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Lettera aperta al ministro Giuli sul Museo Alarico

Lettera aperta al ministro Giuli sul Museo Alarico

I sottoscritti ritengono che l’attuale Amministrazione comunale di Cosenza commetta un grave errore nel continuare l’opera dell’ex Sindaco Occhiuto dicendo di voler “imprimere un’accelerazione”, come affermato dall’attuale Sindaco Franz Caruso, alla ripresa dei lavori di costruzione del Museo Alarico già fermata nel novembre 2018 da un provvedimento dell’allora Direzione generale del Mibac che revocava, in autotutela, il permesso paesaggistico concesso, all’epoca, dal Soprintendente ABAP di Cosenza, Mario Pagano.

I sottoscritti chiedono che il MiC per mezzo dei suoi organi centrali, Direzione generale, e periferici, Soprintendenza Abap di Cosenza, impedisca la costruzione di un qualsivoglia manufatto- che, del resto, sarebbe del tutto privo di reperti attribuibili ad Alarico o ai Goti- ai piedi del Centro storico della città di Cosenza che ha già un vincolo diretto e un vincolo paesaggistico sin dal 1969.

Un qualunque edificio costruito in quel luogo con forme, tecniche e materiali moderni sarebbe del tutto fuori contesto rispetto al tessuto architettonico e urbanistico della città antica. Auspichiamo che al posto dell’ormai abbattuto ex Hotel Jolly venga allestito, invece, un giardino pubblico alberato, un luogo destinato alla visione paesaggistica della confluenza dei due fiumi, come è stato già dagli anni ’20 del XX secolo (in foto).

I sottoscritti si chiedono, ancora una volta, cosa spinga anche questa Amministrazione comunale, a voler costruire un Museo -in totale assenza della più piccola testimonianza materiale alariciana e per un costo fra i 7 e i 10 milioni di euro- intitolato ad un invasore che, dopo aver saccheggiato Roma e tutta la penisola nel 410 d.C., secondo un racconto poco attendibile del solo Iordanes, l’apologeta dei Goti vissuto 150 anni dopo i fatti- muore, per caso, nei pressi di Cosenza.

Dal racconto di Iordanes, se pure fosse verificato, si deduce che, a causa dell’accidentale morte del re nei pressi di “Consentia”, centinaia di antichi cosentini furono costretti dai Goti prima a deviare il fiume e, poi, a seppellire Alarico con il bottino frutto del saccheggio di Roma e di tutta l’Italia meridionale. Per evitare di lasciare testimoni ed eventuali, futuri cercatori di tesori, i Goti assassinarono tutti i prigionieri cosentini che avevano partecipato alla sepoltura. Perché, dunque, celebrare Alarico e i Goti che avrebbero trucidato, milleseicento anni or sono, centinaia di progenitori dei cosentini?

I sottoscritti ritengono che l’intitolazione di un museo ad un personaggio storiograficamente controverso e il seduttivo vagheggiamento del ritrovamento di una sepoltura leggendaria, della quale non è stato rinvenuto neanche il più piccolo frammento, siano elementi che concorrono attivamente all’offuscamento della coscienza collettiva e della conoscenza della Storia che conduce all’estrema e perversa conseguenza di una pericolosa ed infondata invenzione identitaria.

I sottoscritti ritengono che la costruzione di un Museo Alarico, che non potrebbe contenere nulla che sia materialmente riconducibile ad Alarico o ai Goti, sia non solo storicamente sbagliata e socio-antropologicamente manipolatoria, ma anche umiliante per una città -dal IV sec. a.C. capitale dei Brettii e, poi, importante municipium romano- ed una popolazione che, nel corso dei secoli, hanno saputo esprimere ben altre, e più alte, personalità: Aulo Giano Parrasio, Bernardino Telesio, Sertorio Quattromani, Valentino Gentile, Francesco Saverio Salfi, Giovan Battista Amico, Alfonso Rendano, Pasquale Rossi et cetera.

I sottoscritti sono convinti che solo il restauro complessivo e capillare -che deve necessariamente comprendere gli edifici privati e non, come l’attuale Amministrazione comunale sta facendo, solo gli edifici di proprietà pubblica- della Cosenza storica potrebbe mettere in moto un meccanismo virtuoso nel quale la “redditività” del patrimonio culturale cosentino e calabrese non risiederebbe solo nella sua commercializzazione e nel turismo che esso potrebbe produrre, ma in quel profondo ed indispensabile senso di appartenenza e di cittadinanza ispirato dalla propria Storia e dai valori simbolici ad essa collegati.

I sottoscritti chiedono, dunque, al competente Ministro, Alessandro Giuli, di usare gli strumenti a sua disposizione -amministrativi, di governo e anche di impulso legislativo- per impedire la costruzione del Museo di Alarico e auspicano, invece, il restauro degli edifici pubblici e privati del cadente Centro storico di Cosenza che permetterebbe di restituirlo ai cosentini, prima che un acquazzone un po’ più forte lo porti via.

Battista Sangineto, archeologo, Unical
Armando Taliano Grasso, archeologo, Unical
Salvatore Settis, archeologo, Accademia dei Lincei
Pier Giovanni Guzzo, archeologo, Accademia dei Lincei
Tomaso Montanari, storico dell’arte, Rettore Univ. Stranieri Siena
Vito Teti, antropologo e scrittore, Unical
Paolo Liverani, archeologo, Università di Firenze
Lucia Faedo, archeologa, Univ. di Pisa
Franco Cambi, archeologo, Univ. di Siena
Alessandra Anselmi, storica dell’arte, Univ. di Bologna
Alberto Ziparo, urbanista, Univ. di Firenze
Roberto Budini Gattai, urbanista, Univ. di Firenze
Tonino Perna, economista, Univ. di Messina
Francesco Raniolo, politologo, Unical
Mariafrancesca D’Agostino, sociologa, Unical
John Trumper, linguista, Unical
Marta Maddalon, linguista, Unical
Enzo Scandurra, urbanista, Univ. La Sapienza Roma
Donatella Loprieno, costituzionalista, Unical
Maria Teresa Iannelli, archeologa, già funzionario Mibac
Maurizio Pistolesi, archeologo, Cosenza
Pino Ippolito Armino, storico
Annarosa Macrì, giornalista, Cosenza
Paolo Veltri, ingegnere idraulico, Unical
Alessandra Carelli, storica dell’arte, Cosenza
Mauro Minervino, antropologo, Accademia Belle Arti CZ
Teresa Liguori, Consigliere nazionale Italia Nostra
Maria Cristina Lattanzi, Consigliere nazionale Italia Nostra
Liliana Gissara, Consigliere nazionale Italia Nostra
Laura Comi, Consigliere nazionale Italia Nostra
Federazione provinciale Rifondazione Comunista Cosenza
USB, Federazione di Cosenza
Associazione La Base, Cosenza
Forum Ambientalista Calabria
Antonio Trimboli, ingegnere, Cosenza
Massimo Ciglio, dirigente scolastico, Cosenza
Ida Selene Broccolo Tommasi, operatrice culturale, Cosenza
Sergio Nucci, medico, Cosenza
Stefano Catanzariti, attivista civico, Cosenza
Sergio Aquino, imprenditore, Cosenza
Ercole Barile, imprenditore, Cosenza
Argia Morcavallo, architetto, Cosenza
Francesco Saccomanno, attivista politico, Cosenza
G. Pino Scaglione, architetto, Univ. di Trento
Monica Nardi, chimica, Università Magna Grecia
Francesco Gaudio, docente, Fermi-Brutium” Cosenza
Angelo Broccolo, medico, Corigliano
Vincenzo Reda, vicepreside Fermi Brutium Cosenza
Emilio Nigro, poeta, Cosenza
Luigi Gallo, docente, Cosenza
Valerio Formisani, medico, Cosenza
Antonio Curcio, bibliotecario, Cosenza
Maria Pia Funaro ingegnere ambientale, Cosenza
Rosanna Tedesco, docente, Liceo Classico Telesio
Giuseppe Bornino docente, Liceo Amantea
Antonio Romeo, docente, Liceo Classico Telesio
Simona Serra, docente, Liceo Fermi
Lisa Sorrentino, cittadina, Cosenza
Franca Garreffa, sociologa, Unical
Pino Scarpelli, cittadino, Cosenza
Maurizio Nuccio, avvocato Cosenza
Giusy Branda, docente ” Scorza” Cosenza
Francesco Cirillo, giornalista e scrittore
Andrea Bevacqua docente, IstC Cosenza
Pierluigi Grottola, docente Convitto Nazionale Telesio
Giorgio Marcello, sociologo, Unical
Eliodoro Loffreda, docente, Liceo Telesio
Giulia Fragale attivista, Cosenza
Francesco Morelli, cittadino, Cosenza
Maria Grazia Francesca Cavaliere, cittadina, Cosenza
Giuseppina Calvelli, cittadina, Cosenza
Patrizia Gallo, dottore commercialista, Cosenza
Sergio Crocco, Associazione Terra di Piero
Giuseppe Cirò, cittadino, Cosenza
Giovanni Sole, storico e antropologo, Unical
Ida Rende, sociologa, Cosenza
Loredana Bruselles, cittadina Cosenza
Massimo Sisca commerciante, Cosenza
Alessandro Iantorno cittadino, Cosenza
Paola Pietramala, matematico, Cosenza
Francesca Canino, giornalista, Cosenza
Eduardo Zumpano, storico, pres. Anppia Cosenza

Eolico. Siamo Sindaci o burattini? Si leva la voce dei primi cittadini italiani per una transizione energetica ecologica e democratica

Eolico. Siamo Sindaci o burattini? Si leva la voce dei primi cittadini italiani per una transizione energetica ecologica e democratica

Nel contesto autoritario nazionale e internazionale che si è creato i movimenti finanziari globali ( la cosiddetta “ volontà dei mercati “) determinano le decisioni dei governi e le leggi dei parlamenti. La transizione energetica si è avviata in Italia impedendo alle comunità locali da noi rappresentate di incidere sull’ubicazione degli impianti per la produzione di energia rinnovabile e su altri aspetti connessi, in grado di pregiudicare i già fragili equilibri dell’ambiente di insediamento delle nostre popolazioni.

La nostra osservazione comune è che ci troviamo nello stesso tempo di fronte a un sintomo e a una causa di aggravamento della crisi del sistema democratico. Per scongiurare la sindrome nimby, da tanti commentatori evocata e demonizzata quando danno conto delle diffuse proteste territoriali, la transizione energetica deve essere giusta, incardinata dentro percorsi politici e democratici e non può essere attuata in palese violazione del dettato costituzionale.

Grazie al rinnovato articolo 9 della Carta fondamentale, del patto fondativo che dal 1948 unisce gli italiani, la Repubblica tutela il paesaggio, gli ecosistemi e la biodiversità anche nell’interesse delle future generazioni. Nessun principio costituzionale può essere sacrificato per realizzarne un altro o, men che meno, per perseguire un contingente” prioritario interesse nazionale”: i singoli valori espressi e tutelati dalle disposizioni della Costituzione sono tutti assoluti e dello stesso rango, all’interno di un impianto complessivo orientato a promuovere la dignità della persona umana nel suo contesto ecologico e sociale.

Le leggi vigenti in materia energetica invece puntano a massimizzare i guadagni di un settore economico privato a scapito tra l’altro dei soldi versati al fisco dai cittadini. Noi sindaci chiediamo, interpretando la volontà del tessuto sociale dei luoghi da noi amministrati, che la produzione e la distribuzione dell’energia ridiventino un servizio pubblico essenziale: solo così la produzione energetica da fonti rinnovabili non sarà più insostenibile e non aggredirà il patrio suolo (con la sua funzione di fondamentale regolatore climatico), gli ecosistemi , la biodiversità e il paesaggio.

Solo enti pubblici collettivi, rappresentando l’interesse generale, potranno dedicarsi all’indispensabile passaggio dalle fonti fossili alle rinnovabili con interventi finalizzati alla riduzione degli sprechi energetici e all’utilizzazione in via primaria di suoli già consumati in tutta la nazione per l’ubicazione degli impianti (9000 chilometri quadrati secondo l’ ISPRA, una superficie grande quanto l’Umbria occupata da infrastrutture dismesse, capannoni agricoli e industriali, cave e miniere in disuso etc. , grazie alla quale si potrebbero abbondantemente superare gli 80 GigaWatt da raggiungere entro il 2030 ) .

I territori sono prima di tutto gli ambienti vitali di chi li abita, e non possono trasformarsi in zone di sacrificio assegnate alla monocultura energetica: devono essere vissuti dagli allevatori, dagli agricoltori, dagli apicoltori, da chi costruisce giorno per giorno un rapporto spirituale ed emotivo con il paesaggio, dagli operatori turistici, dai pescatori, insomma da tutte le categorie che noi rappresentiamo.

La crisi ecologica deve essere un’occasione per passare a una fase più avanzata della civiltà umana, per uscire tutti insieme da un dramma con un cambiamento di rotta, non un’ulteriore opportunità di guadagno per pochi nel solco già tracciato da un’economia anti ecologica, votata alla distruzione della vita e della bellezza del mondo.

Giulio Santopolo, sindaco di Petrizzi ( Catanzaro) ;
Michele Conía, sindaco di Cinquefrondi ( Reggio Calabria) e consigliere della Città
Metropolitana di Reggio Calabria ;
Giuseppe Cusato, sindaco di Agnana Calabra ( Reggio Calabria) ;
Luca Alessandro, sindaco di Polìa ( Vibo Valentia) ;
Domenico Stranieri, sindaco di Sant’Agata del Bianco (Reggio Calabria) ;
Angelo D’Angelis, sindaco di Serrata (Reggio Calabria) ;
Maurizio Onnis , sindaco di Villanovaforru (Sud Sardegna) ;
Mario Gentile, sindaco di Stalettì (Catanzaro) ;
DoNicolaenico Penna, sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) ;
Michele Tripodi, sindaco di Polistena (Reggio Calabria) ;
Giacomo Lombardo, sindaco di Ostana (Cuneo ) ;
Giuseppe Alfarano, sindaco di Camini (Reggio Calabria) ;
Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano ( Milano ) e consigliere
Metropolitano della città di Milano ;
Daniela Arfuso , sindaco di Cardeto (Reggio Calabria)
Luca Lepore, sindaco di Aiello ( Cosenza )
Nicola Fiorita, sindaco di Catanzaro
Antonio Lampasi, sindaco di Monterosso Calabro (Vibo Valentia)
Rossana Tassone. Sindaco di Brognaturo ( Vibo Valentia)
Danilo Staglianó , sindaco di Cardinale ( Catanzaro )
Alfredo Barillari, sindaco di Serra San Bruno ( Vibo Valentia)
Mimmo Donato, sindaco di Chiaravalle centrale ( Catanzaro )
Raffaella Perri, sindaco di Decollatura ( Catanzaro)

Appello per Capo Colonna a Crotone. L’Eni fermi i lavori.

Appello per Capo Colonna a Crotone. L’Eni fermi i lavori.

Le immagini della fenditura del terreno sempre più lunga, 12 metri, e sempre più larga, 40 centimetri, che ci giungono dal promontorio di Capo Colonna a Crotone ci preoccupano moltissimo. Ci preoccupano perché se è vero che il fenomeno dell’erosione e dei vistosi crolli del promontorio- sul quale sorgono il tempio di Hera Lacinia e l’abitato della colonia romana di Kroton- è noto da molto tempo, è vero, però, che questo fenomeno ha subìto un’accelerazione che sembra essere tutta di natura antropica.

Le caratteristiche geomorfologiche, litologiche, geostrutturali, idrologiche e geotecniche del promontorio determinano, in corrispondenza della falesia, distacchi di blocchi nella placca rigida silico-arenitica e calcarenitica. La suddetta placca poggia su un basamento argilloso molto erodibile per una serie di concause: scadenti caratteristiche geotecniche, sfavorevoli condizioni geostrutturali delle formazioni geologiche, presenza di circolazione idrica sotterranea in periodi piovosi, azioni chimiche dell’acqua marina sulle argille e l’alterazione prodotta da fattori antropici.

Siamo convinti che la circolazione idrica sotterranea, per iniziare, possa essere aumentata a seguito della mancata copertura dei molti scavi, non solo archeologici, che hanno messo allo scoperto le fondamenta dei monumenti, esponendoli agli eventi meteorici, all’erosione e allo slittamento della placca verso il mare.

Già in uno studio del 1998 si sosteneva che le alterazioni antropiche erano attribuibili alle vibrazioni per il passaggio di autoveicoli e alla concentrazione di turisti e pellegrini sul promontorio. Si immagini quante e quali vibrazioni hanno provocato, e provocano, le trivellazioni per la ricerca e l’estrazione del gas praticate, sulla terraferma ed in mare, da decenni per opera dell’Eni.

Allo stato attuale vi sono numerosi pozzi per l’estrazione del gas metano e tre piattaforme di proprietà dell’Eni che si ergono nelle immediate vicinanze dell’area marina protetta più grande d’Europa e di uno dei più importanti siti archeologici della Magna Grecia, il promontorio di Capo Colonna.

Le associazioni culturali di Crotone -come Italia Nostra, il Gak ed altre- cercano, da decenni, di fermare le trivellazioni che l’Eni, nel silenzio di tutte le amministrazioni comunali di Crotone, compie in mare e sulla terraferma a poche centinaia di metri addirittura dal promontorio di Capo Colonna, ma, finora, senza successo.

Si deve rilevare, altresì, che il problema qui esposto non sembra aver avuto sufficiente attenzione da parte della Soprintendenza Abap delle province di Catanzaro e Crotone nonché della direzione dei Musei e dei parchi archeologici di Sibari e Crotone a cui spetterebbe il compito di interrare o proteggere gli scavi effettuati e di tentare di fermare l’erosione e i distacchi mediante, per esempio, la costruzione di scogliere artificiali sotto forma di strutture modulari in cemento armato, posate e accostate sul fondale marino attorno al promontorio e, sul promontorio, di ‘cuciture’ realizzate costruendo reti di pali d’acciaio orizzontali.

I sottoscritti chiedono al Sindaco di Crotone, al presidente della Regione Calabria, al Ministero della Cultura, alla Soprintendenza Abap ed al direttore dei Musei e dei parchi di Sibari e Crotone di provare a far arrestare o, almeno, sospendere le trivellazioni dell’Eni nelle prossimità del promontorio e di provvedere con la massima urgenza alla salvaguardia di uno dei siti archeologici più importanti del Mediterraneo, ricordando che non può esserci valorizzazione senza la tutela dei monumenti o, come si sta rischiando in questo caso, senza i monumenti medesimi che potrebbero finire in mare.

Battista Sangineto, archeologo, Università della Calabria
Salvatore Settis, archeologo, già rettore Scuola Normale Superiore di Pisa
Tomaso Montanari, storico dell’arte, Rettore Università per stranieri di Siena
Piero Guzzo, archeologo, Accademia Nazionale dei Lincei e I.N.A.S.A.
Maria Teresa Iannelli, archeologa, già Soprintendenza archeologica Calabria
Roberto Spadea, archeologo, già Soprintendenza archeologica Calabria
Lucia Faedo, archeologa, già Università di Pisa
Paolo Liverani, archeologo, Università di Firenze
Franco Cambi, archeologo, Università di Siena
Maria Cecilia Parra, archeologa, già Università di Pisa
Paul Arthur, archeologo, Università del Salento
Teresa Liguori, professoressa, presidente sezione Italia Nostra Crotone
Anna Rotella, archeologa, vicepresidente sezione Italia Nostra Crotone
Vincenzo Fabiani direttore Gruppo Archeologico Krotoniate
Ferdinando Laghi, medico, consigliere Regione Calabria
Giuseppe Hyeraci, archeologo, Università di Napoli Suor Orsola Benincasa
Maria Cerzoso, archeologa, direttrice Museo dei Brettii e degli Enotri Cosenza
Bernarda Minniti, archeologa, Università di Genova
Fulvia Soffrè, già dir. Ammin., Soprintendenza archeologica della Calabria
Matteo Enìa, antropologo, Sapienza Università di Roma
Chiara Dodero, archeologa, Università di Genova
Anna Murmura, professoressa, presidente ArcheoClub sezione Vibo Valentia
Rocco Gangemi, architetto, delegato Ambiente FAI Calabria

foto da “il Crotonese” del 10 settembre 2024

Cosenza. Richiesta di estensione del vincolo paesaggistico.-di ‘Diritto alla città’

Cosenza. Richiesta di estensione del vincolo paesaggistico.-di ‘Diritto alla città’

Nel ribadire il nostro consenso per il vincolo da Voi recentemente proposto per la parte otto-novecentesca della città di Cosenza (in rosso nella TAV. I), noi Coordinamento ‘Diritto alla città’ riteniamo, altresì, che tale proposta si possa, e si debba, estendere e completare per mezzo di un vincolo storico, artistico e archeologico ai sensi del Dlg. 42/2002, art. 10, comprendendo, come già in precedenza richiesto e proposto con apposita planimetria (in blu nella TAV. I), anche un’altra area avente caratteristiche di tutela di rilievo paesaggistico ex Dlg. 42/2002 – Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte III – Beni paesaggistici, artt. 131-159, in relazione alla qualità degli ambiti e in ragione dei ritrovamenti archeologici emersi nel corso degli ultimi cento anni.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento dell’area per la quale necessita della tutela paesaggistica, per i motivi esposti e in seguito ulteriormente approfonditi nel presente testo, perimetra:
Il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio.

Prosegue lungo tale arteria in continuazione per risalire su via Cesare Marini, fino all’incrocio con Corso Giuseppe Mazzini.
Risale su tale arteria per giungere a Piazza Carlo Bilotti fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri.
Da tale traversa scende verso Est fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini per poi proseguire in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.
Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato (TAV. I).

Si ribadisce che tutta l’area delle due rive del fiume Crati è interessata da rinvenimenti archeologici (TAV. II con relativo elenco), come dimostrato anche dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia, posto a Nord-Est del Centro commerciale “I due Fiumi” nelle dirette adiacenze. È molto probabile che in tale area, a partire dal Centro storico e procedendo in direzione Nord, sia stato posto il tracciato della via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Si deve ricordare, per sovrappiù, che la denominazione per tale importante asse stradale nella toponomastica cittadina di Via Popilia, in sostituzione di Via Milano, fu assegnata con Delibera del Consiglio Comunale del 20 gennaio 1955 e successiva approvazione prefettizia del 12 Marzo 1955: “Nulla osta sentita la Soprintendenza ai Monumenti ed alle Gallerie della Calabria” (Allegata Delibera Consiliare), proprio all’arteria viaria che correva parallela alla riva sinistra del Crati costituente, quest’ultima, l’area più vicina alla tumultuosa urbanizzazione del secondo dopoguerra.

Tale denominazione, documenta che negli amministratori di più di 70 anni or sono era viva e percepita come profondamente identitaria la tradizione storica bimillenaria dell’antica via consolare che, secondo gli scrittori antichi e gli studiosi moderni e contemporanei, affiancava la riva sinistra del Crati.

Del resto, come puntualmente dimostra la planimetria (TAV. II) dei rinvenimenti archeologici effettuati dall’inizio del XX secolo e fino ai giorni nostri (A. B. Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie, XXXVII , 2014 (2016), pp. 157-182.), tutta l’area è potenzialmente interessata da siti archeologici che necessitano non solo di adeguata protezione e tutela paesaggistica, ma anche di tutela archeologica diretta.
I siti e le segnalazioni di rinvenimenti archeologici nell’area sulla riva sinistra del Crati, in accordo con la numerazione della planimetria allegata (TAV. II), sono i seguenti:

2 = Località: SAN DOMENICO – VIA PIANA (attuale via S. Quattromani), probabile necropoli di epoca ellenistica;
12 = EX STAZIONE FF.SS. (attuale P.zza Mancini), presenza di tombe risalenti all’epoca romana;
13 = RIVOCATI, Edoardo Galli segnalava, in più punti, avanzi di strutture antiche;
22 = PIAZZA RIFORMA, durante i lavori di spianamento della strada, che conduce al convento dei Padri Riformati e prosegue nella zona di Cardopiano, vennero ritrovati pavimenti in mosaico. Anche nell’area del primitivo sito delle monache di S. Chiara venne dissotterrato un monumento;
25 = PIAZZA XX SETTEMBRE, Resti di tombe e di un’epigrafe sepolcrale;
26 = VIA MONTESANTO, durante la costruzione di alcuni edifici, ancora esistenti, vennero rinvenute, in corrispondenza di palazzo Cipparrone, alcune tombe databili al II a.C.;
27 = CORSO MAZZINI, durante la costruzione della Banca Commerciale, emerse del materiale archeologico costituito da: laterizi, monete e numerosi oggetti di uso comune di epoca ellenistica e romana;
28 = PETRARA (attuale area p. Mancini – via Catanzaro), furono rinvenuti resti di tombe, a sinistra del Crati, con probabile presenza di un anfiteatro;
29 = LOC. “CANNUZZE”, rinvenimento di una brocchetta del tipo “oinophoros” databile alla fine del III d.C. (ora al Museo dei Brettii e degli Enotri), alla confluenza del torrente Rovella con il Crati. Nella stessa località vennero ritrovati, inoltre, un contenitore di bronzo e un oggetto chirurgico, forse un bisturi, sempre in bronzo;
30 = RIFORMA – CARDOPIANO, nei primi anni del ‘900 il Galli afferma che in questa area (Riforma- Cardopiano) venne ritrovato un miliario in frantumi, oggi disperso;
32 = COLLINA DI MOJO (o Moio), nel 1933, durante i lavori per la costruzione dell’attuale Ospedale Civile dell’Annunziata, vennero ritrovate delle tombe, circa 70, appartenenti ad una necropoli di età brettia (IV – III a.C.).
(Si rimanda alla Tav. II – siti archeologici con legenda completa sui ritrovamenti).

Avendo le indagini archeologiche, condotte in Italia e nel bacino del Mediterraneo, dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei riteniamo che sia del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area già sopra descritta.

Si ricorda che, secondo le norme Dlg. 42/2004 e s.m.i. art. 10, in casi di questa natura e rilevanza è necessario effettuare ricerche di archeologia preventiva (D. Lgs. 50/2016, art. 25) su entrambe le rive del Crati in occasione di ristrutturazioni edilizie, di costruzioni ex novo di edifici, nonché di infrastrutture e sottoservizi pubblici e privati. Il tutto per evitare che beni archeologici possano essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione (Dlg. 42/2004 e S.M.I., art. 20, c. 1).

Nel complesso il sistema edilizio della città appare ancora in parte conservato, seppur fortemente condizionato in quest’area da interventi di trasformazione che ne hanno totalmente modificato la consistenza compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee. Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità delle aree già sottoposte a tutela paesaggistica.

Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana, architettonica e paesaggistica del contesto.
Tale condizione discende dal riconoscimento di notevole interesse pubblico di entrambe le aree, sia quella da Voi proposta e sia questa che comprende le rive del Crati, aventi come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie avviate sin dall’antichità romana.

Pertanto, si ribadisce che, per i motivi esposti si debba estendere all’area richiamata e perimetrata, riportata nella Tav. I, le caratteristiche di tutela di interesse paesaggistico ex D.lgs. 42/2002 – Codice dei beni culturali e del paesaggio, Parte III – Beni paesaggistici, artt. 131-159, in relazione alla qualità degli ambiti e in ragione dei ritrovamenti archeologici emersi.

Coordinamento ‘Diritto alla città’

No all’ondata edilizia speculativa a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

No all’ondata edilizia speculativa a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Il coordinamento “Diritto alla Città” (un insieme di associazioni cosentine, di cittadini, di soggetti formali ed informali) rivendica da tempo il diritto di contribuire alle decisioni riguardanti la città e il quartiere in cui vivono per salvaguardare il patrimonio territoriale inteso come bene comune, e più volte hanno espresso una domanda di nuove forme di democrazia partecipativa.

Soprattutto ha denunciato con forza i rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta su Cosenza negli ultimi anni e anche più recentemente: demolizione di edifici storici come quello primo-novecentesco di piazza Santa Teresa, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati ecc., inutili per la collettività. L’edificazione sulle rive del Crati sarà, a termine di legge, oggetto delle nostre osservazioni al vincolo paesaggistico della Soprintendenza che riteniamo, come avevamo già proposto, debba essere esteso ad entrambe le rive del fiume suddetto.

Decisioni di politiche urbanistiche di piccolo cabotaggio, meramente distruttive, avvolte da una inestricabile ragnatela di omissioni, sparizioni di atti, rimandi a presunte altre responsabilità, sempre eterodirette, comunque prese dalle varie amministrazioni comunali che si sono succedute, costituenti in ogni caso il prodotto di logiche di sviluppo cittadino fondate sulla produzione di profitto, sul calcolo utilitaristico, di interessi privatissimi e inconfessabili, sulla mancanza di qualsiasi idea di comunità locale.

Prendiamo il caso del nuovo PSC – Piano Strutturale Comunale, peraltro parzialmente pubblicato solo dopo nostre formali richieste, che, nonostante alcuni buoni propositi, appare in realtà il contenitore della precedente Amministrazione contenente i vecchi progetti che erano molto diversi tra loro (aumenti di volumetria e consumo di suolo, ristrutturazione di edifici e piazze, arredi urbani, i soliti e ormai irrispettosi murales sulle case popolari) e elaborati secondo una concezione che vede la nostra città solo come fonte di rendita e profitto dimenticandosi che Cosenza è un luogo abitato da uomini e donne, espressione di bisogni e relazioni.

Ci sarebbero oggi tutti gli elementi- politici, culturali, di innovazione economica, di composizione sociale (la città negli ultimi 10 anni è totalmente cambiata) per dare il via ad un’ampia e pubblica discussione tra cittadini, associazioni e istituzioni su come vivere tutti meglio a Cosenza. Avviare i laboratori di quartiere (come formalmente da noi chiesto e come obbligatorio per legge) sarebbe un guadagno per tutti: incontro tra le forme autonome di autorganizzazione dei cittadini e le esigenze dell’amministrazione, spostamenti in basso dei poteri e dei processi decisionali (è o non è una giunta di centrosinistra?), favorire l’affermarsi di un’idea di una città che abbia in mente la cura e la crescita di tutta la comunità locale e non solo dei soggetti economici privati.

Il Sindaco, invece, ha scelto la strada del rifiuto del dialogo: è chiaro che il modello Caruso, nonostante il suo programma elettorale, è quello secondo cui i politici decidono e i cittadini tacciono. Ne è riprova il fatto che pur essendo scaduto il termine previsto dalla legge, nessuna risposta ci è pervenuta alla nostra richiesta di accesso agli atti relativa all’abbattimento di un edificio su Corso Umberto (ma poi, se questa ennesima per noi scriteriata edificazione in atto ha le carte in regola perché, allora, non concedere l’accesso agli atti, peraltro non negabile per legge. Forse perché non segue, davvero, nemmeno i criteri di legge oltre che quelli del buon senso e del rispetto della collettività?).

Eppure eravamo stati lieti delle dichiarazioni dell’assessore Incarnato di impedire la costruzione di nuovi ecomostri anche alla luce dell’apposizione del vincolo paesaggistico e alla dichiarazione di “notevole interesse pubblico” dell’area 8/900esca cosentina fortemente perseguito nei mesi scorsi dal Coordinamento, e di avviare un percorso di confronto e di interlocuzione con le Soprintendenze e gli Ordini degli Architetti e degli Ingegneri. Ma evidentemente vale il detto “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno”. D’altra parte una piccola e civile richiesta di accesso civico, che in qualsiasi altra città del mondo occidentale sarebbe stata prontamente evasa, alle nostre latitudini diventa l’ennesimo episodio di scostumatezza civica, di arroganza e mal governo.

È quasi certo che il PSC alla fine sarà ratificato secondo quanto pattuito fra poteri forti e che su Corso Umberto sorgerà l’ennesimo ecomostro. Ciononostante chiediamo ancora e con più forza l’istituzione dei laboratori di quartiere e chiediamo all’assessore Incarnato e al Sindaco di includere nel costituendo tavolo tecnico-istituzionale anche la parte sociale (nello specifico il Coordinamento): riqualificare fisicamente il quartiere senza mettere in campo azioni interdisciplinari e senza coinvolgere gli abitanti sarebbe, con tutta evidenza, un’ipocrisia.

Questo modello, deliberare senza ascoltare, consultare e, tantomeno, conoscere, sopprimere le legittime istanze delle associazioni culturali dei cittadini, non ci piace perché non è democratico.

Per ultimo: non sempre chi vince ha ragione e soprattutto non sarà la mancata risposta ad una più che legittima richiesta di accesso agli atti a far cambiare le nostre idee e fermare le nostre azioni. Siamo più che convinti che un’altra città, un altro modo di stare insieme è possibile, e sappiamo che bisogna costruirlo giorno dopo giorno, nelle strade, nelle piazze, nei teatri, nelle case delle culture, nelle ludoteche, nelle città dei ragazzi, dal basso. Offriamo collaborazione: fare e agire insieme e tramite ciò realizzare una città migliore per sé e per gli altri, un modo per affermare il sacrosanto diritto dei cosentini alla partecipazione attiva alla vita cittadina, al rispetto delle regole, alla bellezza e alla felicità.

Chiudiamo intanto con qualche domanda diretta al Sindaco Caruso e all’assessore Incarnato:
– come mai non avete istituito i laboratori di quartiere malgrado sia obbligatorio per legge e malgrado ve lo abbiamo chiesto formalmente già da circa 4 mesi?
– come mai non consentite l’accesso agli atti per un semplice titolo edilizio di una palazzina realizzata da un privato che utilizza fondi pubblici?
– come mai vi preoccupate di assegnare incarichi retribuiti per studiare come riqualificare il centro storico e ignorate la presenza delle associazioni di quartiere che offrono collaborazione senza aggravio di costi per il Comune?

Cosenza, 25 luglio 2024 Coordinamento ‘Diritto alla città’

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Una nuova violenza alla qualità della vita della nostra città si sta consumando in questi giorni, in queste ore. È infatti in corso l’abbattimento di un edificio su Corso Umberto nel quartiere storico Riforma – Rivocati (il caso vuole iniziato nella distrazione generale di un fine settimana) probabilmente per fare posto ad un altro ecomostro, come i due già esistenti, in sfregio a qualsiasi idea urbanistica e a qualsiasi senso del decoro e della bellezza.

Per avere notizie sulle procedure che hanno portato all’abbattimento dell’edificio, abbiamo già inviato una richiesta di accesso agli atti alle autorità competenti e ci auguriamo che siano accertate regolarità, trasparenza e legittimità. Su quanto invece dovrà sorgere vogliamo esercitare tutto il nostro potere di cittadini e abitanti preoccupati: visti i precedenti, come sarà riempito quel vuoto?

Chiediamo alla politica, alle associazioni che hanno ottenuto importanti e legittimi finanziamenti per la rigenerazione del quartiere, in particolare al nostro Sindaco che recentemente ha dichiarato che “sta prendendo forma la città bella e armonica che ho promesso” di farci capire, di prendere posizione, di mettere in campo tutte le azioni a tutela dalla collettività, compresa la richiesta di parere alla Soprintendenza, affinché non venga realizzato un altro ecomostro come quelli già esistenti nell’area ma edifici che rispettino le leggi cogenti in materia di urbanistica, sicurezza e efficientamento energetico.

E chiediamo pure al presidente dell’ANCE (associazione costruttori) di Cosenza di responsabilizzare tutti gli attori della filiera edilizia per preservare il tessuto urbano ereditato e veicolare il concetto che fare profitto in edilizia si concilia soltanto con il massimo sforzo in termini di qualità del costruito, generando pure benessere per tutti, piuttosto che realizzando palazzoni deformi e totalmente decontestualizzati.

Allo stesso modo invitiamo i presidenti degli Ordini Provinciali degli Ingegneri e degli Architetti di Cosenza a far rispettare i principi cardine dei rispettivi Codici Deontologici che prevedono doveri e responsabilità (di ingegneri, architetti, paesaggisti) nei confronti della collettività, dell’ambiente e del benessere delle persone.

Vogliamo evidenziare l’importanza della qualità architettonica e dell’inserimento del nuovo nel contesto del paesaggio urbano, aspetto, questo, decisamente trascurato nei due casi di edifici abnormi di recente costruzione, e ciò malgrado siano sorti in un’area di valenza storica largamente riconosciuta, non a caso oggetto di recente approvazione del vincolo paesaggistico.

Il Coordinamento Diritto alla Città rivendica l’adozione di ogni provvedimento di legge finalizzato alla massima tutela della qualità del costruito da parte degli Enti preposti, ricordando che ogni nuovo ecomostro deturpa per sempre la città. Siamo ancora in tempo per arrestare l’ennesimo obbrobrio, è il momento di dire basta agli ecomostri a Cosenza.

Comunicato stampa del
COORDINAMENTO ‘DIRITTO ALLA CITTA’

AUSER TERRITORIALE COSENZA ETS
CIROMA
CIVICA AMICA APS
CONFEDERAZIONE ITALIANA GENERALE LAVORATORI (CGIL) di COSENZA
LA BASE
PRENDOCASA
RI-FORMAP APS
RIFORMA – RIVOCATI APS
UNIONE SINDACALE di BASE (USB) FEDERAZIONE di COSENZA

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

In tutta Italia sta emergendo una critica incessante e capillare alla diffusione delle energie rinnovabili, in particolare rispetto al solare e all’eolico. Paradossalmente, questa critica proviene in questo momento storico proprio da una parte significativa del mondo ambientalista. È come se persone impegnate da tanti anni in difesa dell’ambiente avessero dimenticato che dobbiamo uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili che ancora rappresentano nel nostro Paese oltre la metà della produzione di energia, pari al 56 per cento del totale dell’energia prodotta.

Certo, l’Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni nel campo delle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolico. Ma, dobbiamo ancora avanzare nella sostituzione dei combustibili fossili, che vergognosamente ricevono notevoli contributi pubblici, anche per gli impegni presi a livello internazionale ed europeo.

Le critiche mosse da una parte del movimento ambientalista, da alcuni noti intellettuali, hanno un fondamento che non va sottovalutato. Questa crescita degli impianti eolici e solari è avvenuta molte volte senza un criterio, sfruttando incentivi e la mancanza di una pianificazione territoriale. Importanti estensioni di terreno sono state sottratte all’agricoltura per essere utilizzate da una miriade di pannelli solari.

Così come impianti eolici in località che hanno una particolare valenza paesaggistica sono stati installati senza tenerne conto. Va detto con chiarezza: non bisogna fermare la crescita degli impianti solari ed eolici, ma bisogna che questo sviluppo avvenga all’interno di una pianificazione sul piano regionale. I pannelli solari vanno messi sugli edifici, ad iniziare da quelli pubblici (scuole, ospedali, ecc.) e vanno collegati (questo è uno scandalo di cui poco si parla, frutto della sciatteria di alcuni enti locali, e di cui potrei fornire un vergognoso elenco).

Gli impianti eolici vanno impiantati dopo uno studio attento e possibilmente, là dove ci sono le condizioni, vanno messi off shore. Chi scrive, in qualità di presidente del Parco Nazionale Aspromonte promosse il primo parco eolico in Italia all’interno di una area protetta, dopo aver avuto il supporto delle principali associazioni ambientaliste, infischiandosene dei soliti Sgarbi, Ripa di Meana e compagnia blasé che nelle pale eoliche avevano visto i mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia.

Infine, vanno moltiplicate le iniziative che vanno nella direzione del risparmio e della gestione migliore dell’energia da fonti rinnovabili come avviene con le “Comunità energetiche”, che andrebbero promosse dovunque come giustamente affermava su questo giornale l’ingegnere Piero Polimeri qualche giorno fa.

E veniamo al dibattito che si è sviluppato in Calabria nell’ultimo anno. Diversi interventi critici sull’avanzata degli impianti solari ed eolici hanno sottolineato il fatto che la Calabria consuma meno energia di quella che produce, e quindi non avrebbe senso continuare a installare impianti per le rinnovabili. Intanto va subito chiarito che questo surplus energetico è dovuto alla presenza della centrale termoelettrica di Rossano, senza la quale dovremmo importare energia dalle altre regioni.

Pertanto, se vogliamo essere veramente indipendenti dal petrolio dobbiamo aumentare la produzione di energia rinnovabile. Ma, soprattutto, ragionare in questo modo fa il paio con chi sostiene l’autonomia differenziata, ovvero guardare al proprio territorio fregandosene del contesto nazionale. Il Mezzogiorno nel suo complesso produce oggi oltre il 90% dell’energia eolica che viene messa in rete e intorno al 45% dell’energia solare. In una logica di autonomia differenziata si dovrebbe dire basta: non mettiamo più pale eoliche nel territorio meridionale.

Se invece superiamo la logica dell’egoismo territorialista allora possiamo far pesare questo grande contributo alla transizione green che sta dando il nostro Sud, rivendicando una logica nazionale anche per la sanità, la scuola, ecc. O siamo un Paese con obiettivi condivisi e camminiamo nella stessa direzione dando a tutti i cittadini gli stessi diritti fondamentali o ritorniamo agli statarelli già condannati dal “grande fiorentino”: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2024

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Un vero e proprio giallo, un ‘cold case’ il libro che ha scritto Gino Famiglietti sull’ormai famosa ‘scure letterata’ del VI secolo a.C. di San Sosti (CS), per le edizioni Scienze e Lettere.
Un giallo che, come molti fra quelli contemporanei, alterna i capitoli delle vicende del ritrovamento e dello studio della scure bronzea nel XIX secolo ai capitoli con la storia dei tentativi di farsela restituire dal British Museum dove andò a finire, a partire dalla fine del XX secolo.

Un giallo costruito à la manière de Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto” e, più recentemente, di Camilleri ne “La concessione del telefono”, con tanto di documenti, carte bollate, decreti legislativi, ministri più o meno sempiterni e parlamentari, dirigenti e funzionari ministeriali prima borbonici, poi dell’Italia unita e, infine, della Repubblica, affascinanti mercanti d’arte, gentlemen inglesi e del Grand Tour e Musei d’oltremanica, archeologi non troppo fedeli alla tutela del Patrimonio e altri inflessibili difensori. E non mancano sindaci, dotti aristocratici, canonici, studiosi locali o ricchi possidenti che collezionano monete e oggetti antichi pur non sapendone un “frullo” a partire dalla metà dell’800 fino aujourd’hui.

Il caso si apre, come spesso accade nei gialli ben costruiti, con il ritrovamento fortuito, nel 1846, in una località piuttosto impervia e di considerevole altitudine, Casalini della Porta della Serra di San Sosti di una scure-martello in bronzo che reca incisa su una delle facce un’epigrafe redatta in dialetto dorico ed in alfabeto acheo, databile al VI secolo a.C. più esattamente fra la metà e la fine del VI a.C. Il sito del rinvenimento, secondo il canonico Leopoldo Pagano che nel 1857 ne scrive in un opuscoletto, è un’area disabitata e piena di ruderi, forse destinata ad usi civici, a 3 miglia dalla località S. Agata, nei Casalini della Porta della montagna della Serra di fronte al santuario del Pettoruto.

L’iscrizione dedicatoria viene tradotta, nel 1969, dalla grande epigrafista Margherita Guarducci in questo modo: “Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kyniskòs mi dedicò, lo àrtamos (secondo Giovanni Pugliese Carratelli il vittimario), come decima (tributo) dei (suoi) lavori”. Un’iscrizione interessante sia per la forma letteraria dell’iscrizione che fa propendere per una provenienza sibarita dell’oggetto sia per quel che dice, perché indica chiaramente la presenza di un tempio dedicato ad Hera in una pianura, probabilmente un luogo pianeggiante, finora non individuato precisamente neanche dalle ricerche archeologiche più recenti, della Valle del Crati.

Le ultime ricerche archeologiche pubblicate da Domenico Marino e Carmelo Colelli indicano come tutta l’area fosse profondamente antropizzata a partire da epoca protostorica e lo è stata fino alla fine dell’antichità come dimostrano gli scavi stratigrafici condotti nel Centro storico di San Sosti (chiesa del Carmine e Castello della Rocca) e ai Casalini dai quali proviene l’ascia. La presenza di edifici databili fra l’VIII ed il V secolo a.C. e, soprattutto l’ascia, provano la grande espansione e la forte influenza di Sibari su questo territorio che è, in sostanza, il corridoio naturale verso il Tirreno, vitale per la colonia greca. Riguardo all’ubicazione del tempio di Hera in pianura citato nell’iscrizione si ipotizza un’ubicazione sulla riva sinistra del torrente Rosa lungo la quale si trovano tracce consistenti di piccoli luoghi di culto databili fra il VI, appunto, ed il III secolo a.C.

Il certosino lavoro d’archivio di Famiglietti ricostruisce -grazie alla esemplare contestualizzazione storica, politica, culturale e sociale dei documenti- la vicenda del ritrovamento, dello studio preliminare dell’ascia e del suo arrivo a Napoli e a Roma, prima, e della sua esportazione all’estero, poi.

S’inizia con una lettera, finora inedita, del 1852 che l’aristocratico studioso vibonese – anzi monteleonese- Vito Capialbi invia al suo amico Giulio Minervini, eminente antichista, soprattutto epigrafista, napoletano informandolo del ritrovamento dell’ascia. È il primo documento, forse con un disegno del reperto, in cui si nomina e si descrive minutamente la scure che pesa un rotolo (890 gr. ca.) così come viene riferito a Capialbi da un corrispondente del luogo che lui stesso dice non essere molto esperto.

Capialbi e Minervini sono legati da una serie di conoscenze comuni e dall’essere entrambi soci della ‘Reale Accademia Ercolanense’, una Istituzione fondata da Carlo di Borbone che avrà un ruolo decisivo nell’applicazione dei successivi reali decreti borbonici di Ferdinando che il 14 maggio del 1822 -subito dopo la Restaurazione imposta con il Congresso di Vienna- dotò il regno di un strumento giuridico per la tutela del Patrimonio artistico e archeologico, ispirato e migliorativo dell’editto Pacca emesso nel 1820 dal Vaticano.

Nella fitta corrispondenza fra i due, Capialbi sollecita l’amico e collega Minervini a pubblicare la scure perché ritiene che sia il più qualificato a farlo a causa delle sue riconosciute doti di epigrafista. Si deve ricordare che -a cavallo fra l’Italia preunitaria e quella della prima era postunitaria- c’era una serie di figure di importanti archeologi che si erano formati in Germania dove la disciplina era più avanzata, soprattutto la storia dell’arte antica, l’”altertumswissenschaft”, che era stata fondata da Johan Joachim Winckelmann nella seconda metà del XVIII secolo. Fra queste figure di rilievo – insieme a Fiorelli, Conestabile della Staffa, Salinas e Fabretti – c’era proprio Giulio Minervini.

Nel febbraio 1853 Capialbi riceve, finalmente, la risposta tanto attesa da Minervini che lo informa di aver pubblicato l’articolo “La scure di bronzo, con greca iscrizione” che sarebbe uscito sul ‘Bullettino archeologico neapolitano’ nel marzo del 1853 corredato da uno straordinario disegno, quello della copertina del libro, di Giuseppe Abbate, ‘Primo disegnatore dei Reali Scavi di Pompei’.

Bisogna sottolineare che la pubblicazione delle notizie sulla scure, oltre a favorire la circolazione presso la comunità scientifica, si poteva considerare la catalogazione scientifica ufficiale del reperto che in tal modo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto reale del 14.05.1822, la rendeva inesportabile perché era “rilevante per l’istruzione e il decoro della nazione”.

Il problema vero di questo straordinario oggetto era, ed è, che Capialbi non sapeva chi lo possedesse e, nonostante i suoi numerosi tentativi, non riuscì mai a venirne a conoscenza e, neanche, ad acquistarlo per “salvarlo”. Secondo alcune fonti il prezioso reperto era nelle mani di uno dei maggiorenti di San Sosti che esercitavano un potere assoluto e sopraffattorio sull’intera comunità del comprensorio. In ogni caso, secondo il suddetto Decreto reale, il rinvenimento fortuito, pur rimanendo di proprietà dello scopritore, avrebbe comunque dovuto essere oggetto di segnalazione da parte del Sindaco all’intendente della Provincia che avrebbe dovuto, a sua volta, segnalarlo al direttore del Reale Museo borbonico.

Giulio Minervini lo pubblica, ma non fa, neanche lui, una formale segnalazione al direttore del Reale Museo con la conseguenza che del prezioso reperto non si saprà più nulla per quasi 3 decenni, fino a quando riappare nell’asta, a Parigi, della vendita della collezione appartenuta al famoso antiquario romano Alessandro Castellani. In questo trentennio cambiano radicalmente, è vero, gli assetti politici, economici, culturali e sociali con l’Unità, ma, nel territorio di ogni Stato preunitario, rimangono in vigore, fra le altre, le leggi riguardanti la tutela e la salvaguardia del Patrimonio culturale compreso il divieto di esportazione di oggetti ritenuti “rilevanti per l’istruzione e il decoro della nazione”.

L’antiquario Castellani, che dal 1862 si era stabilito a Napoli, intesse rapporti con il bel mondo aristocratico, alto borghese e intellettuale partenopeo allo scopo di procacciarsi venditori, compratori e anche validi ‘expertiseur’ d’arte e antichità. Felice Barnabei, importante archeologo e dirigente statale della fine dell’800, lo descrive in un suo libro (“Le memorie di un archeologo”) come il più grande mercante di antichità e compratore di anticaglie che lui avesse conosciuto, ma anche come un personaggio affascinante, un liberale che aveva partecipato, a Roma, ai moti del 1848 ed era stato arrestato. Un uomo di mondo, insomma, che si teneva buoni e acquiescenti, e forse conniventi, le autorità preposte alla tutela e i controllori del suo commercio illegale di beni archeologici.

L’affascinante antiquario stringe amicizia con Minervini che, dopo l’Unità, è nella fase declinante della sua carriera passata al servizio dei Borbone. Non accetta di andare ad insegnare all’Università perché è convinto che verrà nominato Direttore di quello che ora si chiama Museo Nazionale di antichità e belle arti, ma alla morte del vecchio direttore, il principe Spinelli, il ministro Amari, nomina, invece, Giuseppe Fiorelli, di provata fede liberale tanto da essere arrestato durante i moti del ’48. Minervini viene a trovarsi, dunque, in difficoltà economiche e deve guadagnarsi da vivere sfruttando le sue conoscenze scientifiche e le sue relazioni sociali come quella con il mercante Castellani. Sulla base di alcune lettere che invia al mercante, si può inferire che si fosse stabilita una sorta di ‘entente cordiale’ fra i due a proposito della compravendita di oggetti antichi fra i quali avrebbe potuto esserci, forse, anche la nostra ascia.

Si può ipotizzare che Castellani, venuto a conoscenza dell’esistenza della preziosa scure bronzea pubblicata sul “Bullettino” da Minervini, abbia voluto comprarla a causa non solo della ricchezza delle decorazioni e dell’antichità dell’iscrizione, ma soprattutto a causa del colore del materiale con il quale era realizzata: l’oricalco, ovvero bronzo sottoposto a doratura con una particolare tecnica che gliene ricordava una elaborata proprio nella sua famiglia. Famiglietti ci mette, acutamente, a conoscenza che il padre, Fortunato Pio Castellani, aveva messo a punto, negli anni ’20 dell’800, un processo chimico per ottenere una patinatura dell’oro e del bronzo che dava ai metalli un inalterabile colore giallo chiaro come quello dell’ascia di S. Sosti.

Nel 1870 Castellani torna a Roma, passando il 20 settembre da Porta Pia al seguito del generale Cadorna e, subito, ottiene un posto nella Commissione per la conservazione degli istituti culturali della città, mentre il fratello Augusto entra nella Giunta per la città di Roma.

Nel 1883 Castellani muore e il figlio Torquato si dà da fare per vendere le raccolte di oggetti d’arte antichi nelle case di Roma e Parigi. L’asta, con 4.000 oggetti, di Roma è programmata per il 17 marzo 1884, ma quella che più interessa a noi è quella di Parigi che si svolge dal 12 al 14 maggio 1884 con ben 682 oggetti che erano stati portati, come dice il catalogo parigino, da ‘longtemps’ nella capitale francese a dispetto delle leggi borboniche e vaticane che ne impedivano l’espatrio. Nel catalogo, con il numero 311, compare la nostra ‘hache grecque votive’.

Essendo che l’ascia è citata, in uno studio epigrafico, come presente a Roma nel 1882, mentre già nel 1884 è a Parigi, dobbiamo desumere che in questo breve lasso di tempo, Castellani o suo figlio Torquato, l’avessero portata nella capitale francese e siccome presso l’Archivio Centrale dello Stato non c’è traccia di autorizzazione all’espatrio della scure bronzea ne discende che quest’ultima sia stata esportata illegalmente.

Ad acquistarla nell’asta parigina del 1884, per conto del British Museum, è sir Charles Thomas Newton, già direttore delle antichità del museo e professore di archeologia alla London University, per 5.000 franchi. Dobbiamo aggiungere che sir Charles era intimo amico di Castellani anche perché aveva comprato, per rifornire il British, molte ‘anticaglie’ da lui.

La storia, impeccabilmente ricostruita dall’autore, dei tentativi di riprendersi la preziosa ascia votiva inizia nel 1996 quando il sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, si accorge che l’ascia è nel catalogo della grande mostra “I Greci e l’Occidente’, tenutasi a Palazzo Grassi a Venezia, proveniente dal British Museum e scrive al Ministro Antonio Paolucci chiedendogli di intervenire in un qualche modo, ma a giugno 1996 cade il governo e la XII legislatura. Nel settembre 1996 l’on. Romano Carratelli interroga il nuovo ministro Veltroni, stigmatizzando la colpevole inerzia dello Stato italiano, a proposito della scure-martello in bronzo proveniente da San Sosti, ma questa interrogazione rimane senza risposta. Seguiranno ben altre tre interrogazioni: nel 2016 di Franco Bruno al ministro Franceschini; nell’ottobre 2019 interrogazione di nuovo a Franceschini di Wanda Ferro e altri; nel dicembre del 2019 nuova interrogazione a Franceschini da parte di Margherita Corrado e altri.

Solo nel 24 luglio 2020, Franceschini, per la prima volta, risponde per iscritto all’interrogazione della Ferro dicendo che la risonanza e il buon esito dell’asta parigina del 1884 significava che era tutto regolare e quindi “non esistono presupposti giuridici che possano sostanziare una rivendicazione del bene da parte dell’Italia”. Il ministro, insomma, non voleva saperne di avventurarsi in una lunga e defatigante trattativa con il British Museum.

Famiglietti riassume, per concludere, la situazione per i capi principali: il rinvenimento fortuito in una località della Calabria viene, anche se in maniera contorta, catalogato e reso di pubblico dominio da Capialbi e da Minervini come “bene che riguarda il decoro ed il prestigio della nazione”, e dunque non esportabile secondo il reale decreto del 14 maggio 1822. La proprietà del bene rimane dello scopritore, ma la proprietà privata non interferisce con il divieto di esportazione. Lo status giuridico della scure, acquisito secondo la normativa borbonica, rimane tale dopo la sua migrazione a Roma, avvenuta nel 1870, perché nell’ex stato della Chiesa perduravano le disposizioni dettate dall’editto Pacca del 1820 che vietavano, anch’esse, l’esportazione.

L’autore -da raffinato giurista e, soprattutto, da strenuo difensore del Patrimonio culturale nazionale- indica a noi cittadini italiani e, in particolare, a noi calabresi un’ipotetica, ma praticabile, via legale da percorrere: l’adozione, da parte della competente autorità giudiziaria (a mio giudizio la Procura della Repubblica presso il competente, per territorio, Tribunale di Cosenza), di un decreto che disponga la confisca della scure e la sua restituzione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 aprile 2024

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.

In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.

Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.

Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?

Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?

E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?

Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.

La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.

Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?

La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.

Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.

dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

I Commissari del Comune di Rende hanno proceduto, da sabato mattina 27 gennaio 2024, al taglio dei Pini quasi secolari lungo via Don Minzoni. Giova ricordare che contro l’ennesimo abbattimento di alberi in questa città si erano espressi molti cittadini, Associazioni, Movimenti e Partiti, ma coloro che amministrano, pro tempore, il Comune non hanno sentito ragioni, hanno voluto, comunque, eseguire la delibera della Giunta precedente che aveva previsto e progettato la deforestazione di questa via a partire da nord verso sud.

A nulla è servito il colloquio chiesto e ottenuto, martedì 23 gennaio, da alcune Associazioni e Partiti con la sub-commissaria, dottoressa Rosa Correale, che aveva assicurato ai convenuti che avrebbe valutato attentamente le ragioni tecniche e politiche esposte da questi ultimi prima di procedere al taglio indiscriminato dei pini. Sabato mattina la ditta incaricata ha, invece, iniziato a tagliare gli alberi come da disposizione commissariale.

Le nostre città, ormai, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, con la sola, lodevole e notevole, eccezione di Rende.

Una città che era stata concepita, dagli anni ’60 del ‘900, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di verde-che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico e privato, con il cemento e l’asfalto. Con questi tagli, insieme a quelli già operati in Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni, si vuole ridurre anche Rende ad una città spoglia e senza alberi, ad un’isola di calore al pari di tutte le altre città della Calabria e del Mezzogiorno.

Un recentissimo studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, “Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities”, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura.

Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI (Urban Heat Island), sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi.

Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sapremo presto, già dalla prossima estate, nella Rende spogliata degli alberi quali effetti producono le isole di calore perché sono proprio le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo privo di alberi- che formano queste “isole di calore” (UHI) creando e amplificando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 gennaio 2024

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

La città di Cosenza ed il suo paesaggio sono sotto assalto da molto tempo, ma negli ultimi mesi ed anni l’attacco si è fatto più duro, forse è quello finale, quello all’ultimo metro cubo di cemento armato. Un assalto che è rivolto sia alla città antica, a monte, sia alla città otto-novecentesca, a valle. E se il Centro storico è, in teoria, ‘protetto’ da un vincolo diretto con il D.M. del 15.07.1969, poi ampliato a tutte le colline circonvicine nel 1992, la città fine ‘800-primi del ‘900 è priva, se si escludono limitate porzioni confinanti con il Centro storico, di questa dovuta tutela da parte del Ministero della Cultura.

La speculazione edilizia ha iniziato ad aggredire le aree più nobili dei quartieri vallivi con abbattimenti di edifici centenari e ricostruzioni di orribili, enormi e altissimi palazzi di cemento armato che occupano più di 2 o 3 volte la cubatura precedente, in particolare nei quartieri di Via Rivocati e di Piazza Santa Teresa.

L’attacco finale è stato, dunque, sferrato in primo luogo contro i titolari del diritto alla città: i cittadini. Noi cittadini delle Associazioni civiche cosentine-Associazione Riforma-Rivocati APS, Ri-ForMap APS, Ciroma, Civica Amica, ResponsabItaly APS, Comitato Piazza Piccola- costituitici in un Coordinamento denominato Diritto alla città abbiamo deciso di smetterla di subire. Reclamiamo il diritto alla città, rivendichiamo il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite, e iniziamo rivendicare il potere di farlo in maniera radicale.

Il Coordinamento delle Associazioni si oppone alle devastazioni del paesaggio urbano e periurbano e si oppone all’esproprio dei diritti costituzionali e civici dei cosentini. Il Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine Diritto alla città ha deciso di iniziare a rivendicare il ‘Diritto alla città’ dei cosentini ha chiesto, con urgenza, al Mic ed alla Soprintendenza Abap di Cosenza, organo periferico del suddetto Ministero, la rapida pubblicazione, prima, e la celere approvazione, poi, di una DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO ai sensi dell’ART. 136, C. 1 LETT. C, D. L. N. 42/2004 e S.M.I., per l’Ambito territoriale di seguito descritto (vedi cartina allegata).

L’area è stata – per motivazioni storiche, architettoniche, urbanistiche, ambientali e archeologiche- delimitata dai sottoscritti così come di seguito descritto.
Ad Ovest, partendo dal perimetro del vincolo paesaggistico esistente di cui al D.L. del 1969, raggiunge viale della Repubblica, comprende il settore di Via Misasi e scende lungo la Via Arabia fino a comprendere le vie Cattaneo, Mazzini e Marini. Da tale ambito sale a Nord lungo la direttrice di via XXIV Maggio- via Medaglie d’Oro, si raccorda al viale Mancini fino a raggiungere il confine con il Comune di Rende.

Da tale limite comunale scende lungo la riva sinistra del Crati fino a raccordarsi con l’area della vecchia Stazione Ferroviaria e giungere al ponte Alarico a Sud, collegandosi all’area già precedentemente vincolata dal suddetto D.L. del 1969, relativa al settore in sinistra del fiume Crati. Il citato D.M. del 15.07.1969, la cui estensione lungo il lato Est, settore in destra del fiume Crati, interessa le colline presilane, breve tratto della strada statale silana per Aprigliano, lo sviluppo della strada vicinale di Serra Caruso, il tratto del fiume Crati sino alla sua confluenza con il torrente Ispice, i limiti comunali dei Comuni di Rovito e Zumpano fino alla confluenza del canale Cannuzzo col Crati per raccordarsi al ponte di Alarico.

La nostra proposta di vincolo paesaggistico -le cui motivazioni dettagliamo di seguito- completa, pertanto, i contenuti del vincolo paesaggistico già in vigore, contribuendo significativamente alla salvaguardia delle aree oggetto di interventi così da esaltarne il significato e il valore.

DESCRIZIONE E MOTIVAZIONI STORICHE, ARCHITETTONICHE, URBANISTICHE,
ARCHEOLOGICHE E AMBIENTALI DELLA RICHIESTA DI VINCOLO

L’area sita nel comune di Cosenza, posta nell’area valliva compresa tra i due fiumi e in continuità espansiva con l’abitato storico, già sottoposto a tutela ambientale e paesaggistica ai sensi della legge 29.06.1939 n°1497 con decreto ministeriale 15.07.1969, costituisce l’insediamento lungo le rive dei fiume Crati e Busento, completando la composizione urbana, già dotata di impianti pubblici di notevole interesse monumentale, con palazzi privati che riflettono le visioni urbanistiche e architettoniche di sviluppo nella prima metà del Novecento. In tale contesto la città di Cosenza completa, nel periodo indicato, la definizione del processo insediativo urbano portato poi avanti a partire dagli anni ’60 del XX sec.

L’espansione era storicamente presente nel quartiere suburbano dei Rivocati, già in età romana. Insediamento consolidato in età medievale con funzione mercantile (Fiera della Maddalena – 15 al 30 luglio e la fiera dell’Annunciata dal 1551, con il 25 marzo di ogni anno, nella grande spianata del Carmine.
Presenti l’impianto della Riforma, ubicato in corrispondenza dell’altura dominante e derivante da impianti religiosi del XIII sec. e dei Domenicani, dal XV sec.

Tali strutture costituiscono la conferma dei nuovi indirizzi di sviluppo, legati al processo economico di trasformazione ed evoluzione dell’abitato lungo la valle del Crati.

L’asse principale risultava sempre quello costituito dalla via Consolare romana Annia-Popilia con il polo della Riforma, nel quale convergevano gli insediamenti del sistema collinare pedemontano dell’Appennino tirrenico. Era presente un sistema di fondaci nel rione Rivocati-Carmine, posti nel settore Nord appena oltre il Busento.

La presenza della popolazione nella seconda metà del XIII secolo si attestava intorno alle 3.000 unità fino alla metà del XV secolo, con incremento dal 1550 con 7.000 unità circa, sotto il dominio spagnolo, fino a registrare un incremento di circa 10.000 abitanti alla fine del secolo, mantenutosi stabile fino alla fine del ‘700. Gli incrementi demografici si osservano nel primo quarto dell’800, fino a raggiungere il numero di 13.700 nel 1853 e 16.000 con l’Unità d’Italia nel 1861 e oltre 19.000 presenze alla fine del secolo.

Le esigenze della popolazione portarono all’avvio delle opere per il rifacimento dei condotti delle acque nere e potabili, la necessità di dotarsi di strutture pubbliche per le abitazioni e gli uffici e la costruzione di servizi di uso pubblico derivanti anche dalla sistemazione degli alvei fluviali e arginature dei fiumi.

Nella seconda metà dell’800, pertanto, l’edificazione si avvia lungo la direttrice Rivocati- Riforma e in direzione Carmine (via Sertorio Quattromani), su cui si affacciava l’Ospedale Civile (XV sec.). Pertanto in tale contesto dalla fine del XIX sec. si é proceduto all’edificazione degli spazi tra l’ex convento del Carmine e i pochi edifici presenti lungo la via Provinciale (corso Mazzini), fino a giungere alla Riforma a Ovest e la via XXIV Maggio lungo la direttrice Nord della riva sinistra del fiume Crati.

Con il Piano di ampliamento comunale del 1887, predisposto dal Comune, si avvia anche la ristrutturazione dei predetti rioni Carmine e Rivocati, con l’ampliamento delle aree a Ovest e parzialmente a Nord, condotti a termine successivamente nel primo quarto del ‘900. Quartieri già attivi sin dall’età romana con funzioni mercantili, nundinae, e idonei a contribuire allo sviluppo urbano per il costante sviluppo economico, oltre che demografico.
La nuova area urbana, impostata su una viabilità a maglie regolari ortogonali, di probabile derivazione agrimensoria romana, si spinge a valle fino all’attuale Via Piave, con sviluppo lungo il lato Ovest a includere i settori della Riforma e l’attuale via Riccardo Misasi.

Iniziative continuate col Piano di Ampliamento del 1910-1912, tramite il quale si realizzano i progetti di sviluppo ed espansione dell’abitato, mediante la ristrutturazione urbanistica a fini insediativi del rione Rivocati, la costruzione di strutture pubbliche lungo il Busento e il riordino del quartiere Carmine – Annunziata.
Interventi completati nel primo quarto del ‘900 e integrati col piano del 1936, con estensione lungo il settore Nord, oltre alla formazione di piazze urbane di riferimento come direttrici di sviluppo: Piazza Francesco Crispi, Piazza Giovanni Amendola, Piazza Paolo Cappello a monte e Piazza Municipio, Piazza XI Settembre a valle, lungo la direttrice del Corso Mazzini.

L’edilizia privata riporta la composizione formale di estrazione classica rivisitata con gli apparati prospettici ancora visibili lungo il Corso Umberto, Via Trieste, Viale della Repubblica, Via Riccardo Misasi e il già citato Corso Giuseppe Mazzini. Altrettanto individuabili gli interventi privati, all’interno di tale vasto settore, con le direttrici parallele al Corso Mazzini, quali Via San Michele, Via Monte Grappa, Via Monte Santo e le traverse laterali Via Piave, Via Isonzo e Via Brenta; comprendente anche la scala interna di collegamento, proposta per ridurre la consistente differenza di quota (Scala dei due leoni), oltre alla realizzazione di edifici di interesse pubblico tra il Rione Michele Bianchi e la nuova direttrice di Viale degli Alimena.

Interventi, questi ultimi consolidatisi negli anni ’30 del XX sec., con la preliminare dotazione di servizi e completati poi nel secondo dopoguerra. In tali ambiti l’architettura varia tra visioni ottocentesche di cultura essenzialmente classica e rivisitazioni interpretative, intercalate da proiezioni moderniste di stile avanzato, che costituiscono un patrimonio urbanistico e compositivo dotati di interessante personalità, indicativa di un processo di sviluppo da salvaguardare per la complessa e notevole particolarità urbana unita alle espressioni architettoniche.

Pertanto, in tale contesto, l’area si configura come una necessaria palese estensione del centro storico di Cosenza, conservando nel tempo una sostanziale permanenza della evoluzione morfologica urbana, già presente nell’insediamento antico. A tal proposito si evidenzia che tutta l’area della riva sinistra del fiume Crati possa essere interessata da rinvenimenti archeologici perché, come dimostrato dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia subito a nord del Centro commerciale. È molto probabile che in quella area, dal Centro storico verso nord, vi passasse la Via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Avendo le indagini archeologiche dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei è del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area che va dalla riva sinistra del Crati fino alla linea degli edifici già costruiti per arrivare fino al confine comunale a Nord.

RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI NEL COMUNE DI COSENZA

Nel complesso il sistema edilizio appare ancora in parte conservato, seppur condizionato in termini episodici da interventi di trasformazione che ne hanno modificato la percezione compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee.

Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica. Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana e architettonica del contesto.

Tale condizione discende dal riconoscimento che la zona predetta ha notevole interesse pubblico perché essa ha come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie sin dal XIII secolo.

AMBITO DELLA DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO,
ART. 136, C 1 LETT. C, DECRETO LEGISLATIVO N. 42/2004 E S.M.I.

Tale zona, che amplia e completa le località e gli ambiti già sottoposti a tutela ambientale e paesaggistica, ex lege 29.06.1939 n°1497, D.M. 15.07.1969 G.U. n°208 del 14.08.1969, è delimitata nel modo seguente:
Cominciando da Est ha come limite il fiume Crati in direttrice Nord. In corrispondenza della traversa di Via Cesare Marini risale su Corso Mazzini, fino all’innesto con Via Ambrogio Arabia, sulla quale ultima si inserisce fino a raggiungere la chiesa di Santa Teresa che viene lambita lungo il lato Sud, con risalita fino alla soprastante via Roma.
Da tale arteria, che percorre in direzione Nord, raggiunge Via Carlo Cattaneo e, circuendo il parco “Emilio Morrone”, risale lungo il settore Ovest fino a raccordarsi con il Viale della Repubblica.

Da tale arteria principale ritorna in direzione Sud fino a includere, con limitata area, le case popolari per Mutilati e Invalidi di guerra del 1931, per ritornare sulla medesima direttrice verso Sud fino all’incrocio con la Via Domenico Migliori. Indi, da tale confine continua lungo la SS.19 delle Calabrie – SP 241, fino all’incrocio con la Via Francesco Principe. Da tale ultima strada discende in direzione Est raccordandosi interamente al perimetro dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica con il citato Decreto ministeriale 15.07.1969.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento di tutela paesaggistica, per i motivi esposti, perimetra il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio. Prosegue lungo tale arteria in continuazione su Via Medaglie d’Oro fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri. Da tale traversa scende fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini proseguendo in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.

Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato. Detto perimetro contiene edifici privati, altri a destinazione sociale (case popolari), infrastrutture collettive e gli impianti pubblici riportati, la cui edificazione spazia dalla fine dell’Ottocento a metà circa del Novecento.

In sintesi, con questa proposta, si ampliano i limiti del predetto decreto dell’anno 1969, completandone e estendendone l’area di tutela e salvaguardia. All’interno di tale area si trovano edifici monumentali di interesse pubblico, costruiti a partire del primo quarto del XX sec. e completati anche nel secondo dopoguerra, in alcuni dei quali hanno prestato opera di progettazione architetti di fama nazionale quali Giovanni Battista Milani, Giorgio Calza Bini, Mario de Renzi, Vittorio Ballio Morpurgo.

La perimetrazione dell’insediamento della “città nuova” a completamento dell’abitato di Cosenza, unita al suo intorno paesaggistico, è soggetto a conservazione integrale. In essa è vietata la realizzazione di interventi, anche puntuali, che comportino il rischio di alterarne i caratteri d’identità paesistica e di continuità percettiva.

BENI IMMOBILI SOGGETTI A TUTELA MONUMENTALE

Beni immobili da tutelare

Sulla base di quanto scritto finora occorre, dunque, la conservazione integrale del sistema urbano (all’interno del perimetro in rosso della cartina in calce si evidenziano le principali emergenze monumentali e architettoniche).
I nuovi interventi edilizi non devono costituire, per forma e per volume, barriere alle visuali verso i principali elementi del sistema urbano e architettonico esistente. Conseguentemente, gli interventi di trasformazione previsti all’interno degli strumenti urbanistici e relativi piani attuativi devono prevedere assetti e composizioni formali tali da rispettare e salvaguardare le visuali compositive e architettoniche finalizzate alla conservazione dei valori esistenti.

Nelle aree ad elevato valore percettivo, deve essere mantenuta la coerenza architettonica degli interventi con il contesto, con esclusione delle opere e degli interventi in grado di alterare gli aspetti qualitativi e formali dell’apparato urbano esistente.

Sul patrimonio edilizio esistente sono ammessi gli interventi di rifacimento e riuso tali da privilegiare dal punto di vista formale l’attuale assetto compositivo, con l’eventuale impiego di materiali naturali e a basso impatto ambientale.
Sono ammessi esclusivamente gli interventi edilizi tendenti alla conservazione, alla manutenzione ed al riutilizzo, anche diverso dalla funzione originaria, con esclusione comunque delle opere di snaturamento dell’apparato formale e compositivo esistente.

Eventuali sistemazioni complementari degli spazi liberi dovranno essere concepiti in modo da non ostacolare la visibilità e l’assetto esistente, al pari del verde esistente. Il tutto nel rispetto delle visuali di fruizione proprie dei luoghi.

Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine “Diritto alla città”

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

M. Cerzoso-A. Vanzetti, Museo dei Brettii e degli Enotri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.
F. Burgarella, Dalle origini al Medioevo, in (a cura di F. Mazza), Cosenza. Storia, cultura, economia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pp. 15-70.
E. Galli, Per la Sibaritide, studio topografico e storico con la pianta archeologica di Cosenza, Ristampa dell’opuscolo del 1907, Cosenza s.d.
Gregorio E. Rubino-Maria Adele Teti, Cosenza, Laterza, Bari 1997.
A. Battista Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie XXXVII, 2014 (2016), pp. 157-182.
F. Terzi, La città ripensata. Urbanistica e architettura a Cosenza tra le due guerre, Progetto 2000, Cosenza 2010.
F. Terzi, Cosenza medioevo e rinascimento, Pellegrini, Cosenza 2014.

Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra

Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra

Alberto Magnaghi, da tempo malato di un male incurabile, è morto a Bra (in Piemonte) all’età di 82 anni. Ha continuato fino alla fine dei suoi giorni a ricercare soluzioni inedite (molto discusse nella comunità accademica degli urbanisti) per una pianificazione del territorio in senso ecologico.

Con la sua autorevolezza e con il suo infinito amore per il territorio ha avuto moltissimi allievi “territorialisti” che condividevano il suo approccio e la sua ricerca. Il suo ultimo libro, Ecoterritorialismo (scritto insieme a Ottavio Marzocca), sarebbe stato presentato il prossimo 6 ottobre a Spin Time, a Roma, da dove avrebbe illustrato il concetto, a lui carissimo, di Bioregione, quello che lui considerava lo strumento multidisciplinare per affrontare il progetto eco-territorialista.

Era stato designato professore Emerito di pianificazione territoriale presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove aveva fondato la Scuola Territorialista. Insieme ad Asor Rosa anni fa presentammo l’unico libro che parlava della sua esperienza carceraria, Un’idea di libertà (Derive Approdi, 2014). La libertà, per Alberto, non poteva che venire dalla cura del territorio, dal rapporto virtuoso tra le comunità insediata e i luoghi.

Da qui il concetto di autogoverno del territorio, un territorio abitato da tante comunità, l’opposto di quello metropolitano strombazzato in molte ricerche accademiche.
Questo giornale prese le sue difese quando, nel 1979, venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta 7 aprile come dirigente di Potere Operaio; fu condannato, poi definitivamente assolto 8 anni dopo. Rossana Rossanda parlò di lui su il manifesto, come un uomo giusto e di grande impegno nella sua opera di urbanista militante.

Aveva iniziato le sue ricerche con la pubblicazione de: La città fabbrica, contributi per un’analisi di classe del territorio, tracciando un percorso che si sarebbe sviluppato per 50 anni, da: Il territorio dell’abitare (con R. Paloscia) nel 1990, fino a Il progetto locale (Bollati Boringhieri, 2000), Verso la coscienza di luogo del 2014 e poi con Beccattini di nuovo: la Coscienza dei luoghi, il territorio come soggetto corale del 2015.

Questi ultimi libri pubblicati in diverse lingue. In Francia godeva della stima e dell’ammirazione di personaggi come Francois Choay, autorevole storica dell’architettura e dell’urbanistica francese.
Le facoltà di Architettura di tutta Italia ci tenevano ad averlo presso di loro per sentire i suoi seminari, la sua concezione di territorio che tanto si discostava dalla retorica accademica. Era circondato da tanti amici, compagni, allievi affascinati dalle sue teorie, che lo hanno seguito fino agli ultimi momenti della sua vita.

Difficile riassumere il suo lungo percorso di ricerca e di impegno civile, considerata la sua vastissima produzione tutta volta al rapporto territorio-comunità.
In tal senso si era anche occupato delle vicende di Adriano Olivetti, pubblicando: Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora , insieme a Marco Revelli e Aldo Bonomi (Dervive approdi, 2015).

Sapevamo da tempo che era malato, ma non per questo ci eravamo abituati a perderlo, prima o poi. Ci rimane di lui l’immagine sorridente e luminosa capace di trascinare alle sue idee anche coloro che la pensavano diversamente. Una mente originale e un grande amico. Riposa in pace, Alberto: hai lasciato un segno indelebile in tutti noi, ti ricorderemo sempre.

da “il Manifesto” del 22 settembre 2023

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.

Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.

Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.

Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.

Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.

La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.

Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito questo inverno il Nord Italia ecco arrivare bombe d’acqua, piogge intense che hanno provocato l’alluvione di una parte importante del territorio romagnolo con vittime e danni materiali ingenti. Ancora una volta, come da copione, la Regione Emilia Romagna chiederà lo stato di emergenza e inizierà la trattativa col governo per ottenere più risorse finanziarie possibili. Dopo aver seppellito le vittime di questa alluvione, aver sentito i soliti discorsi dai ministri di turno, tutto riprenderà come prima.

Ci domandiamo: si poteva prevedere questo ciclone che ha colpito così durante il territorio emiliano-romagnolo? No, con un sufficiente anticipo. Gli eventi estremi, come cicloni, tifoni, trombe d’aria, bombe d’acqua, tormente di neve o di vento, sono prevedibili, rispetto all’impatto di un determinato territorio, solo 24-48 ore prima che il fenomeno si verifichi. E mai con esattezza assoluta. Ecco perché alcune volte, come tutti abbiamo riscontrato, viene dichiarato, in una determinata città, l’allarme meteo arancione o rosso, chiuse le scuole, e poi l’evento si verifica magari a venti-trenta chilometri di distanza, o all’ultimo momento non si verifica proprio per un improvviso cambiamento della direzione dei venti.

Ma se non è prevedibile esattamente il giorno e l’ora in cui un determinato territorio verrà colpito da questi fenomeni è ormai noto che gli «eventi estremi» sono sempre più intensi e sempre più frequenti. E non abbiamo visto ancora niente. Saremo sempre più esposti di fronte a questi fenomeni traumatici che abbiamo provocato immettendo, in poco tempo, una quantità enorme di anidride carbonica che ha fatto saltare l’equilibrio atmosferico, secondo quanto sostenne il Nobel Prigogine per i gas in un sistema chiuso, quando solo un elemento cresce in maniera esponenziale, generando le cosiddette «fluttuazioni giganti». In altri termini siamo entrati in una fase caotica del meteo di cui dovremmo prendere coscienza e pensare ai rimedi possibili.

Ci sono per altro dei dati che parlano chiaro. Come per i territori a rischio sismico, così per le alluvioni abbiamo dei territori più esposti ed altri meno. I dati dell’Ispra sono eloquenti: l’Emilia Romagna è la regione con la percentuale più alta di territorio a rischio alluvioni, con la più alta percentuale di abitanti e di immobili ad alto rischio di essere travolti dalle alluvioni. Non si può dire che la Regione Emilia-Romagna non abbia fatto niente per curare questo territorio e prevenire le esondazioni, ma la normale amministrazione non basta più nell’era degli eventi estremi.

Occorre ripensare le città, i trasporti, la messa in sicurezza dei fiumi, la canalizzazione delle acque, approfittare dei periodi di siccità per allargare gli alvei e rafforzare gli argini, così come occorre munirsi di riserve d’acqua per i lunghi periodi di siccità. Insomma, si tratta di uscire dalla gestione ordinaria per sottoporre i territori ai cosiddetti “stress test”, ovvero a simulare l’impatto di eventi estremi per verificare la resilienza di una determinata zona, città o campagna. E questo vale per tutti, nessuno si può chiamare fuori.

Se invece continuiamo ad invocare, di volta in volta, l’emergenza, a non prendere atto che dobbiamo fare i conti con un cambiamento strutturale, ne usciremo con un territorio devastato. Tutto è diventato Emergenza. Un incremento dei flussi migratori è un’emergenza, la siccità prolungata è un’emergenza, la pioggia intensa è sempre un’emergenza, come la mancanza di case per gli studenti o la disoccupazione giovanile. Tra poco arriverà la stagione degli incendi e riempiranno le prime pagine dei giornali e saremo ancora una volta impreparati. Basta con queste emergenze inventate di fronte a fenomeni strutturali. La vera emergenza è questo governo che dovrebbe preoccuparci ed allarmarci seriamente.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay