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Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.

In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.

Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.

Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?

Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?

E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?

Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.

La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.

Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?

La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.

Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.

dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Gentile Presidente
ho avuto modo di conoscerla e di apprezzare le sue capacità e un indubbio coraggio ad affrontare situazioni complesse (per usare un eufemismo) come quelle della sanità. Per questo sono rimasto stupito che lei non abbia protestato per la sottrazione di risorse alla nostra Regione, finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto, come ha fatto energicamente il presidente della Regione Sicilia, per altro del suo stesso partito.

Ma, questo taglio effettuato dal governo alle risorse regionali non è niente al confronto dei danni irreparabili che comporterà l’adozione della “autonomia differenziata”, che sta per essere approvata dal Parlamento. Infatti, sta per essere trasformato in legge l’esiziale progetto della Lega che spaccherà radicalmente il nostro paese. Quello che era il progetto originario di Bossi si sta realizzando dopo trent’anni. Me ne sono occupato in tempi non sospetti e ho dedicato un capitolo del volume “Lo sviluppo insostenibile “ (Liguori ed. 1994, oggi ristampato dalla casa ed. Città del sole) per quantificare i danni inflitti al Mezzogiorno dalla secessione fiscale del Nord.

Come scriveva negli anni ’80 il noto economista Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno, una variazione verso l’alto o il basso ha una immediata ripercussione sul reddito pro-capite, investimenti, occupazione. Non solo tra spesa pubblica e struttura socio economica del Mezzogiorno c’è una forte correlazione, ma gli effetti di una significativa variazione sono percepibili già in capo ad un triennio. Per questo possiamo prevedere l’impatto di breve e medio periodo della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero della “secessione del Nord”.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le sole regioni che hanno un surplus consistente tra le tasse che pagano e quello che ricevono dallo Stato, tutte le altre o sono in pareggio con piccoli scostamenti positivi (le regioni del Centro-Italia) o sono in deficit come la Liguria e tutte le regioni a Statuto Speciale, e naturalmente il Mezzogiorno con in testa la Calabria. Se la spesa per la sanità e la scuola dovesse essere regionalizzata le regioni in deficit si troverebbero nell’impossibilità di pagare gli attuali salari e stipendi e mantenere, contemporaneamente, l’occupazione in questi settori.

La coperta diventerebbe improvvisamente corta. Sicuramente ci sarebbe un blocco totale e di lungo periodo nel turn over, anzi verrà favorito il pensionamento anticipato, le tasse regionali portate al massimo, nuovi contratti con i sindacati su base regionale. Lo scontro sociale, il blocco delle attività sarebbe inevitabile e il caos regnerà sovrano. Quando l’autonomia differenziata sarà messa a regime, dopo un triennio le conseguenze sull’economia del Mezzogiorno, tenendo conto della correlazione della spesa pubblica con le altre variabili socio-economiche, possono essere così prefigurate: il reddito pro-capite subirà una caduta intorno al 12% , l tasso di disoccupazione arriverà sopra la soglia del 25%, gli investimenti subiranno un tracollo di quasi il 30%.

Possono apparire dati esagerati se non si conosce l’effetto a spirale, quello che Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia, chiamava il principio di “causazione circolare”. Il delinking del Nord non avrà solo un impatto negativo su una gran parte del paese (non solo nel Mezzogiorno) ma porterà ad una frantumazione politica del nostro paese, ad una Unità fittizia in un territorio diviso in tanti statarelli.

Quello che meraviglia è come FdI, il partito della Nazione, possa accettare tutto questo in cambio di un presidenzialismo inseguito come un mantra dai tempi di Almirante. Diversamente Forza Italia, se non avesse la memoria corta, potrebbe rivendicare il fatto che il suo fondatore riuscì a bloccare strategicamente quella secessione del Nord che, all’inizio degli anni ’90, sembrava inarrestabile. I “patrioti” meridionali, per usare le categorie della presidente del Consiglio, debbono essere ricompensati così dopo aver dato il proprio sangue per liberare Trento e Trieste, dopo aver dato braccia e cervelli alla ricostruzione del Nord uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale.

Caro Presidente, Lei ha in questo momento una grande responsabilità: l’autonomia differenziata è la tomba della Calabria e segna la fine dell’Unità nazionale. Non si illuda che i Lep possano risolvere la questione, ci sono tanti modi per renderli inefficaci. Mi creda, non è una questione di appartenenza politica (anche il Pd ha il suo scheletro emiliano nell’armadio), ma di rivendicare il diritto ad una esistenza degna per le popolazioni meridionali, a partire da quella calabrese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2023

ll bando borghi manca di strategia: che senso ha dare 20 milioni a un Comune solo?di Rossano Pazzagli

ll bando borghi manca di strategia: che senso ha dare 20 milioni a un Comune solo?di Rossano Pazzagli

Il 18 settembre 2021 il Fatto Quotidiano pubblicò “Non chiamateli borghi, sono paesi”, un mio intervento in cui si richiamava la centralità del paese, inteso come comunità locale, per scongiurare la retorica del piccoloborghismo e curare le disuguaglianze del Paese con la P maiuscola.

L’attuazione del PNRR è andato in direzione opposta, destinando oltre 1 miliardo di euro al cosiddetto piano Attrattività dei Borghi sul quale stanno piovendo critiche da tutte le parti, specialmente dagli stessi enti locali che dovrebbero beneficiarne, come ha riportato ancora il Fatto il 13 febbraio scorso. Tutto è centrato sul borgo.

Ma il borgo esprime una visione parziale: è solo una parte, una definizione retorica di chi guarda dall’esterno. Il paese è tutto, è comunità, territorio, casa; il posto dove tornare o dove restare, non solo il luogo da cui andare via. La questione non è solo terminologica e sottende una visione che ragiona a sistema invariato, cioè tende a riproporre per le zone interne lo stesso modello che le ha marginalizzate, cioè quello della competizione, della crescita economica e dei consumi, seppure ammantato dalle parole magiche che percorrono il Pnrr: sostenibilità, transizione ecologica, digitalizzazione.

Nella sua attuazione pare che si sia presi innanzitutto dalla necessità di spendere e di spendere presto, più che dalla elaborazione di una vera e propria strategia di intervento, da un programma calato dall’alto piuttosto che da una pianificazione partecipata dal basso, di fatto smentendo e rendendo così meno credibile l’impegno profuso con la Snai (Strategia Nazionale Aree Interne) negli ultimi anni in decine di aree italiane. Ne abbiamo una prova nel bando per la presentazione di Proposte di intervento volte alla rigenerazione culturale e sociale dei piccoli borghi storici da finanziare nell’ambito del Pnrr (misura “Attrattività dei borghi storici”, Missione 1). Un avviso pubblico che chiama i Comuni sotto i 5.000 abitanti a presentare progetti economicamente consistenti, alla svelta (entro il 15 marzo), quindi difficilmente agganciati a strategie coerenti di rinascita territoriale e a metodologie partecipative delle comunità locali.

Il miliardo di euro è ripartito in due linee.
Una linea A riservata a 21 progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di un borgo individuato da ciascuna regione o provincia autonoma (progetti da 20 milioni di euro ciascuno); una linea B per progetti locali di rigenerazione culturale e sociale di piccoli borghi storici (progetti fino a 1,6 milioni). Appare ovvio che la maggior parte delle risorse (linea A) sarà attribuita a pochi luoghi, scelti dalle rispettive regioni, secondo la logica di creare “eccellenze” e lasciare tutto il resto nelle condizioni in cui si trova. Non è creando punti di eccellenza, ammesso che ci si riesca) che si attenuano le disuguaglianze territoriali e sociali. Ha ragione il presidente Uncem Marco Bussone che proprio su questo giornale ha parlato di una “lotteria da azzerare”.

Intanto ogni regione si è affrettata a individuare il borgo miracolato. L’avviso è uscito alla vigilia delle vacanze di Natale, i sindaci lo hanno visto in gennaio, la scadenza ministeriale è al 15 marzo, ma le regioni l’hanno generalmente anticipata al 15 febbraio per fare la loro scelta: il piccolo Molise, ad esempio, ha già destinato 40.000 euro alla istituzione di una commissione di valutazione per scegliere tra i 27 che si sono fatti avanti quello che potrà ricevere i 20 milioni (Det. Dir. 23 del 16.2.22).

Il Pnrr dovrebbe assicurare futuro e benessere al Paese, ma in questa modalità di attuazione manca in sostanza una visione strategica, sociale e ambientale, manca una effettiva partecipazione senza la quale pochi e frettolosi progetti si riveleranno interventi episodici, o addirittura cattedrali nel deserto, non in grado di durare e di alimentare una vera strategia di rinascita, guidati solo dalla logica di portare a casa qualcosa e di creare qualche rara ‘eccellenza’ per poi poter dire “l’abbiamo fatto”.

La generalità dei comuni delle aree interne avrebbe bisogno di qualche decina di migliaia di euro per vivere, per i servizi fondamentali – sanità, scuola, mobilità – per mantenere una strada, una linea di trasporto locale, per incentivare l’agricoltura, la cultura, il paesaggio. Invece si è deciso di dare 20 milioni a un comune solo, magari per creare una eccellenza che nasconda il persistente degrado generale.

da “il Fatto Quotidiano” del 13 marzo 2022
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Mezzogiorno. Il grande bluff del Pnrr sugli investimenti- di Luigi Pandolfi

Mezzogiorno. Il grande bluff del Pnrr sugli investimenti- di Luigi Pandolfi

Quanti sono i soldi che il Pnrr destina al Mezzogiorno? È uno dei tormentoni di questa caldissima estate. Ufficialmente dovrebbero essere il 40% del totale (82 miliardi), ma c’è chi sostiene che non arriveranno nemmeno al 10%. Eppure parliamo di numeri, dovrebbero essere certi. Ma, a quanto pare, non è proprio così. Gianfranco Viesti, ad esempio, spulciando tra gli interventi previsti dal Piano è giunto alla conclusione che i miliardi spesi al sud non saranno più di 22. Esagerazione? Beh, le risorse del Dispositivo di Ripresa e Resilienza non si tradurranno direttamente in investimenti pubblici (la quota dispersa in bonus, incentivi, mance alle imprese, è notevole).

E poi, c’è tutta la partita dei bandi. Anche per l’assegnazione dei fondi per investimenti varrà il criterio della concorrenza e della competizione. Tra nord e sud, tra le varie regioni. Il governo su questo punto ha provato a tranquillizzare, dicendo che anche per i bandi varrà la clausola del 40%. Nondimeno, anche se così fosse, l’incertezza legata ad una selezione pubblica non sarebbe eliminata. Insomma, chi pensa che il governo abbia deciso di fare investimenti pubblici al sud per un valore di oltre 80 miliardi è fuori strada. E c’è un paradosso. Per ogni miliardo speso al sud, poco meno della metà, comunque, rimbalzerà al nord, per l’acquisto di semilavorati, attrezzature, dispositivi vari.

Ma non è finita qui. Il Piano non finanzierà solo nuovi progetti. Per ogni missione, è previsto che con queste nuove risorse si andranno a finanziare anche «progetti già in essere», per i quali già esiste la copertura finanziaria. Parliamo di 53,1 miliardi su 191,5. Quanti sono i «progetti già in essere» nelle regioni del sud? Quali di questi erano già finanziati con risorse del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione già spettanti al Mezzogiorno, in quanto «area sottoutilizzata»? Per non parlare del fatto che alcuni di questi elaborati, giacenti da anni in cassetti polverosi di regioni e ministeri, ormai non hanno nessuna aderenza con la realtà socio-economica dei territori cui afferiscono e rischiano di rivelarsi irrealizzabili.

La verità è che alla base del Pnrr c’è una filosofia ben precisa riguardo alla ripartenza del Paese dopo la pandemia, per quanto sbagliata: il differenziale di crescita con le economie più forti dell’Unione europea potrà essere colmato soltanto dando ossigeno e sciogliendo le briglie all’economia del nord.

Non è il momento di pensare (o ripensare) alla «questione meridionale». Quindi, da un lato soldi pubblici alle imprese e investimenti diretti in infrastrutture materiali e immateriali prevalentemente al nord, dall’altra riforme che «promuovano la concorrenza nel mercato dei servizi e dei prodotti» e «iniziative di modernizzazione del mercato del lavoro». Ora le chiamano «riforme di contesto».

Lo Stato che apparecchia la tavola alle imprese, investendo quasi tutte le fiches sulle virtù taumaturgiche del mercato, che, lasciato libero di operare, creerà le condizioni per il benessere di tutti. «Gli effetti della concorrenza sono idonei a favorire una più consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale», si legge nel Piano. Vecchio cavallo di battaglia dei liberisti. E a nulla vale la lezione della storia. L’importante è che l’equilibrio economico si realizzi sugli assi cartesiani. Coerenza liberista delle «riforme» e incoerenza degli interventi, insomma.

Un doppio problema: il sud abbandonato a se stesso e un modello di sviluppo neoliberista calibrato per il motore economico del Paese. Ma non ci guadagna né il sud né il nord. O meglio: non ci guadagnano i nuovi proletari italiani, da nord a sud. È un modello che accentua le disuguaglianze territoriali e non interviene sull’esplosione e sulla frantumazione delle disuguaglianze sociali prodotta dalla crisi e dal disfacimento del compromesso fordista.

Cosa servirebbe? Un’altra filosofia, un altro Piano. O, che sarebbe meglio, una nuova stagione di programmazione economica. Una strategia per coniugare crescita economica e riequilibrio territoriale, accumulazione del capitale e produttività da un lato e benessere diffuso e coesione sociale dall’altro. Si potrebbe fare, ma è una questione di rapporti di forza. Intanto, le piazze si riempiono solo per dire no al green pass.

da “il Manifesto” del 30 luglio 2021

Il sogno industriale quarant’anni dopo.- di Annarosa Macrì Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Il sogno industriale quarant’anni dopo.- di Annarosa Macrì Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Un evento televisivo, domani mattina, alle 7.30, su Raitre: la replica, quarant’anni dopo, di una delle sette puntate di Calabria ’80, la prima, e ultima, ricognizione per immagini sul sistema produttivo calabrese (industria, agricoltura, turismo e terzo settore), che Tonino Perna ed io realizzammo per la Terza Rete calabrese, allora appena nata.
Sabato 2 gennaio, alla stessa ora, la seconda parte.

Avete presente quando di un allievo che “si applica ma non rende”, si dice: è volenteroso, ma non ha le basi? Ecco, le sette puntate di Calabria ’80, ne (ri)vedrete due, di mezz’ora ciascuna su Raitre il 26 dicembre e il 2 gennaio alle 7,30, rappresentarono per me le “basi” di conoscenza e di analisi del territorio che mi furono indispensabili, nei quarant’anni successivi, per raccontare la Calabria, enigmatca e complessa com’è.

Ebbi il privilegio di avere accanto un compagno di avventure funambolico e rigoroso come Tonino Perna, economista e sociologo, che di quel programma fu l’autore (io ne curai la regia), così quei quattro mesi di sopralluoghi, riprese, incontri e interviste on the road per la regione, dal Pollino all’Aspromonte, dal Tirreno allo Jonio, e poi i tre mesi in moviola che seguirono (il programma fu girato in pellicola da un maestro della fotografia che troppo presto ci lasciò, Tonino Arena), furono la mia seconda università, che mi laureò, davvero!, in “Calabriologia”.

Nessuno prima di noi, e prima di Calabria ’80 (e nessuno dopo, devo dire) aveva realizzato una ricognizione per immagini così attenta e capillare del mondo produttivo calabrese, in un momento topico della storia di questa regione, quando erano passati venti anni dal boom economico (dalle nostre parti, in realtà, niente di più che un’eco fievole se n’era sentita) e dieci anni da quel “Pacchetto Colombo” che c’era piovuto addosso per provare a riempire il baratro di ribellione e disperazione che si era aperto coi fatti di Reggio, e che già manifestava inconguenze, sprechi e fallimenti.

Girammo chilometri di strade, paesi, città e campagne, girammo chilometri di pellicola e realizzammo sette puntate di mezz’ora. Due dedicate all’Industria – un po’ di manufatturiero e di agroalimentare ancora “tirava”, in mezzo ad un cimitero, già!, di deserti e di cattedrali -, due all’Agricoltura – sospesa tra eroica primitività e pionieristica innovazione -, due al Turismo – quello “indigeno” all’epoca appena balbettante, più invasivo, invece, quello dei villaggi turistici e grandi gruppi colonizzatori – e una al Terzo Settore, che cominciava, proprio in quegli anni, a coprire, come poteva, vuoti ed emergenze sociali.

Più imparavo – paesaggi, persone, manufatti, belli, brutti o così così – più li sentivo parte della mia storia e del mio vissuto, roba che mi apparteneva, di cui dovevo farmi carico, perché aveva attraversato le speranze, le sofferenze, le sconfitte e la fatica della mia gente.

La Calabria, dove ero nata, ma dove, anche nell’infanzia, avevo vissuto pochissimo, e che avevo lasciato per andare a studiare a Milano, prima di Calabria ’80, come quasi tutti quelli della mia generazione, praticamente non la conoscevo.

Non era allora il luogo “circolare” che è oggi, grazie anche alle università, che hanno rimescolato saperi, amori ed esistenze, ma, assai più di oggi, era arroccato, e frammentato, nei paesi e nei particolarismi, nelle città e nei campanilismi, che si guardavano, a distanza, – anche ora accade, figurarsi quasi mezzo secolo fa – con diffidenza circospetta se non con malcelato razzismo.

Chi viveva a Reggio, per dire, andava più facilmente a Roma (o a Messina) per studio o per compere, piuttosto che a Catanzaro o a Cosenza, e un catanzarese magari andava a teatro al San Carlo di Napoli, ma non al Rendano di Cosenza o al Cilea di Reggio.

Imparai a conoscerla scoprendola, questa regione, con lo sguardo sorpreso della neofita, che, devo dire, non mi ha più abbandonato; scoprendola, imparai ad amarla, e, dopo quarant’anni, di più la amo. Non solo le sue cose e le sue persone belle (quelle son bravi tutti ad amarle); io m’innamorai pure di quelle brutte e di quelle così così. E, amandola, imparai a raccontarla. Ché, senza amore, non si può.

All’inizio degli anni ottanta, il clima culturale del Paese era quello, irripetibile, della riscoperta delle identità locali, delle tradizione e dei dialetti, contro la società di massa. Il regionalismo amministrativo era ancora bambino e quello culturale era frammentato in mille Calabrie, quando la Rai decise di riaccendere le lucciole periferiche che Pasolini piangeva spente per sempre, una per ogni regione, e nacque la Terza Rete decentrata; investì un bel po’ di risorse sui territori e, dal nulla o quasi, impiantò, anche in Calabria, un piccolo centro di produzione, che non solo realizzava e metteva in onda i primi telegiornali, ma anche inchieste, documentari, talk-show, fiction.

A Cosenza fu reclutato un piccolo esercito di operatori dell’informazione (e io tra di loro, e, con molti di loro, rientrai “dal Nord”): giornalisti, registi, operatori di ripresa, tecnici, autisti, elettricisti. Quasi cento ragazzi, età media 25 anni, competenze certe, concorsi “veri”, assunzioni a tempo indeterminato. Ci era richiesta una grande preparazione culturale, ma nessuno di noi aveva mai visto una telecamera, così imparammo a fare la televisione “facendola”, come un bambino impara ad usare un giocattolo giocandoci; l’entusiasmo era alle stelle, alimentato dalla consapevolezza di essere dei pionieri e dalla accoglienza straordinaria dei Calabresi, specialmente quelli delle aree interne: era una festa quando arrivava “la Televisione” in luoghi così “lontani” e dimenticati, in cui magari non c’era neanche il segnale di trasmissione, e che venivano raccontati per la prima volta: persone senza voce che diventavano importanti, luoghi dimenticati a cui si restituiva la memoria…

Calabria ’80 nacque in questo irripetibile clima e, rivederne adesso due mezz’ore (grazie alla pervicacia del Direttore della Sede di Cosenza Demetrio Crucitti) vuol dire ripercorrere un pezzo fondamentale della storia di questa regione, quando tutto pareva dover (ri)nascere, la Regione, l’Università, l’economia…

Il ritmo lentissimo del montaggio (“allora” per percepire un fermo-immagine avevamo bisogno, da telespettatori, di un “tempo”, quattro secondi!, eterno per gli standard frenetici di oggi) vi darà il senso, guardando Calabria ’80, dell’andamento pigro di una storia che, con fatica, con brusche frenate e affannate ripartenze, nonostante tutto, andava allora e ancora, fiaccamente, va.

Buona lenta visione. Sabato 26 dicembre e sabato 2 gennaio, Raitre, ore 7.30. Calabria ’80. Quarant’anni dopo.

dal Quotidiano del Sud del 24 dicembre 2020
foto wikipedia pontile ex Sir

Università, più fondi a quelle ricche. Beffa per il Centro-Sud- di Gianfranco Viesti

Università, più fondi a quelle ricche. Beffa per il Centro-Sud- di Gianfranco Viesti

Per rilanciare l’economia italiana dopo venti anni di crescita stentata e dopo i profondi danni che sta provocando l’epidemia di covid è indispensabile affrontare alcune grandi, ineludibili questioni. Due spiccano per importanza: i modesti livelli di istruzione delle forze di lavoro e dei giovani, i grandi squilibri territoriali.

Esse si incrociano nella situazione e nelle prospettive del sistema dell’istruzione del Mezzogiorno e in generale del Centro-Sud. Ma, mentre da più parti si sottolinea il suo fondamentale ruolo, e la necessità di un suo potenziamento, le politiche continuano ad andare in direzione opposta.

Ne è esempio il decreto appena predisposto dal Ministero per l’Università che assegna a tutti gli atenei italiani le possibilità di reclutamento di nuovo personale e di progressione di carriera dei docenti in servizio per il 2020. Queste possibilità sono espresse in percentuale rispetto ai pensionamenti di ciascun ateneo; un indicatore, quindi, di ricambio (turnover).

Il calcolo di questo indicatore segue regole complesse: la tabella che accompagna il decreto del Ministro è composta da ben 24 colonne. Ma ciò che pesa di più è l’indicatore che rapporta le spese di personale alle entrate complessive di ciascuna università.

Ora, ed è qui il punto dirimente, fra le entrate complessive si sommano i finanziamenti ministeriali e quanto ciascun ateneo incassa dai propri studenti. Il gettito della tassazione studentesca dipende dalle politiche che ogni ateneo è libero di fare. Ma è legato fortemente al reddito medio delle famiglie degli iscritti; se le famiglie hanno un reddito più alto, pagano di più; e quindi si incassa di più.

Con i forti squilibri territoriali che ci sono in Italia, il reddito medio delle famiglie, e quindi le tasse che esse pagano, sono molto diversi da regione a regione. Dati Istat riferiti al 2014-15 mostravano ad esempio, guardando alle principali sedi, che il reddito mediano delle famiglie degli studenti dell’Università di Catania era intorno ai 16.000 euro; il valore per il Politecnico di Milano circa il doppio, intorno ai 30.000.

Insomma il criterio premia gli atenei che sono insediati nelle città più ricche; che hanno studenti provenienti dalle famiglie più abbienti, che aumentano maggiormente la tassazione. Del tema ci si è già occupati su queste colonne nel novembre scorso: ma nulla è cambiato.

da “il Messaggero” del 26 settembre 2020
Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

Abuso e strumentalità della «questione settentrionale». -di Filippo Barbera. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è infondato

Abuso e strumentalità della «questione settentrionale». -di Filippo Barbera. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è infondato

«Salvini allontana la Lega dal Nord», titolava la Repubblica di Lunedì 3 Agosto. Il titolo è stato ripreso prontamente da Giorgio Gori che in un tweet, con l’hashtag #ricominciodalNord, ha esortato il Pd a farsi rappresentanza della parte più moderna ed europea del Paese mettendo il lavoro, la produttività e la crescita in cima all’agenda politica. Non interessa qui entrare nel merito della tattica elettorale implicita nel messaggio, peraltro alla sua ennesima riedizione, quanto interrogarsi circa la sua consistenza fattuale: la rappresentanza politica dei ceti produttivi e dei territori più moderni ed europei del Paese.

O, MEGLIO, la reductio della «questione settentrionale» a una narrazione che cela in un cono d’ombra proprio quegli aspetti della realtà più divergenti rispetto alla condizione di molti paesi europei. Lavoro, produttività e crescita non sono problemi specifici delle regioni settentrionali ma riguardano il Paese nel suo insieme. Utilizzarle come parole d’ordine significa solo inseguire la retorica leghista della prima ora sul suo stesso terreno: la locomotiva dell’operoso Nord e la zavorra dell’assistito Sud.
Ciò non significa negare che le regioni settentrionali non abbiano bisogno di una rappresentanza politica da parte delle forze di sinistra e di centro-sinistra; piuttosto, è urgente sottolineare quali debbano essere i temi e le parole d’ordine di questa rappresentanza.

COME NON RICORDARE, anzitutto, che la pandemia ha portato in prima serata i problemi della fertile Pianura padana che, complice un modello agro-industriale intensivo, è diventata una delle aree più inquinate d’Europa, con conseguenze gravi per la salute dei suoi residenti? Inoltre, varie inchieste giornalistiche e studi accademici – tra questi ultimi Mafie del Nord a cura di Rocco Sciarrone (Donzelli, 2014) – documentano i «mali del Nord» nella sovrapposizione attiva tra mercati legali e mercati illegali.

Questi lavori fotografano un territorio intessuto di relazioni mafiose, sia con le imprese che con le politica locale; in alcune aree del Nord la criminalità organizzata è diventata un importante vettore dello sviluppo locale. L’inchiesta giudiziaria in corso verificherà se queste ombre si allungano anche sulla caserma Levante di Piacenza. A proposito di Nord.

Dal punto di vista politico e della classe dirigente, poi, in questi anni cruciali le regioni settentrionali non hanno dato alcuna prova di coordinamento strategico, pur in presenza di flussi e interdipendenze funzionali importanti. Le dinamiche del ciclo politico e del consenso a breve hanno dominato e annullato ogni capacità di pensiero «orientato al futuro». Di fronte a una progettualità politica macro-regionale carente, Il Nord si riduce a una entità geografico-amministrativa priva di capacità di azione collettiva.

UNA VISIONE STRATEGICA sulla rappresentanza del Nord dovrebbe dare prova di sé nell’evitare slogan semplificatori. Dal punto di vista territoriale, il Nord non esiste più da tempo, se mai è esistito. Come ci sono tanti Sud, allo stesso modo ci sono vari Nord: città medie in crisi, campagne produttive in spopolamento, periferie metropolitane sotto stress, aree interne, rurali e montane. L’Italia è il paese della diversità territoriale e il Nord non fa eccezione (si veda Il Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di D. Cersosimo e C. Donzelli, Donzelli, 2020).

Un’Italia in contrazione caratterizzata da vincoli demografici, edifici abbandonati, cantieri bloccati e proprietà invendute, ci ricordano A. Lanzani e F. Curci (in A. De Rossi, a cura di, Riabitare l’Italia, Donzelli, 2020, seconda edizione). Le differenze economiche, sociali e territoriali che ormai separano il Nord-Ovest dal Nord-Est sono per molti aspetti tanto rilevanti quanto quelle che distinguono il Nord dal Sud.

I problemi idro-geologici della Liguria sono paragonabili a quelli di altre Regioni del Mezzogiorno; lo spopolamento delle aree montane del Piemonte ha le stesse conseguenze nell’Appennino calabro; la perdita di valore degli immobili che caratterizza molte città del Nord Italia – dove una casa per una famiglia costa come l’ascensore di un alloggio in centro a Milano – non è dissimile dalle dinamiche dei valori immobiliari delle città del Sud Italia.

IL NORD NON É LA «LOCOMOTIVA» del Paese, come sottolineato nell’appello «Ricostruire l’Italia. Con il Sud» promosso da 29 esperti di Mezzogiorno. Raccontare la questione settentrionale come un problema di rappresentanza dei ceti produttivi, vicini all’Europa e diversi rispetto al resto del Paese, è tatticamente errato, infondato dal punto di vista fattuale e strategicamente miope. I problemi specifici delle regioni settentrionali esistono eccome, ma non sono quelli della retorica che contrappone i «ceti produttivi» del Nord, vicini all’Europa, agli «individui assistiti» del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 7 agosto 2020

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Il ritorno al Sud dei giovani e la rigenerazione del settore pubblico.- di Giuseppe Provenzano La risposta del ministro Provenzano alla lettera di Perna, Bevilacqua, Cersosimo, Marchetti, Sangineto e Ippolito.

Il ritorno al Sud dei giovani e la rigenerazione del settore pubblico.- di Giuseppe Provenzano La risposta del ministro Provenzano alla lettera di Perna, Bevilacqua, Cersosimo, Marchetti, Sangineto e Ippolito.

Cara direttrice,

ho letto con interesse la lettera di Tonino Perna, Piero Bevilacqua e altri che ringrazio per le loro riflessioni. Pochi giorni prima del lockdown, abbiamo presentato il Piano Sud 2030, con una premessa e una conclusione: i giovani devono essere liberi di andare, ma devono avere l’opportunità di tornare; di più, il nostro compito è garantire un «diritto a restare».

Durante la pandemia abbiamo assistito a un certo ritorno al Sud, ma non quello a cui ambivamo. Tuttavia, anche il ritorno «forzato», frutto di contingenze tragiche, ci ricorda che la fuga non è un destino irreversibile.

E ora, che fare? Come offrire un’opportunità a questo straordinario patrimonio di energie e competenze che si temeva perduto alla causa del Sud? Come impedire che questo ritorno resti soltanto l’attesa di una nuova ripartenza?

La pandemia ha fatto giustizia di tanti luoghi comuni, a partire da quelli che inquinano da decenni il dibattito tra Nord e Sud, la rappresentazione per cui da una parte c’è la virtù e dall’altra il vizio, e il vizio coincide sempre con la povertà.

I cittadini italiani, tutti hanno mostrato grande senso di responsabilità, accettando sacrifici che hanno consentito di arginare il contagio.
Tra questi, anche i giovani rientrati, in larga maggioranza, hanno seguito scrupolosamente le prescrizioni delle autorità sanitarie.

Eppure qualcuno, che in loro avrebbe potuto vedere la potenzialità del domani o il riflesso delle proprie mancanze di ieri, li descriveva a mezzo stampa o sui social come «untori».

Nulla sarà più come prima, si dice, ma nessuno può sapere come sarà il dopo. Sappiamo solo che non dobbiamo tornare al mondo di ieri. Sarebbe uno spreco.

IN QUESTI MESI abbiamo mobilitato risorse senza precedenti e nuove vie di sviluppo discenderanno dalle scelte europee dei prossimi giorni. Dobbiamo essere pronti e vigili, si sta aprendo una partita che vorrebbe contrapporre sviluppo ed equità: un approccio ideologico di cui abbiamo misurato i fallimenti ma dietro cui ancora oggi si nascondono interessi potenti.

Senza giustizia sociale non può esserci ricostruzione. Senza un riequilibrio territoriale, non solo del Sud ma anche delle aree interne, non ci sarà uno sviluppo durevole, sostenibile.

LA PANDEMIA ha rivelato nuove disuguaglianze. L’innovazione, senza scelte politiche chiare, può essere anche un potentissimo fattore di esclusione sociale. Sull’infrastruttura e i servizi digitali registriamo ritardi inaccettabili. Io stesso ho richiamato più volte gli operatori della banda ultra larga alle loro responsabilità. Anche perché rischiamo di perdere fondi europei, che invece abbiamo riprogrammato con Ministeri e Regioni proprio per sostenere la digitalizzazione delle comunità, delle famiglie e delle imprese al Sud.

Lo dico perché anche così si possono creare occasioni di lavoro buono per i giovani che prima andavano a cercarlo altrove, trasformando aree marginalizzate in ecosistemi dell’innovazione: è accaduto a San Giovanni a Teduccio, può accadere altrove, ne stiamo discutendo con il Ministro Manfredi.

Lo stesso smart working, se accompagnato a nuovi diritti, compreso quello alla «disconnessione», a una più moderna e democratica organizzazione del lavoro, potrebbe diventare una forma strutturale di lavoro dei giovani meridionali, che possono restare al Sud, senza essere costretti a un difficile pendolarismo o a nuove vie di emigrazione.

O riconquistare le aree interne che, a dispetto della retorica sul «secolo delle città», non sono »piccolo mondo antico» ma luoghi in cui maturano modelli di sviluppo e di organizzazione più sostenibili, prossimi ai bisogni delle comunità. E lo abbiamo visto durante la pandemia.

Tra Legge di Bilancio e Dl Rilancio abbiamo destinato alle aree interne oltre 500 milioni, le abbiamo messe al centro della nuova programmazione dei fondi europei. Per garantire servizi ma anche per sostenere le attività economiche e commerciali.

OPPORTUNITÀ CONCRETE per i giovani, che si affiancano a strumenti specificamente rivolti ai giovani meridionali, come il potenziamento di «resto al Sud» o il «credito di imposta per ricerca e sviluppo».

Ma la verità è che, senza un’amministrazione più giovane, non potremo vincere la sfida dello sviluppo sostenibile e del digitale, al centro e nei territori.

Per anni è stato denigrato lo Stato, salvo poi riscoprirne il ruolo nell’emergenza. Ora dobbiamo tornare a dare opportunità di lavoro anche nel settore pubblico, dirlo senza timidezze: riportare nello Stato la generazione esclusa è un grande investimento.

È un impegno messo nero su bianco nel Piano Sud, servono da subito migliaia di giovani qualificati per garantire servizi e realizzare gli investimenti. E potremmo anche partire, grazie a un emendamento parlamentare, con una piccola ma significativa sperimentazione: i dottorati comunali.

LE ISTITUZIONI DA SOLE non possono farcela, devono costruire alleanze sociali. «Alleanza» è una parola chiave del Piano Sud, con cui abbiamo avviato due iniziative: una «Rete» per mettere in relazione chi è emigrato e chi sta nei territori, per far circolare progetti e buone pratiche e un «Osservatorio Sud 2030», per mobilitare la cittadinanza attiva sugli obiettivi di sviluppo del Sud e delle aree interne.

Questo è il succo della lettera-appello che voglio raccogliere: è qui la chiave per rendere i giovani meridionali protagonisti di uno sviluppo nuovo, che li renda liberi di tornare e restare nella loro terra.

Abbiamo vissuto una «lunga notte» del Sud, un’ombra lunga su tutta l’Italia, che via via ha ristretto anche altrove le opportunità per i giovani meridionali.

Ma è tempo di dire, con Rocco Scotellaro: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi».

* L’autore è ministro per il Sud e la coesione territoriale

da “il Manifesto” del 20 giugno 2020

Manifesto del Collettivo Valarioti.

Manifesto del Collettivo Valarioti.

Il Collettivo Peppe Valarioti nasce nel pieno di una crisi mondiale. Siamo un gruppo di studenti, ricercatrici e ricercatori sparsi per l’Europa che, all’alba dell’emergenza Covid-19, si è chiesto come la Calabria, con tutti i suoi problemi strutturali e atavici, avrebbe reagito. Mentre si temevano le conseguenze sulla popolazione di una sanità commissariata da anni, noi ci siamo anche domandati come si sarebbero potuti salvare coloro che vivono nella regione senza l’accesso ai servizi essenziali.

Mentre l’OMS ordinava di lavarci più spesso le mani e di mantenere le distanze, noi conoscevamo le condizioni dei lavoratori della terra, ammassati in alloggi di fortuna, senz’acqua. La tendopoli di San Ferdinando (RC) rappresenta uno dei tanti nervi scoperti di una Calabria che può solo sperare che il destino, ancora una volta, le sia benevolo.

San Ferdinando è un Comune noto per le condizioni disumane in cui versano i braccianti agricoli stagionali che da più di vent’anni raggiungono la Calabria per sostenerla nella raccolta degli agrumi, degli asparagi, delle fragole, dei pomodori.

San Ferdinando è la conseguenza di una politica fatta di slogan, di interessi personali e incapace di fornire formule risolutive per la crescita del territorio nel rispetto della dignità umana; una realtà che all’arrivo della pandemia ha solo potuto sperare di essere ignorata finanche dal virus.

Nel marzo 2020 abbiamo smesso di ascoltare le risposte di una politica inadeguata e iniziato ad indagare.
“Per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice ed è quella sbagliata”, scriveva Eco ne “Il Pendolo di Foucault”.

Questo l’assunto che abbiamo potuto constatare ad ogni passo della nostra indagine. Dove si perdono i milioni di soldi stanziati? Come si possono riproporre tavoli di lavoro inconcludenti? Perché nascondere il vuoto di una cattiva amministrazione con la retorica? Queste le nostre domande, interrogativi che non concernono soltanto il problema di San Ferdinando, ma riguardano la Calabria in tutti suoi aspetti.

Una regione che, stretta tra gli interessi di pochi e l’incapacità di fare squadra, ha perso ogni sua occasione di rivalsa e di crescita. Una crescita soprattutto economica tale da consentire, a chiunque lo voglia, di vivere in Calabria.

Alla luce di ciò, noi, in qualità di Collettivo Peppe Valarioti, abbiamo deciso di opporci allo status quo, all’idea che le cose non possano cambiare. La nostra indagine è partita dal problema della tutela dei braccianti agricoli che rappresentano uno dei motori dell’economia calabrese, da sempre fondata sull’agricoltura. Ma questo vuole essere solo il punto di partenza del nostro lavoro. Vogliamo diventare un osservatorio vigile, attento e pronto a denunciare, carte alla mano, tutte le occasioni di miglioramento che ci verranno sottratte.

Tra gli anni ‘70 e ‘80 la ‘ndrangheta inizia ad uccidere esponenti del partito comunista legati al mondo sindacale. Peppe Valarioti, professore, studioso, una vita spesa per la giustizia ed il futuro della Calabria, viene ucciso l’11 giugno 1980 sotto i colpi di una lupara.

Raccogliamo oggi questo testimone. Mettiamo a disposizione le nostre forze, il nostro tempo, le nostre competenze per rafforzare la consapevolezza dei diritti di ogni essere umano, studente, lavoratore che abiti questa regione. Non vogliamo essere cittadini passivi, non vogliamo aspettare che qualcuno lo faccia al nostro posto.

Di costruire prospettive nuove per la Calabria in troppi lo hanno promesso, pochi lo hanno fatto, tanti ci hanno deluso. Non è più il tempo di delegare, vogliamo essere i protagonisti. Senza doppi fini, senza guadagni personali, ma “solo” guidati dall’orgoglio di appartenere, ognuno a modo suo, ad una perla nel cuore del Mediterraneo.

Ma questa perla non appartiene solo ai calabresi. Le sorti del suo futuro sociale, civile ed economico dipendono da un interesse plurale che supera i confini regionali. La Calabria è in Europa ed è Europa. Il nostro obiettivo è far sì che essa possa diventare un territorio dove decidere di vivere e non dal quale scappare. Progettualità, collaborazione e coraggio: ciò che rende un progetto, da ambizioso e difficile, possibile e avverabile.

Peppe Valarioti, ben quarant’anni fa, aveva dato inizio a questo cambiamento. Il suo motto era: “Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?”.

Noi vogliamo portare avanti un sogno lasciato in sospeso. “Se non lo facciamo noi, ora, quando e chi lo farà?”. Siamo europei, quindi siamo calabresi, e nessun problema sarà mai troppo lontano da noi per non occuparcene.
“Se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me”

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