Mese: dicembre 2017

Un Osservatorio per il Sud di Franco Blandi

Un Osservatorio per il Sud di Franco Blandi

Ho accolto con slancio l’invito di Piero Bevilacqua e lo ringrazio per avermi coinvolto in questa esperienza. Credo che mai come in questo momento ci sia bisogno di parlare, discutere, confrontarsi su alcuni temi che sembrano scomparsi dalle agende della politica e, più in generale, dal dibattito sociale. Porto il mio contributo sintetizzando in poche parole alcuni temi che, chiaramente, richiederebbero maggiori approfondimenti.
Mi piace documentare e spesso vado in giro, prevalentemente in Sicilia. Per farlo utilizzo strumenti diversi: scrivo, filmo, fotografo. Mi interessano le storie poco conosciute di uomini e donne; i paesaggi, magari poco osservati e vissuti; La natura, bella, ignorata e ferita. Spesso queste storie si mescolano e in alcune comunità, a fatica, trovo ancora alcuni elementi di equilibrio, di armonia tra le attività dell’uomo e l’ambiente attorno a lui.

Cosa ho visto in questi anni, quale evoluzione?
Nel mio girovagare ho visto molti paesi svuotarsi, i centri storici deturpati e abbandonati, il cemento avanzare sulle spiagge. Ho visto scomparire le piccole botteghe e i piccoli artigiani e ho visto nascere enormi isole del consumismo ai margini delle città. Ho visto città, paesi e campagne sommerse dai rifiuti, il mare invaso dalla plastica e da liquami di ogni genere. Ho visto i paesi montani perdere servizi essenziali come le scuole, gli ospedali, gli asili, presidi delle forze dell’ordine. E contemporaneamente, ho visto in questi stessi paesi i giovani andare via e solo gli anziani rimanere a presidiare la loro stessa esistenza. Ho visto poveri, vecchi e nuovi, divenire ancora più poveri e ricchi, vecchi e nuovi, in combutta con mafiosi, vecchi e nuovi, diventare ancora più ricchi.
Ho visto l’insoddisfazione incunearsi inesorabilmente nella vita di molti. Ho visto il clamore suscitato dall’arrivo di tanti giovani migranti, prontamente chiusi nei recinti reali e mentali, da chi pensa che la strategia migliore sia tenerli quanto più possibile lontani dalla vita. Ho visto il silenzio sui molti giovani siciliani che lasciano la nostra terra (ogni anno sono più di 30000). Altri restano, i più senza lavoro, o trovano “occupazione”, quando va bene, a 400 euro al mese.
Ho visto, in definitiva il fallimento storico e sociale del capitalismo, del liberismo, delle scelte politiche scellerate.
Ho visto, però, anche uomini e donne che ogni giorno operano per contrastare questa realtà. Credono e vivono nella convinzione che un’altra prospettiva sia possibile. Spesso in solitudine, lontani dai riflettori e dalle cronache, si oppongono con caparbietà questa deriva, spesso senza trovare sponde alle quali aggrapparsi.

Cosa fare?
Credo che bisogna partire proprio da qui. Da questi eroi silenziosi, dai fermenti vivi che la società meridionale riesce a esprimere, offrendo loro una sponda, un punto sicuro di approdo da cui ripartire. Non partiamo, quindi, dal nulla. Dobbiamo avere al nostro fianco quanti in questi anni hanno dedicato il proprio tempo a rendere reale la prospettiva di cambiamento. Mi riferisco al mondo delle associazioni, al volontariato, al mondo della ricerca, ai movimenti, ai gruppi informali, nati con l’obiettivo di promuovere la solidarietà, il rispetto per l’ambiente, un nuovo modello di sviluppo. Io credo che il nascente Osservatorio per il Sud possa diventare il punto d’incontro, di raccordo e promozione di questo mondo. Il luogo di incontro tra quanti pensano a una società nuova, diversa, più equa e solidale. L’obiettivo non è né facile, né immediato. Qualcuno, però, deve pur cominciare.
Sono profondamente convinto che qualsiasi cambiamento per essere reale e duraturo, debba necessariamente partire dal basso. Ci vuole, come dice Franco Arminio, un nuovo umanesimo. Un umanesimo da rintracciare nelle felicità di cui parla Piero Bevilacqua. Ci vuole attenzione verso il paesaggio in tutte le sue articolazioni: umano, naturale, dei luoghi, culturale. Occorre comprendere che la tutela dell’ambiente è di per sé ricchezza. Occorre ripartire dall’istruzione educando non solo ai mestieri, ma al rispetto dei principi universali della convivenza, oggi, ahimè, troppo spesso smarriti. Occorre mettere al centro il sapere, l’arte, la solidarietà e il rispetto della legalità. Occorrono esempi virtuosi e concreti, utili a delineare un nuovo modello sociale in equilibrio armonico tra le attività umane e la generosa natura delle nostre terre.

Come? Un esempio.
Nei centri storici, quelli non ancora del tutto distrutti, si potrebbe pensare a un piano straordinario di recupero sociale e edilizio, a un nuovo paradigma: basta con le nuove costruzioni, occorre recuperare! Recuperare significa spostare il costo degli interventi sulla forza lavoro (operai, artigiani, falegnami, fabbri, decoratori, progettisti, ecc.) e meno sui materiali. Al contrario, le nuove costruzioni, oltre a snaturare i centri storici, prevedono costi elevati per i materiali e sono spesso finalizzate al rapido profitto dell’impresa che ha, al suo servizio, sempre meno unità lavorative. Una strada già tristemente percorsa che ha snaturato, oltre ai paesi e le città, perfino molte campagne dell’entroterra. Dove il recupero dei centri storici è diventato realtà, si è registrata una inversione di tendenza: insediamento di nuove realtà commerciali e produttive all’interno de centri storici; miglioramento dell’economia per il diretto coinvolgimento delle persone nei piani di ristrutturazione; salvaguardia delle professioni artigianali; ripopolamento abitativo; ricadute positive sul turismo. Allo stesso tempo, la salvaguardia di servizi essenziali quali scuole, ospedali, asili nido, ha contribuito ad arginare l’esodo e lo svuotamento dei paesi e dei centri storici delle città.
Se volessi sintetizzare con degli slogan direi: “lavorare meno, lavorare tutti”, “piccolo e diffuso, anziché grande e concentrato”; “Lentezza, anziché frenesia”.

E gli intellettuali?
Mettere la propria visione delle cose a servizio della comunità, fornendo chiavi di lettura della realtà e offrendo soluzioni, soprattutto a vantaggio di chi vive relegato ai margini della società, produce ricadute positive. Serve, però, rifuggire dall’autocompiacimento dei circoli esclusivi e tornare nelle piazze, nelle campagne e nei quartieri, serve tornare in mezzo alla gente. Vivo in una terra nella quale in passato ci sono stati esempi virtuosi di intellettuali, non sempre siciliani, che hanno lasciato segni indelebili. Penso a Danilo Dolci, a Vittorio De Seta, a Ignazio Buttitta, a Carlo Levi e ai tanti altri che hanno speso le loro nel tentativo di dare dignità a chi non l’aveva mai avuta. Si sono messi al fianco degli ultimi, degli esclusi, dei diseredati. Il loro impegno ha fatto crescere consapevolezza e le ricadute della loro opera sono ancora oggi visibili in alcune zone della Sicilia.
E se è vero che i cambiamenti partono sempre dal basso, oggi occorre trovare il modo di recuperare questo legame con la comunità. In un periodo storico nel quale la società nel suo complesso e quella meridionale in particolare, sembrano avere smarrito la forza e la capacità di unirsi su comuni rivendicazioni, questa esigenza diventa non più procrastinabile. Occorrono idee, parole, uomini e strumenti nuovi per fare breccia nell’indifferenza e nello scetticismo dilaganti. L’urgenza deriva anche dal pressappochismo e dalla superficialità dell’attuale classe dirigente che rischia di minare definitivamente il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni.
Proprio per queste ragioni credo che il nascente Osservatorio, oltre a stimolare e sensibilizzare la società sui temi discussi, possa svolgere un ruolo importante nel promuovere veri e propri percorsi di formazione alla politica, che preparino i giovani ad affrontare la complessità e le contraddizioni dell’attuale società. Ben venga, quindi, l’Osservatorio per il Sud con l’auspicio che possa contribuire ad agitare le acque nello stagno immobile del nostro paese. Sento questa responsabilità, quella di dare speranza sia ai tanti giovani che hanno scelto di non andare via e ogni giorno si misurano con l’inefficienza dello Stato e della burocrazia, che a quelli che sono partiti con la speranza di tornare in una terra migliore.

Franco Blandi

 

Lamezia, 2 dicembre 2017

A Sud di nessun Nord di Claudia Villani

A Sud di nessun Nord di Claudia Villani

Negli ultimi anni nei congressi internazionali di storia (storia mondiale, storia economica, storia delle relazioni internazionali, ecc.) si moltiplicano gli studi sulle “periferie” e dal punto di vista delle “periferie”, andando al di là degli studi sulle due grandi fasi della globalizzazione capitalistica, centrati sull’Occidente. In aggiunta, le stesse categorie di centro e periferia vengono trasferite dalla originaria dimensione economica e politica connessa con la formazione del moderno sistema mondiale dell’economia capitalistica ad una dimensione sociale e culturale più ampia, in coincidenza con il “linguistic e cultural turn” che ha attraversato le scienze sociali negli ultimi decenni. Si cerca quindi di anche ripensare la “territorialità” e la “sovranità” a partire dalla critica al concetto euro-centrico di territorialità ancorata allo Stato-nazione.

In questo contesto andrebbe collocata la riflessione sui territori del nostro Mezzogiorno. Esiste infatti più di un motivo per sottolineare le analogie tra il modo con cui è stata costruita/ interpretata/ pensata/ teorizzata la questione meridionale in Italia e il modo con cui viene costruita/ interpretata/ pensata/ teorizzata oggi la questione del cosiddetto Global South, erede del percorso storico avviato dal movimento dei non allineati nel secondo dopoguerra. Facciamo un esperimento. Se provassimo a riassumere le questioni poste dal Terzo Mondo nella seconda metà del Novecento, a partire dal problema del divario globale, forse potremmo leggere un testo simile:

 

Secondo il punto di vista del Terzo Mondo, le risorse dei paesi arretrati hanno giocato un ruolo funzionale, seppure non decisivo, per la modernizzazione e l’arricchimento dei paesi del Nord, anche e soprattutto per reggere la sfida del mercato internazionale. Una parte degli studiosi ha attribuito scarso peso all’apporto dei paesi del Sud, spesso ex-colonie, allo sviluppo del capitalismo settentrionale; un’altra parte, invece, ha indicato nello sfruttamento coloniale dei Sud un effetto delle scelte politiche degli Stati del Nord, che hanno favorito con effetti distorsivi l’industrializzazione del solo Nord; altri studiosi, infine, hanno visto un nesso organico, tra lo sviluppo agricolo e ritardato dei Sud e sviluppo industriale e capitalistico concentrato nel Nord.

 

Che sia condivisibile o meno questa sintesi nella sua schematicità, si tratta di una parafrasi letterale di un testo dedicato alla questione meridionale italiana[1]. La mia ipotesi è che alla base delle tante forme di meridionalismo – inteso come costruzione di un discorso storico, politico, culturale e quindi come costruzione di una identità politica e culturale – vi siano elementi comuni: la percezione di essere diversi rispetto ad altri territori caratterizzati da performance economiche e sociali migliori; il continuo ricorso all’indagine storica, alla ricerca delle “origini” del fenomeno e dei suoi “responsabili” (interni ed esterni); la consapevolezza di essere inseriti in un contesto più vasto di rapporti con altri, e quindi la consapevolezza del rapporto interdipendente tra il proprio territorio, che non controlla i meccanismi di scambio (“periferia”), e altri (“centri”); la consapevolezza della necessità di “riforme” interne, ma anche, soprattutto, per riconquistare margini di manovra, la consapevolezza della necessità di “riforme” che agiscano sui rapporti di forza economici e politici esterni alla dimensione locale (siano essi di dimensione regionale, nazionale, sovranazionale, ecc.). Per questo motivo la coppia concettuale centro/periferia, così come il modello (o se vogliamo la metafora) coloniale, diventano strumenti per descrivere e/o cercare di modificare i rapporti di forza.

Si potrebbero pensare, quindi, i diversi meridionalismi – i meridionalismi italiani, i meridionalismi globali nel secondo dopoguerra – come costruzioni di identità particolari. Il Sud/i Sud nascono quando nascono i Nord, sono “resi diversi” in relazione a qualche “Nord”, si sentono “oggetto” di una storia narrata e tessuta da altri, si percepiscono come tali e costruiscono il loro “meridionalismi” per rivendicare il ritorno come “soggetti” nella “Storia”. E’ l’ascesa di un Nord, è l’affermazione di un modello di modernizzazione, che consegna agli “altri”, ai “meno” moderni, il “dilemma dello sviluppo” e il “dilemma della sovranità territoriale”.

La storia del Mezzogiorno d’Italia e questo nostro tentativo di rilanciare un meridionalismo all’altezza dei tempi andrebbero inserite in questo contesto più ampio. Negli ultimi decenni, del resto, la stessa questione meridionale è stata declinata in relazione ad una molteplicità di livelli sovra-nazionali (dimensione internazionale, dimensione europea, dimensione mediterranea), oltre ad essere stata scomposta e decostruita anche in relazione alle molteplicità locali e territoriali, evidenziando pluralità e percorsi peculiari che mal si adattano alle semplificazioni delle variabili aggregate utilizzate per quantificare il “divario” tra Nord e Sud del paese. E’ l’approccio della World History allo studio delle relazioni costruite su più livelli tra territori e attori diversi, non solo e non tanto gli Stati-nazione.

Nel presente globalizzato in cui viviamo i “Sud” sono ovunque, attraversano i territori in tutte le dimensioni: da quella locale a quella nazionale, da quella regionale a quella globale. Per questo motivo, così come altri Sud possono imparare dalla storia italiana (e dalla storia della nostra questione meridionale), anche noi, oggi, possiamo imparare da altri meridionalismi, mettendo in rete conoscenze, teorie critiche, pratiche, proposte e progetti.

Mi sembra quindi inevitabile che il nostro Osservatorio (magari “sui Sud”, al plurale?), abbia un respiro e una ambizione (conoscitiva, scientifica, propositiva) di carattere globale, se è vero che, alla fine, “il mondo globalizzato sarà quel che i suoi Sud saranno” [2].

Claudia Villani, claudia.villani@uniba.it

Università degli studi di Bari

 

Lamezia Terme, 2 dicembre 2017

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[1] Pescosolido, la questione meridionale, http://www.treccani.it/enciclopedia/la-questione-meridionale_(Dizionario_di_Storia)/.

[2] E’ una parafrasi della celebre profezia di Mazzini: “L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà”.