvertono alcuna necessità di intercettare le correnti profonde che attraversano il nostro tempo. Vivono alla giornata. Gli basta Sandro Pagnoncelli e le sue rilevazioni aggiornate sul gradimento elettorale degli italiani.
Ebbene, malgrado un panorama così degradato, ci è lecito nutrire più che una vaga speranza. Noi possiamo cambiare la cultura del nostro paese, perché possediamo in Italia una grande ricchezza quasi invisibile o non calcolata.

È il general intellect di Marx, quell’insieme dei saperi generati dallo stesso sviluppo capitalistico, che alimenta la cultura diffusa, ma non riesce a trovare la via per far valere la sua potenza politica. Noi possiamo ricorrere all’immenso e disperso patrimonio dei gruppi intellettuali, delle associazioni, circoli, fondazioni, riviste, siti che operano su vari temi e in disparati ambiti territoriali. È caduto infatti qualcosa di imprevisto. È decaduta la cultura dei partiti politici, diventati agenzie di marketing elettorale, ma è fiorità al di fuori di essi un’altra cultura politica. E qui concedetemi questa citazione di André Gorz, (che aveva già anticipato il mio pensiero) e che illumina come meglio non si potrebbe la situazione presente:

<>. (Introduzione all’edizione italiana di Ecologia e politica, Cappelli Bologna, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi 1978, pp 8-9)

Ora noi non possiamo far rientrare questa politica nei partiti. Non solo perché non ne avremmo la forza. Siamo consapevoli che gran parte di queste aggregazioni non entreranno mai in una
formazione politica strutturata. Nessuno o quasi vuole rinunciare alle proprie identità e autonomie.

E va bene anche così. Si trasforma il mondo molecolarmente in molti modi. Ma la scommessa che noi vorremmo giocare nel proseguo di questo processo che stiamo avviando è di creare un canale comunicativo permanente, sistematico, con quante più realtà organizzate possibili, per sostenre battaglie comuni, campagne di difesa o di attacco, per conseguire finalità condivise. Anche una piccola formazione come la nostra, se bene organizzata, se è capace di creare una vasta rete, un canale informativo parallelo e alternativo a quello dei grandi media , potrebbe mantenere contatti costanti di collaborazione con questo vasto arcipelago che contribuisce a fare dell’Italia un paese ancora abitabile. Ho detto piccola formazione per rispetto della realtà e per ovvia modestia, non per svalutazione della dimensione partito.

Il partito politico è stato una delle grandi creazioni della storia contemporanea, insieme al sindacato la leva per l’emancipazione di diverse generazioni di subalterni. Ma io concludo ricordando con Gramsci che il partito moderno non si limita alla rappresentanza, esso ambisce ad organizzare la volontà collettiva, a fare degli individui dispersi una forza ispirata da un progetto generale di cambiamento. Perciò anche un piccolo partito, sia pure con una ridotta rappresentanza in Parlamento, se riesce a dialogare con questa moltitudine di associazioni, a fornire ad esse, di volta in volta, l’orizzonte generale e l’intelaiatura per le singole battaglie comuni, non solo è destinato a crescere, a diventare il nuovo soggetto politico cui aspiriamo da anni, ma sarà anche a capace di incidere fin da subito nella vita italiana.

Draghi ingegnere del sistema e non un pilota automatico.-di Alfonso Gianni

Draghi ingegnere del sistema e non un pilota automatico.-di Alfonso Gianni

Tutto si può dire del governo Draghi, se si farà, tranne che si tratti di un governo tecnico. I precedenti, nati sotto quella definizione, Ciampi, Dini, Monti sono tra i governi che hanno più inciso nella vita materiale del paese – vedi per esempio le pensioni – e quindi hanno fatto politica, nel senso più pregnante del termine. Nello stesso tempo troppo diverse sono le condizioni oggettive e soggettive per poter fare paragoni stringenti con quelle situazioni. Con Draghi abbiamo una compenetrazione tra governance europea e governo nazionale.

È persino riduttivo dire che per l’ignavia delle classi dirigenti politiche ed economiche del nostro paese ci tocca il «pilota automatico», un commissario tecnocrate. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore, non solo il suo robot. Mario Draghi ha interpretato diverse fasi della costruzione dell’Europa, qualunque fosse il suo ruolo pubblico o privato. Almeno quattro e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali.

L’epoca delle grandi privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia, per cui il nostro paese divenne il secondo dopo l’Inghilterra thatcheriana per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo Fiscal compact e l’accanimento brutale nei confronti della Grecia. La famigerata lettera assieme a Trichet al governo italiano del 5 agosto del 2011 che tracciò un percorso di lacrime e sangue puntualmente eseguito dai governi che seguirono. Il lancio, seppure tardivo rispetto ad altre parti del mondo, della politica monetaria espansiva, con il Quantitative Easing.

Per arrivare all’intervento sul Financial Times del 25 marzo dello scorso anno, nel quale il debito (quello «buono», non per fini assistenzialistici o per tenere in vita imprese zombie, preciserà altrove) smetteva di essere un tabù e allo stesso tempo si denunciavano i limiti di una politica monetaria espansiva non accompagnata da modifiche strutturali.

Svolgendo la pellicola si ha la visione precisa del costruirsi di una politica, quella del tempo della lotta di classe dopo la lotta di classe – avrebbe detto Luciano Gallino – agìta dal punto di vista dei vincitori. Con Draghi quindi non assistiamo alla morte di tutte le politiche. Ma al funerale di quella di cui sopravviveva solo un ingannevole crisalide, una volta che la rappresentanza politica di una delle parti del conflitto sociale era stata – e si era – cancellata.

Le modalità di formazione del nuovo governo presentano non poche anomalie, anche sotto il profilo costituzionale. Lo si può anche definire un governo del Presidente nei limiti in cui questa definizione ha senso in un sistema che ancora mantiene la forma del governo parlamentare.

Senza indulgere a disutili dietrologie, l’insolito attivismo del Capo dello Stato ne ha certamente determinato l’atto di nascita, nel vuoto umiliante di iniziativa delle forze politico-parlamentari, in una situazione che tutti a parole hanno dipinto tanto drammatica da assimilarla a quelle postbelliche. Se si guarda dal buco della serratura dell’oscillazione dello spread non si sono verificati crolli drammatici come nel passato.

Ma questo dimostra solo la compenetrazione della nostra economia nel quadro internazionale e le attese legate all’innovativo intervento europeo. Ma non risolve il problema della diminuzione dell’occupazione, con giovani e donne le prime vittime, o lo sprofondare del nostro mezzogiorno. I ritardi del Recovery Plan non sono temporali, quanto culturali.

Una classe dirigente cresciuta nel mito dell’austerità e del rigore, naturalmente applicati non a sé (si pensi all’isterica reazione a fronte di una timida proposta di patrimoniale) ma ai più deboli, ovvero alla stragrande maggioranza della popolazione, con difficoltà può essere rieducata alla capacità di spesa. Chi ha negato in ragione di principio la possibilità dell’intervento pubblico diretto a impostare un nuovo tipo di sviluppo economico, trova incompatibile l’idea stessa di programmazione. Le questioni che ha davanti Draghi sono queste, assai più gravi del nome dei ministri, della loro estrazione, se dal mondo delle competenze o da quello di una esangue nomenclatura partitica.

Il tentativo della destra nostrana di riaccreditarsi, anche a livello europeo, dimostrandosi disponibile e vogliosa di partecipare in prima persona nel nuovo governo va respinta non inFoto di Harri Vick da Pixabay nome del perimetro «Ursula», ma sulla base di scelte di programma e di senso del bene pubblico. Su questo fronte era lecito attendersi un atteggiamento più prudente da parte dei vertici sindacali, i quali hanno subito espresso un inusitato endorsement per Draghi, prima ancora dell’incontro promesso.

Tanto più che l’intesa raggiunta sul contratto dei metalmeccanici, che dovrà essere validata dai lavoratori, dimostra che si poteva produrre una breccia nel muro confindustriale, riaprendo uno spazio sociale e democratico che è l’unico modo per influire anche sulle scelte del governo che verrà.

da “il Manifesto” del 7 febbraio 2021
Foto di Harri Vick da Pixabay

Verifica e arcipelago Pd.-di Franco Monaco

Verifica e arcipelago Pd.-di Franco Monaco

Renzi lo conosciamo. Egli fa conto di sopperire alla penuria dei consensi con uno spregiudicato
protagonismo nel Palazzo, facendo pesare il manipolo di parlamentati transfughi eletti nel Pd.
Nemesi del “nuovista rottamatore”: artefice di una “verifica” preceduta dalla richiesta di un
“rimpasto”. Parole e riti della vecchia politica.

E tuttavia non è un mistero che, ancorché di rincalzo e parandosi dietro Italia Viva, anche il Pd
abbia coltivato l’idea di rimettere mano agli organigrammi. Oggi lo negano, ma nelle scorse
settimane lo hanno proposto suoi autorevoli dirigenti: da Bettini a Orlando a Marcucci.
Naturalmente all’insegna di nobili intenti: ripartenza, rilancio, cambio di passo, salto di qualità,
rafforzamento del governo.

Per farsi una ragione del comportamento del Pd (o dei Pd, al plurale) dentro la verifica di governo è
utile riflettere, a monte, sulla sua natura e sulla sua composizione interna. Nella indole “governista”
del Pd allignano due profili: esperienza e cultura di governo di una classe dirigente sperimentata,
anche perché erede più o meno diretta dei partiti storici, ma anche – secondo profilo – una spiccata
vocazione/ambizione all’esercizio del potere.

Un’ambivalenza/ambiguità che si riflette nella costituzione materiale del partito, sempre meno
radicato nella società, sempre più interno allo Stato; articolato in componenti sempre meno
espressione di riconoscibili orientamenti politico-culturali e sempre più abitato da tribù e cordate
personali. Non è facile e tuttavia può essere utile disegnare una mappa, ancorché incompleta e
provvisoria, delle articolazioni piddine che non sempre coincidono con le effettive correnti
organizzate dentro il Pd. Una confederazione di Stati e staterelli i cui confini spesso si intrecciano.
La struttura appunto confederativa concorre a spiegare come, anche dentro la verifica, le attese e le
pretese, sommandosi, si dilatano.

Innanzitutto c’è da mettere in conto una generale eredità renziana tutt’altro che smaltita, anche
perché l’elezione di Zingaretti – il plebiscito di un giorno – non è passata attraverso una riflessione
congressuale che elaborasse la discontinuità e un effettivo ricambio del gruppo dirigente. Un
peccato d’origine che ne depotenzia la leadership.

Renziani per ascendenza. In senso lato e in certo modo, renziani lo sono tutti, nel vertice Pd.
Stavo da quelle parti e – fatta eccezione per la piccola pattuglia che ha seguito Bersani – faccio
fatica a fare un solo nome di chi si oppose per davvero al Renzi regnante. Lo ha osservato lui stesso,
a posteriori, bollando la legione degli ingrati. Al più si segnalava qualche voce solitaria e amletica
alla Cuperlo, utile da esibire. Se non vi fosse stata, Renzi se la sarebbe inventata. Non sorprende
che, a valle di tale generale allineamento, dopo la sconfitta di Renzi e l’ascesa di Zingaretti, si sia
prodotta la diaspora. Un riposizionamento non immune da una dose di trasformismo.
Teste di ponte renziane.

Non è necessario essere maliziosi. Basta non essere ingenui sino alla
dabbenaggine. Da subito ci si è chiesti perché mai – fuor di ipocrisia – sodali stretti come Marcucci
e Lotti non abbiano seguito il loro mentore. Poi è stato tutto più chiaro. Che la cosa sia stata
concordata o meno, sono manifesti e quotidiani i segnali di fumo e le pratiche convergenze.
Chiaramente una liaison tuttora operante.

Chi conosce la Toscana sa bene quanto stretto sia
l’intreccio di interessi politici, economici e personali riconducibili al Giglio magico.
Tardo-blairiani. Sono coloro che non la pensano in modo diverso da Renzi: coltivano una visione
neocentrista; hanno subito l’alleanza con il M5S; esorcizzano la disfatta del 2018; accarezzano
l’idea di ripercorre il sentiero della “terza via”. Una suggestione a dir poco anacronistica nella
nuova fase della globalizzazione.

Sono i Gori e i Bonaccini. Essi – anche in questo emuli di Renzi –
rivendicano come essenzialmente personali i loro successi, considerano il Pd quasi un ingombro e disdegnano l’alleanza con il M5S, come se vincere, rispettivamente, in un Comune o in Emilia,
fosse la stessa cosa che vincere in Italia.

Dispersi della diaspora. Vagano dispersi dentro il Pd i molti che, grazie alla loro organicità a
Renzi, hanno avuto un protagonismo in quella stagione e sono sopravvissuti parlamentarmente, ma
oggi sono comprensibilmente ai margini. Intendo politicamente, pur rivestendo magari ruoli
formali. Anche perché non hanno abbozzato una riflessione critica e autocritica al riguardo.
Vi figura anche qualche nome dai trascorsi di peso – è il caso di Fassino – altri meno. Tipo Delrio,
Martina, Serracchiani.

Essendo regola non scritta ma comune, essi sono formalmente ascritti a
questa o a quella corrente, ma in posizione ancillare e comunque privi di un loro riconoscibile e
riconosciuto profilo politico. Con una sua specificità, si potrebbe inscrivere nella categoria dei
dispersi anche Veltroni, primo segretario del partito: la sua ispirazione liberal(e), la sua visione di
una democrazia maggioritaria e d’investitura e la sua conseguente versione di un Pd leaderista e
autosufficiente ha in parte anticipato il renzismo. Ora Veltroni non ha ruoli politici e imperversa su
giornali e tv.

Neodemocristiani pragmatici. Moderati e pragmatici, dotati del consumato know-how
democristiano dell’adattamento alle mutevoli congiunture politiche. Cattolici decisamente laici.
Comprendono Franceschini e Guerini. Essi, nella Balena bianca, avevano referenti diversi
(Zaccagnini il primo, Andreotti il secondo) e pure ora militano in due diverse cordate. Ancorché
non di sinistra, in quanto eredi del centrosinistra storico e dunque dell’alleanza tra centro e sinistra,
sono tutto sommato tra quelli meno a disagio nell’attuale maggioranza di governo. Avendo la
cultura della coalizione.

Tuttavia, il loro pragmatismo, inteso come virtù, può risolversi in una disinvolta mobilità nelle
solidarietà interne (ne sa qualcosa Enrico Letta) e nelle alleanze esterne al partito.
Sinistra improbabile. Quella degli Orfini, che dalla scuola Pci ha assimilato il professionismo
politico, il politicismo, il gioco dei posizionamenti (l’importante è …. la segnaletica, cioè marcare
simbolicamente il territorio con estemporanee proposte bandiera come ius soli o patrimoniale, ben
consapevoli che non faranno alcuna strada). Non hanno avuto esitazioni in passato a contribuire ad
operazioni non esattamente di sinistra: alla sostituzione di Letta con Renzi, a fare da guardaspalle a
quest’ultimo e ad affossare il sindaco Ignazio Marino.

Socialdemocratici ex Pci. Penso ad Andrea Orlando. Ama accreditarsi come erede della
tradizione amendoliana e riformista del vecchio Pci (da Napolitano a Macaluso). Vicesegretario e
formalmente sostenitore del segretario Pd, ma, non da oggi, sembra seguire un suo percorso più
personale che politico. Sino a una sorprendente intervista a Repubblica, anzi… a sostegno della
campagna condotta da Repubblica per far fuori Conte.

Nella sostanza sposando le critiche di Renzi, solo con qualche dissimulazione, e adombrando l’idea
del commissariamento del premier. Tra i propugnatori del rimpasto. Nel solco della tradizione del
“partito più partito” (il Pci), Orlando si ispira all’idea del primato di esso o comunque alla
convinzione che il cuore della politica stia lì e dunque di un protagonismo del partito nel rapportarsi
a parlamento e governo. Così ha motivato la decisione di stare fuori dal Conte 2 per dedicarsi al
partito. Sin qui.

Cacicchi del sud. È il caso dei due “governatori” del sud, De Luca ed Emiliano. Ras territoriali,
uomini forti, a dir poco disinvolti sia nell’esercizio del potere, sia nella raccolta del consenso,
inclini – come usa dire – alle “reti a strascico”, cioè ad avvalersi del sostegno di un profluvio di liste

trasversali e al reclutamento di personale politico di ogni colore. Destra compresa. Senza andare
troppo per il sottile in tema di trasparenza e qualità etica. Due amministratori decisamente autonomi
(meglio: autocrati), che il partito è troppo debole per potersi permettere di toccare. Quasi
impossibile attribuire loro un’etichetta politico-ideologica.

Europeisti contiani. Penso a Gualtieri e al giovane Amendola. Forgiatisi alla scuola di partito e,
segnatamente, dalemiana. Politici professionali, di cultura riformista, espressione di una sinistra di
governo, con alle spalle esperienze in Europa. Gualtieri al parlamento di Strasburgo, Amendola a
Vienna tra i giovani Ds e all’Osce. Essi oggi occupano una posizione di rilievo nel governo sul
fronte strategico del rapporto con la Ue. Godono della stima di Conte e, forse per questo, sono
circondati dalla diffidenza di settori del Pd.

Il consigliere del Principe. Alludo a Bettini. Stratega della sinistra romana, dotato di abilità
manovriera. Ci prende gusto a rappresentarsi come ispiratore del leader. Ostentando la ricerca di un
ancoraggio ideologico per una sua nascente corrente, ha inventato sui due piedi l’impegnativa (alta
e improbabile) sigla “socialismo cristiano”.

In realtà, il suo, ha più l’aspetto di un concretismo che
lo conduce a scommettere sull’alleanza con il M5S (forse memore della sensibilità ingraiana per i
movimenti) e, insieme, ma anche con Renzi, generosamente interpretato come aggregatore di un
centro affidabile con il quale allearsi. Anch’egli fautore del rimpasto, a suo dire, al fine di rafforzare
Conte. Facciamogli credito di buone intenzioni. Ma si è visto quanto sia stato lungimirante aprire il
vaso di pandora del rimpasto.

L’enigma Zingaretti. In questo quadro, dominato da personalismi e logiche di corrente, egli si è
specializzato nella mediazione. Mena vanto per avere preservato una formale unità del partito,
tuttavia pagata al prezzo di una certa indeterminatezza di linea politica e della composizione
assemblearistica del gruppo dirigente. Lo si comprende, non è facile tenere la barra ferma. Certo, si
dovrebbe avere una bussola e una rotta coerente e decifrabile. Non oscillare tra la tesi del Conte
punto di riferimento alto dei progressisti e dando, a giorni alterni, un mezzo avallo alla guerra a
Conte ingaggiata da Renzi.

Tanti Pd rischiano di nuocere a una riconoscibile identità del Pd. Una confederazione di cordate per
lo più personali non riconducibili a una visione politica e che si regge su un mobile, precario
equilibrio anziché su una cultura politica comune. Intendiamoci: una questione che affligge tutti
i partiti, ma che dà ancor più nell’occhio nel caso di chi, sin dal nome e per le sue ascendenze, si
rappresenta come il più partito tra i partiti.

La classificazione qui abbozzata – certo, con approssimazione e non senza una punta di ironia –
suggerisce una più seria riflessione. La mappa e la denominazione assegnata alle varie tribù
testimonia che, a definire profili e appartenenze, sono essenzialmente due stagioni: quella, remota,
della prima Repubblica, e quella, più recente, del rapporto stabilito da singoli e gruppi con il
renzismo, che, ai miei occhi, ha rappresentato un deragliamento per un partito convenzionalmente
di sinistra.

Un partito personale e una torsione identitaria e tuttavia comunque un profilo definito. Per
converso, a qualificare le appartenenze, sembra non contino il presente e – spiace doverlo notare –
neppure il rapporto con i quindici anni dell’Ulivo. A mio avviso, il tempo più fecondo sia per
l’elaborazione di una cultura politica comune a sinistra, sia per la qualità dell’esperienza di governo.
Tuttavia, forse, per paradosso, se ne può ricavare una conclusione in positivo (e non depressiva e
rinunciataria): ancorati a passato prossimo e a passato remoto e con un presente privo di un ubi
consistam, si potrebbe dispiegare per intero, creativamente e coraggiosamente, la ricerca di una nuova soggettività politica del Pd e oltre il Pd. Aprendo il cantiere di una sinistra di governo larga,
plurale, inclusiva.

Dentro la società ci sono molte più energie di quelle raccolte nell’angusto recinto dell’attuale
sinistra politica. Basti un esempio: penso ai contenuti egualitari e ambientalisti, ma soprattutto al
metodo partecipativo da tempo messo in campo da Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini con
centinaia di associazioni.

Ci sono lì molta più politica e molto più protagonismo giovanile di quanti non se ne rinvengano
nei partiti. Di sicuro esiste un mondo più ricco e più esteso di quel 20% al quale è stabilmente
inchiodato il Pd. Non è necessario spingersi sino alla tesi, comunque improbabile, dell’auto-
scioglimento del Pd, basterebbe che esso si facesse promotore e perno del processo costituente di un
soggetto però a tutti gli effetti nuovo. Sarebbe nell’interesse suo, della sinistra e del più esteso
campo democratico.

Talvolta sfugge che, dalla sua nascita, nel 2008, non una sola volta il Pd ha vinto le elezioni
politiche. Lo ha fatto il suo ascendente, l’Ulivo, nel 1996 e nel 2006. Poi non più. Finalmente il Pd
dovrebbe avere imparato che, fuori dalle chiacchiere politiciste, una ben intesa “vocazione
maggioritaria”, in concreto, banalmente, significa attrezzarsi perché finalmente, una buona volta, si
accedere al governo vincendo le elezioni.

Il che comporta, di sicuro, a) l’abbandono della velleitaria e oggi persino risibile illusione
dell’autosufficienza; b) l’impegno a organizzare un campo di forze più ricco e più largo; c) ma
soprattutto – quale precondizione – l’esigenza di ripensare criticamente se stesso, la propria visione
e la propria forma organizzativa.

da Huffpost 17.12.2020

Lo scandalo della patrimoniale e la necessaria riforma fiscale.-di Alfonso Gianni

Lo scandalo della patrimoniale e la necessaria riforma fiscale.-di Alfonso Gianni

È ben noto che Cesare Beccaria nella sua opera principale non si limitò a pronunciarsi contro la pena di morte e la tortura (pensatore attualissimo come pochi, dato il persistere dei due flagelli), ma si spinse a mettere in dubbio il diritto di proprietà “terribile, e forse non necessario diritto”. Al punto da inquietare un filosofo come Jeremy Bentham, il quale considerava “sorprendente che uno scrittore giudizioso come Beccaria possa avere inserito, in un’opera dettata dalla più ragionevole filosofia, un dubbio sovversivo dell’ordine sociale”.

Ma la virulenta alzata di scudi che in queste ore si sta sollevando contro un emendamento alla legge di bilancio che vorrebbe introdurre una tassa patrimoniale, presentato da Fratoianni e Orfini, non ha nulla da spartire con le finezze di quella diatriba settecentesca.

Nell’accanirsi contro un elementare principio di giustizia fiscale non si teme di sfondare il muro del ridicolo, come Salvini che invita all’arresto immediato degli estensori della norma eversiva. Ma non molto meglio fanno gli altri della destra, nonché i massimi esponenti dei due partiti governativi, tra cui spicca un Di Maio non si sa se più incompetente o in malafede. Il nervo scoperto è stato colpito e la reazione non si è fatta attendere neppure un tempo di riflessione.

C’è chi, pur non privo di conoscenza di dottrine economiche, come De Nicola su La Stampa, scomoda Keynes per dire che non si possono alzare le tasse in un periodo di recessione. Infatti si tratta di vedere chi viene colpito da una tassazione patrimoniale. Non è una novità che la patrimonializzazione della ricchezza italiana sia tra le più alte in Europa. Stando a uno studio dell’Istat e della Banca d’Italia la ricchezza netta delle famiglie italiane è di circa 8 volte il loro reddito disponibile. Era il rapporto più elevato in Europa fino al 2014 poi è andato un poco riducendosi.

Non può esistere alcuna giustizia fiscale se non si incide sulla ricchezza data dal possesso di case e di titoli finanziari. Usciamo dal nostro paese: Warren Buffet nel 2015 ha pagato 1,8 milioni di dollari di tasse sul reddito, per un patrimonio stimato di 65 miliardi di dollari, quindi lo 0,003%. L’emendamento in questione, stando ai più recenti dati forniti da Oxfam, in realtà colpirebbe solo il 10% più ricco che in termini patrimoniali possiede oggi oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.

La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana. Secondo dati di Bankitalia risalenti al 2016 la linea di demarcazione in termini di ricchezza netta fra il nono e il decimo decile era di 462mila euro.

In sostanza si tratterebbe di colpire solo il decile più alto e, visto lo scalare delle aliquote previste, anch’esso in modo progressivo, mentre non vi sarebbero effetti ritorsivi sui decili più bassi e quelli intermedi. Senza contare che l’emendamento prevede l’esenzione per le persone fisiche a partire dal 2021 dal pagamento dell’Imu e dell’imposta di bollo sui conti correnti bancari e sui conti di deposito dei titoli.

Naturalmente le grandi riforme, e quella fiscale sarebbe una delle maggiori e più significative quanto a impatto reale sulla distribuzione della ricchezza, non si fanno a colpi di emendamento. Ma poiché lo stesso governo ha ripetutamente affermato che intende avanzare nell’anno che viene una proposta di modifica complessiva del sistema tributario, è bene ricordare che senza l’introduzione di una tassa patrimoniale ordinaria anche il migliore sforzo risulterebbe vano.

Certamente bisognerebbe riordinare le patrimoniali “reali” già esistenti – l’Imu appunto ne è un esempio -; valutare la congruità delle imposte sostitutive sui redditi da capitale; per quanto riguarda la componente immobiliare va fatto riferimento al valore di mercato; vanno studiati tutti i modi per combattere le forme di elusione e evasione che a fronte di una patrimoniale verrebbero scovati.

Andrebbe introdotta una tassa di successione, la cui misura tenga conto dell’entità della patrimoniale ordinaria. Il che permetterebbe un sostanziale alleggerimento della pressione fiscale sui redditi da lavoro, con una riduzione delle aliquote effettive, a favore di una maggiore progressività secondo il principio costituzionale che nei fatti è stato mortificato e scardinato dalla lunga serie di leggi e leggine che negli ultimi decenni hanno caratterizzato il nostro sistema tributario.

da “il Manifesto” del 1 dicembre 2020
Foto di Peter H da Pixabay