Tag: questione meridionale

Il crollo della Lega offre una nuova chance al Mezzogiorno.-di Tonino Perna

Il crollo della Lega offre una nuova chance al Mezzogiorno.-di Tonino Perna

La vera novità in queste elezioni regionali è il crollo di consensi per la Lega di Salvini. Il progetto di uscire dalle regioni del Nord per proiettarsi a livello nazionale, sostituendo Lega Nord con Salvini, dopo un rapido successo è fallito. La Lega di Salvini ritorna alle sue radici che nel frattempo si stanno consumando a vantaggio di Fratelli d’Italia. C’è il rischio concreto di perdere la leadership della Lombardia e lo stesso segretario della Lega rischia di essere sostituito.

Certo, a livello parlamentare la Lega è ancora fondamentale per la tenuta del governo Meloni, ma la sua netta perdita di consensi la indebolisce. Il che significa che i due cavalli di battaglia, il Ponte sullo Stretto e l’autonomia differenziata, perdono di slancio. Per l’autonomia differenziata si rafforza la resistenza di Forza Italia che proprio nel Mezzogiorno ha i maggiori consensi elettorali.

Per il Ponte sullo Stretto, obiettivo condiviso da tutta la maggioranza, si apre una fase di incertezza in quanto il suo maggiore sostenitore, che di fatto si è intestato questo fantomatico progetto, si è indebolito e gli alleati di governo potrebbero far valere le ragioni di bilancio, ritardando i finanziamenti per questa mega opera con impatto ambientale devastante.

Per il Mezzogiorno si apre una nuova prospettiva, se ci saranno le forze politiche in grado di cogliere questa occasione. Se viene messo in discussione il Ponte sullo Stretto, con cui il governo di destra-centro pensava di esaurire l’intervento nel Mezzogiorno, si può pensare di spalmare i 16 miliardi previsti su progetti infrastrutturali necessari: dalla famigerata SS 106 alla elettrificazione del tratto ferroviario Reggio-Taranto, ai tanti collegamenti ferroviari che sono ultra necessari in Sicilia e Sardegna, senza dimenticare le strutture sanitarie e scolastiche che sono carenti o degradate in tutto il Mezzogiorno, ed i servizi pubblici essenziali nelle aree interne.

C’è poi un fatto che è stato finora ignorato. La Trumpeconomics apre dei nuovi scenari. Le aree più produttive del nostro Paese stanno andando in crisi, con una riduzione dell’export ed un aumento dell’import, soprattutto dalla Cina che sta puntando per sostituire in parte il mercato Usa per via dei dazi sempre più pesanti. L’export dal Mezzogiorno nel 2024, pur essendo in crescita, rappresenta appena il 13 per cento del totale nazionale, a fronte di una popolazione residente pari al 32 per cento.

Anche i flussi turistici dall’estero, dove l’Italia si colloca al quinto posto nel mondo, nel Mezzogiorno si arriva al 19 per cento del totale nazionale, con una crescita notevole in questi ultimi anni: era del 12 per cento nel 2018. Solo nel 2024 c’è stato un aumento del turismo straniero del 15 per cento, contro poco più del 4 per cento nel Centro-Nord.

In sintesi, il Nord ed una parte importante del Centro-Italia sono arrivati al capolinea, sia rispetto ai flussi turistici che alla crescita industriale, con danni e problemi territoriali crescenti (overturismo, inquinamento, cementificazione, ecc.). Si aprono pertanto due opportunità: far crescere l’export del Mezzogiorno e puntare su un aumento della domanda interna.

Il che significa anche aumento dei salari e stipendi, almeno per recuperare la grave perdita del potere d’acquisto per la gran parte dei lavoratori che si è determinata in questo secolo.

Rispetto a questo scenario ci vorrebbe un nuovo progetto e una nuova visione dell’Italia che metta al centro le potenzialità del Mezzogiorno senza ripetere gli errori del passato, rispettando la storia e la qualità dei territori.

Le forze politiche di opposizione al governo Meloni invece di inseguire il primo ministro, dovrebbero pensare ad elaborare, con l’ausilio di tanti soggetti pubblici e privati, un piano per il futuro del Mezzogiorno all’interno di una visione del nostro Paese adeguata ai tempi che cambiano.

da “il Quotidiano del Sud”

Ripensare il Sud e il Patrimonio pubblico italiano.-di Piero Bevilacqua

Ripensare il Sud e il Patrimonio pubblico italiano.-di Piero Bevilacqua

Sono da poco in libreria due testi che meritano la nostra attenzione e che vanno segnalati per la loro rilevanza scientifica, culturale e politica. Non sottolineerò mai abbastanza l’aggettivo politico, perché esso significa in origine, com’è noto, una delle più nobili e distintive delle azioni umane, il governo degli interessi collettivi.Mentre oggi è un compito drammaticamente eluso da gran parte del ceto politico, che di fatto produce retoriche imbonitorie e pratica un servile vassallaggio a favore di ristretti gruppi dominanti del mondo industriale finanziario.

Il primo libro è quello di Pino Ippolito Armino, Storia dell’Italia meridionale, Laterza 2025,pp.293, € 20.A distanza di oltre 30 anni dal mio Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi , Donzelli 1993, esso si presenta come una nuova più larga sintesi, che mancava nel panorama della pubblicistica sul Sud. Intendiamoci, di storie del Regno di Napoli e anche di Storie del mezzogiorno, perfino in più volumi, ne sono state scritte non poche.

La singolarità del presente volume è che esso costituisce non solo una sintesi che parte da metà ‘700 e arriva ai giorni nostri, ma riesce a dare, in poco meno di 300 pagine, un quadro di grande ricchezza e completezza della storia secolare di questa parte d’Italia. Giova ricordare infatti che il Sud gode di una letteratura sterminata, accumulatasi soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, ma essa è quasi sempre focalizzata nell’esame dello squilibrio con il Nord d’Italia.

Nel libro di Ippolito, all’annosa questione è dedicato, con approcci peraltro originali, lo spazio che merita, ma il Sud è raccontato iuxta propria principia, cioé nel suo svolgimento autonomo oltre che, ovviamente nei suoi nessi con la storia nazionale e generale.Il testo ha il merito di inserire nella vicenda meridionale anche la storia della Sardegna tra la tarda età moderna e quella contemporanea – solitamente espunta dalle ricostruzioni meridionalistiche – ma soprattutto è in grado di tenere insieme, in un racconto organico e con una scrittura di chiarezza esemplare, tutti gli aspetti e i fenomeni che fanno la storia di una società: economia, rapporti sociali, ceto politico, fenomeni culturali, trame criminali ecc.

Il lettore ha così la possibilità di avere una visione dei processi e degli eventi che hanno segnato questa parte d’Italia e la consegnano oggi al nostro presente con le sue luci e le sue ombre, le sue lacerazioni e le sue potenzialità.Un vasto territorio in cui comunque si specchiano, esasperati, i caratteri di un Paese gravemente malgovernato e in declino.Questa Storia costituisce pertanto un invito a ripensare il nostro Sud come parte di un progetto di rinascita politica e culturale dell’Italia tutta.

Il secondo testo che vorrei segnalare è quello di Emanuele Petracca, Lo stato liquido.L’Italia privata del patrimonio pubblico. Introduzione di Paolo Maddalena, Castelvecchi 2025,pp 203,€ 20. Petracca è un giurista, allievo di Maddalena, uno dei più agguerriti difensori del patrimonio pubblico del nostro Paese, che lo presenta con una nitida introduzione.

Ed è a mio avviso significativo delle condizioni culturali dell’Italia di oggi che un simile contributo venga lodevolmente da un giurista e non anche da un economista, come pure sarebbe necessario.Le Facoltà di economia hanno subito un processo di colonizzazione neoliberista da cui non riuscono a riscattarsi.

Petracca ricostruisce con competenza e inappuntabile rigore filologico tutti gli atti di governo, le disposizioni, le leggi con cui nel corso degli anni ’90, i nostri gruppi dirigenti vendettero ai privati il patrimonio industriale che apparteneva agli italiani. La proprietà pubblica, infatti, ricorda l’autore, è da considerare, secondo l’interpretazione costituzionale di un nostro sommo giurista, Massimo Saverio Giannini, <>, cioé proprietà del popolo e pertanto <>.

Ma avanza in quegli anni l’ondata neoliberista avviata nei primi anni ’80 dal capitalismo anglo-americano, con i governi Thatcher e Reagan, da cui si lasciano travolgere con entusiasmo le nostre classi dirigenti, il ceto politico (anche quello di sinistra), il giornalismo, gli intellettuali democratici.E si comprende perché: in tutto il decennio precedente l’industria pubblica è stata investita da una sistematica campagna denigratoria, fondata sulla denuncia delle infiltrazioni partitiche all’interno dei gruppi, che rendevano corrotte e inefficienti le dinamiche industriali.

Denunce in parte ovviamente fondate, ma a cui occorreva rispondere con avvedute correzioni, non certo gettando l’acqua sporca con il bambino. E invece nel corso di un decennio, mentre si realizzava il progetto neoliberista dell’Unione Europea, con il trattato fondativo di Maastricht nel 1992, l’Italia si privò della sua “economia mista” con cui aveva realizzato il miracolo economico e attraversato il “trentennio glorioso”, diventando una potenza manifatturiera mondiale.

E giova qui ricordare l’avvio di questa operazione, più volte raccontato, ma non ancora sufficientemente noto, che l’autore riprende e che anche Maddalena ricapitola nella sua introduzione: vale a dire la presentazione da parte di Mario Draghi – allora direttore generale del Tesoro – del piano di messa in vendita dei nostri gioielli industriali di fronte a cento delegati della City di Londra.

Era il 2 giugno del 1992, a bordo del panfilo Britannia, e Draghi pronunciò allora un discorso che oggi suona, in alcuni passi salienti, come un sinistro manifesto neoliberista, l’atto di resa di un governo sovrano, ai cosiddetti mercati, vale a dire ai poteri selvaggi del capitalismo finanziario:<>.

A distanza di 37 anni la ricompensa che abbiamo ricevuto dai mercati è sotto gli occhi di tutti: un apparato industriale ridimensionato, con interi settori passati in mani estere, disuguaglianze nel corpo del Paese da società medievale, sia economiche che territoriali, e la perdita completa non solo di una autonoma politica economica, ma anche, soprattutto negli ultimi

Sondaggio elettorale: numeri e tempi ci dicono che la partita è aperta.-di Filippo Veltri

Sondaggio elettorale: numeri e tempi ci dicono che la partita è aperta.-di Filippo Veltri

Il sondaggio dell’istituto Noto illustrato ieri sera agli italiani sulle elezioni in Calabria presenta come tutti i sondaggi più chiavi di lettura ma un dato ci appare leggibile a prima vista: la partita per il Presidente tra Occhiuto e Tridico a 25 giorni dal voto è tutt’altro che chiusa come alcuni rilevamenti dei primi giorni sembravano mostrare.

Il vantaggio di Occhiuto è netto ma non nettissimo, meno di 9 punti percentuali, ma le liste sono state depositate da soli tre giorni e la vera campagna elettorale tra i contendenti al seggio di Palazzo Campanella è solo all’inizio e sui territori stanno per calare i big dei partiti maggiori, Schlein e Donzelli nei prossimi giorni, dopo Giuseppe Conte che è stato nel fine settimana scorso nel primo giro calabrese di Tridico e Matteo Salvini che ha già presenziato al lancio della lista della Lega.

Il tempo a disposizione del centro sinistra (orribile la definizione di campo largo o larghissimo) non è molto e tutta la coalizione a sostegno di Roberto Occhiuto è in campo senza evidenti smagliature al suo interno e si dice certa del successo finale. Sull’altro fronte è arrivata invece la mazzata della incandidabilità di un pezzo da 90 come Mimmo Lucano nelle liste di AVS (vedremo come finirà il ricorso annunciato), che oggettivamente pesa al di là ed oltre l’impegno forte, anzi di più, che il sindaco di Riace ha annunciato nelle prime dichiarazioni dopo la pronuncia della Corte d’Appello.

Nelle due circoscrizioni – Nord e Sud – in cui Lucano era presente si apre ora un vuoto ed è inevitabile che tutto ciò pesi anche nella mobilitazione a favore di Tridico, anche se i leader nazionali Fratoianni e Bonelli (anche loro attesi a giorni) mostrano sicurezza.

Occhiuto partiva con un vantaggio oggettivo, di tempo e di posizionamento sul campo, quasi 20 giorni avanti al suo avversario che è uscito fuori solo dopo Ferragosto e quindi occorrerà ora vedere se nei 25 giorni che mancano al voto la coalizione dell’europarlamentare di 5 Stelle metterà in campo la forza, la coesione, le parole d’ordine necessarie a quella che in ogni caso sarebbe una clamorosa rimonta.

Il punto di fondo resta sempre quello più volte sottolineato su queste pagine e che il sondaggio stesso di Noto ieri ha messo in luce nel dato che riguarda però altre regioni oltre la Calabria: il dato dell’astensionismo e degli indecisi che si attesta ancora una volta ben sotto la soglia critica del 50%.

Se questa cifra salirà è del tutto evidente che i successivi sondaggi e le intenzioni di voto per i singoli partiti sono destinati a mutare (ovviamente non è chiaro in quale direzione) e a rendere gli ultimissimi giorni di campagna elettorale ancora più infuocati di quanto non siano in realtà già stati.

Ieri sera gli stati maggiori dei partiti e delle alleanze mostravano molta cautela perché appunto il dato fotografa il primo posto al 54% di Roberto Occhiuto, che non è però vicino a quel 60% di cui si parlava nei giorni scorsi, mentre il 45,5% di Tridico dopo due settimana di discesa in campo oggettivamente dà coraggio al professore, indicando appunto che la partita è tutt’altro che chiusa.

Ora Occhiuto e Tridico sono attesi al rush finale, ai confronti – in diretta e non – che già sono stati programmati in varie piazze della Calabria. Soprattutto sono attesi a chiarire agli elettori il quadro del loro programma e delle loro intenzioni al di là delle declamazioni da campagna elettorale.

I calabresi – che già non si aspettavano una nuova elezione piombata in piena estate a spiagge e monti affollati (si fa per dire ma insomma sempre un poco è) – ancora in molti non sanno nemmeno che si voterà e per decidere il futuro ci vorrà un impegno titanico per convincerli a recarsi alle urne e a scegliere. Solo che stavolta tirarsi indietro non appare davvero come la scelta più giusta: lamentarsi dopo servirà a poco. Anzi a niente.

da “il Quotidiano del Sud” del 10 settembre 2025

Un Belpaese immerso nel dualismo.-di Michele Fumagallo

Un Belpaese immerso nel dualismo.-di Michele Fumagallo

l volume che Pino Ippolito Armino ha dato alle stampe per Laterza, Storia dell’Italia meridionale (pp. 326, euro 20), è un ulteriore tassello sull’antica Questione che ha accompagnato per decenni il nostro paese, ma è anche un compendio utile a capire e porsi domande sul futuro del Mezzogiorno. Magari, per tornare a porsi la domanda decisiva: quella Questione esiste ancora in Italia nei termini in cui è stata affrontata nei decenni passati?

Intanto, attraversiamo questa storia che, oltre a sintetizzare bene ciò che è avvenuto prima e dopo il Risorgimento, sottolinea senza equivoci la miseria della reazione borbonica al movimento risorgimentale ma anche le incongruenze di chi si assunse con la definitiva unità del territorio italiano la responsabilità di organizzare il futuro.

L’AUTORE, già nell’introduzione mette le cose in chiaro: «L’Italia è un paese fortemente duale. Oltre 160 anni fa il Risorgimento ha fatto dell’Italia una nazione sola. Perché allora questo contrasto? Il professore Richard Lynn nel 2010 ha trovato una risposta nei quozienti intellettivi diversi per gli abitanti delle due Italie. Questo libro è dedicato a chi non è soddisfatto di questa risposta e ritiene che la spiegazione del dualismo italiano, come di qualsiasi altro fenomeno sociale, vada cercata nella storia». E per esempio nella reazione antipopolare dell’universo borbonico che dominava il Regno delle Due Sicilie, con le sue repressioni feroci dei moti libertari nel tentativo di bloccare l’orologio della storia che aveva ripreso a battere con la Rivoluzione napoletana del 1799.

Sicuramente, le cose sarebbero andate in modo diverso se il Regno delle Due Sicilie avesse cavalcato insieme agli altri l’ideale dell’unificazione, un vento che spingeva da tantissimi anni in quella direzione: il che toglie ogni argomento a qualsiasi dissertazione neoborbonica su di una presunta colonizzazione «piemontese». Ma anche, per stare dalla parte giusta della storia (quella risorgimentale), le incongruenze di un movimento che ebbe varie linee al suo interno, a volte contrapposte, e che commise errori clamorosi, tra l’altro quello di umiliare l’esercito garibaldino volontario, costruito con grande idealismo ma a cui venne dato il benservito nel modo più cinico (mai tradire il volontariato…).

IL LIBRO, SEMPRE per rimanere ancorati al dominio della storia, accenna a spinte fortemente comuni delle due parti d’Italia avvenute dopo l’unificazione, sia in senso positivo (il ruolo, spesso dimenticato dagli studiosi, avuto da tantissimi meridionali nella Resistenza nel Centro-Nord) sia in senso negativo (la mafia che non trova significative opposizioni quando si espande oltre il Sud, dimostrando di essere un fenomeno storico e non antropologico).

In conclusione, dice l’autore, «il Mezzogiorno indebolito e privo di una strategia per il futuro, appare oggi più che mai incapace di reagire a tante sfide». E, in effetti, solo un rinnovato interesse verso i territori (quello meridionale in primis) potrebbe capovolgere la situazione.

da “il Manifesto” del 15 agosto 2025

APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI.

APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI.

l 9 aprile scorso la Cabina di regia, istituita presso il Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio, ha approvato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. Lo ha fatto senza una reale partecipazione né consultazione dei territori.

Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne dovrebbe guidare le misure atte ad affrontare i fenomeni dello spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione, la rarefazione sociale e produttiva e le disuguaglianze nell’accesso ai servizi, cioè ai diritti fondamentali alla salute, all’istruzione, alla mobilità e così via. Ma nonostante gli obiettivi annunciati, il Governo si è limitato a recepire acriticamente e passivamente il contributo del CNEL che ha suddiviso le aree sulla base di “obiettivi demografici” e del CENSIS, che ha classificato le aree sulla base della struttura demografica, delle dinamiche economiche, delle infrastrutture e dei servizi essenziali presenti.

In questi studi, Comuni delle aree interne vengono suddivisi in quattro categorie, che nel Piano governativo si traducono in quattro tipologie di obiettivi:

– quelli dove si può auspicare un’inversione di tendenza relativamente alla popolazione;

– quelli in cui è ipotizzabile una ripresa delle nascite;

– quelli dove si può solo sperare in un contenimento della riduzione delle nascite, senza rassegnarsi allo scenario peggiore;

– e, infine, i comuni in cui si può puntare soltanto ad un “accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”.

A parte l’uso violento del termine “irreversibile”, ci si chiede come sia possibile misurare la condizione delle aree interne utilizzando gli stessi indicatori del modello che le ha marginalizzate, se si usano i parametri della crescita, della competitività, dell’attrattività ecc. Si salvano solo i territori che contribuiscono alla Grande Macchina del profitto?

Queste aree – dice il Piano – non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse: “Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita”. In pratica un accompagnamento alla buona morte, un’eutanasia dei paesi. E ricordiamo che le ultime due categorie – quelle della proclamata condanna all’irreversibilità – comprendono comuni collocati quasi totalmente nel Sud della Penisola, dai monti Sibillini in giù, per tutta la fascia appenninica, fino alla Sicilia e alla Sardegna. In pratica, una cristallizzazione e un aggravamento delle disparità territoriali e, di conseguenza, delle disuguaglianze sociali.

Di fronte a questa analisi, assunta a strumento politico di governo, i Comuni delle aree interne, le loro comunità e le loro espressioni democratiche e civili non possono restare in silenzio. Noi intellettuali, studiose e studiosi delle aree interne, consci della funzione culturale e civile che ci è assegnata, lanciamo un appello alle istituzioni nazionali e regionali per una revisione del piano strategico per le aree interne e ci mettiamo a disposizione dei territori per una mobilitazione contro l’ipotesi governativa, per il riconoscimento del patrimonio territoriale presente nei piccoli comuni italiani, presidi di territori fragili, depositi di risorse, umanità e virtù civiche preziose anche per affrontare la crisi generale della società contemporanea. Proponiamo ai Comuni italiani di discutere e approvare nei rispettivi consigli comunali ordini del giorno che stigmatizzino le analisi e le previsioni del Piano nazionale e ribadiscano la necessità di una vera strategia di sostegno e di rilancio per le aree interne del Paese.

Per adesioni scrivere all’indirizzo , indicando nome, cognome, ente di afferenza, qualifica o professione.

1) Rossano Pazzagli, Università del Molise, direttore Scuola dei Piccoli Comuni

2) Ilaria Agostini, Università di Bologna, urbanista

3) Piero Bevilacqua, Università La Sapienza Roma, storico

4) Enzo Scandurra, Università La Sapienza Roma, urbanista

5) Vito Teti, Università della Calabria, antropologo e scrittore

6) Tomaso Montanari, Rettore Università per stranieri di Siena

7) Giuseppe Dematteis, Politecnico di Torino, presidente associazione Dislivelli

8) Antonella Tarpino, vicepresidente Fondazione Nuto Revelli

9) Marco Revelli, politologo

10) Angela Barbanente, Politecnico di Bari, urbanista

11) Ottavio Marzocca, Università di Bari, presidente Società dei Territorialisti/e

12) Franco Arminio, poeta

13) Tonino Perna, Università di Messina, economista

14) Giacomo Cazzato, sindaco di Triggiano Presidente aree interne Sud Salento (LE)

15) Domenico Cersosimo, Università della Calabria, economista

16) Pietro Clemente Università di Firenze, antropologo

17) Laura Marchetti, Università di Reggio Calabria, antropologa

18) Battista Sangineto, Università della Calabria, archeologo

19) Fulvio Librandi, Università della Calabria, antropologo

20) Vanni Attili, Università La Sapienza Roma, urbanista

21) Lidia Decandia, Università La Sapienza Roma, urbanista

22) Alberto Budoni, Università La Sapienza Roma, vicepres. Società dei Territorialisti/e

23) Elisa Veronesi, Université Côte-d’Azur-Nice, italianista

24) Barbara Pizzo, Università La Sapienza Roma, urbanista

25) Daniele Vannetiello, Università di Bologna, urbanista

26) Alberto Ziparo, Università di Firenze, urbanista

27) Pino Ippolito Armino, saggista

28) Ferruccio Rizzi, membro Terre Nostre, Salviamo il Paesaggio, Attac Italia

29) Roberto Budini Gattai, Università di Firenze, laboratorio politico perUnaltracittà

30) Giovanni Menchetti, agricoltore

31) Loretta Mussi, medico di sanità pubblica, esecutivo Comitati contro l’autonomia differenziata

32) Elisabetta Confaloni, filosofa

33) Jacques Anglade, ingegnere idraulico e carpentiere

34) Federico Butera, Politecnico di Milano, sociologo

35) Carmine Nardone, presidente Futuridea

36) Helen Ampt, traduttrice

37) Michele Rea, ingegnere

38) Leonardo Rombai, Università di Firenze, geografo

39) Giuseppe Saponaro, Pontificia Università Antonianum, filosofo

40) Paolo Favilli, Università di Genova, storico

41) Eugenio Conti, Università La Sapienza Roma, dottorando

42) Ornella De Zordo, Università di Firenze, laboratorio politico perUnaltracittà-Firenze

43) Franco Matteoni, ingegnere, pres. Associazione per lo sviluppo turistico di Torri, Sambuca Pistoiese

44) Daniel Bartement, Université Paul-Valéry Montpellier 3, geografo

45) Carlo Carbone, Università di Firenze, urbanista

46) Giacomo Sanavio, progettista strategie aree interne

47) Maria Gemma Urbani, Rete dei comitati per la difesa del territorio

48) Luca Muscarà, Università del Molise, storico della geografia

49) Marco Filippeschi, dir. ALI Autonomie locali italiane e Rete dei Comuni Sostenibili

50) Franco Cambi, Università degli Studi di Siena, archeologo

51) Rita Salvatore, Università di Teramo, sociologa rurale, pres. Slow food Abruzzo

52) Massimo Rovai, Università di Pisa, professore di Estimo e valutazione

53) Mirco Di Sandro, Università La Sapienza Roma, precario della ricerca

54) Marco Marchetti, Università La Sapienza Roma, chair Urban forestry & landscape

55) Elina Gugliuzzo, UniPegaso-Napoli, storica

56) Giuseppe Barbera, Università di Palermo, professore di Colture arboree

57) Marisa Meli, Università di Catania, Borghi più belli d’Italia in Sicilia

58) Vincenzo Carbone, Università Roma Tre, sociologo

59) Dianella Pez, Liceo scient. Cervignano del Friuli (UD), docente

60) Fausto Carmelo Nigrelli, Università di Catania, urbanista

61) Katia Ballacchino, Università degli Studi di Salerno, antropologa culturale

62) Paolo Coppari, Istituto Storico di Macerata, coord. Cantieri Mobili di Storia

63) Carmelo Antonuccio, Università di Catania, dottorando e architetto

64) Marco Bersani, operatore sociale, attivista e scrittore

65) Franco Gianasso, associazione Archivio 68 Sondrio

66) Rossella Rossi, agricoltrice, vicepres. Istituto Oikos, Milano

67) Danilo Cognigni, fotografo e studioso di semiotica visuale

68) Luca Barbarossa, Università di Catania, urbanista

69) Rosario Antonio Zammuto, resp. Risk in Cassa Di Previdenza CNPR

70) Alessandra Corrado, Università della Calabria, sociologa

71) Vito Martelliano, Università degli Studi di Catania, urbanista

72) Paolo Cifolelli, docente, pres. MirorAps (IS)

73) Gennaro Parlato, Università del Molise, informatico

74) Roberto Carluccio, veterinario, pres. ANPI Termoli, Rete della Sinistra-Termoli Bene Comune

75) Gigino D’Angelo, già Sindaco di Montefalcone nel Sannio (CB)

76) Italo Di Sabato, coord. Osservatorio Repressione, Casa del Popolo di Campobasso

78) Franco Novelli, Campobasso

79) Marcella Stumpo, Termoli Bene Comune-Rete della Sinistra

90) Claudio Greppi, Università di Siena, geografo

91) Marilena Natilli, Comune di Gildone (CB)

92) Nicola Valentino, CGIL Molise, INCA CGIL Isernia, Coordinamento NO PIZZONE II

93) Francesco Bottone, giornalista professionista

94) Luigi Famiglietti, Università di Cassino, docente di diritto degli enti locali

95) Umberto Berardo, docente di lettere

96) Manuela Geri, ex dir. Ecomuseo della Montagna Pistoiese

97) Domenico Palazzo, consigliere federale Europa Verde per il Molise

98) Candido Paglione, sindaco di Capracotta, pres. Uncem Molise

99) Alessio Mastromonaco, casaro

100) Giovanna Vecchio di Montepaone, divulgatrice culturale, poetessa

101) Francesco Trane, Roma, pensionato

102) Stefania Emmanuele, ass. cult. Gennaro Placco, Museo etnico Arbëresh, sociologa

103) Franco Belmonte, dir. reg. Calabria di CIA-Agricoltori Italiani

104) Alessandro Sebastiano Citro, docente di scuola secondaria superiore, Cosenza

105) Lucio Brunetti, Università del Molise, fisico

106) Domenico De Simone, pensionato

107) Giovanni Germano, architetto, pres. APS La Terra e coord. “Cammina, Molise!”

108) Ferdinando Trapani, Università di palermo, urbanista

109) Silvano Privitera, coord. Forum Aree interne nell’ ambito Area interna di Troina (Sicilia)

110) Mino Dentizzi, geriatra

111) Pino De Seta, tecnico ambientale, coord. progetti di cooperazione internazionale

112) Paola Orenga

113) Alberta Massenzio, insegnante di scuola primaria

114) Fabio Sforzi, Università di Parma, economista

115) Francesco Martino

116) Erica Balduzzi, reporter freelance, progetto Montanarium

117) Eleonora Greco, Università Telematica Pegaso, dottoranda, pedagogista

118) Maria Teresa Renzo, attivista, pres. Associazione Le case di Igea, Atena Lucana (Sa)

119) Fausta Garavini, Università di Firenze, scrittice e linguista

120) Antonio Di Lalla, rivista La Fonte

121) Lucilla Parisi

122) Francesco Simonelli, cantautore e studente

123) Aldo Camporeale, professore di Economia agraria e dell’assetto territoriale

124) Nicola Giudice, docente, Ivrea

125) Renzo Lecardane, Università di Palermo, professore di Composizione architettonica e urbana

126) Giovanni Antonio Sanna, SIMTUR , vicepres. GAL Logudoro Goceano

127) Franca Peluso

128) Scilla Cuccaro, Università di Firenze, urbanista

129) Carlo Cellamare, Università La Sapienza Roma, urbanista

130) Augusta di Giorgi, avvocato specialista in diritto e gestione dell’ambiente

131) Antonietta Cozza, consigliere comunale e delegata cultura, Comune di Cosenza

132) Maria Angela Presta, funzionario Politiche di coesione

133) Michele Ponzio, docente, già assessore Comune di Favignana

134) Rossella Traversa giornalista e scrittrice

135) Roberta Curiazi, Università di Udine, economista e geografa economico-politica

136) Rossana Di Fazio, enciclopediadelledonne.it

137) Federico Varazi, vicepresidente Slow Food Italia, geologo

138) Roberta Cevasco, Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, ecologa storica

139) Piero Zizzania, Università di Napoli Federico II, architetto e dottorando

140) Laura Di Tommaso, Università di Napoli Federico II, dottoranda

141) Barbara Catalani, architetto, già assessore Sviluppo politiche culturali, Comune di Follonica

142) Fabrizio Ferreri, Università di Catania, filosofo e sociologo

143) Renza Bertuzzi, resp. rivista ” Professione docente”

144) Francesca Conti, Università La Sapienza Roma, dir. rivista “La Città invisibile”

145) Stefania Cannarsa, docente

146) Alberto Di Cintio, Università di Firenze, Fondazione Italiana Bioarchitettura

147) Rosario Grillo, docente di Filosofia e Storia

148) Ramon La Torre, architetto libero professionista

149) Rossano Di Nicola, RSU Frigor box International

150) Franc Arleo, geosofo, dir. collana di Geosofia per AnimaMundi

151) Leo Bolliger, architetto, Attac Piacenza e Aps Convivio

152) Francesco Galli, Iuav, architetto e dottorando

153) Achille Flora, Università della Campania L. Vanvitelli, economista

154) Germana Facchini, pedagoga

155) Antonella Iammarino, antropologa e giornalista

156) Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia

157) Serena Milano, direttrice Slow Food Italia

158) Paolo Baldeschi, Università di Firenze, urbanista

159) Maria Carla Baroni, resp. naz. Territorio e ambiente, Partito Comunista Italiano

160) Associazione nazionale Slow Food Italia APS

161) Maria Teresa Scarlato, pensionata

162) Angelo Ferrari, architetto urbanista

163) Daniela Mongiardini, insegnante scuola media

164) Estella MIlianti

165) Anna Landi, Università degli Studi di Salerno, fondatrice Italia Minore si Svela

166) Marcello Gentile, ingegnere aerodinamico

167) Michele Conìa, sindaco di Cinquefrondi (RC), consigliere città metropolitana Reggio Calabria

168) Luigi Meconi, Società dei territorialisti/e

169) Maria Alberta Massenzio, insegnante scuola primaria

170) Maria Valente, pensionata

171) Amerigo Cuglietta, già sindaco di Cleto (CS)

172) Pierino Di Tella, assessore Comune di Capracotta (IS)

173) Maria Giovanna Mustillo

174) Domenico Falconieri, pensionato

175) Gemma Reggimenti, docente scuola d’infanzia

176) Giovanni Pollice, ex dirigente nazionale del sindacato

176) Michele Petraroia, Anpi nazionale

177) Dario De Renzis, farmacista

178) Francesco Vespasiano, Università degli studi del Sannio, sociologo

179) Giuseppe Donnarumma, Comune di Montoro, ingegnere

180) Cristina Ghirardini, Università di Trento, etnomusicologa

181) Maria Antonia Schillaci, Università di Catania, Forum Area Interna (Troina)

182) Enrico Bettini, architetto

183) Simona Bertini, ONDA

184) ONDA, Organismo Nazionale Difesa Alberi

185) Giancarlo Schiavone, architetto, pres. Pro Loco Buccino Volcei APS

186) Antonino Prizzi, architetto e pianificatore del paesaggio

187) Sergio Vellante, Seconda Università di Napoli (SUN), Economista Agrario

188) Rina Cervi, orientatrice e formatrice, Reggio Emilia

189) Angelo M. Cirasino, Università di Firenze e Società dei Territorialisti/e

190) Paola Grillo, insegnante

191) Pino Bertelli, fotografo

192) Francesco Bevilacqua, avvocato, scrittore e giornalista

193) Maria Martone, Università Sapienza di Roma, architetta

194) Alessandra Ventura, docente

195) Bruno Pino, giornalista

196) Mario Mele, docente di discipline turistiche

197) Francesco Giovannangelo, musicista, docente

198) Agnese Turchi, Università Napoli Federico II, urbanista e attivista

199) Eugenio Celestino, capogruppo in Consiglio comunale di Longobucco (CS)

200) Monica Bolognesi, Politecnico di Bari, ricercatrice

201) Centro culturale franco-italiano, Muro Lucano

202) Antonio Ciaschi, Università LUMSA, geografo

203) Carlo A. Gemignani, Università di Parma, geografo

204) Antonio Montesanti, ceramista

205) Marina Giglio, medico veterinario ASL

206) Manuel Vaquero Piñeiro, Università degli Studi di Perugia, storico dell’economia

207) Giulia Vincenti, Università degli Studi di Messina, geografa

208) Maria Paola Bordati, impiegata, ass. La Fierucola

209) Erminia Irace, Università degli Studi di Perugia, storica

210) Paolo Piacentini, pres. onorario Federtrek

211) Matteo Felitti, Università di Napoli Federico II, ingegnere

212) Sara Carallo, Università Rome Tre, geografa

213) Vincenzo Landi, libero professionista nel settore ingegneristico

214) Flaviano Lavia, massofisioterapista, perito agrario

215) Ottavio Lalli, medico veterinario specialista

216) Marino Trizio, pres. associazione Città Plurale

217) Maria Teresa Capozza, docente

218) Lucia Giovannetti, insegnante

219) Marco Giovagnoli, Università degli Studi di Camerino, sociologo

220) Alessandro Aceto, resp. Servizio legale Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise

221) Lorenzo Coia, già presidente Provincia di Isernia, sindaco di Filignano (IS)

222) Maria Rosaria Gioffrè, docente, francesista

223) Franca Crocetto

224) Sarah Rosa Torregrossa, architetto

225) Francesco Di Rienzo, presidente ETS Amici di Capracotta APS

226) Associazione politico-culturale La Strada, Reggio Calabria

227) Saverio Pazzano, consigliere comunale di Reggio Calabria, insegnante e scrittore

228) Vanessa Gagliardi, docente

229) Antonio Maio, architetto e docente

230) Ester Mura, insegnante di scuola superiore

231) Associazione nazionale Città del vino

232) Luca Giuliani, archivista, ex vice sindaco Comune di Castel Viscardo (TR)

233) ASD Polisportiva di Castel Viscardo (TR)

234) Maria Teresa Cartisano, docente di scuola superiore

235) Pasquale Dragonetti, ingegnere, Associazione Terra Mediterranea

236) Emiliano Biscaro, ingegnere

237) Silvia Giandoriggio, architetta e attivista

238) Stefania Stefanini, La bancarella Editrice, Piombino

239) Stefano d’Atri, Università di Salerno, storico

240) Andrea Vento, docente, GIGA-Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

241) Laura Santoro

242) Danilo Emo, architetto

243) Linda Terenzi, Università di Firenze, ricercatrice

244) Grazia Degl’Innocenti, architetto

245) Antonietta Di Vito, MIM, docente, antropologa, scrittrice

246) Letizia Papi, insegnante e cantante

247) Francesco Cancellieri, pres. AssoCEA Messina APS, Ingegnere

248) Alessandro Camerini

249) Giuseppe Chiarillo, ex sindaco di Galliera (BO)

250) Danilo Gorga, vicepres. Slow Food Campania

251) Anna Kauber, documentarista

252) Tiziano Cardosi, No Tunnel Tav Firenze, ex ferroviere

253) Addolorata Cormano, docente geografia economica scuola secondaria superiore

254) Giuseppe Riccobono, docente, GIGA Gruppo Insegnanti Geografia Autorganizzati

255) Donatella Rosati, analista programmatrice

256) Giovanni Spinelli, pubblicista, ASA-Associazione stampa agroalimentare, ref. Campania

257) Angela Greco AnGre, poeta

258) Mario Lusi, giurista ambientale

259) Aurelio Francesco Madeo, ex dirigente scolastico, poeta

260) Stefania Marini, Università Iuav di Venezia, architetto

261) Giuseppe Magarò, avvocato

262) Rodrigo Andrea Rivas, giornalista

263) Angelo Milo

264) Roberta Pizzullo, docente

265) Flavio Pascarosa, avvocato, già consigliere comunale Atripalda (AV)

266) Carmen Silva Castagnoli, geografa

267) Marina Boscaino

268) Marina Castiglione, Università degli Studi di Palermo, dialettologa

269) Daniela Poli, Università di Firenze, urbanista

270) Salvatore Capasso, Riabitare l’Italia

271) Mariachiara Santone, archeologa, Casa del popolo Campobasso

272) Raffaella Lalli, farmacista

273) Maria Angela Astore, insegnante di liceo

274) Katia Fabbricatti, Università di Napoli Federico II, architetto

275) Teresa Maradei, dottore forestale, manager dei sistemi territoriali e aree interne

276) Giovanni Scarfò, pres. Centro studi, ricerche e formazione “Francesco Misiano”

277) Romina Deriu, Università di Sassari, sociologa

278) Anna Albano, insegnante

279) Franco Repeti, cooperativa sociale Croce del Sud

280) Antonio Piangiolino, già assessore Comune di Acquaviva delle Fonti (BA), ASSI-RECOVERY SUD

281) Angela Vitullo, docente, ref. Borghi della Lettura per Montagano (CB)

282) Federico Massimo Ceschin, pres. SIMTUR, ambasciatore del patto europeo per il clima

283) Riccardo Pasqualin, saggista

284) Dario Donatini, docente di geografia economica

285) Laura D’Angelo, Università del Molise, critico letterario, scrittrice

286) Dina Caligiuri, architetto, docente alle scuole superiori

287) Raffaella Vono, docente

288) Rita Campioni, docente, Comitati No Autonomia Differenziata

289) Mosè Antonio Troiano, sindaco di San Paolo Albanese (PZ)

290) Franco Festa, docente e scrittore

291) Laura Manganaro, pres. sezione Italia Nostra-Firenze

292) Antonio Troisi, Università del Sannio, fisico

293) Italia D’Acierno, segretaria CdLT CGIL Avellino

294) Eloisa Gizzi, architetto

295) Associazione Give Back Giovani Aree Interne APS

296) Antonella Russo, operatore culturale

297) Maria Pecoraro, scenografa e operatrice sociale

298) Rosalia Rizzo, funzionario Comune di Palermo

299) Salvatore Settecasi, architetto

300) Roberto Sullo, pres. Give Back Giovani Aree Interne APS

301) Associazione La Fierucola, Fiesole (FI)

302) Maria Romana Picuti, Università La Sapienza Roma, archeologa

303) Visenta Iannicelli, già dirigente Roma Capitale

304) Anna Cocchi, ANPI, già sindaco di Anzola Emilia (BO)

305) Mariano Genovese, architetto

306) Slow Food Toscana aps

307) ActionAid Italia

308) Alessandro Di Loreto

309) L’Eco dell’Alto Molise e Vastese, testata giornalistica

310) Laboratorio politico perUnaltracittà, Firenze

311) Costantino Leuci, docente, ref. Slow Food Matese, consigliere comunale Piedimonte Matese

312) Federico Di Cosmo, Politecnico Milano, docente di Architettura del Paesaggio

313) Margherita Ciervo, Università di Foggia, geografa economico-politica

314) Marco Gargano, psicologo

315) Laura Bonomi Ponzi, archeologa

316) Giovanni Moriello, docente

317) Giuliana Tocco, già Soprintendente Beni Archeologici, pres. ass. Antica Volcei, Buccino (SA)

318) Paolo Ferloni, Università di Pavia, chimico

319) Cristiano Lucchi, dir. rivista Fuori Binario

320) Corradino Guacci, pres. Società italiana per la storia della fauna, Giuseppe Altobello

321) Società italiana per la storia della fauna, Giuseppe Altobello

322) Leandro Janni, presidente Italia Nostra Sicilia

323) Nicholas Tomeo, Università del Molise, ricercatore e docente

324) Celeste Mantegna, Università del Molise, ricercatrice

325) Francesco Violante, Università di Bari, storico

326) Luigi Scognamiglio, Università di Napoli Federico II, ingegnere

327) Vincenzo Fundone, fotografo, pres. Archeoclub Melfi

328) Antonio Giuseppe Ottaviano, geometra

329) Roberto De Marco, geologo, già dir. Servizio sismico nazionale, Presidenza del Consiglio dei Ministri

330) Oliviero Resta, Aps Il cammino di Dante

331) Andrea Ferrannini, ARCO , Fondazione PIN, ricercatore

332) Francesco Maria Massetti

333) Pino Fabiano, giornalista, Cotroneinforma OdV

334) Roberto Guido, giornalista e scrittore

335) Massimiliano Guerrieri, docente di geografia scuola secondaria

336) Valeria Monno, Politecnico di Bari, DICATECh

337) Marco Mannino, Politecnico di Bari, architetto

338) Sebastiano Sarti, architetto libero professionista

339) Federica Cotecchia, Politecnico di Bari, ingegnere

338) Daniela Frisullo, Politecnico di Bari (dottoranda), funzionaria Regione Puglia

339) Francesca Santaloia, CNR-IRPI

340) Maria Francesca Sabbà, Politecnico di Bari, ricercatrice

341) Giacomo Pisani, Euricse, ricercatore

342) Maria Cristina Leardini, co-founder SharryLand

343) Luigi Alberton, founder SharryLand

344) Maria Anna Ilardi

345) Emanuele Gizzi, Accademia di belle Arti di Palermo, docente

346)Enza Maria Macaluso, filosofa di campo

Le dimissioni di Occhiuto una sciagura per la Calabria.-di Agazio Loiero

Le dimissioni di Occhiuto una sciagura per la Calabria.-di Agazio Loiero

Al presidente ho scritto solo, appena dopo il suo insediamento, una lettera aperta per fargli notare che era un grande errore assumere la carica di commissario alla sanità. Sul piano pratico e sul piano simbolico. Sul piano pratico perché su un settore così delicato, che ha bisogno disperato di un organizzatore sanitario di valore che abbia dimestichezza con i bilanci e i suoi interstizi, non si può improvvisare. Gli ho nell’occasione ricordato che la figura stessa del commissario impone al nostro territorio aliquote fiscali troppo alte per la fragile economia della regione. Un salasso che i calabresi pagano senza un fremito di ribellismo.

E’ questo il motivo per cui nel 2009 minacciai nel Consiglio dei ministri, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi, di dimettermi seduta stante, se fossi stato nominato, contro la mia volontà, commissario, come il governo compatto minacciava di fare. Confesso che è uno dei gesti politici del mio quinquennio che ricordo con maggiore piacere.

Simbolicamente ho sempre amato poco la figura stessa dei commissari destinati alla Calabria, perché conferiscono sempre agli abitanti di questo territorio un inaccettabile marchio di alterità che non meritano. Occhiuto al momento della sua vittoria elettorale, avendo svolto in Parlamento il ruolo, sia pure per un breve periodo, di capogruppo del suo partito, aveva avuto la possibilità di conoscere il presidente del Consiglio del tempo, Mario Draghi, un economista con il quale avrebbe potuto trattare la fine del commissariamento, diluendo al meglio negli anni il debito accumulato.

Ovviamente non fui ascoltato perché il potere di decidere in autonomia, specie nei territori marginali, esercita un fascino irresistibile. Si dimentica in questi casi che l’articolo 122 della nostra Costituzione così recita “Il presidente eletto nomina e revoca…”. Un potere regionale molto forte di cui non dispone neanche il Presidente del Consiglio dei ministri.

Veniamo agli ultimi gesti di Roberto Occhiuto e soprattutto a queste dichiarazioni talvolta vittimistiche “non mi faccio rosolare”. Di grazia da chi? Dai magistrati? Talvolta fortemente reattive contro un avversario politico immaginario “oppositori, sciacalli che hanno tifato per il fallimento della Calabria”. Ma di chi parla? Talvolta così trionfalistiche da sfociare in una deriva di comicità involontaria. La più penalizzante delle comicità. “E’ vero o no” – ha chiesto il Presidente a Soverato – “che in quattro anni si è fatto più che nei quaranta precedenti?” Un concetto di sé così ottimistico che un politico non può esprimere neanche se rispondesse alla realtà. Figuriamoci se dalla realtà è sideralmente lontano.

Tutte queste dichiarazioni il Presidente le affida puntualmente al teatrino dei social o ai comizi senza contraddittorio. Tutte corredate da una congrua scenografia da campagna elettorale permanente. Il Presidente che conserva il culto del particolare, in questa occasione si è posizionato accanto ad una costruenda stazione della futura metropolitana di Catanzaro e successivamente accanto al cantiere di uno dei nuovi, futuri ospedali calabresi. Un’immagine seducente offerta ai suoi corregionali senza mai fare, come solitamente si usa, il più piccolo riferimento a coloro che, quelle opere, a suo tempo le hanno ideate.

In questo nostro tempo distratto dalle luci del consumismo, riporto alla memoria, l’origine dei due eventi. La metropolitana di Catanzaro fu immaginata -il sindaco della città era Rosario Olivo- dalla Giunta da me presieduta e finanziato al ritmo forsennato imposto dall’Europa, insieme ad un progetto per l’area urbana Cosenza- Rende e un terzo per l’area urbana di Reggio Calabria nella legislatura 2005-2010. La linea d’intervento gravava sul Por Calabria FESR 2007-2013. A capo del settore avevamo scelto un dirigente di qualità, Salvatore Orlando. Gli ospedali furono un impegno che il Presidente del Consiglio del tempo Romano Prodi, notoriamente amico della nostra regione, assunse con la Giunta da me presieduta – assessore alla sanità era Doris Lo Moro – dopo i dolorosi incidenti avvenuti in alcuni ospedali calabresi che registrarono la morte di tre giovani.

La lunga parentesi mi ha fatto perdere il filo. Torniamo all’attualità e alle dimissioni di Occhiuto. Esse rappresentano una sciagura perché una regione, già ferma di suo, subirà un arresto in forma ufficiale per quattro lunghi mesi. Tutto a cominciare dal Pnrr, dai bandi europei, dalla stessa pubblica amministrazione, proprio tutto si fermerà. Questo avverrà in una regione, che “ha la disoccupazione più alta d’Italia”. Lo ha ricordato un giornalista di qualità, in vacanza in Calabria, Enrico Franceschini sul supplemento di Repubblica di venerdì primo agosto. Ha poi aggiunto – riporto testualmente – “ la disoccupazione più alta d’Italia. E non solo d’Italia. Secondo le ultime tabelle Eurostat, la Calabria ha il più basso tasso di occupazione (appena il 44 per cento) di tutta l’Unione Europea: solamente nella Guyana, territorio d’oltremare francese, ci sono meno adulti che lavorano”.

Su questo tema mi fermo qui. Vogliamo parlare di quella che l’antropologo calabrese Vito Teti chiama la restanza? Il professore afferma con la riconosciuta credibilità che nei prossimi cinque anni, (non venti o trenta, solo cinque anni) oltre mille paesi delle aree interne del Sud morranno. Non ci saranno più”. La nostra Calabria che presenta un territorio caratterizzato al novanta per cento da collina e montagna, svolgerà, anche in questo caso, un ruolo negativo di protagonista. Una perdita di memoria collettiva che solo a pensarci procura un senso di vertigine. La regione, questi dati terrificanti, li conosce?

D’altraparte un fenomeno di spopolamento sotterraneo sta avvenendo anche nelle città calabresi. Molte le famiglie non poverissime, appena benestanti di Catanzaro, di Cosenza si trasferiscono a Roma o al Nord. Un fenomeno carsico segnalatomi da Franco Ambrogio ma che io stesso ho poi registrato nella mia città. Partono in certi casi per raggiungere i figli, ma partono soprattutto per stabilirsi in un posto più sicuro, dove poter fruire di servizi decenti, dove soprattutto poter essere curati.

E qui tocchiamo uno dei tasti più dolenti della stagione d’Occhiuto: la sanità. Questo è il settore a cui il Presidente della regione si è, come dire, dedicato di più. Non nego che si sia impegnato ma lo ha fatto su temi teorici di alta scuola, trascurando la carne viva della cura, gli ospedali nella vita di ogni giorno, lo scadimento della loro qualità professionale, le ambulanze, i pronto soccorso dove le persone muoiono in attesa di essere curati.

Due settimane fa è morto un mio amico di Stalettì per le otto ore trascorse in un pronto soccorso. Tempi d’attesa insopportabili per visite specialistiche ed esami diagnostici. Siamo ultimi in Italia per quanto riguarda gli screening oncologici che anni fa non apparivano scadenti. La realtà giornaliera è costituita da medici e infermieri che fuggono via dal pubblico per rifugiarsi nel privato. A proposito che ne è dei medici cubani che fino a qualche tempo fa il Presidente citava ad ogni intervista? Sono fuggiti anche loro?

Intendiamoci. Non sarei onesto se non ammettessi che alcuni di questi problemi Occhiuto li ha ereditati. Purtroppo però questi circa quindici anni di commissariamento con le relative ristrettezze di bilancio hanno drammaticamente complicato la vita della sanità, ma è soprattutto per questa ragione che non bisognava protrarre all’infinito un’esperienza nefasta. Questa è la sua più grande colpa. Un commissariamento così lungo poteva mai verificarsi non dico in Veneto o in Lombardia ma anche in Basilicata?

Mi accorgo di non avere scritto dell’avviso di garanzia. Pur essendo uno dei pochissimi ex presidenti a non avere oggi alcuna pendenza giudiziaria, per molti motivi faccio fatica ad occuparmene. Non riesco solo a capire perché un Presidente, di fronte a un fascicolo aperto dalla magistratura, non trovi di meglio che dimettersi per poi ricandidarsi. L’avviso di garanzia è un problema suo, non dei calabresi.

Chiudo questo lungo articolo nel quale ho avvertito la necessità di denunciare i problemi e le bugie, che in questi giorni circolano in grande quantità sui media. Lo faccio ricordando una frase lapidaria di Albert Camus, stabilmente archiviata nella mia memoria: “Nei tempi bui resistere è non consentire menzogne”.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 agosto 2025

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

Dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna ai giorni nostri free trade e protezionismo si sono alternati. Iniziò sua Maestà britannica a predicare il libero mercato dopo aver imposto per secoli alle sue colonie il più rigido protezionismo.

Sul piano della teoria economica fu David Ricardo a battersi, con successo, per eliminare i dazi all’import di grano in UK, sostenendo che ci sia un vantaggio reciproco a scambiare beni in cui ciascun paese si è specializzato, con il famoso esempio del vino portoghese che viene scambiato con le lane inglesi. Ma, il resto dei Paesi europei quando decise di industrializzarsi ricorse a drastiche misure di protezione della propria industria nascente.

Lo fece la Francia colbertiana, la Germania di Bismark , persino l’Italia con Crispi che alla fine del XIX secolo protesse la nascente industria tessile dell’Italia del Nord ovest, con gravi ricadute per il Mezzogiorno che dovette subire la risposta della Francia, che colpiva soprattutto i prodotti dell’agricoltura meridionale.

Dalla seconda metà del Novecento, con una serie di stop and go si sono moltiplicati gli scambi internazionali, sono cadute o ridotte le barriere doganali, sia come limiti quantitativi all’importazione che come dazi. Per molti Paesi del Sud del mondo questa non è stata una scelta, ma una imposizione del FMI e della Banca Mondiale, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.

Queste due istituzioni internazionali hanno imposto ai cosiddetti PVS, oltre al taglio delle spese sociali e dei sussidi ai produttori agroalimentari, l’abbattimento dei dazi alle importazioni e l’apertura totale dei loro mercati ai prodotti dei paesi industrializzati, utilizzando come arma di ricatto il credito. Il risultato è stato lo smantellamento di industria leggera e artigianato tradizionale, e un pesante impoverimento dei Paesi del Sud del mondo.

Così è stato creato in pochi decenni quello che viene definito Mercato Mondiale, grazie ad un incremento vertiginoso degli scambi a livello internazionale. Per averne un’idea il commercio mondiale è cresciuto dal 1950 ad oggi di quasi 38 volte (sic!), circa quattro volte il Pil mondiale. Come è noto il WTO (World Trade Organization) è l’istituzione internazionale che è stata creata per agevolare questi scambi, regolamentarli e contrastare forme più o meno ufficiali di protezionismo. E’ una delle tante istituzioni internazionali che Trump tenterà di fare saltare.

Malgrado tutti questi sforzi il “free trade” non è stato mai raggiunto, ed è più una costruzione ideologica che realtà. Basti solo pensare ai sussidi dello Stato alle imprese. Quello che Trump non dice, e non può dire, riguarda la massa di sussidi che ha ricevuto negli Usa la produzione di cotone (16 miliardi l’anno secondo gli ultimi dati disponibili), la produzione di carne (900 euro a vacca), di latte, ecc.

Grandi e piccoli paesi africani sono stati affamati da una concorrenza sleale su molti prodotti (cotone, arachidi, mais, ecc.), proprio grazie a questi pesanti interventi pubblici che hanno alterato il cosiddetto libero mercato. E lo stesso si può dire per l’agro-alimentare europeo. Per non parlare dei contributi a fondo perduto per la R&D, ricerca e sviluppo, che i Paesi del Sud del mondo non si possono permettere.

In breve il protezionismo dei paesi più ricchi c’è stato da sempre e ora assume con Trump una dimensione spettacolare, ma non per questo più efficace. Se storicamente le barriere doganali sono state usate per permettere all’industria nascente di germogliare, non si è finora mai visto un paese a capitalismo avanzato che pensi di reindustrializzarsi, senza tener conto del relativo alto costo del lavoro, della concorrenza dei paesi emergenti nel settore dell’industria tradizionale (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, arredi, ecc.) dove i margini di profitto sono molto limitati, eccetto che nel settore del lusso, che è per altro appannaggio di altri Paesi, a partire dall’Italia, e dove l’incremento dei prezzi dovuto ai dazi non scoraggia una clientela a reddito medio-alto.

Infine, Trump dovrebbe preoccuparsi seriamente dei Brics che hanno già deciso di non utilizzare più il dollaro per l’interscambio e che ora diventano una sponda interessante per i Paesi più colpiti dai dazi, a cominciare da alcuni Paesi della Ue. Un nuovo scenario geopolitico si sta configurando e chi tra i governanti rimane legato, o legata nel nostro caso, ad un vecchio carro, ne subirà le conseguenze.

L’impatto sull’Italia e sulla Calabria

Come ormai è chiaro l’Italia insieme alla Germania sono i paesi europei più colpiti dai dazi Usa. In particolare, il settore più penalizzato sarà quello della filiera dell’Automotive e, molto probabilmente, il governo italiano sarà costretto a seguire, in ritardo, quello spagnolo il cui leader ha già disposto 16 miliardi di contributi al settore.

Allo stesso tempo, saranno cercati altri mercati di sbocco per i prodotti più colpiti da questo incremento dei dazi decisi da Trump. Si salveranno, come è sempre avvenuto, i prodotti della fascia alta, del lusso, che più sono cari più sono ricercati dalle élite.

La Calabria, come giustamente ha sostenuto il collega e amico Prof. Cersosimo, ha un export così esiguo, circa 500 milioni su oltre 600 miliardi di export nazionale nel 2024, che non ne risentirà. Ma, allo stesso tempo, ha ragione anche l’imprenditore Fortunato Amarelli, presidente della prestigiosa Associazione Imprese Centenarie Italiane, che mette in guardia dagli effetti indiretti di questo neo-protezionismo fuori stagione.

In sostanza, il ragionamento è questo: se il nostro governo dovrà sostenere le imprese più colpite da questi dazi allora ci saranno meno risorse finanziarie e, come al solito, dai tagli della spesa pubblica e del welfare saranno più colpite le regioni più deboli dove il rapporto “spesa pubblica/Pil regionale”, è più alto. E in Calabria è più del doppio della media nazionale, il che si traduce nella storica dipendenza della nostra economia dai flussi di denaro pubblico.

Che fare, allora? Data questa situazione molti Paesi penseranno di incrementare la Domanda interna per compensare la caduta dell’export. Per questo sarebbe importante, anzi necessario, un incremento dei salari (i più bassi d’Europa).

Si potrebbero incrementare salari e stipendi nei settori protetti dalla concorrenza internazionale come la sanità, l’istruzione, ma anche l’edilizia e il commercio, ecc. dando una migliore retribuzione a medici, infermieri, insegnanti, operai, commessi, ecc. Oltre a un problema di giustizia redistributiva si darebbe una mano importante all’economia del nostro Paese.

Certo, c’è il vincolo di bilancio che pesa nel Paese più indebitato d’Europa, ma si potrebbe semplicemente aumentare la pressione fiscale per i ceti medio-alti, magari introducendo la famosa patrimoniale a partire da oltre cinque milioni di asset.

E’ solo un esempio, ma la strada non può che essere questa: solo una maggiore giustizia sociale, un ruolo redistributivo dello Stato, può salvarci da una pesante recessione che si combinerà, purtroppo, anche con un incremento dell’inflazione, generando una drammatica condizione per i ceti più deboli.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 aprile 2025
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

La dura, e nascosta, realtà della Calabria.-di Filippo Veltri

Cosa sia la realtà calabrese è difficile da rendere in poche righe di un articolo o financo in un libro. Ci stiamo provando da anni e oscilliamo sempre su quello che Massimo Razzi definisce ‘il crinale sottilissimo’, cioè quello tra il bene e il male, il bello e il brutto, dove a volte prevale il primo e più spesso il secondo. Poi ci sono però i numeri, impietosi, a darci un senso al racconto (vedi quelli dell’ISTAT su cui ci siamo soffermati sabato scorso, ad esempio).

E numeri, tanti e duri, ci forniscono ora in un nuovo lavoro, assolutamente inedito – e di cui il Quotidiano del Sud può oggi offrire una piccola anteprima – Rosanna Nisticò e Mimmo Cersosimo, in un paper in lavorazione ancora all’Università della Calabria.

Proviamo dunque a riassumere decine e decine di pagine. Il trend recente tra il 2022 e il 2023 mette in luce come il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

La Calabria è tra le sei regioni europee nelle quali l’indicatore è cresciuto, nel biennio in considerazione, di almeno 5 punti percentuali con 41 calabresi su 100 che vivono in famiglie con un reddito netto equivalente inferiore al 60% di quello mediano, un’incidenza più che doppia rispetto a quella nazionale, dieci volte superiore a quella registrata nella Provincia di Bolzano e sette volte più alta rispetto a quella dell’Emilia-Romagna.

Allargando lo sguardo all’Europa, la Calabria raggiunge il tetto più elevato, seguita dalla Sicilia (38%) e dalla Campania (36,1%); al lato opposto della distribuzione, solo 9 regioni hanno un’incidenza delle persone a rischio di povertà più bassa o uguale al 7,5%, tra cui tre italiane: la provincia Autonoma di Trento, quella di Bolzano e l’Emilia-Romagna. Ne segue che il divario interregionale dell’Italia risulta il più ampio, segnando 35 punti percentuali di differenza tra la Calabria e la Provincia autonoma di Bolzano.

Ancora: la Calabria è l’unica regione italiana a subire, nel biennio 2022-23, un incremento-peggioramento di tutti e tre i sub-indicatori. Peggiora poco l’indicatore “bassa densità lavorativa”, che passa dal 19,6 al 20,9% (dal 9,8 all’8,9% in Italia), ma che tuttavia segnala che è in aumento la frazione, già elevata, di famiglie con forme estese di sottooccupazione.

Ben più consistente è l’incremento dei calabresi a “rischio di povertà”, che passa dal 34,5 al 40,6%, a fronte di un calo alquanto generalizzato nel resto delle altre regioni, e di quelli con “grave deprivazione materiale e sociale”, che nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

In questo quadro poco felice ci sono altri calabresi, aggiungono nel paper i due studiosi, che si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, i comparaggi, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali.

Non va trascurata l’incidenza dei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello dei cittadini: concentrati, usando le parole di Mauro Magatti, soprattutto a “consumare benessere” piuttosto che a creare sviluppo e ad affrontare le sfide strutturali (organizzative, produttive, innovative).

Il punto tutto politico alla fine qual è? E’ che a quella Calabria della povertà sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare ma anche perché è la Calabria del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilet gialli né protettori: che non minaccia l’ordine dominante.

Come concludono i due? I partiti-residui continuano così a guardare alla Calabria dei garantiti, delle rare imprese di “successo”, delle micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; a vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non basta per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”.

Questo politico, dunque, è il versante che dovrebbe dare risposte e da lì si attendono le proposte vere e concrete. Tutto il resto sennò è noia. A proposito di Brunori, Califano e del Festival di Sanremo.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 febbraio 2025

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Dal punto di vista giuridico, sorprendono, stando ai virgolettati riportati sui giornali, le parole pronunciate dal neopresidente della Corte costituzionale durante la conferenza stampa del 21 gennaio. Spiegando le ragioni della bocciatura del referendum contro la legge sull’autonomia regionale differenziata (legge Calderoli), il presidente Amoroso avrebbe detto che «la decisione della Corte sulla non ammissibilità del referendum si riferiva alla non chiarezza del quesito, perché l’oggetto del quesito (la legge Calderoli, ndr) è oramai ridimensionato» per via della sentenza dello scorso anno che ne ha sancita la parziale, benché amplissima, incostituzionalità, sicché «ciò che residuava era difficilmente comprensibile dall’elettore».

È difficile nascondere la sensazione di disagio suscitata da tali parole. La decisione circa la idoneità della legge Calderoli a rimanere sottoposta a referendum dopo il suo parziale annullamento da parte della Corte costituzionale spettava, infatti, alla sola Corte di Cassazione, la cui valutazione a favore della idoneità non è suscettibile di revisione da parte della Corte costituzionale.

Quest’ultima avrebbe dovuto limitarsi a valutare il rispetto dei limiti alle iniziative referendarie previsti dall’articolo 75 della Costituzione (esclusione delle leggi di bilancio e tributarie, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di amnistia e indulto) e dalla sua stessa giurisprudenza (a partire dalla sentenza 16 del 1978, che esclude altresì i quesiti referendari disomogenei o vertenti su leggi costituzionalmente necessarie o a contenuto vincolato). Invece, a quanto pare, il referendum sarebbe stato ritenuto non ammissibile proprio per via del parziale annullamento della legge, operando un irrituale rovesciamento della precedente decisione della Cassazione.

Altrettanto sorprendente è leggere che, con il referendum, «i cittadini sarebbero stati chiamati a votare sull’articolo 116 comma terzo della Costituzione, e cioè sul principio dell’autonomia differenziata, ma questo è contro la Costituzione». Non è così. La Costituzione attribuisce alle regioni la possibilità di chiedere l’autonomia differenziata, ma la decisione se accogliere la richiesta è rimessa allo Stato. L’autonomia differenziata non è un diritto, è una facoltà che lo Stato può decidere di attivare o di non attivare.

Dunque, decidere di eliminare la legge Calderoli, in quanto volta ad agevolare l’esercizio di quella facoltà, non significa affatto pronunciarsi sulla Costituzione, bensì assumere una decisione di principio sull’attivazione o meno della facoltà in questione (il che, peraltro, non impedisce la possibilità di utilizzare direttamente l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, come mostra l’esperienza dei Governi Gentiloni e Conte I).

Dal punto di vista politico è indubbio che la mancata ammissione del referendum produca il doppio effetto negativo di far venire meno un forte collante tra le opposizioni al governo e di indebolire l’importantissima campagna referendaria che si aprirà in primavera. A beneficiarne non è solo la destra, che rischiava di spaccarsi nelle urne tra favorevoli e contrari all’autonomia, ma anche quella consistente parte del partito democratico che continua a vedere nel regionalismo una risorsa – sia pure trincerandosi dietro l’ambigua formula del regionalismo cooperativo e non competitivo – ed era terrorizzata dall’idea che il referendum sancisse l’esistenza di un diverso orientamento popolare.

C’è, tuttavia, anche un risvolto positivo. Proprio le parole del presidente Amoroso certificano, in via definitiva, che il disegno del regionalismo differenziato è fallito. L’incostituzionalità della legge Calderoli sancita dalla Corte costituzionale è così radicale da aver reso politicamente insostenibile la posizione dei pasdaran del regionalismo (sebbene alcuni di loro continuino, incuranti del ridicolo, a tenere la posizione).

È uno straordinario successo per tutti coloro che fin da subito avevano intuito i pericoli dell’autonomia differenziata e si sono battuti contro il tentativo di spezzare l’Italia, costruendo un movimento di opinione che ha dato un contributo decisivo alla difesa dei principi costituzionali di solidarietà, uguaglianza e unità. Paradossalmente, proprio la mancata ammissione del referendum è la più alta certificazione di tale successo. Si tratta ora di mantenere alta l’attenzione, per impedire i colpi di mano che dovessero cercare d’indebolirlo.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2025

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo.

In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.

Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo. Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti. Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.

Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.

Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?

Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose.

I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione. Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.

Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando?

Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.

Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.

Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.

Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.

da “il Fatto Quotidiano”

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Al Ponte di Salvini altri 1,5 miliardi tolti ai trasporti.-di Roberto Ciccarelli

Finanziare il Ponte di Messina e togliere le risorse per completare i lavori sui nodi ferroviari di Reggio Calabria, Catania e Palermo. Soddisfare le velleità e gli interessi che fanno a capo al vicepremier leghista e ministro dei trasporti e non completare le opere la cui mancanza rende faticosa la vita di chi aspetta la velocizzazione della linea tra Catania e Siracusa o il «potenziamento» della linea Sibari-Catanzaro Lido-Lamezia Terme.

Non è un paradosso, è un progetto voluto dal governo Meloni e in particolare dal vicepremier leghista Matteo Salvini. Una volta di più è diventato chiaro quando è passato l’emendamento della Lega alla legge di bilancio che sarà votata venerdì dalla Camera e votata definitivamente dal Senato il 28 o il 29 dicembre. Lungamente annunciato e infine approvato l’altra notte nella commissione Bilancio della Camera, l’emendamento che porta la prima firma del capogruppo leghista Riccardo Molinari aumenterà le risorse per il Ponte sullo Stretto di 1,3 miliardi di euro prendendo le risorse dai Fondi per lo sviluppo e la coesione. Quest’ultimo è stato rifinanziato dalla manovra con 3,88 miliardi, ma quasi la metà di questi soldi sono stati destinati alla mega-opera dedicata al culto di Salvini e al festante codazzo degli interessi che rappresenta.

L’emendamento approvato cambierà sensibilmente la distribuzione dei costi: quelli a carico dello Stato scendono a 6.962 miliardi mentre balzano a 4.600 miliardi i costi sui fondi di coesione delle amministrazioni centrali. Resta il fatto che i fondi di coesione (1,6 miliardi) che avrebbero dovuto essere usati dalle regioni Calabria (1,3 miliardi) e Sicilia (300 milioni) per avere infrastrutture minimamente efficienti sono stati dirottati per costruire un’opera megalomane.

A chi ieri gli ha chiesto dell’aumento delle risorse in più per il Ponte l’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini (il Consorzio che farà il Ponte) ha liquidato la faccenda sostenendo «Sono questioni tecniche legate a come il governo stanzia i soldi. Credo siano sistemazioni di ragioneria e non c’è nessuna modifica rispetto a quelli che erano i numeri precedenti, per quanto ne sappia. Chiedete al vicepresidente Salvini se il Ponte si farà. Noi siamo soldati, eseguiamo gli ordini».

Nello stesso emendamento leghista c’è un miliardo in più alla Tav Torino-Lione, più un altro a Ferrovie per le opere del Pnrr. «E neanche un centesimo per le due linee metropolitane di Torino» hanno commentato i parlamentari e i consiglieri regionali piemontesi dei Cinque Stelle.

Per Legambiente il progetto del Ponte sullo Stretto «continua a drenare ingentissime risorse pubbliche». In valori assoluti «i finanziamenti nazionali per il trasporto su ferro e su gomma sono diminuiti da circa 6,2 miliardi del 2009 a 5,2 miliardi nel 2024, ben al di sotto delle necessità e pari a un -36% se si considera l’inflazione degli ultimi 15 anni».

«Come mai per quello i soldi si trovano, mentre per pensioni, sanità, trasporto pubblico non si trovano e anzi i fondi sono stati tagliati? Si vergognino» ha detto Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra. «Il Fondo di sviluppo e coesione dovrebbe essere usato per le infrastrutture davvero urgenti per il Sud, ma viene usato come un bancomat qualunque – ha osservato Pietro Lorefice (M5S) – Ricordo che altre risorse erano state drenate dall’ex “superministro” Fitto per tappare i buchi da lui stesso aperti nel Pnrr, con un taglio di interventi che ha fatto male a paese».

Il Ponte di Messina «è un’opera perfettamente inutile, imposta per la vanagloria politica di Salvini – ha detto Pasquale Tridico (Cinque Stelle) – per mantenere equilibri fragili all’interno del governo Meloni, che considera il Mezzogiorno un mero serbatoio di voti».

Sul Ponte c’è stata una polemica a un question time alla Camera, tra il ministro Gilberto Pichetto Fratin e Bonelli (Avs). Il primo si è difeso dalle critiche di avere fatto «nomine politiche» nella commissione per la Valutazione di Impatto Ambientale «che è indipendente». Per Bonelli ha «detto il falso» ed è «commissariato da Salvini. State utilizzando i fondi pubblici per foraggiare imprese che non hanno il progetto tecnico validato da nessun organismo dello Stato».

da “il Manifesto” del 17 dicembre 2024

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Città unica, una memorabile vittoria dei cittadini.-di Battista Sangineto

Una vittoria memorabile dei cittadini e una sconfitta storica per la classe dirigente di questa regione. È questo lo straordinario, letteralmente fuori dall’ordinario, risultato del referendum sull’unificazione di Cosenza, Rende e Castrolibero. L’unificazione promossa e sostenuta con entusiasmo da tutti i partiti, da Sinistra Italiana a Fratelli d’Italia, dagli imprenditori, dagli speculatori edilizi e, persino, da una parte dei sindacati è stata rigettata dai cittadini delle tre città.

Quei cittadini, alcuni dei quali riunitisi in Comitati spontanei, hanno respinto con forza, più del 58 % di NO, questa arrogante e, nei contenuti, irricevibile proposta di unificazione. A Cosenza, in particolare, due Comitati spontanei e autofinanziati –‘NO alla Fusione’ e ‘NO alla fusione. Per una Città Policentrica’, composti da non più di una quindicina di persone in tutto- sono stati capaci di persuadere il 30% dei votanti della città capoluogo a votare NO.

Quasi il 60% dei cittadini ha rifiutato questa proposta soprattutto perché l’unificazione aveva come unica ragione, falsamente di buon senso comune, che, essendo i territori comunali confinanti, la città unica esisteva già nelle cose e nella percezione delle persone.
Ogni città, invece, è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “interno”, la memoria culturale, e di uno “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i giardini, i palazzi, i viali alberati, i beni culturali.

Le città e i paesi italiani sono diversi gli uni dagli altri perché hanno forme, avvenimenti storici e sociali, stili e materiali architettonici e paesaggi nei quali si incastonano, molto differenti fra loro (Settis). Cosenza, Rende e Castrolibero avevano ed hanno forme e storie diverse che non sono omologabili, così come non sono omologabili neanche i loro cittadini che, infatti, hanno nettamente rifiutato l’unificazione.

I ‘leader’ dei partiti che hanno promosso questa unificazione vanno dicendo, ora, che è stato solo il metodo -senza dubbio impositivo e arrogante- che ha spinto i cittadini a votare contro, ma lo fanno solo per nascondere l’intimo rifiuto che, invece, i loro stessi elettori hanno avuto a conformarsi al pensiero unico della presunta ‘convenienza ed attrattività’ economica e della falsa modernità incarnata dalla grandezza che si otterrebbe con un unico Comune. Dicono queste cose perché fanno finta di non capire che i cittadini hanno bocciato, per sempre, l’unificazione più che il metodo.

Questa, invece, è stata una vittoria sul luogo comune che vorrebbe che il successo di una città sia misurato dalla sua Bigness (Koolhass) e dalla sua capacità di competere con altre città di egual dimensione. Una vittoria di coloro che pensano che il successo di una città dipenda, invece, dalla sua capacità di distribuire equamente al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini.

Un’unificazione che è stata bocciata dai cittadini perché avrebbe definitivamente condannato i territori delle loro città ad essere soltanto suolo da ridurre a merce, preda degli speculatori che, dopo aver cementificato quasi del tutto Cosenza, vogliono espandere la metastasi cementizia verso le colline più appetibili di Castrolibero e, soprattutto, verso la pianura di Rende.

Il Sindaco di Cosenza potrebbe cogliere l’occasione per provare, come indicatogli dal voto dei cittadini, a liberare il territorio del suo Comune dal giogo avvilente della speculazione edilizia e rivedere dalle fondamenta il Piano Strutturale Comunale –adottato, ma non approvato dall’allora sindaco Occhiuto- per farlo diventare strumento di progresso urbanistico, civile e sociale invece che approvarlo, ‘sic et simpliciter’, producendo solo mero sviluppo cementizio.

Mi permetto, sommessamente, di suggerire ai Commissari di Rende di non approvare il PSC della città che è l’atto più importante -dal punto di vista non solo urbanistico, ma anche economico, sociale e culturale- di qualunque Amministrazione comunale, ma di lasciarlo alla discussione e all’approvazione democratica del prossimo Consiglio comunale e del Sindaco che i cittadini vorranno eleggere, speriamo al più presto possibile.

Si potrebbe, ora, provare ad aprire, come suggerisce Sandro Principe, una fase di concertazione tra i Sindaci di Cosenza, Castrolibero ed i Comitati del NO per elaborare uno Statuto per l’Unione dei tre Comuni che è l’unico strumento idoneo per imboccare la strada indicata con chiarezza dal voto dei cittadini.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Le due Calabrie dei ricchi e dei poveri.-di Filippo Veltri

Ci sono due Calabrie: una di chi sta bene (benino diciamo) e una di chi sta male (malissimo diciamo). E convivono sotto lo stesso tetto in una situazione globale che non è certo finita a somma zero.

E dove sta – direte voi – la novità? Lo sappiamo da tempo! Ma la novità stavolta c’è, se uno si prende la briga di leggere tutto e fino in fondo un saggio bello lungo e corposo, denso di dati, cifre, proiezioni, riferimenti, pubblicato sul Menabò di Etica ed Economia, in questo mese di dicembre 2024 di Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò.

Si intitola ‘’Le due società. Del benessere passivo e delle povertà dei calabresi’’ e non parla solo di economia con freddi dati, micro e macro, ma parla anche, alla fine, di politica. Cioè in una sola parola di quello che la politica, le classi dirigenti nel suo complesso dovrebbero fare e invece non fanno. Ed è questo il punto di fondo.

Riassumere nel contesto di una pagina di giornale il pensiero di Cersosimo e Nisticò non è semplice ma provandoci per i nostri lettori abbiamo ammirato la lucidità, la compostezza, il rigore scientifico di questi due studiosi calabresi, molto noti peraltro da tempo e autori di diversi saggi proprio sulla struttura economica e sociale della nostra regione.

La Calabria – iniziano – è l’estremo: una regione nel vortice di un processo di polarizzazione e sfaldamento sociale, con una popolazione spaccata in due metà quantitativamente equivalenti, per metà benestanti e metà poveri o a rischio di povertà-esclusione; due realtà scollate tra loro che tendono a configurare una non-società. La Calabria è la regione europea, ad esclusione delle “ultraperiferiche”, con la più alta quota di poveri-vulnerabili sulla popolazione complessiva (48,6%)

Allarmante è il trend recente: tra il 2022 e il 2023, il rischio povertà-esclusione sociale dei calabresi subisce una drastica impennata, dal 42,8 al 48,6%, a fronte di un calo generalizzato nelle altre regioni, anche meridionali.

Cersosimo e Nisticò rilevano come più di un quinto della popolazione regionale, tra 350 mila e 400 mila persone (circa il 15% del totale nazionale), è costretto a fare i conti con severe e plurime privazioni materiali e sociali: essere in arretrato con il pagamento di bollette, affitti, mutui; non poter sostenere spese impreviste; riscaldare adeguatamente la casa; sostituire mobili danneggiati o abiti consumati; non potersi permettere un pasto adeguato almeno a giorni alterni, due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni, una piccola somma di denaro settimanale per le proprie esigenze personali, una connessione internet utilizzabile a casa, un’automobile, di incontrare familiari o amici per mangiare insieme almeno una volta al mese.

L’incremento dei calabresi a “rischio di povertà passa dal 34,5 al 40,6% e quelli con “grave deprivazione materiale e sociale” nel giro di un solo anno quasi raddoppiano (dall’11,8 al 20,7%), contro una sostanziale stabilità nella media nazionale (dal 4,5 al 4,7%), e di una leggera flessione in oltre la metà delle regioni, anche in tutte quelle del Sud, ad eccezione della Puglia.

Insomma, come in nessuna altra regione italiana, il saggio dei due economisti nota come i dati configurano in modo evidente due società, due Calabrie, due gruppi di cittadini profondamente dissimili e slegati tra loro. ‘’Da un lato – scrivono – ci sono i calabresi che godono di redditi, patrimoni, consumi, stili di vita analoghi a quelli medi nazionali. Singoli e famiglie a cui fa capo la quasi totalità della ricchezza netta regionale, reale e finanziaria.

Appartengono a questa “prima” Calabria anche i calabresi, per lo più dipendenti della pubblica amministrazione, con redditi medi ma sufficienti per condurre una vita decorosa, e che, seppure a fatica, riescono a districarsi nelle maglie sconnesse dei servizi pubblici essenziali e ad evitarne gli effetti perversi ricorrendo al proprio bagaglio di amicizie e conoscenze personali. Accanto a questi, si ritrovano anche i calabresi, inquilini del privilegio, che possono permettersi consumi opulenti, dalle auto alla cosmesi, come qualunque altro ricco di qualunque società urbana d’Europa, e che possono influenzare le politiche pubbliche a loro favore’’.

I primi calabresi, quelli che definiamo ricchi per comodità, si sostengono tra loro attraverso reti relazionali sia di natura interpersonale che associativa, come, ad esempio, i club Lyons o Rotary, gli Ordini professionali, le Associazioni di commercianti, industriali, agricoltori, artigiani, i circoli massonici palesi e occulti, le reti informali di comparatico, le aggregazioni politico-elettorali strumentali, temporanee, trasversali. In aggiunta, non va trascurata l’incidenza dell’estremo del capitale sociale “cattivo”, ovvero quei circuiti di ‘ndranghetisti e di soggetti criminali che costruiscono il loro benessere distruggendo quello di cittadini e imprenditori, consumando futuro all’intera comunità regionale.

La “seconda” Calabria, quella dei sommersi, dei rimossi, dei precari, degli occultati non disturba l’estetica della “prima” Calabria, è atomizzata, sbriciolata; più fragile e indifesa, composta da calabresi isolati gli uni dagli altri, senza legami né rappresentanza né voce, senza sovrastrutture. Calabresi silenziati, privi di mezzi e strumenti, senza occasioni per parlare di sé.

Qui c’è lo scatto che dovrebbe interessare di più la politica perché Cersosimo e Nisticò scrivono testualmente così: ‘’a questa Calabria sembra non pensare nessuno. Non solo perché sommersa e difficile da incrociare se non si hanno sguardi sensibili, adeguati, interessati, ma anche perché è la Calabria degli outsider, del non-voto, che non protesta, che non fa rumore, che non urla, che non ha né trattori né vernici né gilets jaunes né protettori; che non minaccia l’ordine dominante. I partiti-residui continuano a guardare alla prima Calabria, a quella dei garantiti, degli insider’’.

La chiusura parla invece a tutti noi: ‘’le rare imprese di “successo”, le micro-esperienze socio-produttive locali puntiformi, spesso “cartolinizzate”; vagheggiare su una mai definita altra Calabria e su narrazioni aneddotiche consolatorie; dimenticando che la somma di micro-esperienze positive disperse, seppure importanti di per sé, non è sufficiente per determinare un cambiamento di sistema; che non basta guardare “dall’alto” per decifrare le sofferenze e il declassamento sociale della Calabria praticata “dal basso”’’.

È il problema dei problemi alla fine quello che riemerge e che anche noi giorno dopo giorno ci sforziamo di fare nella denuncia puntuale delle mille cose che non vanno e nel cercare di dare voce a chi non ne ha affatto e, nello stesso tempo, di dare voce a quelle che i due economisti chiamano le ‘’rare imprese di successo’’, che forse meriterebbero maggiore attenzione.

In mezzo c’è una rete che dovrebbe tenerle assieme e farle crescere queste positive esperienze ma chi se non una classe dirigente, politica e non, ha questo compito? Chi deve agire se non una politica sana che si dedica all’interesse collettivo? Questo è il vero problema delle due Calabrie, che forse sono pure 3 o 4, o anche una sola che vive tutta assieme sotto un’unica capanna, mischiandosi e confondendosi tutti i giorni in una melassa sempre più insopportabile.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 dicembre 2024.

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Cassese sta preparando l’imbroglio dei nuovi Lep.-di Gianfranco Viesti

Molte importanti vicende relative all’autonomia differenziata sono state e continuano a essere caratterizzate dal segreto: per i suoi promotori è opportuno che i cittadini non siano informati (se non a cose fatte), di quel che si viene decidendo. È quel che è successo con la lista delle 500 funzioni trasferibili alle Regioni, prodotta da Calderoli e mai resa pubblica. È quel che continua a succedere riguardo ai Lep (livelli essenziali delle prestazioni): si tratta dei diritti che devono essere garantiti, con apposite risorse, a tutti gli italiani, ovunque vivano. Quante risorse? Dove? Tema caldo, come si vede anche dalle recenti prese di posizione di Forza Italia. La questione è complicatissima, ma il suo senso profondo dovrebbe essere chiaro.

Il Clep è un importante Comitato guidato da Sabino Cassese, che dopo iniziali posizioni molto preoccupate è divenuto uno dei principali sostenitori del progetto leghista di differenziazione, fatto proprio dall’intero governo. Il Clep ha compiuto una ricognizione legislativa dei Lep. Lo ha fatto, come ha tenuto a scrivere l’ex governatore Visco prima di lasciare la carica, “in termini troppo generici”. E non per quelli relativi alle materie già di competenza regionale, che dovrebbero essere il punto di partenza dei meccanismi finanziari validi per tutti; solo di quelli relativi alle materie che le regioni “secessioniste” pretendono che lo Stato ceda loro. Ora si tratta di associare a questi diritti numeri precisi: il fabbisogno finanziario.

Punto cruciale: più basso è, più resta lo status quo (a danno dei cittadini delle regioni più deboli) e si giustifica la pretesa del governo di non stanziare risorse aggiuntive. Per definire i principi su cui basarsi per i conti è stata nominata da Cassese una Commissione di dodici esperti. Praticamente tutti sostenitori dell’autonomia differenziata. Il presidente, un ex deputato veneto del Pd (Stradiotto) che lavora da tempo sul federalismo fiscale: anche nel periodo in cui fu deciso che laddove non c’erano asili nido, il fabbisogno era conseguentemente pari a zero.

E che le donne si sarebbero dovute arrangiare. Fra gli altri, la potente presidente (D’Orlando) della importantissima Commissione tecnica fabbisogni standard (Ctes, di cui si dirà fra un attimo), fino a poco fa consulente di Zaia; un docente (Giovanardi) che è tuttora contemporaneamente consulente di Zaia e componente della Ctes; un altro (Guzzetta) determinatissimo sostenitore della “secessione dei ricchi” e già consulente della Lombardia. L’elenco potrebbe continuare, includendo alcuni esponenti meridionali assai contigui al governo, fra cui l’onnipresente presidente dell’Anvur, Uricchio.

Cassese ha convocato per il 25 settembre una riunione del Clep per approvare il documento predisposto dai 12: che nonostante l’avversione di alcuni suoi componenti per la discussione pubblica è stato possibile visionare. Un documento snello ma politicamente esplosivo; in esso si sostiene che i fabbisogni standard vanno calcolati “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”.

Dunque, i fabbisogni (e quindi i diritti) vanno differenziati. Innanzitutto, in base allo storico cavallo di battaglia della Lega, e cioè il supposto diverso costo della vita: dato che al Sud la vita costa meno, gli stipendi possono essere più bassi, e quindi il servizio deve costare meno; bastano meno soldi. Magari bastano già quelli che ci sono, e il governo fa tombola. Poi vanno differenziati in base alle dinamiche demografiche. Possibile interpretazione: dato che al Sud nascono meno bambini, perché spendere per gli asili nido? Invertendo la logica socioeconomica e politica, dato che la bassa natalità è anche conseguenza della relativa carenza di servizi. Chissà come verranno interpretate le caratteristiche climatiche. E c’è poi un jolly: le “caratteristiche dei diversi territori”.

In base a questi principi, la Ctes presieduta dall’ex consulente di Zaia, di cui si diceva, farà i calcoli: con metodologie estremamente complesse, sensibili ai criteri di partenza (specie se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere). I suoi numeri, i fabbisogni finanziari, saranno impossibili da ricostruire e quindi da discutere. Il Parlamento e l’opinione pubblica dovranno passivamente accettarli, perché prodotti dagli “esperti”.

Un processo pericolosissimo, sul quale sarebbe opportuna una attenzione assai maggiore dei parlamentari di opposizione. È la politica, e non dodici “esperti”, che deve definire alla luce del sole i criteri di calcolo: e questo prima che i dati vengano prodotti. È indispensabile un aperto dibattito pubblico. Non ne va solo della “secessione dei ricchi”, ma delle stesse modalità di funzionamento della democrazia nel nostro Paese.

da “il Fatto Quotidiano” del 20 settembre 2024

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Regionalismo differenziato: dal no alla proposta.-di Massimo Veltri

Dire no al regionalismo differenziato si deve, e opporsi allo scellerato progetto che sta prendendo corpo per iniziativa del governo e segnatamente della Lega di Salvini è un atto che si deve perseguire non soltanto da parte dei cittadini del sud ma di coloro che hanno a cuore il destino dell’Italia intera.

Dire no significa mobilitarsi nelle piazze, sottoscrivere la richiesta di referendum abrogativo, far sentire al palazzo che i problemi del mezzogiorno e del paese sono un unicum, che sarebbe un errore gravissimo puntare sullo spaccottamento piuttosto che sul riequilibrio.

Un riequilibrio cui si rinuncio allorché ormai quasi venticinque anni fa il governo di centrosinistra modificò il Titolo V della Costituzione-da lì è partito tutto, è bene ricordare-investendo nell’operoso nord e lasciando alla deriva il sud in perenne sofferenza: l’eufemismo più in voga era ‘in ritardo di sviluppo’.

La questione meridionale, il dualismo fra le parti simmetriche del paese venivano risolte in maniera tranchant, semplicemente eliminando uno dei corni del dilemma, quello più fragile.

Il dibattito che si è sviluppato da allora ha risparmiato poche pieghe delle tante che rivestono l’affaire: mettere alla prova il sud, i LEP, i servizi essenziali, era meglio non fare L’Unità d’Italia, con i Borboni si stava meglio, facciamola dal sud, la secessione. Perché un dibattito c’è stato, e c’è, anche nelle regioni meridionali, e anche con evidenti distinguo nelle forze politiche, a cominciare dalla moderata Forza Italia che mostra di non gradire. Un dibattito che però si sviluppa esclusivamente sul versante difensivo e d’opposizione al disegno di Salvini, come se conservare lo status quo fosse la soluzione.

Invece no, non è la soluzione perché è sotto gli occhi di tutti la divaricazione sempre più stridente fra allocazione delle risorse, disponibilità di servizi, occasioni di lavoro, efficienza delle prestazioni, capacità di spesa, treni che partono con direzioni e versi privilegiati se non esclusivi.

Perché il sud è rimasto indietro, c’è stato chi documenti alla mano ha indicato d’indagare sulla inadeguatezza delle classi dirigenti a sud di Roma: se per un periodo la tesi ha mostrato la sua fondatezza non di meno la parzialità della diagnosi balza comunque agli occhi con l’incalzare degli eventi. Non già per assolvere l’indifendibile ma per assegnare a un intero sistema ruoli e responsabilità che non possono che essere collettivi, plurali bisogna dire che un impegno diffuso e costante è ciò che attende la comunità politica e civile, culturale ed economica delle regioni del sud.

Perché è dal sud, se si vuol dare per davvero il segno della credibilità della svolta, che si deve dare inizio a ridisegnare funzioni e attribuzioni, assegnare equilibri e risorse, secondo un assetto della macchina pubblica che non nasconda zone d’ombra, riconosca limiti e introduca correttivi secondo criteri di equità e di merito, in uno Stato del terzo millennio.

Può partire dal sud un ragionamento siffatto, ci sono da noi intelligenze e passioni capaci di mostrare la via, con spirito unitario e non subalterno, propositivo e non rivendicazionistico?

Provare a misurarsi in tale impresa val la pena, altrimenti sarà il cartello del no a vincere ancora una volta, o il perpetuarsi dell’eterno pantano.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 settembre 2024

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