Mese: agosto 2018

Svimez, Mezzogiorno alla deriva di Gianfranco Viesti

Svimez, Mezzogiorno alla deriva di Gianfranco Viesti

Le preoccupanti condizioni e prospettive del Mezzogiorno dipendono in parte da una storia lunga, da vicende di ieri e dell’altro ieri. Ma dipendono in misura rilevante anche da vicende recenti, dalle decisioni politiche e di politica economica che si prendono oggi e si prenderanno nell’immediato futuro. Delle prime si parla tanto; delle seconde pochissimo. E invece su queste ultime è bene concentrare l’attenzione e la discussione; anche sulla base di alcuni degli elementi di analisi presentati dalla Svimez, è possibile rendersene conto, sollevando interrogativi di grande attualità.

L’Italia ha drasticamente ridotto i suoi investimenti pubblici (dal 3% al 2% del PIL), con la crisi; tale riduzione permane. Nella passata legislatura gli spazi per azioni di finanza pubblica sono stati orientati più ai consumi che agli investimenti: il principale provvedimento sono stati gli 80 euro, che valgono circa 9 miliardi all’anno; e che, incidentalmente, sono andati a vantaggio più del Nord che del Sud. Le previsioni disponibili confermano questa tendenza: un vero e proprio nuovo “regime di politica economica” con bassi investimenti. Si tratta di una scelta pericolosa per le prospettive di lungo termine dell’intero paese, che non ammoderna le sue reti e le sue città. Ma si tratta una scelta particolarmente negativa per il Mezzogiorno: dove le esigenze di potenziamento di infrastrutture materiali e immateriali sono assai acute; e l’impatto di una stagione di nuovi investimenti pubblici potrebbero essere particolarmente forte. Sia per l’effetto immediato (con un alto “moltiplicatore” sull’economia e un significativo traino di domanda anche nel Centro-Nord), sia per aumentare la competitività delle imprese e dei territori, creando così nuovo lavoro. C’è da recuperare gap cresciuti negli ultimi anni; l’Italia ha realizzato un’opera molto importante, e di grande rilevanza, com’è l’alta velocità; ma essa tocca solo marginalmente il Sud: nei primi 15 anni di questo secolo le Ferrovie hanno investito 44 miliardi al Nord e 14 al Sud (110 contro meno di 50 espressi pro-capite). La Svimez calcola che se nel 2019 gli investimenti pubblici al Sud fossero sui livelli (non esaltanti) del 2010 la sua crescita raddoppierebbe, rispetto al misero 0,7% previsto. E dunque: abbiamo ascoltato interessanti dichiarazioni del nuovo vertice delle Ferrovie sull’importanza delle reti pendolari, ma ben poco sulla priorità delle opere nel Mezzogiorno; abbiamo ascoltato l’intenzione di autorevoli Ministri di varare un programma di rilancio degli investimenti pubblici, ma come conciliarlo – date le persistenti difficoltà di finanza pubblica –  con i cavalli di battaglia del nuovo governo: il reddito di cittadinanza  e la flat tax (che, incidentalmente andrebbe molto ma molto più a vantaggio del Nord)? Quel che succede al Sud non dipende dalla storia dell’Ottocento o da un destino cinico e baro: ma dalle scelte che oggi si compiono.

L’Italia ha avviato e mantenuto politiche di austerità nella spesa pubblica, su cui molto si discute ed è giusto discutere. Ma un elemento, sottolineato dalla Svimez, viene quasi sempre ignorato: l’austerità è stato molto selettiva territorialmente, a danno del Mezzogiorno. La spesa pubblica corrente, fra il 2008 e il 2017, è scesa del 7% al Sud mentre è rimasta costante nel resto del paese. Questo si è tradotto in meno servizi, per le persone e le imprese. Il sistema universitario del Sud (del Centro-Sud) è stato oggetto di una pesante politica di marginalizzazione e de-finanziamento. Il sistema sanitario costretto all’esclusivo risanamento dei conti, riducendo qualità e quantità dell’offerta, con un aumento del numero di famiglie impoverite dalla spesa sanitaria privata e un forte incremento della mobilità interregionale dei pazienti (che provoca un peggioramento dei conti, con un evidente circolo vizioso). L’offerta di trasporto pubblico locale fra il 2008 e il 2015 è cresciuta del 13% a Milano, dove tocca i 16.200 posti/chilometro, un valore tre volte e mezzo superiore alla media nazionale; ma è scesa del 24% a Roma (a 6820), del 36% a Napoli (a 2400), del 52% a Catania (a 2300). Il 4,7% dei bambini meridionali fra zero e due anni può usufruire di servizi per l’infanzia, contro il 16% (un valore comunque basso) di quelli del Nord. Tutto ciò non dipende dalla storia o dal caso, ma dalle scelte politiche fatte. Prima fra tutte la circostanza che dal 2001 nessun governo ha ritenuto di stabilire i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti a tutti i cittadini italiani, come previsto dall’articolo 117.2.m della nostra Costituzione; e poi dal lavorio, oscuro ma molto importante, compiuto in questi anni nel ridisegnare i criteri di finanziamento dei servizi quasi sempre a danno delle regioni più deboli. Ma, ed eccoci all’oggi, tutto questo può notevolmente peggiorare, e la condizione del Sud aggravarsi. La Regione Veneto incontra il Ministro e richiede vastissime competenze nelle politiche pubbliche, e suggerisce che siano finanziate tenendo conto del gettito fiscale; la Lombardia segue a ruota, ispirata dalla sua mozione del novembre scorso che, sostanzialmente, chiede una spesa pubblica di oltre 10 miliardi maggiore (e altrettanto minore, ovviamente, nelle altre regioni italiane). La politica nazionale accompagna questo processo con un clamoroso silenzio. E il governo che farà? Che posizione prenderanno i 5 Stelle – finora anch’essi silenti – di fronte a questa offensiva leghista? Si andrà verso minori divari o si punterà a farli aumentare? Lo sviluppo del Sud dipende, molto ma molto più di quanto si voglia comunemente ammettere, dalle grandi scelte politiche dell’oggi: quali diritti di cittadinanza garantire a tutti gli italiani?

La questione meridionale da tempo è seppellita nell’indifferenza. Un’indifferenza molto comoda: perché affrontarla significa porsi domande di fondo sugli indirizzi e sulle scelte per il paese, e discuterne a fondo, pubblicamente; significa tornare a parlare di politica, nel senso più alto del termine.

Gianfranco Viesti

Siamo uomini o caporali ? di Tonino Perna

Siamo uomini o caporali ? di Tonino Perna

Dopo l’ennesima strage nel foggiano che ha causato la morte di altri braccianti africani, in tutto sedici in sole 48 ore, si è aperta la caccia ai “caporali”, ovvero a quelle figure di intermediari tra proprietari terrieri e braccianti da secoli presenti nell’agricoltura meridionale.    Sia al livello politico che mediatico si è scatenata una gara su chi attacca in maniera più dura i “caporali”, individuati come origine dello sfruttamento e della stessa morte dei lavoratori immigrati. Il cliché è esattamente lo stesso di quanto avviene da ormai troppo tempo rispetto alle stragi di migranti nel mar Mediterraneo: è tutta colpa dei mercati di carne umana. Pertanto, lotta dura e senza paura contro i mercanti di carne umana, sul mare e a terra, che siano i trafficanti che guidano le carrette sul Mediterraneo o i “caporali” dell’agricoltura meridionale. L’attuale governo ha le idee chiare in proposito: eliminiamo “trafficanti e caporali” e il fenomeno immigratorio si spegnerà da solo così come le migliaia di braccianti che raccolgono pomodori nel foggiano o arance nella piana di Rosarno troveranno finalmente un lavoro regolare e pagato a tariffa sindacale. L’immaginario collettivo che si sta costruendo è il seguente: trafficanti di carne umana rapiscono i giovani dell’Africa sub-sahariana e li costringono a lasciare la loro terra per venire in Europa, o nel migliore dei casi li ingannano con promesse di lavoro e ricchezza. Così come i “caporali” sfruttando i braccianti africani li costringono a lavorare per quattro soldi: scompare il ruolo dei proprietari terrieri, delle multinazionali del food, della grande distribuzione.

Chi conosce le dinamiche che hanno investito in questi ultimi decenni le strutture agricole del Mezzogiorno, sa bene che finora quasi nulla si è fatto per affrontare seriamente il fenomeno dei braccianti africani, ridotti in condizioni di semischiavitù, che vagano da un posto all’altro seguendo il ciclo della raccolta in agricoltura. I “caporali”, figura odiosa come un’ampia letteratura ha mostrato, sono solo un anello di una filiera di sfruttamento che si è intensificata in agricoltura da quando son venuti meno, per le piccole e medie aziende agricole, i contributi della Ue. Infatti, fino agli inizi di questo secolo la Comunità Europea erogava, ad esempio per agrumi e pomodori, un contributo rilevante alle aziende di trasformazione in base alle fatture che presentavano. In breve tempo si è creato un cortocircuito illegale: le aziende agricole fatturavano alle imprese di trasformazione che presentavano a Bruxelles il conto per prendersi l’incentivo, indipendentemente da ogni controllo. Ovvero, se c’erano dei controllori venivano facilmente aggirati e/o corrotti. Nel caso delle arance questo sistema, come si dimostra nel volume di Fabio Mostaccio “La guerra delle arance”, è stato spinto all’estremo: nella piana di Gioia Tauro-Rosarno si producevano sulla carta quantità di succo di arancia superiori a quelle prodotte da Brasile e Spagna messe assieme, mentre le arance restavano sugli alberi e poi marcivano a terra nella bella stagione. Quando i contributi della Ue son venuti meno ed è caduto l’incentivo diretto alle aziende di trasformazione, allora i proprietari agricoli hanno dovuto ritornare sul mercato e tentare di vendere questi prodotti che subiscono una concorrenza spietata a livello internazionale, ma ancora di più subiscono i dictat della grande distribuzione che fa i prezzi ed affama chi produce. Quando un chilo di pomodoro viene pagato a meno di dieci centesimi o un chilo delle arance di Rosarno a 12 centesimi, piccole e medie imprese agricole sopravvivono solo grazie allo sfruttamento selvaggio della manodopera africana. Se non ci fossero questi immigrati che lavorano dall’alba al tramonto per venti euro al girono, non avremmo più arance, pomodori e altri beni agricoli made in Italy.  Questa è la realtà con cui dobbiamo fare i conti.   C’è una sola alternativa credibile anche se non immediata: la trasformazione della filiera agro-alimentare. Abbiamo decine di casi di aziende agricole che hanno assunto regolarmente dei braccianti italiani e stranieri e li pagano rispettando i contratti nazionali grazie all’inserimento in reti di economia solidale (Gruppi di acquisto solidali, botteghe del Commercio equo, le associazioni e gruppi di “fuori mercato”, ecc.), che acquistano ad un prezzo anche cinque volte maggiore e vendono ai loro acquirenti e soci a prezzi spesso inferiori a quelli dei supermercati. Come è possibile ? Semplice saltano tutte le intermediazioni parassitarie. Più volte le inchieste della rivista “Altreconomia” ne hanno dato conto, mostrando la sostenibilità e l’efficacia di queste relazioni sinergiche, tra produttori e consumatori “consapevoli”, del Nord e del Sud del nostro paese, dove prezzo “giusto” e tutela ambientale (valorizzazione del bio, recupero essenze antiche, ecc.) vanno a braccetto.

 

9 agosto,   Manifesto