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La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

L’ultimo intervento della Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni sulle autonomie differenziate segue il metodo della contraddizione: cioè affermare azioni contrastanti, in modo da soddisfare richieste contrastanti. Meloni ha usato questo metodo con i suoi primi provvedimenti di governo. Infatti mentre è venuta incontro alle esigenze sentite da tutti per l’aumento delle bollette energetiche, d’altro lato ha tacitato le aspettative degli elettori di destra aumentando il tetto al contante, come peraltro hanno sempre desiderato gli evasori, ed eliminando il reddito di cittadinanza e il superbonus al 110%.

Altrettanto ha fatto per le autonomie differenziate affermando la necessità di una cooperazione tra Stato e Regioni accontentando così chi tiene all’unità d’Italia e sottolineando nello stesso tempo l’importanza di valutare le specificità dei vari territori accontentando così chi vuole le autonomie. Questo spirito contraddittorio diventa purtroppo mera menzogna quando politici della Lega affermano che le autonomie differenziate promuovono l’unità d’Italia, non lasciano indietro altre regioni e addirittura attuano l’articolo 5 della Costituzione, che pone il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica.

E’ tutto falso poiché le autonomie differenziate, che si risolvono nell’attribuire alle Regioni una potestà legislativa assolutamente libera ed esclusiva e sottratta all’obbligo di rispettare gli interessi nazionali e quelli delle altre Regioni, come era previsto dall’art. 117 del testo originario della Carta costituzionale e soppresso dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 relativa alla riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione, rompono l’unità economica, giuridica e politica dell’Italia rendendola priva di un patrimonio pubblico demaniale capace di far fronte agli stati di necessità, come avvenuto per la pandemia e per la guerra in Ucraina e debole sul piano europeo e internazionale, finendo per diventare preda di altre Nazioni. Si tratta dell’ultimo colpo contro il Popolo italiano, voluto dal neoliberismo, che esalta l’individualismo e distrugge la solidarietà portando, prima o poi, tutti alla rovina.

Finora siamo sopravvissuti ai danni maggiori apportati dalla riforma del titolo V della Costituzione, ispirata al più estremo regionalismo, per l’opera benemerita della giurisprudenza costituzionale la quale, con le sue sentenze, è riuscita a mantenere vivo l’”interesse nazionale” sancito dai “principi fondamentali ”e a salvare così l’unità giuridica e politica del nostro Paese mentre, purtroppo, nulla ha potuto contro la eliminazione dell’unità economica, che è stata distrutta dalle micidiali “privatizzazioni” realizzate da tutti i governi dell’ultimo trentennio, rendendoci schiavi delle multinazionali e della finanza.

Ed è da notare che le autonomie differenziate sono previste dall’art. 116 dello sconcertante Titolo V della Costituzione e che, per salvare l’Italia, è proprio questo articolo che dovrebbe essere abrogato, magari con una legge costituzionale di iniziativa popolare, oppure annullato dalla Corte costituzionale. Siamo arrivati al punto nevralgico dell’attuazione del pensiero neoliberista poiché, se sono attuate con legge (è in giro una scorrettissima bozza Roberto Calderoli sull’argomento) le autonomie differenziate, il tentativo di ricostruire l’unità d’Italia, conquistata eroicamente dal Risorgimento e dalla Resistenza diverrà difficilissimo, se non impossibile. Siamo, per così dire, alla linea del Piave e abbiamo il dovere inderogabile di compiere ogni sforzo affinché questa insulsa attuazione delle autonomie differenziate non abbia luogo.

da “il Fatto Quotidiano” del 9 dicembre 2022

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

Privatizzare i beni culturali? Incostituzionale.- di Amedeo Di Maio e Battista Sangineto

È in corso da anni, anche nel settore dei Beni culturali, una violentissima battaglia ideologica per sopprimere le strutture e le prerogative dello Stato, conforme all’ideologia dello Stato leggero posto al servizio del mercato che, secondo il pensiero unico neoliberista, si autoregolamenterebbe. Abbiamo avuto modo di vedere, come nel caso della pandemia in corso, quanto ingannatrici e portatrici di sventure fossero le sirene liberiste nelle privatizzazioni, nella precarizzazione del lavoro, nelle liberalizzazioni e nella globalizzazione.

Si vuole convincere, con ogni mezzo di comunicazione di massa, la pubblica opinione dell’insufficienza e dell’incapacità da parte dello Stato di custodire e, soprattutto, di valorizzare il Patrimonio storico e artistico lasciatoci dai nostri progenitori. Quel Patrimonio così strettamente legato al nostro sentirsi italiani da essere protetto, caso quasi unico nel mondo, da un articolo della Costituzione della Repubblica: l’articolo 9. Perché dovremmo pensare che il legato storico e ambientale dei nostri progenitori sarebbe meglio custodito e valorizzato se fosse affidato alle mani dei privati?

Un paio di settimane fa, Pierluigi Battista ha scritto un articolo sul Corriere della Sera per sollecitare un “piano di salvezza culturale nazionale” derivante dalla difesa settoriale resasi necessaria per l’epidemia causata dal coronavirus e che ha, tra l’altro, fatto precipitare la relativa domanda. Battista ha fatto bene a richiamare l’attenzione sul Patrimonio culturale italiano, perché non v’è settore, sociale ed economico, che non debba e non possa essere salvato.

L’epidemia ha messo in crisi tutti i settori e sul piano normativo si è concesso di continuare a operare nei propri “mercati”, con riferimento ai circuiti completi, sostanzialmente solo alla sanità e ai negozi di generi alimentari. Tuttavia, non meravigliano i richiami di attenzione settoriale perché tutti i settori sono negativamente influenzati dalla crisi economica generale derivante dalla pandemia. D’altro canto, il riferimento ai “teatri, musei, librerie, siti archeologici, orchestre” non ci sorprende, sia per il generale sentito richiamo che proviene da tutti i settori, sia per la nota rilevanza anche economica che questo settore ha nel nostro Paese.

Tuttavia, gli aspetti citati dal giornalista, nel suo generico articolo, ci lasciano perplessi. Molto in sintesi, l’articolista, per la salvezza dei musei, dei teatri, dei cinema e di altro ancora, non considera che il declino della domanda settoriale e della mancanza di “consumo” non riguarda solo l’Italia, ma pure il resto del mondo. L’articolo citato, così come anche gli immediati favorevoli commentatori (FAI, Federculture, Teatro dell’Opera di Roma, due deputati, Biennale di Venezia e la Fondazione MAXXI), sembra resti legato a una antica quanto erronea convinzione teorica dell’economica.

Un noto economista francese, nei primi anni del XIX secolo riteneva che fosse l’offerta a determinare la domanda. Se ciò si ritenesse vero, allora sarebbe sufficiente la ripresa delle manifestazioni citate, curando, sostenendo, l’offerta che da sé determina una eguale domanda. Come? Anche in questo caso si adopera, da parte dei propositori, un linguaggio confusionario ed improprio, lasciando che siano, poi, gli esperti a meglio definire gli strumenti.

L’indicazione di massima proposta nell’articolo citato è un non meglio definito ‘Fondo Nazionale per la Cultura’, oppure un ‘Prestito Nazionale’, ma, ancora, anche ‘Cultura Bonds’. ‘Prestito Nazionale’, fu termine molto adoperato nell’epoca dell’obbligo degli italiani a finanziare la prima guerra mondiale, i Bonds il più delle volte risultano strumenti del debito pubblico. Quindi, quali caratteristiche avrebbe un ‘Fondo Nazionale’? Neanche questo ci è chiaro, non solo perché nell’articolo si rinvia alla conoscenza tecnica degli economisti, ma anche per la inquietante presenza nel ‘Fondo’ di istituzioni private.

Insieme al ‘Fondo’ vengono sollecitate, inoltre, generiche politiche governative, defiscalizzazioni, diretta assistenza, “polmoni finanziari”. Insomma, si diano soldi al ‘Fondo’ e se poi non si riesce “a tenere in vita quel polmone”, come del resto già non si riesce con ‘Art Bonus’, pazienza. Occorrerà, comunque, compensare coloro che han fatto prestito, magari con una cessione di parte o, addirittura, di tutto il Patrimonio culturale.

La sola possibilità di una apertura ad un qualsivoglia genere di privatizzazione -non esplicitata, ma sottilmente sottintesa- non solo ci vede del tutto contrari, ma sarebbe in netto contrasto con il dettato dell’art. 9 della Costituzione che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 aprile 2020

Foto di Kent DuFault da Pixabay