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Il crollo della Lega offre una nuova chance al Mezzogiorno.-di Tonino Perna

Il crollo della Lega offre una nuova chance al Mezzogiorno.-di Tonino Perna

La vera novità in queste elezioni regionali è il crollo di consensi per la Lega di Salvini. Il progetto di uscire dalle regioni del Nord per proiettarsi a livello nazionale, sostituendo Lega Nord con Salvini, dopo un rapido successo è fallito. La Lega di Salvini ritorna alle sue radici che nel frattempo si stanno consumando a vantaggio di Fratelli d’Italia. C’è il rischio concreto di perdere la leadership della Lombardia e lo stesso segretario della Lega rischia di essere sostituito.

Certo, a livello parlamentare la Lega è ancora fondamentale per la tenuta del governo Meloni, ma la sua netta perdita di consensi la indebolisce. Il che significa che i due cavalli di battaglia, il Ponte sullo Stretto e l’autonomia differenziata, perdono di slancio. Per l’autonomia differenziata si rafforza la resistenza di Forza Italia che proprio nel Mezzogiorno ha i maggiori consensi elettorali.

Per il Ponte sullo Stretto, obiettivo condiviso da tutta la maggioranza, si apre una fase di incertezza in quanto il suo maggiore sostenitore, che di fatto si è intestato questo fantomatico progetto, si è indebolito e gli alleati di governo potrebbero far valere le ragioni di bilancio, ritardando i finanziamenti per questa mega opera con impatto ambientale devastante.

Per il Mezzogiorno si apre una nuova prospettiva, se ci saranno le forze politiche in grado di cogliere questa occasione. Se viene messo in discussione il Ponte sullo Stretto, con cui il governo di destra-centro pensava di esaurire l’intervento nel Mezzogiorno, si può pensare di spalmare i 16 miliardi previsti su progetti infrastrutturali necessari: dalla famigerata SS 106 alla elettrificazione del tratto ferroviario Reggio-Taranto, ai tanti collegamenti ferroviari che sono ultra necessari in Sicilia e Sardegna, senza dimenticare le strutture sanitarie e scolastiche che sono carenti o degradate in tutto il Mezzogiorno, ed i servizi pubblici essenziali nelle aree interne.

C’è poi un fatto che è stato finora ignorato. La Trumpeconomics apre dei nuovi scenari. Le aree più produttive del nostro Paese stanno andando in crisi, con una riduzione dell’export ed un aumento dell’import, soprattutto dalla Cina che sta puntando per sostituire in parte il mercato Usa per via dei dazi sempre più pesanti. L’export dal Mezzogiorno nel 2024, pur essendo in crescita, rappresenta appena il 13 per cento del totale nazionale, a fronte di una popolazione residente pari al 32 per cento.

Anche i flussi turistici dall’estero, dove l’Italia si colloca al quinto posto nel mondo, nel Mezzogiorno si arriva al 19 per cento del totale nazionale, con una crescita notevole in questi ultimi anni: era del 12 per cento nel 2018. Solo nel 2024 c’è stato un aumento del turismo straniero del 15 per cento, contro poco più del 4 per cento nel Centro-Nord.

In sintesi, il Nord ed una parte importante del Centro-Italia sono arrivati al capolinea, sia rispetto ai flussi turistici che alla crescita industriale, con danni e problemi territoriali crescenti (overturismo, inquinamento, cementificazione, ecc.). Si aprono pertanto due opportunità: far crescere l’export del Mezzogiorno e puntare su un aumento della domanda interna.

Il che significa anche aumento dei salari e stipendi, almeno per recuperare la grave perdita del potere d’acquisto per la gran parte dei lavoratori che si è determinata in questo secolo.

Rispetto a questo scenario ci vorrebbe un nuovo progetto e una nuova visione dell’Italia che metta al centro le potenzialità del Mezzogiorno senza ripetere gli errori del passato, rispettando la storia e la qualità dei territori.

Le forze politiche di opposizione al governo Meloni invece di inseguire il primo ministro, dovrebbero pensare ad elaborare, con l’ausilio di tanti soggetti pubblici e privati, un piano per il futuro del Mezzogiorno all’interno di una visione del nostro Paese adeguata ai tempi che cambiano.

da “il Quotidiano del Sud”

Ripensare il Sud e il Patrimonio pubblico italiano.-di Piero Bevilacqua

Ripensare il Sud e il Patrimonio pubblico italiano.-di Piero Bevilacqua

Sono da poco in libreria due testi che meritano la nostra attenzione e che vanno segnalati per la loro rilevanza scientifica, culturale e politica. Non sottolineerò mai abbastanza l’aggettivo politico, perché esso significa in origine, com’è noto, una delle più nobili e distintive delle azioni umane, il governo degli interessi collettivi.Mentre oggi è un compito drammaticamente eluso da gran parte del ceto politico, che di fatto produce retoriche imbonitorie e pratica un servile vassallaggio a favore di ristretti gruppi dominanti del mondo industriale finanziario.

Il primo libro è quello di Pino Ippolito Armino, Storia dell’Italia meridionale, Laterza 2025,pp.293, € 20.A distanza di oltre 30 anni dal mio Breve storia dell’Italia meridionale dall’Ottocento a oggi , Donzelli 1993, esso si presenta come una nuova più larga sintesi, che mancava nel panorama della pubblicistica sul Sud. Intendiamoci, di storie del Regno di Napoli e anche di Storie del mezzogiorno, perfino in più volumi, ne sono state scritte non poche.

La singolarità del presente volume è che esso costituisce non solo una sintesi che parte da metà ‘700 e arriva ai giorni nostri, ma riesce a dare, in poco meno di 300 pagine, un quadro di grande ricchezza e completezza della storia secolare di questa parte d’Italia. Giova ricordare infatti che il Sud gode di una letteratura sterminata, accumulatasi soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, ma essa è quasi sempre focalizzata nell’esame dello squilibrio con il Nord d’Italia.

Nel libro di Ippolito, all’annosa questione è dedicato, con approcci peraltro originali, lo spazio che merita, ma il Sud è raccontato iuxta propria principia, cioé nel suo svolgimento autonomo oltre che, ovviamente nei suoi nessi con la storia nazionale e generale.Il testo ha il merito di inserire nella vicenda meridionale anche la storia della Sardegna tra la tarda età moderna e quella contemporanea – solitamente espunta dalle ricostruzioni meridionalistiche – ma soprattutto è in grado di tenere insieme, in un racconto organico e con una scrittura di chiarezza esemplare, tutti gli aspetti e i fenomeni che fanno la storia di una società: economia, rapporti sociali, ceto politico, fenomeni culturali, trame criminali ecc.

Il lettore ha così la possibilità di avere una visione dei processi e degli eventi che hanno segnato questa parte d’Italia e la consegnano oggi al nostro presente con le sue luci e le sue ombre, le sue lacerazioni e le sue potenzialità.Un vasto territorio in cui comunque si specchiano, esasperati, i caratteri di un Paese gravemente malgovernato e in declino.Questa Storia costituisce pertanto un invito a ripensare il nostro Sud come parte di un progetto di rinascita politica e culturale dell’Italia tutta.

Il secondo testo che vorrei segnalare è quello di Emanuele Petracca, Lo stato liquido.L’Italia privata del patrimonio pubblico. Introduzione di Paolo Maddalena, Castelvecchi 2025,pp 203,€ 20. Petracca è un giurista, allievo di Maddalena, uno dei più agguerriti difensori del patrimonio pubblico del nostro Paese, che lo presenta con una nitida introduzione.

Ed è a mio avviso significativo delle condizioni culturali dell’Italia di oggi che un simile contributo venga lodevolmente da un giurista e non anche da un economista, come pure sarebbe necessario.Le Facoltà di economia hanno subito un processo di colonizzazione neoliberista da cui non riuscono a riscattarsi.

Petracca ricostruisce con competenza e inappuntabile rigore filologico tutti gli atti di governo, le disposizioni, le leggi con cui nel corso degli anni ’90, i nostri gruppi dirigenti vendettero ai privati il patrimonio industriale che apparteneva agli italiani. La proprietà pubblica, infatti, ricorda l’autore, è da considerare, secondo l’interpretazione costituzionale di un nostro sommo giurista, Massimo Saverio Giannini, <>, cioé proprietà del popolo e pertanto <>.

Ma avanza in quegli anni l’ondata neoliberista avviata nei primi anni ’80 dal capitalismo anglo-americano, con i governi Thatcher e Reagan, da cui si lasciano travolgere con entusiasmo le nostre classi dirigenti, il ceto politico (anche quello di sinistra), il giornalismo, gli intellettuali democratici.E si comprende perché: in tutto il decennio precedente l’industria pubblica è stata investita da una sistematica campagna denigratoria, fondata sulla denuncia delle infiltrazioni partitiche all’interno dei gruppi, che rendevano corrotte e inefficienti le dinamiche industriali.

Denunce in parte ovviamente fondate, ma a cui occorreva rispondere con avvedute correzioni, non certo gettando l’acqua sporca con il bambino. E invece nel corso di un decennio, mentre si realizzava il progetto neoliberista dell’Unione Europea, con il trattato fondativo di Maastricht nel 1992, l’Italia si privò della sua “economia mista” con cui aveva realizzato il miracolo economico e attraversato il “trentennio glorioso”, diventando una potenza manifatturiera mondiale.

E giova qui ricordare l’avvio di questa operazione, più volte raccontato, ma non ancora sufficientemente noto, che l’autore riprende e che anche Maddalena ricapitola nella sua introduzione: vale a dire la presentazione da parte di Mario Draghi – allora direttore generale del Tesoro – del piano di messa in vendita dei nostri gioielli industriali di fronte a cento delegati della City di Londra.

Era il 2 giugno del 1992, a bordo del panfilo Britannia, e Draghi pronunciò allora un discorso che oggi suona, in alcuni passi salienti, come un sinistro manifesto neoliberista, l’atto di resa di un governo sovrano, ai cosiddetti mercati, vale a dire ai poteri selvaggi del capitalismo finanziario:<>.

A distanza di 37 anni la ricompensa che abbiamo ricevuto dai mercati è sotto gli occhi di tutti: un apparato industriale ridimensionato, con interi settori passati in mani estere, disuguaglianze nel corpo del Paese da società medievale, sia economiche che territoriali, e la perdita completa non solo di una autonoma politica economica, ma anche, soprattutto negli ultimi

Che bufera sull’errato Butera!

Che bufera sull’errato Butera!

Alcune testate giornalistiche e, quel che è più paradossale, anche il vicecapogruppo di FDI al Senato, Antonella Zedda, hanno sostenuto, sdegnati e irridenti, che fra i firmatari dell’appello a favore della candidatura di Pasquale Tridico alla carica di presidente della Regione Calabria, compare quella del compianto sociologo Federico Butera, deceduto pochi mesi fa.

Scandalo! Ecco, i soliti e stramaledetti intellettuali che arrivano a falsificare le firme per manipolare l’opinione pubblica “pur di sperare [di] ottenere qualche consenso in più” (Zedda).

E che diamine, non si fa così!

Tridico vuole prendere “in giro i cittadini con questi appelli farlocchi ed usando in modo improprio il nome di un defunto. Davvero di cattivo gusto” (Zedda).

E, poi, lo sanno tutti, suvvia, che: “La storia insegna: gli endorsement accademici spesso portano più sfortuna che voti. Tra i firmatari anche il sociologo Butera che però è morto lo scorso febbraio […] Gli appelli firmati dagli intellettuali, si sa, portano una sfortuna proverbiale. Sono la versione colta del malocchio: se ti sostengono, politicamente sei già spacciato“ (Calabria 7).

Ma non sono tutti così severi i fustigatori degli intellettuali. C’è qualcuno che ci scherza su scrivendo che: “In rete le ironie si sprecano, con chi osserva sarcasticamente che se la campagna elettorale entra nel vivo, è inevitabile che ci scappi il morto. Inteso come firmatario” (il Secolo d’Italia).

È, forse, vero che “la Calabria non è un’aula universitaria [perché] qui non bastano bibliografie e note a piè di pagina …”, ma, forse, dare una ripassata alle regole fondamentali del buon gusto e della grammatica civile non guasterebbe.

È sicuramente vero, invece, che noi abbiamo scritto e firmato quell’appello all’insaputa del candidato Pasquale Tridico, che non lo ha sollecitato in alcun modo, e che il firmatario Federico Butera, emerito di Fisica Tecnica Ambientale al Politecnico di Milano, è il cugino, vivo e vegeto, dello scomparso sociologo Federico Butera.

A tutte le novelle e a tutti i novelli necrofori ricordiamo sommessamente che l’intellettuale non è uno specialista “che difende affari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendista” (Jean-Paul Sartre).

E se gli intellettuali, italiani e calabresi, si occupano pubblicamente dei destini del Sud e della Calabria, in particolare delle loro classi dirigenti politiche, dovrebbe sembrare a tutte e tutti, di destra e di sinistra, un’ottima notizia.

da “il Quotidiano del Sud” del 2 settembre 2025

L’“Ediliziomania”, bulimia da cemento tra destra e sinistra.-di Isaia Sales

L’“Ediliziomania”, bulimia da cemento tra destra e sinistra.-di Isaia Sales

Alexandre Dumas scrisse diversi racconti dedicati alla città di Napoli e li raccolse nel 1835 nel libro Il Corricolo, che era il nome del mezzo di trasporto che utilizzava per percorrere la metropoli partenopea, che all’epoca era la terza d’Europa per numero di abitanti dopo Londra e Parigi. Nel testo si racconta di un gesuita che aveva elaborato un itinerario per attraversare tutta la città da un estremo all’altro stando sempre all’ombra, così da sfuggire alla calura e ai colpi di sole.

Il gesuita e la mappa erano inesistenti, così come la possibilità di stare sempre al fresco percorrendo qualsiasi città del mondo, immaginiamo Napoli, dove palazzi che fanno ombra ci sono, eccome, ma scarseggiano parchi e viali alberati. Dumas abbinava santità a freschezza, perché solo un santo poteva fare il miracolo di trovare un percorso del genere e, arrivando all’oggi, solo un amministratore “fuori dal comune” potrebbe provare ad avvicinarsi alla mappa del gesuita napoletano: percorrere una città grande, piccola o media con un numero così alto di viali alberati e di parchi pubblici da sfiorare l’obiettivo di passeggiare godendo di un’ombra permanente e di trovare frescura anche nei giorni più assolati.

Se, dunque, l’obiettivo “tutto all’ombra” è un’utopia, cambiare le nostre città alberando ogni tratto alberabile è un programma assolutamente realistico. Perché non lo si prova a praticare?

Le spiegazioni più semplici sono due: costa poco e in più non risponde al convincimento ossessivo di qualsiasi amministratore locale: è un fallimento un mandato amministrativo senza nuove opere pubbliche realizzate, senza diverse autorizzazioni a costruire nuovi appartamenti e ridurre lo spazio non costruito, senza gigantismo edilizio così da lasciare in eredità ai propri concittadini una dose massiccia di cemento. Questa “ediliziomania” degli amministratori locali, questa bulimia da cemento non risparmia nessuno, non c’è nessun confine tra destra e sinistra su questo punto, nessuna percepibile differenza di impostazione nel governo della propria comunità tra forze politiche contrapposte. Il cemento è stato ed è il principale disintegratore dell’etica pubblica in Italia.

La mania di grandezza si respira anche nei piccoli comuni, dove i sindaci vogliono lasciare il segno con nuove costruzioni, azzerando gli ultimi spazi liberi: si sono trasformati anche loro in specialisti del cemento. In Italia su 105 capoluoghi di provincia ci sono in media 24 alberi ogni 100 abitanti. Ma anche in questa classifica, le città del Sud sono agli ultimi posti.

Perciò mi rattrista leggere programmi elettorali pomposi, esagerati, spesso copiati, che tutto propongono tranne che rispondere a esigenze elementari della vita associata, come se occuparsi delle piccole cose quotidiane fosse miserevole, limitativo, non degno della “grande politica”. Ma al contrario non c’è cosa più dignitosa per un politico (che vive in luoghi degradati) di prendersi cura con amore, umiltà e dignità di quel degrado e riempirlo di verde, di alberi, di parchi, di viali, partendo dalle piccole cose tra cui, appunto, considerare la presenza di luoghi freschi come un bene pubblico oggi essenziale.

Ho un consiglio da dare agli amministratori locali, soprattutto meridionali: si ponga fine alla politica delle costruzioni di case che hanno trasformato i nostri luoghi in caserme urbane, che “hanno circondato l’ambiente più che esserne circondati” (per dirla con Franco Arminio). E si preferisca nelle assunzioni un giardiniere a un ingegnere.

Si solleciti in ogni regione una sacrosanta legge perché nessun altro metro cubo venga offerto alla speculazione edilizia e si concentri tutto sul recupero del già costruito, eccezion fatta per nuove scuole, asili, biblioteche e quanto strettamente necessario per migliorare i servizi pubblici. Che bello se un candidato sindaco scrivesse nel suo programma: farò della mia città la più verde d’Italia, con più alberi che cittadini, più viali alberati che condomini, più giardinieri che impiegati.

Ci sarà mai un sindaco che proverà a tracciare un percorso di attraversamento della propria città tutto (quasi) all’ombra?

da “il Fatto Quotidiano” del 31 agosto 2025

Appello per Tridico Presidente della Regione Calabria

Appello per Tridico Presidente della Regione Calabria

Ci sono più ragioni per ritenere che l’elezione di Pasquale Tridico a Presidente della Regione Calabria possa segnare una svolta concreta nella storia della Calabria e del Sud.

Tridico è un docente universitario, un valente economista, con esperienze di ricerca e insegnamento in diversi paesi d’Europa e negli Stati Uniti, con varie esperienze manageriali, che ha diretto con successo, tra il 2019 e il 2022, il più importante istituto del welfare italiano: l’INPS.

Per la prima volta, la Regione Calabria può esser guidata da uno studioso con una così vasta esperienza e un così prestigioso profilo intellettuale. Per la prima volta, a svolgere il ruolo di Presidente può esser chiamato un uomo che non viene dal mondo dei partiti locali, dall’ambiente degradato dei vecchi potentati calabresi, delle clientele fameliche da soddisfare in danno di un progetto generale di riscatto generale.

Tridico è calabrese, figlio della sua terra. Ha lasciato la Calabria per gli studi universitari e per portare avanti una brillante carriera intellettuale e professionale. Ma non ha mai reciso le sue radici, non ha mai abbandonato il suo luogo d’origine. Tant’è che oggi, parlamentare europeo, mentre ricopriva importanti incarichi a Bruxelles, torna in Calabria per misurarsi in questa cruciale sfida politica.

Torna in Calabria, per realizzare un programma che faccia uscire la regione soprattutto dalla sua profonda sfiducia, dalla rassegnazione con cui i calabresi vivono da anni la vita pubblica, dominata da un ceto politico affaristico e senza visione.

Tridico è un profondo conoscitore dei processi che generano e riproducono le disuguaglianze sociali e territoriali, non appartiene alla nefasta famiglia degli economisti neoliberisti che fingono di credere nelle capacità salvifiche del mercato autoregolato. Può quindi essere la persona con il profilo e la credibilità giusti per chiamare a raccolta le migliori capacità e le più promettenti pratiche sociali locali per ideare e mettere in atto una politica di sostegno ai poveri e ai ceti più deboli e vulnerabili, condizione indispensabile per ridare fiducia e speranze a vasti strati di calabresi abbandonati e rassegnati al peggio.

Cambiare è possibile.

Un leader prestigioso come Tridico può contribuire a riattivare la propensione all’impegno e all’azione collettiva, può incoraggiare la voce e la mobilitazione dal basso, può dare rappresentanza ai territori abbandonati e marginalizzati dalle politiche pubbliche, in particolare quelli interni di collina e montagna, può dare visibilità al formicolio sociale che, sebbene in modo puntiforme, è diffusamente presente nell’intera regione.

Tridico può quindi essere il Presidente del riscatto, colui attorno al quale rilanciare la partecipazione democratica dei cittadini, costruire nuove progettualità con le realtà associative seriamente impegnate nel welfare, nell’ambiente, nella tutela dei diritti, nella tutela dei paesaggi e nella salvaguardia del Patrimonio culturale ponendo fine al dissennato consumo di suolo ed alla speculazione edilizia rurale ed urbana.

Un Presidente che capace di formare una squadra di amministratori capaci e cristallini, che realizzi un piano di investimenti pubblici innovativi, credibile e immediatamente attuabile, per lo sviluppo economico e sociale e per l’efficace contrasto alle disuguaglianze, alle discriminazioni, alle povertà della regione Calabria.

La Calabria non potrebbe avere oggi un candidato Presidente più giusto e più capace, per esperienza e relazioni nazionali e internazionali, di Pasquale Tridico.

Piero Bevilacqua, Maurizio Acerbo, Franco Arminio, Filippo Barbera, Elena Basile, Francesco Benigno, Federico Butera, Luciano Canfora, Carlo Felice Casula, Domenico Cersosimo, Laura Corradi, Giovanna De Sensi, Angelo D’Orsi, Stefano Fassina, Paolo Favilli, Luigi Ferrajoli, Roberto Finelli, Elena Gagliasso, Pino Ippolito Armino, Carmen Lasorella, Sabina Licursi, Paolo Maddalena, Laura Marchetti, Giacomo Marramao, Tomaso Montanari, Enrica Morlicchio, Rosanna Nisticò, Francesco Pallante, Marco Revelli, Mimmo Rizzuti, Battista Sangineto, Enzo Scandurra, Rocco Sciarrone, Salvatore Settis, Francesco Sylos Labini, Maria Adele Teti, Gianfranco Viesti.
Hanno aderito:
Vittorio Cappelli, Annarosa Macrì, Tonino Perna, Michele Santoro, Piero Schiavello, Mauro Francesco Minervino, Alfonso Gianni, Irene Berlingò, Monica Dall’Asta, Franco Cambi, Saverio Regasto, Francesco Cirillo, Vincenzo Albanese, Rita De Donato, Dora Ricca, Letterio Licordari, Antonio Macchione, Francesco Galatà, Guido Ortona, Francesco Zurlo, Sandro Meo, Claudio Rombolà, Paolo Napoli, Vanni Clodomiro, Alberto Ziparo, Piero Romeo, Giuseppe Candido, Delio Di Blasi,Lidia Gilberti, Antonio Nicotera, Franc Celano, Rosa Principe, Marta Petrusewicz, Consuelo Nava,Pino Greco,Loredana Nigri, Epifanio Spina, Marisa Fasanella,Giulia Cibrario, Mario Grisolia, Rocco Tassone, Renza Bertuzzi, Giuseppe Rossi, Anna Antonicelli, Michelina Paolini, Franco Trane, Gianluca Monturano,Romeo Salvatore Bufalo, Eugenio Passarelli, Gabriella Iannolo, Mario Maruca, Francesca Rennis, Michela Sassi, Massimo Zucconi,Loredana Barillaro, Alfredo Granata,Luca Cofone, Michele Cosentino, Carmine Bruno,Libero Sesti Osséo, Isabella Nicotera Angela Maida.

Per aderire all’appello: osservatoriodelsud@gmail.com

Un Belpaese immerso nel dualismo.-di Michele Fumagallo

Un Belpaese immerso nel dualismo.-di Michele Fumagallo

l volume che Pino Ippolito Armino ha dato alle stampe per Laterza, Storia dell’Italia meridionale (pp. 326, euro 20), è un ulteriore tassello sull’antica Questione che ha accompagnato per decenni il nostro paese, ma è anche un compendio utile a capire e porsi domande sul futuro del Mezzogiorno. Magari, per tornare a porsi la domanda decisiva: quella Questione esiste ancora in Italia nei termini in cui è stata affrontata nei decenni passati?

Intanto, attraversiamo questa storia che, oltre a sintetizzare bene ciò che è avvenuto prima e dopo il Risorgimento, sottolinea senza equivoci la miseria della reazione borbonica al movimento risorgimentale ma anche le incongruenze di chi si assunse con la definitiva unità del territorio italiano la responsabilità di organizzare il futuro.

L’AUTORE, già nell’introduzione mette le cose in chiaro: «L’Italia è un paese fortemente duale. Oltre 160 anni fa il Risorgimento ha fatto dell’Italia una nazione sola. Perché allora questo contrasto? Il professore Richard Lynn nel 2010 ha trovato una risposta nei quozienti intellettivi diversi per gli abitanti delle due Italie. Questo libro è dedicato a chi non è soddisfatto di questa risposta e ritiene che la spiegazione del dualismo italiano, come di qualsiasi altro fenomeno sociale, vada cercata nella storia». E per esempio nella reazione antipopolare dell’universo borbonico che dominava il Regno delle Due Sicilie, con le sue repressioni feroci dei moti libertari nel tentativo di bloccare l’orologio della storia che aveva ripreso a battere con la Rivoluzione napoletana del 1799.

Sicuramente, le cose sarebbero andate in modo diverso se il Regno delle Due Sicilie avesse cavalcato insieme agli altri l’ideale dell’unificazione, un vento che spingeva da tantissimi anni in quella direzione: il che toglie ogni argomento a qualsiasi dissertazione neoborbonica su di una presunta colonizzazione «piemontese». Ma anche, per stare dalla parte giusta della storia (quella risorgimentale), le incongruenze di un movimento che ebbe varie linee al suo interno, a volte contrapposte, e che commise errori clamorosi, tra l’altro quello di umiliare l’esercito garibaldino volontario, costruito con grande idealismo ma a cui venne dato il benservito nel modo più cinico (mai tradire il volontariato…).

IL LIBRO, SEMPRE per rimanere ancorati al dominio della storia, accenna a spinte fortemente comuni delle due parti d’Italia avvenute dopo l’unificazione, sia in senso positivo (il ruolo, spesso dimenticato dagli studiosi, avuto da tantissimi meridionali nella Resistenza nel Centro-Nord) sia in senso negativo (la mafia che non trova significative opposizioni quando si espande oltre il Sud, dimostrando di essere un fenomeno storico e non antropologico).

In conclusione, dice l’autore, «il Mezzogiorno indebolito e privo di una strategia per il futuro, appare oggi più che mai incapace di reagire a tante sfide». E, in effetti, solo un rinnovato interesse verso i territori (quello meridionale in primis) potrebbe capovolgere la situazione.

da “il Manifesto” del 15 agosto 2025

Le regioni sono le rughe d’Italia.-di Isaia Sales

Le regioni sono le rughe d’Italia.-di Isaia Sales

“Le rughe di una nazione sono altrettanto visibili di quelle di una persona”, scriveva Emil Cioran.

Paradossalmente, in Italia le rughe sono maggiormente evidenti nelle istituzioni più giovani, cioè le Regioni, che hanno acquisito una centralità nel dibattito politico che la loro giovane esistenza e il loro scarso rendimento non lasciavano presagire. L’Italia, infatti, non aveva nessuna tradizione regionale alle spalle.

Esistevano, prima del 1861, 7 Stati di diversa grandezza, ma nessuna Regione attuale è sorta sul perimetro di quegli Stati preunitari, o perché troppo grandi (come l’ex territorio borbonico, da cui sono state partorite ben 7 Regioni) o troppo piccoli, come i Ducati di Parma e di Modena. L’unico territorio preunitario che si è quasi interamente ritrovato nella dimensione regionale è quello toscano.

Se 7 erano gli Stati preunitari, le Regioni sono 20. Ben 11 hanno una popolazione inferiore a quella della sola città di Roma. Una dimensione così sbilanciata impedisce di per sé una funzione di seria programmazione territoriale.

A quale precedente, dunque, si dovette far ricorso per delineare i confini regionali? Addirittura, a una suddivisione utilizzata a fini statistici dal medico Pietro Maestri nel 1864, che a sua volta riprendeva i confini delle Regioni militari dell’antica Roma. Dopo la presa di Roma, si aggiunse il Lazio alle 14 Regioni già individuate, che all’epoca inglobava anche l’Umbria.

Durante i lavori della Costituente ne furono individuate altre tre ai confini dell’Italia: la Valle d’Aosta, il Trentino Alto-Adige e il Friuli Venezia-Giulia, e fu separata l’Umbria dal Lazio. E si arrivò a 19. Successivamente, nel 1963, fu apportata una modifica della Costituzione per scorporare il Molise dall’Abruzzo.

Come è stato possibile che istituzioni senza una storia alle spalle e senza un radicamento popolare siano diventate nel giro di qualche decennio così decisive nella politica italiana? È questo uno dei casi clamorosi in cui la maggiore visibilità di una istituzione non corrisponde minimamente alla sua utilità.

Guardiamo ai dati sulla divisione della spesa pubblica: 57 % Stato centrale, 30% Regioni, 8% Comuni, 2% province e aree metropolitane, 3% altro. Nel giro di pochi decenni le Regioni da “cenerentole” delle istituzioni si sono trasformate in luoghi di grande potere e risorse. La tradizione municipalista è stata letteralmente stravolta: Regioni ricche, Comuni poveri.

La cosa assurda è che la spesa regionale è quasi interamente trasferita dallo Stato, diversamente dai Comuni che debbono concorrere con le tasse sui servizi alla tenuta dei loro bilanci. I presidenti di Regione spendono senza doversi procurare le risorse che generosamente erogano. Attraverso questa assurda condizione di privilegio i “governatori” hanno assunto un ruolo centrale nella politica italiana e all’interno dei partiti.

Vediamo in concreto lo scarto tra aspettative e risultati. Partiamo dal superamento del distacco tra politica e cittadini che fu una delle motivazioni principali del regionalismo. Nel 1970 votò alle prime elezioni il 90% degli aventi diritto, negli ultimi anni la partecipazione si è ridotta a poco più del 50%, con picchi di astensionismo sotto il 40%. In Liguria nel 2024 ha votato il 45, 97% mentre in Basilicata meno del 50%. In Abruzzo il 52,2% e in Sardegna il 52,4%.

Partecipazione ancora più bassa si è registrata nel 2023 nel Lazio (il 37,20%) mentre nello stesso anno si sono recati a votare solo il 41,6% dei lombardi e il 48% dei molisani. Nel 2022 hanno votato per il nuovo presidente della Regione il 49% dei siciliani e nel 2021 il 44,33% dei calabresi. Nel 2014 in Emilia ha votato solo il 37,7% degli aventi diritto! Anche se all’interno di una costante caduta della partecipazione elettorale, si vota di più nelle elezioni politiche o in quelle comunali.

Passiamo alla sanità. Lo storico Silvio Lanaro in un suo libro (L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988) ricordava che all’inizio degli anni Ottanta del Novecento la speranza di vita di chi risiedeva nel Nord era in media di quasi due anni inferiore rispetto a chi viveva al Sud. Attribuiva quella disparità alla “mortalità da progresso”, cioè al fatto che lo sviluppo industriale e lo stress da benessere causavano più tumori e infarti, mentre un ambiente più incontaminato e meno sfruttato industrialmente, come quello meridionale, consentiva quasi due anni di vita in più.

Oggi si è letteralmente capovolta la situazione, ma ancora nel 2001 non era affatto così: i calabresi, i lucani, i pugliesi, gli abruzzesi e i molisani vivevano di più della media nazionale, mentre in Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Friuli Venezia-Giulia e Lombardia la durata della vita era inferiore alla media nazionale.

Cos’è cambiato in così pochi decenni per giungere a un ribaltamento del genere? Si può ragionevolmente pensare che possa avere inciso il diverso funzionamento della sanità dopo il passaggio alle competenze regionali? Indubbiamente, anche se assieme ad altri fattori. La regionalizzazione della sanità ci ha resi e ci rende diversi di fronte alla vita e alla morte. La questione era stata posta in maniera forte già nel 2016 dall’allora presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi: “I fattori di rischio per la salute restano distribuiti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, la disponibilità e l’accesso ai servizi, invece, penalizzano i cittadini del Sud.

Un esempio tipico dello sbilanciamento dell’assistenza sono gli screening oncologici. Coprono la quasi totalità della popolazione in Lombardia ma appena il 30% dei residenti in Calabria”. Si spiegherebbe così “il capovolgimento dell’aspettativa di vita degli ultimi decenni, dopo che per oltre un quarantennio il Paese ha omogeneamente guadagnato in media 2 mesi di vita l’anno”.

Un’altra delle potenzialità tradite dalle Regioni riguarda lo sviluppo complessivo dell’economia italiana. Certo, annoveriamo 4 territori fra i primi 50 in Europa per reddito (Trentino-Alto Adige, Lombardia, Valle d’Aosta, Emilia) ma anche 4 Regioni tra le peggiori 50 (Puglia, Campania, Sicilia e Calabria). Nel 2000, però, l’Italia contava ben 10 Regioni classificate tra le prime, e nessuna Regione italiana compariva nella classifica delle 50 peggiori.

Anche in questo campo, le Regioni hanno la loro responsabilità per la forte incidenza sul debito pubblico e per la loro scarsa capacità di migliorare i fattori di competitività del sistema. Sta di fatto che le Regioni non sono servite al progresso del Sud, non sono state in grado di diminuire la distanza economica e nei servizi con le aree centro-settentrionali. Con la nascita delle Regioni nel 1970 il divario è aumentato.

Nate con l’ambizione di riformare lo Stato centrale e di promuovere una nuova classe dirigente, le Regioni si sono trasformate in uno di principali ostacoli al miglioramento delle funzioni pubbliche e stanno riproponendo una rifeudalizzazione della politica, ancora più accentuata nel Sud.

E mentre un tempo i politici regionali non vedevano l’ora di passare ad altri livelli, oggi è difficilissimo smuovere un presidente dal suo ruolo, anzi molti di essi vorrebbero restarci a vita. E anche se non hanno ottenuto il terzo mandato, provano con ogni mezzo a condizionare chi gli succederà.

da “il Fatto Quotidiano” del 13 agosto 2025

APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI.

APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI.

l 9 aprile scorso la Cabina di regia, istituita presso il Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio, ha approvato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. Lo ha fatto senza una reale partecipazione né consultazione dei territori.

Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne dovrebbe guidare le misure atte ad affrontare i fenomeni dello spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione, la rarefazione sociale e produttiva e le disuguaglianze nell’accesso ai servizi, cioè ai diritti fondamentali alla salute, all’istruzione, alla mobilità e così via. Ma nonostante gli obiettivi annunciati, il Governo si è limitato a recepire acriticamente e passivamente il contributo del CNEL che ha suddiviso le aree sulla base di “obiettivi demografici” e del CENSIS, che ha classificato le aree sulla base della struttura demografica, delle dinamiche economiche, delle infrastrutture e dei servizi essenziali presenti.

In questi studi, Comuni delle aree interne vengono suddivisi in quattro categorie, che nel Piano governativo si traducono in quattro tipologie di obiettivi:

– quelli dove si può auspicare un’inversione di tendenza relativamente alla popolazione;

– quelli in cui è ipotizzabile una ripresa delle nascite;

– quelli dove si può solo sperare in un contenimento della riduzione delle nascite, senza rassegnarsi allo scenario peggiore;

– e, infine, i comuni in cui si può puntare soltanto ad un “accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile”.

A parte l’uso violento del termine “irreversibile”, ci si chiede come sia possibile misurare la condizione delle aree interne utilizzando gli stessi indicatori del modello che le ha marginalizzate, se si usano i parametri della crescita, della competitività, dell’attrattività ecc. Si salvano solo i territori che contribuiscono alla Grande Macchina del profitto?

Queste aree – dice il Piano – non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse: “Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita”. In pratica un accompagnamento alla buona morte, un’eutanasia dei paesi. E ricordiamo che le ultime due categorie – quelle della proclamata condanna all’irreversibilità – comprendono comuni collocati quasi totalmente nel Sud della Penisola, dai monti Sibillini in giù, per tutta la fascia appenninica, fino alla Sicilia e alla Sardegna. In pratica, una cristallizzazione e un aggravamento delle disparità territoriali e, di conseguenza, delle disuguaglianze sociali.

Di fronte a questa analisi, assunta a strumento politico di governo, i Comuni delle aree interne, le loro comunità e le loro espressioni democratiche e civili non possono restare in silenzio. Noi intellettuali, studiose e studiosi delle aree interne, consci della funzione culturale e civile che ci è assegnata, lanciamo un appello alle istituzioni nazionali e regionali per una revisione del piano strategico per le aree interne e ci mettiamo a disposizione dei territori per una mobilitazione contro l’ipotesi governativa, per il riconoscimento del patrimonio territoriale presente nei piccoli comuni italiani, presidi di territori fragili, depositi di risorse, umanità e virtù civiche preziose anche per affrontare la crisi generale della società contemporanea. Proponiamo ai Comuni italiani di discutere e approvare nei rispettivi consigli comunali ordini del giorno che stigmatizzino le analisi e le previsioni del Piano nazionale e ribadiscano la necessità di una vera strategia di sostegno e di rilancio per le aree interne del Paese.

Per adesioni scrivere all’indirizzo , indicando nome, cognome, ente di afferenza, qualifica o professione.

1) Rossano Pazzagli, Università del Molise, direttore Scuola dei Piccoli Comuni

2) Ilaria Agostini, Università di Bologna, urbanista

3) Piero Bevilacqua, Università La Sapienza Roma, storico

4) Enzo Scandurra, Università La Sapienza Roma, urbanista

5) Vito Teti, Università della Calabria, antropologo e scrittore

6) Tomaso Montanari, Rettore Università per stranieri di Siena

7) Giuseppe Dematteis, Politecnico di Torino, presidente associazione Dislivelli

8) Antonella Tarpino, vicepresidente Fondazione Nuto Revelli

9) Marco Revelli, politologo

10) Angela Barbanente, Politecnico di Bari, urbanista

11) Ottavio Marzocca, Università di Bari, presidente Società dei Territorialisti/e

12) Franco Arminio, poeta

13) Tonino Perna, Università di Messina, economista

14) Giacomo Cazzato, sindaco di Triggiano Presidente aree interne Sud Salento (LE)

15) Domenico Cersosimo, Università della Calabria, economista

16) Pietro Clemente Università di Firenze, antropologo

17) Laura Marchetti, Università di Reggio Calabria, antropologa

18) Battista Sangineto, Università della Calabria, archeologo

19) Fulvio Librandi, Università della Calabria, antropologo

20) Vanni Attili, Università La Sapienza Roma, urbanista

21) Lidia Decandia, Università La Sapienza Roma, urbanista

22) Alberto Budoni, Università La Sapienza Roma, vicepres. Società dei Territorialisti/e

23) Elisa Veronesi, Université Côte-d’Azur-Nice, italianista

24) Barbara Pizzo, Università La Sapienza Roma, urbanista

25) Daniele Vannetiello, Università di Bologna, urbanista

26) Alberto Ziparo, Università di Firenze, urbanista

27) Pino Ippolito Armino, saggista

28) Ferruccio Rizzi, membro Terre Nostre, Salviamo il Paesaggio, Attac Italia

29) Roberto Budini Gattai, Università di Firenze, laboratorio politico perUnaltracittà

30) Giovanni Menchetti, agricoltore

31) Loretta Mussi, medico di sanità pubblica, esecutivo Comitati contro l’autonomia differenziata

32) Elisabetta Confaloni, filosofa

33) Jacques Anglade, ingegnere idraulico e carpentiere

34) Federico Butera, Politecnico di Milano, sociologo

35) Carmine Nardone, presidente Futuridea

36) Helen Ampt, traduttrice

37) Michele Rea, ingegnere

38) Leonardo Rombai, Università di Firenze, geografo

39) Giuseppe Saponaro, Pontificia Università Antonianum, filosofo

40) Paolo Favilli, Università di Genova, storico

41) Eugenio Conti, Università La Sapienza Roma, dottorando

42) Ornella De Zordo, Università di Firenze, laboratorio politico perUnaltracittà-Firenze

43) Franco Matteoni, ingegnere, pres. Associazione per lo sviluppo turistico di Torri, Sambuca Pistoiese

44) Daniel Bartement, Université Paul-Valéry Montpellier 3, geografo

45) Carlo Carbone, Università di Firenze, urbanista

46) Giacomo Sanavio, progettista strategie aree interne

47) Maria Gemma Urbani, Rete dei comitati per la difesa del territorio

48) Luca Muscarà, Università del Molise, storico della geografia

49) Marco Filippeschi, dir. ALI Autonomie locali italiane e Rete dei Comuni Sostenibili

50) Franco Cambi, Università degli Studi di Siena, archeologo

51) Rita Salvatore, Università di Teramo, sociologa rurale, pres. Slow food Abruzzo

52) Massimo Rovai, Università di Pisa, professore di Estimo e valutazione

53) Mirco Di Sandro, Università La Sapienza Roma, precario della ricerca

54) Marco Marchetti, Università La Sapienza Roma, chair Urban forestry & landscape

55) Elina Gugliuzzo, UniPegaso-Napoli, storica

56) Giuseppe Barbera, Università di Palermo, professore di Colture arboree

57) Marisa Meli, Università di Catania, Borghi più belli d’Italia in Sicilia

58) Vincenzo Carbone, Università Roma Tre, sociologo

59) Dianella Pez, Liceo scient. Cervignano del Friuli (UD), docente

60) Fausto Carmelo Nigrelli, Università di Catania, urbanista

61) Katia Ballacchino, Università degli Studi di Salerno, antropologa culturale

62) Paolo Coppari, Istituto Storico di Macerata, coord. Cantieri Mobili di Storia

63) Carmelo Antonuccio, Università di Catania, dottorando e architetto

64) Marco Bersani, operatore sociale, attivista e scrittore

65) Franco Gianasso, associazione Archivio 68 Sondrio

66) Rossella Rossi, agricoltrice, vicepres. Istituto Oikos, Milano

67) Danilo Cognigni, fotografo e studioso di semiotica visuale

68) Luca Barbarossa, Università di Catania, urbanista

69) Rosario Antonio Zammuto, resp. Risk in Cassa Di Previdenza CNPR

70) Alessandra Corrado, Università della Calabria, sociologa

71) Vito Martelliano, Università degli Studi di Catania, urbanista

72) Paolo Cifolelli, docente, pres. MirorAps (IS)

73) Gennaro Parlato, Università del Molise, informatico

74) Roberto Carluccio, veterinario, pres. ANPI Termoli, Rete della Sinistra-Termoli Bene Comune

75) Gigino D’Angelo, già Sindaco di Montefalcone nel Sannio (CB)

76) Italo Di Sabato, coord. Osservatorio Repressione, Casa del Popolo di Campobasso

78) Franco Novelli, Campobasso

79) Marcella Stumpo, Termoli Bene Comune-Rete della Sinistra

90) Claudio Greppi, Università di Siena, geografo

91) Marilena Natilli, Comune di Gildone (CB)

92) Nicola Valentino, CGIL Molise, INCA CGIL Isernia, Coordinamento NO PIZZONE II

93) Francesco Bottone, giornalista professionista

94) Luigi Famiglietti, Università di Cassino, docente di diritto degli enti locali

95) Umberto Berardo, docente di lettere

96) Manuela Geri, ex dir. Ecomuseo della Montagna Pistoiese

97) Domenico Palazzo, consigliere federale Europa Verde per il Molise

98) Candido Paglione, sindaco di Capracotta, pres. Uncem Molise

99) Alessio Mastromonaco, casaro

100) Giovanna Vecchio di Montepaone, divulgatrice culturale, poetessa

101) Francesco Trane, Roma, pensionato

102) Stefania Emmanuele, ass. cult. Gennaro Placco, Museo etnico Arbëresh, sociologa

103) Franco Belmonte, dir. reg. Calabria di CIA-Agricoltori Italiani

104) Alessandro Sebastiano Citro, docente di scuola secondaria superiore, Cosenza

105) Lucio Brunetti, Università del Molise, fisico

106) Domenico De Simone, pensionato

107) Giovanni Germano, architetto, pres. APS La Terra e coord. “Cammina, Molise!”

108) Ferdinando Trapani, Università di palermo, urbanista

109) Silvano Privitera, coord. Forum Aree interne nell’ ambito Area interna di Troina (Sicilia)

110) Mino Dentizzi, geriatra

111) Pino De Seta, tecnico ambientale, coord. progetti di cooperazione internazionale

112) Paola Orenga

113) Alberta Massenzio, insegnante di scuola primaria

114) Fabio Sforzi, Università di Parma, economista

115) Francesco Martino

116) Erica Balduzzi, reporter freelance, progetto Montanarium

117) Eleonora Greco, Università Telematica Pegaso, dottoranda, pedagogista

118) Maria Teresa Renzo, attivista, pres. Associazione Le case di Igea, Atena Lucana (Sa)

119) Fausta Garavini, Università di Firenze, scrittice e linguista

120) Antonio Di Lalla, rivista La Fonte

121) Lucilla Parisi

122) Francesco Simonelli, cantautore e studente

123) Aldo Camporeale, professore di Economia agraria e dell’assetto territoriale

124) Nicola Giudice, docente, Ivrea

125) Renzo Lecardane, Università di Palermo, professore di Composizione architettonica e urbana

126) Giovanni Antonio Sanna, SIMTUR , vicepres. GAL Logudoro Goceano

127) Franca Peluso

128) Scilla Cuccaro, Università di Firenze, urbanista

129) Carlo Cellamare, Università La Sapienza Roma, urbanista

130) Augusta di Giorgi, avvocato specialista in diritto e gestione dell’ambiente

131) Antonietta Cozza, consigliere comunale e delegata cultura, Comune di Cosenza

132) Maria Angela Presta, funzionario Politiche di coesione

133) Michele Ponzio, docente, già assessore Comune di Favignana

134) Rossella Traversa giornalista e scrittrice

135) Roberta Curiazi, Università di Udine, economista e geografa economico-politica

136) Rossana Di Fazio, enciclopediadelledonne.it

137) Federico Varazi, vicepresidente Slow Food Italia, geologo

138) Roberta Cevasco, Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, ecologa storica

139) Piero Zizzania, Università di Napoli Federico II, architetto e dottorando

140) Laura Di Tommaso, Università di Napoli Federico II, dottoranda

141) Barbara Catalani, architetto, già assessore Sviluppo politiche culturali, Comune di Follonica

142) Fabrizio Ferreri, Università di Catania, filosofo e sociologo

143) Renza Bertuzzi, resp. rivista ” Professione docente”

144) Francesca Conti, Università La Sapienza Roma, dir. rivista “La Città invisibile”

145) Stefania Cannarsa, docente

146) Alberto Di Cintio, Università di Firenze, Fondazione Italiana Bioarchitettura

147) Rosario Grillo, docente di Filosofia e Storia

148) Ramon La Torre, architetto libero professionista

149) Rossano Di Nicola, RSU Frigor box International

150) Franc Arleo, geosofo, dir. collana di Geosofia per AnimaMundi

151) Leo Bolliger, architetto, Attac Piacenza e Aps Convivio

152) Francesco Galli, Iuav, architetto e dottorando

153) Achille Flora, Università della Campania L. Vanvitelli, economista

154) Germana Facchini, pedagoga

155) Antonella Iammarino, antropologa e giornalista

156) Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia

157) Serena Milano, direttrice Slow Food Italia

158) Paolo Baldeschi, Università di Firenze, urbanista

159) Maria Carla Baroni, resp. naz. Territorio e ambiente, Partito Comunista Italiano

160) Associazione nazionale Slow Food Italia APS

161) Maria Teresa Scarlato, pensionata

162) Angelo Ferrari, architetto urbanista

163) Daniela Mongiardini, insegnante scuola media

164) Estella MIlianti

165) Anna Landi, Università degli Studi di Salerno, fondatrice Italia Minore si Svela

166) Marcello Gentile, ingegnere aerodinamico

167) Michele Conìa, sindaco di Cinquefrondi (RC), consigliere città metropolitana Reggio Calabria

168) Luigi Meconi, Società dei territorialisti/e

169) Maria Alberta Massenzio, insegnante scuola primaria

170) Maria Valente, pensionata

171) Amerigo Cuglietta, già sindaco di Cleto (CS)

172) Pierino Di Tella, assessore Comune di Capracotta (IS)

173) Maria Giovanna Mustillo

174) Domenico Falconieri, pensionato

175) Gemma Reggimenti, docente scuola d’infanzia

176) Giovanni Pollice, ex dirigente nazionale del sindacato

176) Michele Petraroia, Anpi nazionale

177) Dario De Renzis, farmacista

178) Francesco Vespasiano, Università degli studi del Sannio, sociologo

179) Giuseppe Donnarumma, Comune di Montoro, ingegnere

180) Cristina Ghirardini, Università di Trento, etnomusicologa

181) Maria Antonia Schillaci, Università di Catania, Forum Area Interna (Troina)

182) Enrico Bettini, architetto

183) Simona Bertini, ONDA

184) ONDA, Organismo Nazionale Difesa Alberi

185) Giancarlo Schiavone, architetto, pres. Pro Loco Buccino Volcei APS

186) Antonino Prizzi, architetto e pianificatore del paesaggio

187) Sergio Vellante, Seconda Università di Napoli (SUN), Economista Agrario

188) Rina Cervi, orientatrice e formatrice, Reggio Emilia

189) Angelo M. Cirasino, Università di Firenze e Società dei Territorialisti/e

190) Paola Grillo, insegnante

191) Pino Bertelli, fotografo

192) Francesco Bevilacqua, avvocato, scrittore e giornalista

193) Maria Martone, Università Sapienza di Roma, architetta

194) Alessandra Ventura, docente

195) Bruno Pino, giornalista

196) Mario Mele, docente di discipline turistiche

197) Francesco Giovannangelo, musicista, docente

198) Agnese Turchi, Università Napoli Federico II, urbanista e attivista

199) Eugenio Celestino, capogruppo in Consiglio comunale di Longobucco (CS)

200) Monica Bolognesi, Politecnico di Bari, ricercatrice

201) Centro culturale franco-italiano, Muro Lucano

202) Antonio Ciaschi, Università LUMSA, geografo

203) Carlo A. Gemignani, Università di Parma, geografo

204) Antonio Montesanti, ceramista

205) Marina Giglio, medico veterinario ASL

206) Manuel Vaquero Piñeiro, Università degli Studi di Perugia, storico dell’economia

207) Giulia Vincenti, Università degli Studi di Messina, geografa

208) Maria Paola Bordati, impiegata, ass. La Fierucola

209) Erminia Irace, Università degli Studi di Perugia, storica

210) Paolo Piacentini, pres. onorario Federtrek

211) Matteo Felitti, Università di Napoli Federico II, ingegnere

212) Sara Carallo, Università Rome Tre, geografa

213) Vincenzo Landi, libero professionista nel settore ingegneristico

214) Flaviano Lavia, massofisioterapista, perito agrario

215) Ottavio Lalli, medico veterinario specialista

216) Marino Trizio, pres. associazione Città Plurale

217) Maria Teresa Capozza, docente

218) Lucia Giovannetti, insegnante

219) Marco Giovagnoli, Università degli Studi di Camerino, sociologo

220) Alessandro Aceto, resp. Servizio legale Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise

221) Lorenzo Coia, già presidente Provincia di Isernia, sindaco di Filignano (IS)

222) Maria Rosaria Gioffrè, docente, francesista

223) Franca Crocetto

224) Sarah Rosa Torregrossa, architetto

225) Francesco Di Rienzo, presidente ETS Amici di Capracotta APS

226) Associazione politico-culturale La Strada, Reggio Calabria

227) Saverio Pazzano, consigliere comunale di Reggio Calabria, insegnante e scrittore

228) Vanessa Gagliardi, docente

229) Antonio Maio, architetto e docente

230) Ester Mura, insegnante di scuola superiore

231) Associazione nazionale Città del vino

232) Luca Giuliani, archivista, ex vice sindaco Comune di Castel Viscardo (TR)

233) ASD Polisportiva di Castel Viscardo (TR)

234) Maria Teresa Cartisano, docente di scuola superiore

235) Pasquale Dragonetti, ingegnere, Associazione Terra Mediterranea

236) Emiliano Biscaro, ingegnere

237) Silvia Giandoriggio, architetta e attivista

238) Stefania Stefanini, La bancarella Editrice, Piombino

239) Stefano d’Atri, Università di Salerno, storico

240) Andrea Vento, docente, GIGA-Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

241) Laura Santoro

242) Danilo Emo, architetto

243) Linda Terenzi, Università di Firenze, ricercatrice

244) Grazia Degl’Innocenti, architetto

245) Antonietta Di Vito, MIM, docente, antropologa, scrittrice

246) Letizia Papi, insegnante e cantante

247) Francesco Cancellieri, pres. AssoCEA Messina APS, Ingegnere

248) Alessandro Camerini

249) Giuseppe Chiarillo, ex sindaco di Galliera (BO)

250) Danilo Gorga, vicepres. Slow Food Campania

251) Anna Kauber, documentarista

252) Tiziano Cardosi, No Tunnel Tav Firenze, ex ferroviere

253) Addolorata Cormano, docente geografia economica scuola secondaria superiore

254) Giuseppe Riccobono, docente, GIGA Gruppo Insegnanti Geografia Autorganizzati

255) Donatella Rosati, analista programmatrice

256) Giovanni Spinelli, pubblicista, ASA-Associazione stampa agroalimentare, ref. Campania

257) Angela Greco AnGre, poeta

258) Mario Lusi, giurista ambientale

259) Aurelio Francesco Madeo, ex dirigente scolastico, poeta

260) Stefania Marini, Università Iuav di Venezia, architetto

261) Giuseppe Magarò, avvocato

262) Rodrigo Andrea Rivas, giornalista

263) Angelo Milo

264) Roberta Pizzullo, docente

265) Flavio Pascarosa, avvocato, già consigliere comunale Atripalda (AV)

266) Carmen Silva Castagnoli, geografa

267) Marina Boscaino

268) Marina Castiglione, Università degli Studi di Palermo, dialettologa

269) Daniela Poli, Università di Firenze, urbanista

270) Salvatore Capasso, Riabitare l’Italia

271) Mariachiara Santone, archeologa, Casa del popolo Campobasso

272) Raffaella Lalli, farmacista

273) Maria Angela Astore, insegnante di liceo

274) Katia Fabbricatti, Università di Napoli Federico II, architetto

275) Teresa Maradei, dottore forestale, manager dei sistemi territoriali e aree interne

276) Giovanni Scarfò, pres. Centro studi, ricerche e formazione “Francesco Misiano”

277) Romina Deriu, Università di Sassari, sociologa

278) Anna Albano, insegnante

279) Franco Repeti, cooperativa sociale Croce del Sud

280) Antonio Piangiolino, già assessore Comune di Acquaviva delle Fonti (BA), ASSI-RECOVERY SUD

281) Angela Vitullo, docente, ref. Borghi della Lettura per Montagano (CB)

282) Federico Massimo Ceschin, pres. SIMTUR, ambasciatore del patto europeo per il clima

283) Riccardo Pasqualin, saggista

284) Dario Donatini, docente di geografia economica

285) Laura D’Angelo, Università del Molise, critico letterario, scrittrice

286) Dina Caligiuri, architetto, docente alle scuole superiori

287) Raffaella Vono, docente

288) Rita Campioni, docente, Comitati No Autonomia Differenziata

289) Mosè Antonio Troiano, sindaco di San Paolo Albanese (PZ)

290) Franco Festa, docente e scrittore

291) Laura Manganaro, pres. sezione Italia Nostra-Firenze

292) Antonio Troisi, Università del Sannio, fisico

293) Italia D’Acierno, segretaria CdLT CGIL Avellino

294) Eloisa Gizzi, architetto

295) Associazione Give Back Giovani Aree Interne APS

296) Antonella Russo, operatore culturale

297) Maria Pecoraro, scenografa e operatrice sociale

298) Rosalia Rizzo, funzionario Comune di Palermo

299) Salvatore Settecasi, architetto

300) Roberto Sullo, pres. Give Back Giovani Aree Interne APS

301) Associazione La Fierucola, Fiesole (FI)

302) Maria Romana Picuti, Università La Sapienza Roma, archeologa

303) Visenta Iannicelli, già dirigente Roma Capitale

304) Anna Cocchi, ANPI, già sindaco di Anzola Emilia (BO)

305) Mariano Genovese, architetto

306) Slow Food Toscana aps

307) ActionAid Italia

308) Alessandro Di Loreto

309) L’Eco dell’Alto Molise e Vastese, testata giornalistica

310) Laboratorio politico perUnaltracittà, Firenze

311) Costantino Leuci, docente, ref. Slow Food Matese, consigliere comunale Piedimonte Matese

312) Federico Di Cosmo, Politecnico Milano, docente di Architettura del Paesaggio

313) Margherita Ciervo, Università di Foggia, geografa economico-politica

314) Marco Gargano, psicologo

315) Laura Bonomi Ponzi, archeologa

316) Giovanni Moriello, docente

317) Giuliana Tocco, già Soprintendente Beni Archeologici, pres. ass. Antica Volcei, Buccino (SA)

318) Paolo Ferloni, Università di Pavia, chimico

319) Cristiano Lucchi, dir. rivista Fuori Binario

320) Corradino Guacci, pres. Società italiana per la storia della fauna, Giuseppe Altobello

321) Società italiana per la storia della fauna, Giuseppe Altobello

322) Leandro Janni, presidente Italia Nostra Sicilia

323) Nicholas Tomeo, Università del Molise, ricercatore e docente

324) Celeste Mantegna, Università del Molise, ricercatrice

325) Francesco Violante, Università di Bari, storico

326) Luigi Scognamiglio, Università di Napoli Federico II, ingegnere

327) Vincenzo Fundone, fotografo, pres. Archeoclub Melfi

328) Antonio Giuseppe Ottaviano, geometra

329) Roberto De Marco, geologo, già dir. Servizio sismico nazionale, Presidenza del Consiglio dei Ministri

330) Oliviero Resta, Aps Il cammino di Dante

331) Andrea Ferrannini, ARCO , Fondazione PIN, ricercatore

332) Francesco Maria Massetti

333) Pino Fabiano, giornalista, Cotroneinforma OdV

334) Roberto Guido, giornalista e scrittore

335) Massimiliano Guerrieri, docente di geografia scuola secondaria

336) Valeria Monno, Politecnico di Bari, DICATECh

337) Marco Mannino, Politecnico di Bari, architetto

338) Sebastiano Sarti, architetto libero professionista

339) Federica Cotecchia, Politecnico di Bari, ingegnere

338) Daniela Frisullo, Politecnico di Bari (dottoranda), funzionaria Regione Puglia

339) Francesca Santaloia, CNR-IRPI

340) Maria Francesca Sabbà, Politecnico di Bari, ricercatrice

341) Giacomo Pisani, Euricse, ricercatore

342) Maria Cristina Leardini, co-founder SharryLand

343) Luigi Alberton, founder SharryLand

344) Maria Anna Ilardi

345) Emanuele Gizzi, Accademia di belle Arti di Palermo, docente

346)Enza Maria Macaluso, filosofa di campo

Le dimissioni di Occhiuto una sciagura per la Calabria.-di Agazio Loiero

Le dimissioni di Occhiuto una sciagura per la Calabria.-di Agazio Loiero

Al presidente ho scritto solo, appena dopo il suo insediamento, una lettera aperta per fargli notare che era un grande errore assumere la carica di commissario alla sanità. Sul piano pratico e sul piano simbolico. Sul piano pratico perché su un settore così delicato, che ha bisogno disperato di un organizzatore sanitario di valore che abbia dimestichezza con i bilanci e i suoi interstizi, non si può improvvisare. Gli ho nell’occasione ricordato che la figura stessa del commissario impone al nostro territorio aliquote fiscali troppo alte per la fragile economia della regione. Un salasso che i calabresi pagano senza un fremito di ribellismo.

E’ questo il motivo per cui nel 2009 minacciai nel Consiglio dei ministri, all’epoca presieduto da Silvio Berlusconi, di dimettermi seduta stante, se fossi stato nominato, contro la mia volontà, commissario, come il governo compatto minacciava di fare. Confesso che è uno dei gesti politici del mio quinquennio che ricordo con maggiore piacere.

Simbolicamente ho sempre amato poco la figura stessa dei commissari destinati alla Calabria, perché conferiscono sempre agli abitanti di questo territorio un inaccettabile marchio di alterità che non meritano. Occhiuto al momento della sua vittoria elettorale, avendo svolto in Parlamento il ruolo, sia pure per un breve periodo, di capogruppo del suo partito, aveva avuto la possibilità di conoscere il presidente del Consiglio del tempo, Mario Draghi, un economista con il quale avrebbe potuto trattare la fine del commissariamento, diluendo al meglio negli anni il debito accumulato.

Ovviamente non fui ascoltato perché il potere di decidere in autonomia, specie nei territori marginali, esercita un fascino irresistibile. Si dimentica in questi casi che l’articolo 122 della nostra Costituzione così recita “Il presidente eletto nomina e revoca…”. Un potere regionale molto forte di cui non dispone neanche il Presidente del Consiglio dei ministri.

Veniamo agli ultimi gesti di Roberto Occhiuto e soprattutto a queste dichiarazioni talvolta vittimistiche “non mi faccio rosolare”. Di grazia da chi? Dai magistrati? Talvolta fortemente reattive contro un avversario politico immaginario “oppositori, sciacalli che hanno tifato per il fallimento della Calabria”. Ma di chi parla? Talvolta così trionfalistiche da sfociare in una deriva di comicità involontaria. La più penalizzante delle comicità. “E’ vero o no” – ha chiesto il Presidente a Soverato – “che in quattro anni si è fatto più che nei quaranta precedenti?” Un concetto di sé così ottimistico che un politico non può esprimere neanche se rispondesse alla realtà. Figuriamoci se dalla realtà è sideralmente lontano.

Tutte queste dichiarazioni il Presidente le affida puntualmente al teatrino dei social o ai comizi senza contraddittorio. Tutte corredate da una congrua scenografia da campagna elettorale permanente. Il Presidente che conserva il culto del particolare, in questa occasione si è posizionato accanto ad una costruenda stazione della futura metropolitana di Catanzaro e successivamente accanto al cantiere di uno dei nuovi, futuri ospedali calabresi. Un’immagine seducente offerta ai suoi corregionali senza mai fare, come solitamente si usa, il più piccolo riferimento a coloro che, quelle opere, a suo tempo le hanno ideate.

In questo nostro tempo distratto dalle luci del consumismo, riporto alla memoria, l’origine dei due eventi. La metropolitana di Catanzaro fu immaginata -il sindaco della città era Rosario Olivo- dalla Giunta da me presieduta e finanziato al ritmo forsennato imposto dall’Europa, insieme ad un progetto per l’area urbana Cosenza- Rende e un terzo per l’area urbana di Reggio Calabria nella legislatura 2005-2010. La linea d’intervento gravava sul Por Calabria FESR 2007-2013. A capo del settore avevamo scelto un dirigente di qualità, Salvatore Orlando. Gli ospedali furono un impegno che il Presidente del Consiglio del tempo Romano Prodi, notoriamente amico della nostra regione, assunse con la Giunta da me presieduta – assessore alla sanità era Doris Lo Moro – dopo i dolorosi incidenti avvenuti in alcuni ospedali calabresi che registrarono la morte di tre giovani.

La lunga parentesi mi ha fatto perdere il filo. Torniamo all’attualità e alle dimissioni di Occhiuto. Esse rappresentano una sciagura perché una regione, già ferma di suo, subirà un arresto in forma ufficiale per quattro lunghi mesi. Tutto a cominciare dal Pnrr, dai bandi europei, dalla stessa pubblica amministrazione, proprio tutto si fermerà. Questo avverrà in una regione, che “ha la disoccupazione più alta d’Italia”. Lo ha ricordato un giornalista di qualità, in vacanza in Calabria, Enrico Franceschini sul supplemento di Repubblica di venerdì primo agosto. Ha poi aggiunto – riporto testualmente – “ la disoccupazione più alta d’Italia. E non solo d’Italia. Secondo le ultime tabelle Eurostat, la Calabria ha il più basso tasso di occupazione (appena il 44 per cento) di tutta l’Unione Europea: solamente nella Guyana, territorio d’oltremare francese, ci sono meno adulti che lavorano”.

Su questo tema mi fermo qui. Vogliamo parlare di quella che l’antropologo calabrese Vito Teti chiama la restanza? Il professore afferma con la riconosciuta credibilità che nei prossimi cinque anni, (non venti o trenta, solo cinque anni) oltre mille paesi delle aree interne del Sud morranno. Non ci saranno più”. La nostra Calabria che presenta un territorio caratterizzato al novanta per cento da collina e montagna, svolgerà, anche in questo caso, un ruolo negativo di protagonista. Una perdita di memoria collettiva che solo a pensarci procura un senso di vertigine. La regione, questi dati terrificanti, li conosce?

D’altraparte un fenomeno di spopolamento sotterraneo sta avvenendo anche nelle città calabresi. Molte le famiglie non poverissime, appena benestanti di Catanzaro, di Cosenza si trasferiscono a Roma o al Nord. Un fenomeno carsico segnalatomi da Franco Ambrogio ma che io stesso ho poi registrato nella mia città. Partono in certi casi per raggiungere i figli, ma partono soprattutto per stabilirsi in un posto più sicuro, dove poter fruire di servizi decenti, dove soprattutto poter essere curati.

E qui tocchiamo uno dei tasti più dolenti della stagione d’Occhiuto: la sanità. Questo è il settore a cui il Presidente della regione si è, come dire, dedicato di più. Non nego che si sia impegnato ma lo ha fatto su temi teorici di alta scuola, trascurando la carne viva della cura, gli ospedali nella vita di ogni giorno, lo scadimento della loro qualità professionale, le ambulanze, i pronto soccorso dove le persone muoiono in attesa di essere curati.

Due settimane fa è morto un mio amico di Stalettì per le otto ore trascorse in un pronto soccorso. Tempi d’attesa insopportabili per visite specialistiche ed esami diagnostici. Siamo ultimi in Italia per quanto riguarda gli screening oncologici che anni fa non apparivano scadenti. La realtà giornaliera è costituita da medici e infermieri che fuggono via dal pubblico per rifugiarsi nel privato. A proposito che ne è dei medici cubani che fino a qualche tempo fa il Presidente citava ad ogni intervista? Sono fuggiti anche loro?

Intendiamoci. Non sarei onesto se non ammettessi che alcuni di questi problemi Occhiuto li ha ereditati. Purtroppo però questi circa quindici anni di commissariamento con le relative ristrettezze di bilancio hanno drammaticamente complicato la vita della sanità, ma è soprattutto per questa ragione che non bisognava protrarre all’infinito un’esperienza nefasta. Questa è la sua più grande colpa. Un commissariamento così lungo poteva mai verificarsi non dico in Veneto o in Lombardia ma anche in Basilicata?

Mi accorgo di non avere scritto dell’avviso di garanzia. Pur essendo uno dei pochissimi ex presidenti a non avere oggi alcuna pendenza giudiziaria, per molti motivi faccio fatica ad occuparmene. Non riesco solo a capire perché un Presidente, di fronte a un fascicolo aperto dalla magistratura, non trovi di meglio che dimettersi per poi ricandidarsi. L’avviso di garanzia è un problema suo, non dei calabresi.

Chiudo questo lungo articolo nel quale ho avvertito la necessità di denunciare i problemi e le bugie, che in questi giorni circolano in grande quantità sui media. Lo faccio ricordando una frase lapidaria di Albert Camus, stabilmente archiviata nella mia memoria: “Nei tempi bui resistere è non consentire menzogne”.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 agosto 2025

Cetraro, come non tornare indietro al 1980.-di Filippo Veltri

Cetraro, come non tornare indietro al 1980.-di Filippo Veltri

Il Quotidiano del Sud – come è giusto e doveroso che sia – sta dedicando da più giorni servizi, interviste e grande attenzione a Cetraro, che è un paese simbolo di tante cose, di mafia e antimafia, di coraggio e viltà, simbolo insomma davvero della Calabria tutta.

Siamo lontani a Cetraro dai centri ritenuti (a torto) canonici della presenza mafiosa tradizionale, dislocati come è noto dal senso comune (ma non dalla storia e dalla cronaca) in altre province della Calabria. Eppure qui di mafia si deve parlare e la mente corre, dunque, al giugno di tanti anni fa, proprio come in questi stessi giorni caldi e torridi da tutti i punti di vista: cioè a quel maledetto giugno del 1980 quando venne assassinato – giusto il 21 giugno come oggi di 45 anni fa – sulla statale 18 tirrenica Giannino Losardo.

Era il culmine di un assalto senza precedenti alla democrazia in tutta la zona del Tirreno cosentino, da Praia a Mare verso sud, con epicentro Cetraro.

Il dubbio che inizia ora a serpeggiare prepotente in seno alla popolazione del paese (fuori dai confini della città dubbi, in verità, ce ne sono pochi) è che Cetraro potrebbe essere al centro di una nuova escalation criminale che ha riportato indietro le lancette del tempo agli anni ’80 quando si sparava e si uccideva. Ai tempi appunto di Losardo. Esattamente come avvenuto con Pino Corallo qualche giorno fa assassinato sempre su quella statale 18 e sull’omicidio del resto la Dda di Catanzaro ha preso in mano il fascicolo. Quindi di mafia parliamo…

Il sindaco Giuseppe Aieta si è insediato da una quindicina di giorni ed ha dovuto fronteggiare subito due emergenze: il caso del meccanico freddato all’esterno di un’officina e quello dell’incendio ai mezzi della ditta che provvede all’igiene pubblica. Insomma Cetraro si è svegliata negli anni ’80, con 45 anni alle spalle di lotte e silenzi, di scatti e di pavidità, di omertà e di coraggio. Perché questa è Cetraro.

Dal 2022 le forze dell’ordine hanno registrato due delitti a colpi d’arma da fuoco e la scomparsa nel nulla di un imprenditore. Se nello stesso elenco andrà inserito anche l’incendio ai camion di Ecologia Oggi lo diranno gli inquirenti, di sicuro è che andrebbero considerati anche gli spari contro il muro del centro di accoglienza per migranti, o quando furono rubate 25 telecamere di videosorveglianza.

«Credo che Cetraro – ha detto Aieta – viva una condizione di ordine pubblico che non è più solo di interesse provinciale ma nazionale. Pur avendo fiducia estrema nelle istituzioni e negli inquirenti, ma questa città aveva raccolto un minimo di speranza che ha disperso, però, in pochi giorni».

Ecologia oggi ha evidenziato come non intenda farsi intimidire «da menti vigliacche e violente e proseguiremo con ancora più forza e determinazione nel nostro lavoro a servizio di una comunità che ci ha sempre dimostrato grande senso civico e disponibilità. Riteniamo inaccettabile qualsiasi comportamento che minacci la sicurezza e il benessere di questa splendida cittadina».

Negli ultimi tempi Cetraro ha, insomma, assistito a un preoccupante incremento di atti criminali, tra cui omicidi, intimidazioni e agguati. Questi episodi hanno scosso profondamente la comunità locale, creando un clima di paura e sfiducia nelle istituzioni. Questi episodi, insieme ad altri atti intimidatori come l‘esplosione di colpi di arma da fuoco contro il Cas Parco degli Aranci, indicano una crescente infiltrazione della criminalità organizzata nel territorio di Cetraro. Le modalità degli attacchi, spesso eseguiti in pieno giorno e in luoghi pubblici, suggeriscono un chiaro intento di intimidire la comunità e le istituzioni locali.

Cosa fare è presto detto: lo Stato deve intervenire con fermezza così come fece dopo il delitto Losardo. Poi si è pero acquietato tutto e Gaetano Bencivinni, coordinatore di numerose associazioni che si stanno battendo moltissimo da decenni per la rinascita civile e legale di Cetraro, è chiaro: ‘’Cetraro rappresenta una sorta di anello di congiunzione tra i traffici che partono da Gioia Tauro, Reggio Calabria e poi vanno verso il nord e ci sono dei collegamenti da approfondire tra le penetrazioni ‘ndranghetiste e le penetrazioni camorriste.

La situazione è complessa. Ma Cetraro più che un paese di mafia è un paese che lotta contro la mafia’’. E che non può tornare indietro al 1980: sarebbe una sconfitta per tutti.

da “il Quotidiano del Sud” del 21 giugno 2025
foto:Immagini del Novecento. Dall’archivio fotografico del Pci. Manifestazione per l’assassinio di Giannino Losardo.

Sulla Calabria una lastra di cemento. Troppe abitazioni vuote e troppe abusive.-di Battista Sangineto

Sulla Calabria una lastra di cemento. Troppe abitazioni vuote e troppe abusive.-di Battista Sangineto

La Calabria è sepolta sotto un’enorme ed orribile lastra tombale di cemento, il cemento armato di un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT del 2023 a fronte di un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono neanche davvero residenti in questa regione.

A queste abitazioni vanno aggiunte le altre 143.875 che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate in Calabria, sono totalmente sconosciute al fisco e al catasto. Nella nostra regione, dunque, c’è una casa ogni 1,3 calabresi la qual cosa significa che il cemento ha irreversibilmente impermeabilizzato ogni lembo della regione come dimostrano i dati dell’ISTAT e dell’ISPRA del ‘23 secondo i quali è stato consumato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- inconsueti e multiformi paesaggi composti da valli impervie, altopiani, alte colline e montagne.

Questa varietà e singolarità di orizzonti geografici e climatici che Guido Piovene, nel suo bellissimo “Viaggio in Italia”, descrive mirabilmente così: “Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso tracciato di un labirinto … Rotta da quei torrenti in forte pendenza, non solo è diversa da zona a zona, ma muta con passaggi bruschi, nel paesaggio, nel clima, nella composizione etnica degli abitanti. È certo la più strana delle nostre regioni … Nelle sue vaste plaghe montane talvolta non sembra d’essere nel mezzogiorno, ma in Svizzera, nell’alto Adige, nei paesi scandinavi. Da questo nord immaginario si salta a foreste di ulivi, lungo coste del classico tipo mediterraneo … La Calabria è una mescolanza di mondi … Si direbbe che qui siano franati insieme i detriti di diversi mondi; che una divinità arbitraria, dopo aver creato i continenti e le stagioni, si sia divertita a romperli per mescolarne i lucenti frammenti”.

Come se l’inconcepibile mostruosità della lastra tombale di cemento che ci ha sottratto per sempre la multiforme bellezza della Calabria, non fosse sufficiente per far cambiare mestiere alla classe dirigente calabrese, si apprende, per sovrappiù, che l’ISTAT -nel suo annuale rapporto “Il benessere equo e sostenibile in Italia” pubblicato nel maggio del ‘25- riporta un dato rilevato dal Cresme (Centro di Ricerche di Mercato).

Questo rapporto pone, nel 2022, la Calabria in cima alla classifica dell’illegalità edilizia con il 54,1% delle abitazioni abusive al pari della Basilicata (anch’essa con il 54,1%), ma prima della Campania (50,1%), della Sicilia (48,2%) e della Puglia (34,8%), mentre la media nazionale è del 15,1%.

Al danno irreversibile inferto alla bellezza del paesaggio si deve aggiungere la beffa dell’illegalità delle costruzioni che è intimamente legata, com’è evidente, all’evasione fiscale. In un recentissimo rapporto la CGIA di Mestre rileva che -nonostante la legge in vigore riconosca ai Comuni che segnalano all’Agenzia delle Entrate situazioni di infedeltà fiscale (l’Irpef, l’Ires, l’Iva, le imposte di registro/ipotecarie e catastali) un importo economico del 50% di quanto accertato- solo il 4% dei sindaci ha denunciato irregolarità.

Su 7.900 Comuni presenti in Italia, infatti, solo 296 (pari al 3,7 per cento del totale) hanno trasmesso, in materia di evasione, delle “segnalazioni qualificate” agli uomini del fisco. In Calabria, “ça va sans dire”, solo 10 su 404 Comuni (il 2,5%) hanno inviato le suddette ‘segnalazioni’: Villa San Giovanni (Rc), Reggio Calabria, Bisignano (Cs), Luzzi (Cs), Acquappesa (Cs), Melito di Porto Salvo (Rc), Castrolibero (Cs), Altilia (Cs), Fuscaldo (Cs) e Crotone. Dal 2016 al 2023 dei 5 capoluoghi di provincia calabresi solo Reggio Calabria ha ricevuto regolarmente contributi recuperati dall’evasione (circa 400mila euro dal 2016 al 2023).

Cosenza, Catanzaro e Vibo Valentia, invece, non avendo segnalato nulla non hanno ottenuto alcun contributo, mentre Crotone ha ottenuto ben 3 (tre) euro, ma solo nel 2023.

Si deve aggiungere –grazie, di nuovo, alle statistiche ISTAT del 2023 – che questo profluvio di cemento armato non serviva a soddisfare i bisogni abitativi dei calabresi perché la Calabria è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote.

A chi, e a cosa, servono tutte queste case vuote?

Credo che sia arrivato il momento di smetterla di consumare suolo agricolo, di devastare il paesaggio rurale e quello delle città; è arrivato il momento di porre fine alle colate di cemento sia quelle legalizzate dai PSC e dai PSA sia, soprattutto, a quelle illegali, ma bisogna ristrutturare, ammodernare, abbellire le abitazioni esistenti e abbattere il maggior numero possibile delle case abusive.
Un “vaste programme”, come sarcasticamente avrebbe detto Charles De Gaulle, se un simile proponimento venisse da parte di un Amministratore di un Comune o di una Regione, ma l’imperatore Diocleziano, molti secoli prima, era già convinto che “nihil difficilius est quam bene gubernare”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 giugno 2025
foto: Battista Sangineto, vista di via Popilia dal Castello di Cosenza

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco è molto alta, direi altissima e in Calabria lo è ancora di più per tanti motivi. Il non raggiungimento del quorum renderebbe inutilizzato l’unico strumento ancora integro rimasto a sorregge la democrazia costituzionale nata dalla Resistenza. La nostra democrazia poggia su tre capisaldi strategici diversi, ma fra loro strettamente legati: la rappresentanza, la partecipazione popolare e la democrazia diretta.

Un Parlamento che rappresenta gli interessi parziali di una parte del popolo esprime la sua fiducia a un Governo che si lega agli stessi interessi parziali. Così lo stesso Parlamento finirebbe per soccombere alla prevalenza del Governo riducendosi al rango di mero ratificatore. Così come sta avvenendo in Italia e le armi usate per tale disfatta sono due: il sistema elettorale e la riduzione del numero dei parlamentari.

Soprattutto quest’ultima sciagura, molto funzionale a questo progetto antidemocratico, è contro la rappresentanza e ha portato a completamento la trasformazione del Parlamento in uno strumento dell’esecutivo a guida postfascista che oggi decide per tutti, nonostante che sia espressione di una compagine di forze politiche che rappresenta una minoranza della popolazione.

In questo quadro così preoccupante, la posta in gioco è dunque altissima perché una sconfitta (consistente nel non raggiungimento del quorum minimo per la validità dei referendum dell’8 e 9 giugno) rappresenterebbe purtroppo la perdita di questa grande opportunità di utilizzo del terzo pilastro della democrazia costituzionale. Quello che gli elettori possono esercitare direttamente senza la presenza intermedia di partiti e altre forme associative.

La vittoria del SI abrogativo farebbe sparire una legge o parti di essa dall’ordinamento giuridico e nessun giudice potrebbe riesumarla; e il Parlamento non potrebbe nemmeno riproporla se non dopo almeno un quinquennio e dopo un mutamento sostanziale della situazione politica del Paese. Il mancato raggiungimento del quorum nei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno porterebbe, purtroppo, a una situazione completamente nuova: questo Paese si mostrerebbe ormai privo di capisaldi democratici e si aprirebbero scenari autoritari.

In Calabria i 5 quesiti referendari pongono ancora maggiore urgenza nella partecipazione al voto, sia nel merito dei migranti che del lavoro. La precarietà è la costante dei rapporti di lavoro e di pseudo lavoro dalle nostre parti e non è più tollerabile, rendendo la vita di giovani e meno giovani più complicata e al limite dell’impossibile. Il jobs act non solo ha inoltre reso tutto più difficile nei pochi luoghi di lavoro dove si applicano contratti e leggi.

Il voto è dunque un diritto e un dovere civile dovunque ma non farlo qui in Calabria sarebbe oltre modo grave, nonostante la crisi di fiducia e credibilità di cui (non) godono le istituzioni e la scarsa partecipazione popolare al voto. Ma il popolo nella sua accezione più nobile e grande ha già dimostrato che è soprattutto uno strumento di lotta per cambiare e la politica come ci insegna il grande Nicolò Machiavelli (1519) è praticamente tutto: ‘’non esiste zona dalla vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza la politica né gli individui né gli aggregati collettivi resisterebbero al turbine di accadimenti’’.

La manifestazione di Catanzaro del 10 maggio sul diritto alla salute ne è la dimostrazione più vicina a noi e più lampante. Sono fiducioso che il popolo calabrese lo dimostrerà ancora.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 maggio 2025

Sanità, dalla piazza di Catanzaro idee e proposte da portare a Roma.-di Filippo Veltri

Sanità, dalla piazza di Catanzaro idee e proposte da portare a Roma.-di Filippo Veltri

Dopo otto giorni si può tornare a parlare con freddezza di quella bella piazza del 10 maggio a Catanzaro, soprattutto per cercare un filo conduttore per il futuro.

Finalmente migliaia in piazza per una problematica vitale. In una città che facile non è: Catanzaro è meno ricettiva di altre ma comunque ha dato un segno di vitalità. In generale una risposta di alto livello, motivo che se ci fosse una chiamata alle armi (metaforicamente parlando ovviamente) da parte di dovrebbe farla non è vero che troverebbe solo apatia e disinteresse in Calabria.

Bisogna capire perché manchi tutto questo, ma è un altro ragionamento che magari riprenderemo separatamente.

Sabato 10 maggio notate anche alcune assenze: pensiamo ad esempio ai medici, direttamente interessati al problema del diritto alla salute, ma erano pochi in piazza. Si poteva cioè avere una presenza ancora maggiore (e va capito il perché), garantita invece dal grandissimo sforzo fatto dalla CGIL. Ciò naturalmente evidenzia, in ogni caso e ancora di più, la grande riuscita della manifestazione ed il merito di chi l’ha promossa e ci ha creduto fin dall’inizio e ci ha messo la faccia.

Questo giornale e il suo Direttore in primo luogo ed è per questo che ora bisogna valorizzare quel giorno che segna uno spartiacque ed andare avanti con la mobilitazione.

Alcune proposte ora, scaturite da una settimana di colloqui e di incontri post manifestazione. Innanzitutto Roma: il grido incessante da sotto il palco di Catanzaro mi torna ancora nella mente. Una grande manifestazione a Roma in autunno potrebbe essere uno sbocco. Poi una proposta di legge di iniziativa popolare per incentivare i medici a scegliere di lavorare nelle regioni disagiate attraverso stipendi adeguati e benefit integrativi.

Sulla proposta di legge raccogliere migliaia di firme ed organizzare una larga mobilitazione sui territori da subito fino alla manifestazione di autunno. E ancora: una legge regionale di iniziativa popolare per incentivare i medici a scegliere di lavorare nel servizio di emergenza/urgenza e pronto soccorso. Proposte che, ad esempio, sono state avanzate nella manifestazione di San Giovanni in Fiore prima del 10 di maggio da Mario Oliverio e che sono state accolte.

Partendo dalla manifestazione di sabato scorso si può insomma fare un buon lavoro e si può recuperare fiducia e ricostruire una presenza organizzata di una rete sul territorio. L’altro scoglio da evitare è la depoliticizzazione del problema, cioè il non volere tenere conto (Razzi lo ha detto dal palco con forza ma va ribadito ogni volta) che partiti e politica sono attori indispensabili in questa partita. Così come in tutte le partite che riguardano sviluppo e futuro della nostra terra.

Sono inadeguati? Non sono quelli di una volta? Certamente sì ma lasciarli fuori dalla porta o liberarli dalle loro responsabilità o schivarli per schifarli in un cupio dissolvi non conviene a nessuno. Né al movimento e nemmeno a loro, che possono (se vogliono) trovare o ritrovare linfa vitale in quella piazza.

Che – al di là ed oltre il diritto alla salute – una cosa fondamentale l’ha dimostrata e messa in luce: dalla base, dai paesi piccoli e grandi, di montagna e di pianura, emerge una richiesta forte di intervento per bloccare l’emorragia e la fuga, alla fine la morte e la scomparsa di gran parte della Calabria.

Mi hanno molto colpito la combattività di centri medio grandi come San Giovanni in Fiore o Polistena ma anche di borghi piccoli come Bocchigliero che in piazza gridavano il loro diritto alla sopravvivenza. Una sopravvivenza che passa innanzitutto dal diritto alla salute ma che coinvolge poi tutto il resto che non c’è. Una Calabria cioè da salvare.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 maggio 2025

Dopo la manifestazione, le proposte. Così si può cambiare la Sanità pubblica.-di Enzo Paolini

Dopo la manifestazione, le proposte. Così si può cambiare la Sanità pubblica.-di Enzo Paolini

Sì, molto partecipata la manifestazione di sabato sulla sanità raccontata dalle cronache del Quotidiano e suggestivamente commentata sulle sue colonne da un attento ed acuto osservatore come Marcello Furriolo.

Rimane, però, una sensazione di incompiutezza a chi – come me – opera da tempo nel campo del servizio sanitario pubblico e si aspettava che la manifestazione originata dal dibattito quanto mai opportunamente suscitato dal Quotidiano, si sviluppasse oltre che in modalità “protesta” anche in termini di (anche vaga, abbozzata) “proposta”.

Invece no, a meno di voler assegnare seriamente l’abito di un ragionamento propositivo alle enunciazioni del tipo “rilanciare la sanità pubblica” “migliorare i pronto soccorso” “ridurre la spesa privata” “out of pocket” (cioè le cure a pagamento) “potenziare i reparti”, “ridare dignità ai medici”, “valorizzare il sistema infermieristico”, “potenziare la ricerca”, “migliorare la rete ospedaliera” e così via, potrei continuare per due pagine.

Tutti slogan condivisibili a cui manca però poi la conseguenza (che sarebbe auspicabile e doverosa) del “come”. Proviamo a dirlo noi, consapevoli che ciò che diciamo non piacerà ad alcuni, ma da tempo ce ne siano fatti una ragione ed insistiamo.
Partiamo dalla premessa: v’è la necessità e l’urgenza di difendere e potenziare il servizio pubblico.

Il che vuol dire cancellare per sempre dal lessico e dall’azione di qualsiasi governo che il diritto alla salute non sarebbe assoluto ma sacrificabile sull’altare delle esigenze di contenimento della spesa dello Stato e/o dei bilanci regionali. Abbiamo visto il disastro che, in termini di forza e di efficienza hanno provocato i tagli alle risorse sanitarie disposti dai governi degli ultimi 25 anni.

Ovunque è dimostrato che il sistema dei tetti non funziona, produce inevitabilmente la lista d’attesa e l’emigrazione sanitaria. I soldi pubblici vanno usati meglio, non distribuiti con criteri come quello della spesa storica tali da consolidare posizioni di rendita e scoraggiare investimenti.

Il servizio sanitario è pubblico, tutto, ed è fatto da strutture di mano statale e da altre gestite da imprenditori privati che, per legge, se vogliono stare in un sistema solidaristico e universale, devono avere gli stessi requisiti strutturali tecnologici e ed organizzativi degli ospedali pubblici, devono essere controllate, verificate, dagli uffici della Regione e pagate con tariffe fissate dallo Stato in base alle prestazioni rese secondo gli standard stabiliti dalle norme. Senza oneri per i cittadini.

Qui ci vuole la politica.
Non la politica che si straccia le vesti e lancia altissimi lai sull’incremento della spesa privata senza la lucidità di sapere o l’onestà intellettuale di dire che per ridurre la spesa di tasca del cittadino occorre aumentare gli stanziamenti per la sanità accreditata nel servizio pubblico. Dove non si paga e si assicurano le cure con gli standard di legge. Se si riduce questa inevitabilmente si spinge il cittadino verso la sanità a pagamento.

E’ talmente ovvio e semplice da capire che viene il dubbio che quello di creare la sanità per ricchi e quella residuale per gli altri il dubbio sia un disegno consapevole.
E forse lo è.

Dunque la politica. Ma non i politici con la faccia come il bronzo, cioè quelli che sono dirigenti e/o componenti delle consorterie che governano da lustri e poi si presentano in piazza a dire che le cose non vanno e bisogna fare qualcosa, come se loro, invece di sedere sulle comode poltrone, comunali, regionali e delle ASP fossero stati nell’eremo di Camaldoli a studiare incunaboli.

E’ una offesa all’intelligenza dei cittadini così come lo è non dire – a beneficio del dibattito e delle proposte sulle cose da fare – che dopo l’onda del disastro lungo venticinque anni, si avverte oggi una oggettiva inversione di tendenza.

L’arrivo dei medici cubani, può piacere o non piacere, ma è un fatto, un concreto innesto di servizio che aiuta a dare risposte; si è rimesso mano ad una rete ospedaliera nella quale si era follemente fatto ricorso alla chiusura di ospedali lasciando intere comunità senza alcun riferimento; si è ridotta la lista d’attesa e si è avviato il recupero della emigrazione sanitaria che era arrivata alla cifra record di 300 milioni regalati inutilmente ad altre Regioni del nord. Sono numeri, non chiacchiere.
Di cui la piazza descritta da Marcello Furriolo dovrebbe – deve – tener conto se si vuole fare politica seria.
Altrimenti è la solita fuffa di chi deve ogni tanto farsi sentire per giustificare la propria esistenza politica.

Invece ci vuole politica più seria in sanità. Quella che sceglie e decide, si assume responsabilità e poi si fa giudicare; la politica che serve per trasformare il nostro servizio sanitario da centro di consenso elettorale in centro di consenso politico. Ciò che deve essere in un paese finalmente moderno e veramente ispirato al socialismo liberale.

In questo modo si passerà dallo slogan delle tre A (autorizzazioni, accreditamenti, accordo) al centro delle quali c’è il Direttore Generale, a quello delle tre E, (eccellenza, efficacia ed efficienza) con al centro veramente e finalmente il cittadino.
E qui sta la prima proposta, di base.

Occorre ripensare almeno in parte allo sgangherato titolo V della Costituzione così come modificato da un Parlamento largamente inadeguato sul piano tecnico e culturale e votato alla creazione di piccoli e grandi centri di potere locali.
Dobbiamo ripartire in senso inverso rispetto alla idea della autonomia differenziata che, per una sorta di eterogenesi dei fini, mostra tutti i suoi limiti in termini di tutela non solo della salute ma dei diritti e della libertà dei cittadini.

I diritti fondamentali, quelli che definiscono l’identità di un popolo e danno il senso della comunità, non possono essere interpretati ed applicati in maniera diversa a Roma a Reggio Calabria o a Trieste.
Sono il patrimonio politico della Repubblica e non hanno prezzo, in tutti i sensi.

Altro punto è come contemperare la dimensione della richiesta di assistenza da parte dei cittadini (tutti aventi diritto, ovviamente, in egual misura) con la limitatezza delle risorse che potrebbero essere insufficienti per il numero di prestazioni richieste e valorizzate con la tariffa stabilita dallo Stato.

Sistema non particolarmente complesso. Si chiama programmazione, ed è un lavoro che compete ai governi ed alla burocrazia regionale che però per sciatteria ed incapacità sono più inclini ad applicare un altro sistema più sbrigativo: questi sono i soldi e basta. Oltre questo i cittadini devono rivolgersi altrove e le strutture devono smettere di lavorare.

Non va bene affatto. Occorre pensare e agire, non dormirci sopra con direttori generali e politici che pensano che il problema non è loro, ma di chi verrà dopo. Occorre coraggio e visione o, meglio nell’ordine inverso, visione prima e coraggio dopo.
La visione è quella che deve ampliare lo sguardo oltre i bastioni del castello del tirare a campare.

La Corte Costituzionale con la sentenza 195/2024 ha indicato la strada, ha messo il cartello: non sono i soldi che mettono i limiti alla politica sanitaria; questo dei soldi è un limite che può valere per altro, per le autoblu e per i vitalizi, per i ripiani dei bilanci delle aziende private, a spese dello Stato, per i riarmi necessari ad alimentare guerre, per le opere pubbliche non necessarie, ma non può valere per la tutela della salute, diritto primario, costituzionale ed incomprimibile.

Dunque è l’esigenza economica del servizio pubblico che detta l’agenda e la priorità per il bilancio dello Stato. Che non può e non dovrebbe dire al Ministro della Salute (e poi ai presidenti di regione ed ai DG) questi sono i soldi fateveli bastare. Non dovrebbe.
E qui sta il coraggio.

Siamo la classe dirigente che deve contribuire a guidare responsabilmente un Paese e dobbiamo, possiamo dire che è il momento di una riforma strutturata, per potenziare il servizio pubblico assicurare gratuitamente a tutti, tutte le cure primarie, quelle importanti, la cronicità, le terapie salvavita, l’assistenza della terza età e della non autosufficienza, del dopo di noi, le emergenze urgenze, tutto insomma a tutti. Ma per far questo occorre cambiare radicalmente la prospettiva e l’agenda. Subito.

Occorre potenziare la prevenzione e la medicina del territorio. Ridisegnare la figura del medico di base e potenziare l’altro estremo, quello della urgenza/emergenza, magari assegnando un ruolo obbligatorio a tutte le strutture, anche a quelle a gestione privata, che curano acuti ed ai policlinici. Devono avere un punto di pronto soccorso con riconoscimento dei soli costi per gli accessi non seguiti da ricovero. Ciò consentirebbe di deflazionare tanti pronto soccorso che sono un imbuto che non riesce ad assorbire la domanda nonostante l’eroismo di tanti operatori.

Ma soprattutto sarebbe una rivoluzione rivedere il concetto di essenzialità per l’assistenza e le cure semplici, (l’alluce valgo o il tunnel carpale sono gli esempi che mi vengono, ma ce ne sono tanti altri) per chi ha un reddito che gli consente di pagare in proprio o di sostenere un’assicurazione.
Ciò manterrebbe intatto il principio di universalità delle cure, liberando solidaristicamente risorse per chi non può permettersi di pagare in proprio neanche quelle più semplici e meno costose.

Insomma, chi ha di più continuerebbe a sostenere chi ha di meno, mediante il prelievo fiscale progressivo e proporzionale ma con raziocinio, con politica sociale liberando le risorse pubbliche per il servizio pubblico accreditato e sostenendo il sistema delle imprese a pagamento puro impegnando chi può permetterselo, senza fare di imprenditori seri e onesti un esempio deteriore con una suggestione iniqua, ingiusta e permeata di pregiudizi non degni di un Paese civile.

È l’uovo di Colombo? Forse, ma ciò non deve banalizzare ciò che pensiamo di dover proporre o fare, perché a distanza di secoli quell’uovo è ancora lì ritto sul tavolo e ci dice che niente è scontato per chi vuole cambiare le cose.

da “il Quotdiano del Sud” del 14 maggio 2025

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sulla sanità in Calabria si potrebbero scrivere enciclopedie, Treccani intere; fare dibattiti 2 o 3 volte al giorno; discutere e litigare per anni interi. E si è fatto e si fa anche tutto questo. Da quando? Non ne ho memoria, ve lo confesso. Ho perso il conto.

Grandi esperti, competenti emeriti, studiosi di diritto sanitario, di diritto pubblico, di sociologia, giuristi, docenti, medici e non, si dannano l’anima per cercare di spiegare alla fine una cosa che è talmente semplice da sembrare banale ma che è all’origine dell’incredibile successo che sta riscuotendo l’iniziativa che si terrà domani pomeriggio in piazza a Catanzaro.

E’ nata dalla testa del direttore di questo giornale, Massimo Razzi, che calabrese non è (e si vede dalla semplicità con cui l’ha pensata e messa in campo), il quale mesi fa dinanzi al diluvio di proteste, accuse, reclami etc., ha pensato alla cosa più semplice del mondo: organizzatevi, organizziamoci, prendiamo la parola, prendete la parola e scendiamo in piazza per il diritto alla salute.

DIRITTO ALLA SALUTE, lo scriviamo in grande così si capisce meglio di che parliamo. Finiamola, cioè, con le ardite e dotte discussioni sui piani di rientro che ci sono e forse vanno via come i commissariamenti (chissà chi lo sa), con i bilanci delle Asp che non tornano, con i fondi e le parcelle pagate 2, 3 e 10 volte, con i buchi neri amministrativi e contabili, etc etc. Cose – dio me ne guardi dal sottovalutarle – molto importanti ma alla fine della fiera il cittadino vorrebbe sapere altro.

Vorrebbe, cioè, sapere perché si può morire in ambulanze senza medici, o in ospedale a nemmeno 40 anni incinta alla prima gravidanza. O perché bisogna andarsene lontani da casa per farsi curare. O perché non si trova più un medico di famiglia. E altre amenità del genere, che pullulano sulle pagine ogni giorno dei quotidiani, dei social, dei siti e rendono tutta la vita dei calabresi più pericolosa di quanto non lo sia già. Perché il punto di fondo è centrato, infatti, sul diritto alla salute negato nonostante l’impegno, l’abnegazione, il sacrificio di medici, infermieri, paramedici che si dannano l’anima per tamponare situazioni difficilissime, a volte al limite dell’impossibile, in reparti affollati, emergenze intasate fino al collasso, tempi biblici nelle prenotazioni (quando funzionano), liste d’attesa di cui è meglio non parlare.

Tutte situazioni che si trascinano da tempo e che hanno incancrenito il settore, dove pure esistono eccellenze sparse qua e là nel territorio, stelle in un infinito mare di nebulose dove il povero calabrese paziente (sostantivo e aggettivo, in tutti i sensi) fatica a raccapezzarsi e a trovare risposte all’unica domanda che agita: il diritto appunto alla salute.

Molto si è discusso e si discute anche sull’utilizzo dei medici venuti da Cuba nelle corsie degli ospedali calabresi. I soliti leoni da tastiera non hanno perso tempo fin dall’inizio a gridare allo scandalo, a chiedere che vengano utilizzati medici italiani (domanda: chissà come e dove prenderli), a sollevare questioni di lana caprina sulla provenienza, la lingua, le metodologie utilizzate. Se c’è invece qualcosa da salvare nei tempi agri che viviamo è proprio l’aiuto fornito e che stanno fornendo questi bravi medici venuti da un altro mondo. Senza di loro sarebbe già forse definitivamente collassato il sistema.

Ecco: servono risposte immediate a quelle domande che ogni giorno, ogni ora del giorno, si manifestano dentro e fuori gli ospedali. Organizzarsi e manifestare è un segno che la coscienza civile non è morta e chiede risposte serie e concrete. A chi? Alla politica e alle istituzioni. È la regola base della democrazia. A ciascuno il suo. Domani pomeriggio questo molto semplicemente si fa.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 maggio 2025

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

La piaga dell’emigrazione giovanile che colpisce pesantemente tutte le regioni meridionali, e non solo, è stata più volte posta al centro del dibattito politico senza che finora si sia trovata una efficace politica per contrastare questo fenomeno.

La SVIMEZ ha più volte lanciato l’allarme sulla fuga dei giovani dal Mezzogiorno: dal 2010 ad oggi oltre 200mila laureati e altrettanti diplomati, si sono trasferiti dal Sud nel Centro-Nord d’Italia. Questi sono i dati ufficiali: ovvero vengono censiti solo quelli che cambiano residenza e, come sappiamo, molti per diverso tempo non lo fanno.

Il rovescio della medaglia è che rimangono sempre più nel Mezzogiorno genitori anziani soli. Le fasce di anziani a reddito medio spesso mantengono i giovani che studiano nelle Università del Centro-Nord e, successivamente, sostengono economicamente i figli durante la prima fase di inserimento lavorativo, soprattutto per gli alti costi degli affitti.

Le fasce a reddito medio-alto tendono ad acquistare un monolocale per i figli emigrati anche quando hanno trovato un lavoro stabile. Complessivamente tutti gli over 60, che possono permetterselo, spendono una parte significativa del proprio reddito per sostenere economicamente i figli emigrati, andarli a trovare, e, soprattutto i nipoti, chi ha la fortuna di averli. Ormai da anni assistiamo ad un “turismo genitoriale” Sud-Nord che va a sommarsi al cosiddetto “turismo sanitario”.

In soldoni, stiamo assistendo, almeno dagli inizi del nuovo secolo, ad un rilevante flusso di denaro dal Mezzogiorno al resto d’Italia e all’estero che impoverisce questi territori creando un circolo vizioso, una perversa sinergia, con il fenomeno emigratorio.

Ben più triste è la condizione di che gode di pensioni minime o ha un reddito basso che non gli permette queste spese. Aspettano che i figli vengano a trovarli a Natale e durante le vacanze estive, che attendono con ansia per riscattare il grigiore di giornate vissute nell’ombra. Ben più grave è la condizione di vedove/i che vivono drammaticamente questo abbandono e tremano al pensiero di diventare disabili o essere colpiti da gravi malattie.

Si può obiettare che questa condizione esisteva anche durante la prima grande ondata migratoria, 1951/’71, ma sbagliamo a paragonare questa realtà ai primi decenni del dopoguerra. Innanzitutto, per il gran numero di laureati che vanno via e impoveriscono questi territori, ma soprattutto perché oggi è venuto meno il senso della comunità, la solidarietà di vicinato, le relazioni affettive che esistevano ancora in quel tempo, e supplivano alla mancanza di servizi sociali.

Particolarmente grave è la condizione degli anziani in Calabria. La percentuale di over 65 è del 24per cento, che rientra nella media nazionale, solo che viene calcolato sempre sui residenti che non corrispondono al dato reale. Pertanto, è molto più alta e si può stimare intorno al 30 per cento.

In particolare, nei Comuni con meno di 1000 abitanti, ben 78, i residenti “reali” sono spesso molto meno di quello che ci dicono i dati ufficiali, e rimangono a vivere solo quegli anziani poveri o malati che non possono spostarsi. Privi di servizi sanitari e sociali, di efficienti trasporti pubblici, l’emarginazione di questi anziani è totalmente ignorata perché non protestano e non sono visibili ai mass media.

Data la condizione finanziaria degli enti comunali che a mala pena pagano gli stipendi ai dipendenti, bisognerebbe avere un intervento regionale, un piano socio-sanitario per tutti questi piccoli paesi collocati nelle aree interne.

Senza sottovalutare la condizione di solitudine degli anziani poveri, malati, disabili che vivono nelle nostre città. Interi condomini abitati da over 70 che si ignorano, che vivono un doppio disagio: vivere in una regione con scarse risorse e politiche socio-sanitarie inadeguate e, allo stesso tempo, vivere in una modernità che ha accentuato l’individualismo “sfrenato” dei calabresi di cui già parlava Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” di settanta anni fa.

In questo inverno demografico che, purtroppo, durerà ancora a lungo dobbiamo seriamente pensare ai servizi socio-sanitari come ad una priorità di questa regione. Magari organizzando i bisogni inevasi, come fa l’associazione “Comunità competente” da diversi anni, e trovando le risorse economiche che esistono ma vengono sprecate in interventi inutili e dannosi. A partire dai 16 miliardi per il fantomatico Ponte sullo Stretto.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2025
Foto di Mircea Iancu da Pixabay

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