Mese: marzo 2019

Tutti a Verona il 6 aprile per dire NO alla regionalizzazione dell’istruzione di Anna Angelucci

Tutti a Verona il 6 aprile per dire NO alla regionalizzazione dell’istruzione di Anna Angelucci

Comincia a Verona, il 6 aprile prossimo, con una conferenza nazionale del Manifesto dei 500 alla quale siamo tutti invitati la staffetta delle associazioni e dei movimenti che, in attesa dello sciopero nazionale unitario di tutte le organizzazioni sindacali previsto entro maggio, alimenteranno il dibattito e la mobilitazione contro la regionalizzazione dell’istruzione.

In molte città d’Italia, infatti, oltre alle assemblee informative organizzate dai sindacati nelle scuole, si svolgeranno nelle prossime settimane incontri pomeridiani promossi dagli insegnanti, dai partiti, dai movimenti, per sensibilizzare la cittadinanza intorno a un tema su cui si gioca il futuro del nostro Paese.

La posta in gioco, infatti, è l’unità del Paese, niente di meno. Perché l’unità del Paese passa attraverso la sua scuola. Ed è per questo che, già da tempo, associazioni e sindacati hanno lanciato un ‘Appello contro la regionalizzazione del sistema di istruzione’ che siamo tutti chiamati a firmare.

Sull’autonomia differenziata e sulla necessità di fermare questo progetto di disarticolazione del sistema di governo nazionale, reso noto solo nel mese di febbraio grazie alla pubblicazione delle bozze delle intese della Regione Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna dal blog ROARS, è stato già detto e scritto moltissimo, sia sotto il profilo politico, sia sotto quello economico. Basti ricordare l’instant book di Gianfranco Viesti Verso la secessione dei ricchi? e i numerosi interventi e appelli di illustri costituzionalisti sulle pagine dei giornali. Ma forse dalle scuole e da molti insegnanti – alle prese con gli adempimenti sempre più cogenti imposti dalla ‘buona scuola’ e dalle sue più recenti leggi delega, non ultima la riforma degli esami di Stato – questo problema è sentito ancora come piuttosto estraneo e lontano. Eppure si tratta di un intervento destinato a cambiare il volto della scuola e dell’università pubbliche (per un’analisi, leggere qui).

Tuttavia la politica incalza ed è recentissimo l’intervento del governatore del Veneto, Luca Zaia, che ha dichiarato che “c’è un dato oggettivo, anche se forse qualcuno non se n’è accorto: l’autonomia non riguarda più soltanto alcune regioni del Nord. Riguarda quasi tutte. Che io sappia, soltanto Puglia, Basilicata e Calabria sono fuori da questo grande percorso. Dunque io non so chi possa andare in giro per l’Italia a fare campagna elettorale ignorando questo tema”. Infatti, accanto al Veneto e alla Lombardia che hanno presentato al Governo una proposta di autonomia differenziata su tutti i 23 punti previsti dall’art. 116 dell’attuale titolo V della Costituzione, ci sono molte regioni che hanno presentato proposte a geometria variabile, avocando a sé il diritto di legiferare e di gestire i propri residui fiscali in molti ambiti, in piena autonomia politica ed economica rispetto allo Stato e all’amministrazione centrale.

Per questo dunque appare ancor più necessario e urgente che si apra un dibattito pubblico e che si avvii una mobilitazione generale. Perché il tema non può restare confinato nel perimetro di una campagna elettorale.

Ben venga allora l’iniziativa del preside Lorenzo Varaldo del Manifesto dei 500 e di Rossella Latempa, insegnante di Matematica e Fisica, promotori dell’incontro del 6 aprile, che ci invitano a Verona, nel cuore delle più forti istanze autonomistiche, a scandagliarne tutte le implicazioni insieme a Floriana Cerniglia, docente ordinario di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica di Milano, e Marco Esposito, giornalista de Il Mattino di Napoli, autore di numerose inchieste sull’autonomia regionale e del libro “Zero al sud”. E non solo: in questo prezioso sforzo di informazione condivisa, condizione ineludibile per qualunque scelta responsabile, individuale e collettiva, il Manifesto dei 500 di Torino ha elaborato un fascicolo significativamente intitolatoDivide et impera’ con 20 domande e 20 risposte che, sinteticamente ma in modo efficace, ci permettono di entrare subito nel merito della questione.

Siamo di fronte a una possibile riforma del sistema d’istruzione nazionale che potrebbe stravolgerlo completamente, mettendo un’ipoteca sul futuro del nostro Paese e delle giovani generazioni.

Mi rivolgo a tutti gli insegnanti: la nostra consapevolezza e il nostro contributo alla discussione e alla mobilitazione questa volta davvero non sono opzionabili.

fonte: orizzontescuola.it

Il Mezzogiorno tagliato fuori dalla via della seta di Tonino Perna di Tonino Perna

Il Mezzogiorno tagliato fuori dalla via della seta di Tonino Perna di Tonino Perna

Con la visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping anche i nostri bambini hanno saputo che esiste una misteriosa “via della seta”. Per la verità, andrebbe chiamata la via del kapitale cinese, ma sarebbe piuttosto volgare e poco evocativo. In sostanza, il governo cinese ha messo in atto una strategia per rendere più veloci e efficienti i trasporti tra l’Asia e l’Europa, puntando sul fatto che le merci cinesi sono più competitive e il surplus della bilancia commerciale può essere investito all’estero, vincolando i paesi che beneficeranno di questi rilevanti investimenti di capitale. Oggi, la Cina comunista è diventata la più convinta sostenitrice del “libero mercato”, della globalizzazione dei mercati, esattamente come fece l’Inghilterra nel XIX secolo dopo aver fatto la rivoluzione industriale ed essere stata fervente sostenitrice del protezionismo nel secolo dei Lumi. Certo, mantenendo il controllo del cambio della propria valuta, mantiene una gestione politica del rapporto con le altre economie e, con uno Stato e governo forte, che non ha bisogno di consensi elettorali, può fare programmi di lungo periodo.

All’interno di questa strategia va vista la recente visita del presidente cinese che ha scelto l’Italia come porta d’accesso ai ricchi mercati del Centro Europa. Anzi ha scelto due porti di accesso dove investire: Genova e Trieste. In questo modo le navi portacontainers provenienti dall’Asia, quei grattaceli che attraversano gli oceani e arrivano nel Mediterraneo dal mar Rosso, possono velocemente arrivare nel cuore dell’Europa che conta, grazie all’efficienza che la gestione di questi porti e le sue infrastrutture consentono. Tagliato fuori da questo flusso di merci è tutto il Mezzogiorno d’Italia che pure aveva in Gioia Tauro, fino a pochi anni fa, il principale porto del Mediterraneo per il transhipment e che avrebbe avuto bisogno di grandi investimenti per essere rilanciato.   Entrato in crisi in quest’ultimo decennio, con questi accordi con la Cina, principale cliente, il porto di Gioia Tauro può chiudere battenti e mandare a casa migliaia di addetti! Tra le cause c’è sicuramente quello che più volte è stato denunciato: non c’è collegamento con la rete ferroviaria, che a sua volta è obsoleta e non compete che l’alta velocità con cui le merci vengono trasportate nel resto della Ue.

Certo, tra gli accordi si parla di apertura all’export delle arance (per fare un dispetto alla Spagna che non ha voluto firmare un memorandum col gigante cinese), e si sceglie Palermo per un fantomatico hub turistico per il Mediterraneo. Un contentino dato anche al Sud, dove il M5S, che ha voluto fortemente questo accordo con il governo cinese, ha la sua base elettorale.   Ma si tratta solo di buoni proposito. La parte più interessante per le ricadute economiche, quella turistica, è tutta da studiare ed elaborare. Attualmente i 15 milioni di turisti cinesi che hanno visitato l’Europa l’anno scorso fanno, mediamente, un giro veloce delle capitali europee (più Venezia e qualche altra città d’arte), ed in Italia stanno mediamente un giorno e mezzo!! Anche se includessero Palermo, si tratta pur sempre di un turismo di massa mordi e fuggi (come facciamo noi europei quando visitiamo la Cina e pensiamo in dieci giorni di conoscerla!) che incide ben poco in termini di occupazione e di valore aggiunto. Solo se l’Italia avesse una seria politica mediterranea, se guardasse verso Sud, verso l’Africa e non sempre verso la Germania e il Nord America, potrebbe avere un senso parlare anche di hub turistico mediterraneo. Ovvero: elaborare con gli altri paesi della sponda sud una strategia economica, culturale e politica. Ma tant’è: questa è la pochezza di visione in cui siamo immersi.

Da un governo e, soprattutto, da un movimento che è arrivato al governo grazie ai voti dei meridionali c’era da aspettarsi ben altro!

 

Quotidiano del Sud

26.3.2019

I riferimenti sociali perduti nella parabola centrista del Pd di Piero Bevilacqua

I riferimenti sociali perduti nella parabola centrista del Pd di Piero Bevilacqua

Non è per inclinazione a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto che torno con pessimismo sul tentativo di Zingaretti di rimettere in piedi il Partito democratico. Paolo Favilli e altri hanno mostrato su questo giornale molte ragioni di questo pessimismo.

C’è un tema essenziale, che mostra la drammatica inadeguatezza di questo partito, apparentemente resuscitato. E’ la timidezza e l’inconsistenza politica con cui si pone di fronte alla più grave minaccia che pesa sull’avvenire del nostro paese: la cosiddetta autonomia differenziata: straordinaria arma politica contro la Lega, non solo nel Sud. Hanno un bel dire Zaia e compagni nel tentare di ricondurre l’operazione eversiva entro i confini di una redistribuzione del potere amministrativo. Il carattere secessionista della proposta di legge è tutto nello spirito dei referendum regionali tenuti in Veneto e in Lombardia, in una campagna di massa che dura da decenni, oltre che nel testo dei pre-accordi con il governo Gentiloni.

C’È UNA VOLONTÀ DI SEPARAZIONE che sarebbe devastante per una Italia che ha faticato così tanto a diventare nazione, con squilibri territoriali gravi, presidiata da tre forme di criminalità storica che fanno stato nello stato, mentre si sono dissolti i collanti che hanno tenuto unito il paese dal dopoguerra agli anni ’80 del secolo scorso: i partiti di massa. Se passa quella legge si scatenerà un meccanismo che nessuno potrà più governare. Nel giro di pochi anni l’Italia diventerebbe un aggregato di regioni in conflitto mentre la sua criminalità assumerebbe sempre più la fisionomia di multinazionali finanziarie. Una Colombia senza stato nel cuore dell’Europa.

Come può essere un’alternativa un Pd che non prende di petto una questione strategica di tale peso, dal momento che non pochi suoi dirigenti, veneti, lombardi ed emiliani si riconoscono nel progetto secessionista?

Occorre avere il coraggio di dire che il tentativo di Zingaretti è un errore, che continuerà l’errore strategico originario, quello della nascita del Pd. Non soltanto, per dirlo con le parole di un giovane proveniente da quelle file, perché «un partito privo di riferimenti sociali, e dunque di rappresentanza, finisce per diventare soltanto lo spazio di un’aggregazione elettorale intorno a un leader» (Giuseppe Provenzano, La sinistra e la scintilla, Donzelli, 2019). E il Pd i riferimenti sociali, almeno quelli popolari, li ha quasi interamente perduti. Mentre Zingaretti non mostra e non ha nessuna possibilità di recuperarli, impegnato a tenere insieme le sue varie anime e capicorrente.

L’AMBIGUITÀ DEL SUO ESSERE sempre più un partito di centro che si maschera di sinistra, ha catturato al suo interno una parte notevole del migliore ceto politico riformatore del nostro paese, portandolo ad accettare politiche che lo hanno reso gravemente impopolare. Ma questo non è stato senza conseguenze sulle possibilità della formazione alla sua sinistra di una forza politica realmente riformatrice, vale a dire votata a rappresentare ceti popolari, ad allargare il welfare, ad accrescerne il potere, a farsi leva della loro emancipazione.

Senza voler far sconti agli errori compiuti nei vari passaggi alla sinistra radicale e alla sua mancanza di iniziative, è evidente che l’esistenza del Pd ha frenato e reso minoritario lo sforzo di chi possedeva una lettura più profonda del capitalismo contemporaneo e delle sua gravissime implicazioni ambientali. Tale meccanismo è stato di una evidenza teatrale negli ultimi anni, durante il governo Renzi, quando figure politiche con una dignitosa storia di sinistra sono rimaste ammutolite dentro il più fallimentare progetto “riformista” dell’Italia repubblicana. E la permanenza di tali figure nel Pd costituisce oggi una grave e paralizzante prosecuzione dell’ambiguità, che ha fatto abortire tentativi come quello di LeU e continuerà ad alimentare la frantumazione a sinistra.

Occorre rassegnarsi all’idea che Zingaretti dirigerà un partito di centro, con cui si potranno fare anche battaglie comuni, ma solo se sorge alla sua sinistra un forza pienamente indipendente, non condizionata dai rapporti con questa fallimentare “casa-madre”.

 

Il Manifesto

26.3.2019

Lo sciopero mondiale di questi ragazzi lascerà il segno di Piero Bevilacqua

Lo sciopero mondiale di questi ragazzi lascerà il segno di Piero Bevilacqua

L’evento, il primo Sciopero mondiale per il futuro è sicuramente destinato a lasciare il segno. Che siano le adolescenti e i ragazzi di 80  paesi del mondo, le studentesse e gli studenti di migliaia di città, a realizzarlo, induce a una duplice riflessione, resa drammatica anche dai dati forniti dal Rapporto ONU sull’ambiente, in occasione del sesto Global Environment Outlook in corso a Nairobi. (Luca Martinelli,Un quarto dei morti al mondo per inquinamento, e l’inserto l’Extraterrestre in Il Manifesto,14/3/2019).

Duplice perché, per la prima volta nella storia dell’umanità, siamo prossimi a processi catastrofici, che determineranno le condizioni di vita sulla terra  delle generazioni venture, e ,pur essendone  certi e consapevoli, non agiamo. Lasciamo che i governi e le forze politiche organizzino faraonici meeting internazionali, destinati a cambiar poco o nulla dei meccanismi alla base dei riscaldamenti climatici, e continuiamo a vivere secondo lo stile consumistico che sta facendo collassare il pianeta. E dunque che i giovani, coloro ai quali lasciamo in eredità habitat impoveriti e inospitali, destinati a una popolazione crescente, entrino in scena con uno movimento mondiale di protesta è un fatto che rincuora e dà speranza. Si tratta di uno “sciopero” cioé della disubbidienza e del rifiuto di un lavoro, in questo caso la frequenza scolastica, che dà un carattere speciale all’evento e al tempo stesso mostra la tragica debolezza della situazione globale. Sono i ragazzi, solo loro a fare sciopero, a colpire di fatto se stessi, perdendo ore di studio, ma non scioperano gli adulti, gli operai di fabbrica, gli impiegati, i dirigenti, le figure che dovrebbero colpire anche con un danno economico di portata mondiale i responsabili della devastazione in atto: gli imprenditori del  capitalismo estrattivo del nostro tempo. Eppure dovremmo essere noi adulti, che abbiamo goduto e godiamo degli agi resi possibili  dalla distruzione della Terra a ribellarci, a organizzare uno sciopero generale, a bloccare l’infernale macchina produttiva che getta nelle discariche 1,3 miliardi di tonnellate di cibo l’anno, rovescia nelle acque gli escrementi di 24 miliardi di animali di allevamento , riempie l’aria di CO 2 e altri gas serra, immette negli spazi urbani milioni di auto in eccesso, sta creando in giro per il mondo montagne di rifiuti tecnologici (e-waste), creando una nuova orografia dell’obsolescenza programmata.

Ma nelle considerazioni compiaciute per questo evento memorabile di oggi deve trovar posto anche un avvertimento e un allarme.I giovani non possono illudersi di esaurire la loro battaglia una tantum, perché non possono illudersi che chi governa l’ordine economico mondiale abbia  il benché minimo interesse al loro futuro e a quello della Terra. Costoro distruggeranno sino all’ultimo lembo di suolo fertile, disseccherano sino all’ultima sorgente le acque della Terra, finché sarà loro possibile trarre un qualche  privato profitto.  E non c’è altro argomento per farmarli, per indurli a percorrere un’altra strada, che   colpirli nei loro interessi vitali. A tale fine l’azione di protesta deve assumere un carattere sistematico e articolato su più fronti. Deve fare pressione sulle amministrazioni, coinvolgendo le tante forze oggi impegnate in queste lotte, per la riconversione ecologica delle città ( riciclo integrale dei rifiuti, diffusione del solare, limitazione del traffico urbano, riuso delle acque reflue,blocco della cementificazione, ecc). Ma deve anche organizzare campagne sistematiche di boicottaggio delle merci prodotte coi sistemi che stanno distruggendo   gli habitat. Occorre essere consapevoli che non c’è più tempo e che le prediche moralistiche, la bolsa retorica del ceto politico, non spostano di un’oncia i meccanismi in atto. Sono necessari settimane e mesi di “sciopero dei consumi”, di rinuncia alla carne degli allevamenti intensivi, ai prodotti dell’agricoltura  industriale, ai beni programmati per rompersi, all’American  lifestyle imposto dal capitalismo USA a tutto il mondo, se si vuole spostare su un terreno di compatibilità ambientale le potenze produttive che oggi dominano l’economia del pianeta.

I ragazzi hanno imboccato la strada giusta.Come le donne di Non una di meno, hanno capito che la dimensione della lotta deve essere internazionale e deve avvenire sotto forma di sciopero, cioé di lotta, di conflitto contro un avversario che  difende lo status quo in cui prospera il proprio interesse.Per oltre due secoli la classe operaia ha fatto evolvere la società industriale, facendo diminuire la giornata di lavoro e accrescendo i salari, promuovendo l’innovazione con conflitti lunghi e costosi. Oggi non c’è altra strada per salvare il pianeta. Una lotta di classe a livello mondiale.

 

Il Manifesto

15.3.2019

Santi, bronzi, rom e rifugiati: l’incredibile storia di Riace di Tonino Perna

Santi, bronzi, rom e rifugiati: l’incredibile storia di Riace di Tonino Perna

 L’accanimento terapeutico del Ministro degli interni nei confronti di Domenico Lucano e del piccolo Comune di Riace non ha solo il sapore dello squadrismo. C’è qualcosa di più che fa impazzire il cuore leghista del leader della destra italiana: come è possibile che un piccolo, banale, marginale Comune della Terronia possa acquistare tanta fama e consensi a livello internazionale? possa presentare una immagine dell’Italia accogliente, umana, con i colori del Sud, contrapposta alla sua visione tetra e razzista del nostro paese. Non è accettabile per chi vuole gareggiare con Orban e l’estrema destra europea sul piano di “chi ce l’ha più duro”, di chi butta fuori, massacra, tutti gli stranieri senza portafoglio. Malgrado i suoi sforzi, il suo cinismo, non ce la farà a distruggere questa storia, a seppellirla negli scantinati della storia.

Riace, infatti, ha una storia di lunga durata alle sue spalle, una storia millenaria che parte dai coloni greci e arriva ai giorni nostri passando per eventi speciali che ne hanno segnato il cammino. E Riace è pericolosa perché indica alla sinistra smarrita che abbiamo una strada in comune, dei valori fondamentali e basilari, che è possibile riscoprire le nostre radici e costruire una nuova identità. E’ quello che ha fatto Domenico Lucano rintracciando storicamente un filo conduttore nella storia di Riace che parte dalla resistenza al consumismo tipico delle aree urbane, al valore del legame sociale, di una storia dell’accoglienza che ha radici antiche e sfida la modernità neoliberista.

Questo messaggio emerge con forza nel saggio di Pietro D. Zavaglia, (Bronzi, Santi e Rifugiati: il caso di Riace, Castelvecchi, 2018). Dei tanti libri che sono usciti su Riace e Mimmo Lucano il lavoro di Zavaglia ha il merito di aver guardato a questo piccolo paese dell’estremo sud attraverso le “onde lunghe “ della storia di braudeliana memoria. Ne emerge un quadro affascinante che partendo dalla prestigiosa e ricca Kaulon, fondata dai coloni greci nel VIII secolo d.C., che aveva con molte probabilità come protettori i Dioscuri Castore e Polluce, che nel tempo si sono trasformati nei due santi medici che venivano dall’Oriente e che, narra la leggenda, furono visti uscire dal mare di Riace: i Santi Cosma e Damiano.   Santi che vengono festeggiati due volte l’anno, nel mese di maggio e di settembre, e proprio tra il 26 e il 27 settembre la festa dei santi medici si trasforma in una straordinaria festa del popolo Rom proveniente da diverse parti d’Italia, e non solo. Sempre nello stesso tratto di mare, nello stesso scoglio semisommerso, vengono nell’agosto del 1972 “pescati” e portati a riva i famosi Bronzi di Riace, le più belle statue bronzee che esistano al mondo e che sono state realizzate nel V secolo a.C. Infine, nell’estate del 1998 lo sbarco nella stessa spiaggia di Riace di un barcone con centinaia di curdi inaugurò la storia dell’accoglienza che ha reso famoso in tutto il mondo questo villaggio e il suo sindaco.

Leggere questo libro permette di andare al di là della cronaca di questi giorni e, al contempo, capire le radici profonde di quello che è stato giustamente chiamato “modello Riace”, ovvero di una comunità che ha messo al primo posto la solidarietà umana, la festa, la gioia della condivisione, la convivenza pacifica di persone provenienti da tutti i sud del mondo.

Contro la secessione del patrimonio culturale e paesaggistico Appello/Autonomia differenziata

Contro la secessione del patrimonio culturale e paesaggistico Appello/Autonomia differenziata

La richiesta di “autonomia differenziata”, su ben 23 materie, è partita dalla Regione Veneto, ma ha coinvolto anche la Lombardia e l’Emilia Romagna. Questa strisciante secessione farebbe gestire alle tre Regioni il 90% del gettito fiscale per sostenere il welfare dei propri territori. Le attuali richieste di “autonomia differenziata” avanzate dalle tre regioni sono la conseguenza diretta di quella sciagurata modifica del Titolo V fatta dal Governo Amato. Le tre Regioni hanno chiesto, nelle cosiddette bozze di pre-intesa già discusse con il Governo Gentiloni, una assoluta autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria anche del Patrimonio culturale, dei territori e dei paesaggi.

Le tre Regioni che vogliono la manovrabilità sui tributi regionali e locali, stanno chiedendo, oltre alla regionalizzazione della Sanità e della Scuola, di trasferire ai propri uffici regionali le competenze di tutte le funzioni, amministrative e tecnico-scientifiche, delle Soprintendenze che sarebbero, come in Sicilia, controllate dal potere politico regionale. Le tre regioni secessioniste non solo sono fra quelle che non hanno ottemperato all’obbligo di elaborare i piani paesaggistici regionali, ma, analizzando l’ultimo rapporto dell’Ispra, sono anche quelle che consumano più suolo: Lombardia, 12,99%, seguita dal Veneto, 12,35%, e, poi, l’Emilia-Romagna, 9,99%, ai primi posti. Sono, dunque, proprio le Regioni che più cementificano, quelle che vogliono avere mano libera sul Patrimonio e sul paesaggio, senza più il controllo esercitato dalle Soprintendenze, ora organi periferici del Mibac, dello Stato.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, l’intero Patrimonio della cultura perderebbe il carattere di fondamento identitario nazionale acquisito grazie al rapporto plurimillenario fra uomini e paesaggi italiani.

I sottoscritti si oppongono fermamente al tentativo di secessione in atto e ribadiscono l’inviolabilità del principio, statuito dall’art.9 della Costituzione, secondo il quale è la Repubblica, e non le Regioni, a tutelare il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Osservatorio del Sud

Assotecnici

Officina dei Saperi

Associazione R. Bianchi Bandinelli

Emergenza Cultura

Battista Sangineto, archeologo, Università della Calabria

Irene Berlingò, archeologa, già dirigente Mibac

Pier Giovanni Guzzo, archeologo, Accademico dei Lincei

Giuseppe Pucci, archeologo, emerito Università di Siena

Piero Bevilacqua, storico, Università La Sapienza Roma

Tomaso Montanari, storico dell’arte, Università di Siena

Vittorio Emiliani, giornalista e saggista

Fausto Zevi, archeologo, Accademico dei Lincei

Lucia Faedo, archeologo, già Università di Pisa

Licia Vlad, archeologa, già dirigente Mibac

Caterina Bon, già direttore generale Abap

Rita Paris, archeologa, ex dirigente Mibac

Ruggero Martines, architetto, ex direttore generale Mibac

Andrea Camilli, archeologo, presidente Assotecnici

Ilaria Agostini, urbanista, Università di Bologna

Paolo Baldeschi, urbanista, Università degli Studi di Firenze

Paolo Berdini, urbanista

Roberto Budini Gattai, urbanista, Università degli Studi di Firenze

Carlo Carbone, urbanista, Università degli Studi di Firenze

Carlo Cellammare, urbanista, Università di Roma “Sapienza”

Giancarlo Consonni, urbanista, Politecnico di Milano

Flavia Martinelli, urbanista, Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria

Lodovico Meneghetti, urbanista, Politecnico di Milano

Raffaele Paloscia, urbanista, Università degli Studi di Firenze

Francesco Pancho Pardi, urbanista, Università degli Studi di Firenze

Sandro Roggio, urbanista

Leonardo Rombai, geografo, Università degli Studi di Firenze

Enzo Scandurra, urbanista, Università di Roma “Sapienza”

Graziella Tonon, urbanista, Politecnico di Milano

Daniele Vannetiello, urbanista, Università di Bologna

 

IL MANIFESTO

13.3.2019

Sbaraccopoli di Tonino Perna di Tonino Perna

Sbaraccopoli di Tonino Perna di Tonino Perna

Sbaraccopoli : colpe e omissioni della Sinistra

 

Lo spettacolo dell’abbattimento della baraccopoli di San Ferdinando ha fatto aumentare il consenso degli italiani verso il ministro/presidente Supermacho. Per chi non conosce la situazione e vede solo le immagini in Tv o sui social non può che essere d’accordo con questa operazione che da vent’anni si trascina senza una soluzione. Che poi i migranti siano stati spediti in Sprar o Cas dove difficilmente trovano un lavoro e ritorneranno in massa nella piana di Gioia Tauro-Rosarno è un dato che non interessa a nessuno, perché non si conosce e non si vedrà quando accadrà inesorabilmente ed altre baraccopoli saranno edificate.  La questione di fondo è molto semplice: gli abitanti dell’area non sono disponibili ad affittare le case ai “niri”. Gli enti locali, la Prefettura, hanno trovato nel tempo come soluzione una tendopoli che può ospitare fino a quattro-cinquecento braccianti mentre nei momenti clou si arriva a oltre 2000.

Dalla fine del secolo scorso, da quando sono state scoperte le truffe alla Ue e i produttori locali sono stati costretti a raccogliere le arance, sono migliaia i braccianti prima comunitari (albanesi, rumeni, bulgari) e poi sempre più extracomunitari (in prevalenza dell’Africa sub-sahariana) che si stabiliscono ogni anno in questa pianura rigogliosa, dove l’arancio vive all’ombra di ulivi giganteschi, dove si producono metà delle clementine italiane e quasi un terzo dei kiwi. E ogni anno sono passati leader politici e sindacali che di fronte alle baraccopoli (perché ce n’è più d’una) hanno gridato allo scandalo. Ma, niente è accaduto. Rosarno e San Ferdinando hanno avuto in passato famosi sindaci comunisti, qualche sindacalista coraggioso, ma non si è andati al di là della denunzia. Certo, la soluzione non è facile, la popolazione è diventata ostile, e la Sinistra è abituata a discutere, fare analisi, organizzare comitati, mentre la Destra trova facilmente le soluzioni immediate e conquista consensi crescenti.   E’ la scorciatoia l’arma politica della Destra che governa nel nuovo secolo. Per esempio, di fronte agli effetti della globalizzazione, criticata per tanto tempo dalla sinistra radicale senza indicare una alternativa concreta e facilmente raggiungibile, Trump e C. hanno trovato la scorciatoia dei dazi alle importazioni e del blocco dei flussi migratori, e l’operaio nordamericano si è sentito protetto, anche se nel medio periodo ne pagherà le conseguenze.   Così, di fronte ad una condizione disumana, come quella che si è vissuta per troppo tempo nella baraccopoli di San Ferdinando, usare le ruspe per distruggerla rassicura l’opinione pubblica italiana, dato che l’operazione è stata fatta in nome della legalità e dell’igiene pubblica.   Ma, già nel prossimo autunno, in coincidenza con la stagione agrumaria, si formeranno nuove baraccopoli perché le cause di questo fenomeno non sono state intaccate. Per fortuna, c’è chi lavora nell’ombra per trovare delle strade alternative che trasformino le filiere dello sfruttamento nella piana di Gioia-Rosarno, per inserire con dignità queste persone all’interno di una rete di imprese responsabilizzate sul piano ambientale quanto su quello dei diritti dei lavoratori. E’ un progetto che si sta realizzando grazie ad una nuova alleanza Sud/Nord che ha già dato in passato buoni frutti. Ne riparleremo alla prossima occasione.

 

Perché le autonomie toccano il ruolo del sindacato di Ignazio Masulli

Perché le autonomie toccano il ruolo del sindacato di Ignazio Masulli

È stato ampiamente dimostrato come l’autonomia differenziata aggraverà il divario tra Nord e Sud. Ciascuna regione potrà trattenere un maggiore ammontare del gettito fiscale del proprio territorio e spenderlo per servizi pubblici destinati ai cittadini residenti in quella regione. È facile comprendere gli effetti di maggiori diseguaglianze in settori dell’organizzazione sociale. Tanto più amplificate in quanto accompagnate da un’ulteriore riduzione dei vincoli posti alle autonomie regionali.

Qui intendiamo sottolineare solo alcuni aspetti delle pesanti ripercussioni che si avrebbero sulle condizioni di lavoro e gli squilibri che già le caratterizzano in quegli stessi settori.

Da quanto previsto nelle bozze d’intesa, è evidente che verrà meno la parità di diritti dei cittadini italiani alla «tutela della salute» prevista dalla Costituzione. Le pur ampie autonomie delle regioni nella gestione della sanità saranno ulteriormente allargate nell’organizzazione della rete ospedaliera, selezione dei dirigenti, assistenza farmaceutica, nonché in materia di tariffe, rimborsi, e perfino retribuzioni.

Sarà la fine anche del sistema nazionale dell’istruzione, giacché la regionalizzazione investirà scuole, dirigenti scolastici e insegnanti. Una recinzione simile si verificherà pure nella cura e valorizzazione dei beni culturali e ambientali.

È prevista, inoltre, una specifica attribuzione di poteri sulla ricerca scientifica e tecnologica. Nuovi poteri saranno attribuiti alle regioni in materia urbanistica e di governo del territorio. Anche per quanto concerne il sistema dei trasporti, strade, autostrade, ferrovie, porti e aeroporti saranno gestiti, in varia misura, dalle regioni.

Non bastasse, assisteremo alla regionalizzazione di buona parte del pubblico impiego, della tutela e sicurezza del lavoro, della previdenza integrativa, degli incentivi alle imprese. È chiaro che tutto questo non potrà non ripercuotersi sulle prerogative e funzioni delle organizzazioni sindacali e sulla loro capacità contrattuale nella difesa dei diritti dei lavoratori.

Un colpo pesantissimo il sindacato lo riceverà, comunque, per il fatto che, a fronte di un’autonomia differenziata, in tutti i settori sopra indicati la definizione dei rapporti di lavoro, sia in termini normativi che retributivi, difficilmente potrà essere regolamentata dai contratti nazionali. E si tratta di una conseguenza tutt’altro che casuale. Sappiamo bene che in tutto il quarantennio neoliberista i contratti nazionali sono stati il bersaglio principale di quanti, gruppi imprenditoriali e governi, hanno cercato di ridurre il potere contrattuale dei sindacati. Tutte le spinte verso la contrattazione aziendale hanno mirato costantemente a questo scopo.

Si può partire dall’offensiva di Margareth Thatcher e degli altri governi conservatori in Europa, purtroppo passando anche per i vari Blair, Schröder e gli altri becchini della socialdemocrazia, fino ai loro emuli recenti, comprese le politiche del lavoro dei penultimi governi italiani.

Oggi una delle maggiori sfide del sindacato italiano e, in prima fila, della Cgil, è quella di opporsi con grande determinazione a questo ulteriore aggravamento degli squilibri e diseguaglianze del mondo del lavoro e della società italiana più in generale.

Questo fronte di lotta può risultare decisivo anche nel contrasto alla logica della società chiusa in cui ci stiamo ingabbiando: «prima gli italiani», «prima i lombardo-veneti» o altri, «prima la mia città, prima il mio quartiere» …e poi? Poi quali prospettive per un’organizzazione sociale ad imbuto?

 

il Manifesto

06.03.2019

Autonomia, Di Maio tra segreti e bugie di Massimo Villone

Autonomia, Di Maio tra segreti e bugie di Massimo Villone

Di Maio ci informa dalle pagine di Repubblica che con l’autonomia non intende spaccare l’Italia. In Consiglio dei ministri andrà una pre-intesa dopo un vaglio politico suo, di Salvini e di Conte, per poi fare una trattativa con i presidenti delle regioni e andare in parlamento, dove i presidenti decideranno sulla emendabilità. Siamo sollevati. Ma poi leggiamo che Salvini ha incontrato Erika Stefani e i governatori leghisti, e ha battuto i pugni sul tavolo in una cena a Palazzo Chigi. E i dubbi tornano.

Dove sono finite le critiche ai famigerati patti della crostata? Soprattutto quando il governo per bocca di Stefani non reca chiarezza né assume precisi impegni in una sede appropriata, come certo era l’audizione del 27 febbraio nella Commissione parlamentare per le questioni regionali. Tutto rimane avvolto nel mistero e nell’ambiguità. Qualcosa è andato in Consiglio dei ministri il 14 febbraio. Ma cosa? Non era già una pre-intesa, che per Di Maio sarebbe invece ancora da scrivere? Circolano bozze di “parte generale” che si definisce “concordata”. Tra chi, dove e quando? Il Consiglio le ha approvate o anche solo viste? Esiste una “parte speciale”, o è da scrivere?

Si vuole forse portare in consiglio dei ministri e in parlamento un ddl del tutto generico, un guscio vuoto recante una sostanziale e probabilmente incostituzionale delega in bianco alle commissioni paritetiche, politicamente irresponsabili, nominate da regioni e governo? Come e quando sapremo chi guadagna e chi perde, e in che modo? Pare che anche l’agenzia Fitch certifichi che l’autonomia differenziata aggraverebbe i divari territoriali, e dubiti persino che recherebbe al Nord reali benefici. Che ne pensa Tria, qui e ora? Su tutto questo Di Maio non offre chiarezza. Dice che si potrà consentire alle regioni di gestire qualche servizio. Potrebbe venirne l’impressione che oggetto del contendere siano marginali funzioni amministrative. Magari con l’apertura di qualche sportello per i cittadini, per una amministrazione di prossimità, efficiente e amica. Ma non è così. Intanto, non si parla solo di funzioni amministrative.

Abbiamo visto nelle scorse settimane bozze, mai ufficialmente avallate, sulle quali Stefani ha glissato anche nella citata audizione. Eppure sono esistite, come c’è stato un lavoro di mesi dei tecnici del ministero e delle regioni (chi, dove, quando? esistono verbali?). Quelle bozze prevedevano il trasferimento alle regioni richiedenti di potestà legislative. Si ritagliava quindi – riducendola – la potestà legislativa statale di dettare norme di principio, e conseguentemente di formulare politiche nazionali. Si passavano nelle mani delle regioni pezzi importanti del demanio statale e infrastrutture di valenza nazionale. Altro che sportelli al pubblico. D’altra parte, cos’è un “servizio”? Tale è, ad esempio, l’istruzione, o la sanità.

Quindi, le parole di Di Maio non escludono la integrale regionalizzazione della scuola, dirigenti, docenti e amministrativi compresi, con programmi, retribuzioni e percorsi di accesso differenziati. È quello che le regioni chiedono, e che tanti nel paese vedono come l’abbattimento del primo pilastro, ieri come oggi, dell’unità d’Italia. Vogliamo sapere di cosa parliamo. Di Maio si impegni a sollevare il velo di segreti e bugie, garantisca la partecipazione paritaria di tutti i territori, assuma la piena emendabilità come obiettivo del Movimento. Passi necessari, considerando che M5S ha generato diffidenza prima scrivendo l’autonomia come priorità nel contratto di governo, e poi mettendola in mani lombardo-venete con la formazione dell’esecutivo: ministra Stefani, leghista del Veneto, e sottosegretario Buffagni, M5S lombardo. Erano già chiari – sapendo dove e come guardare – i rischi delle pre-intese stipulate dal moribondo governo Gentiloni. Mentre il Sud può oggi essere l’unica vera scommessa, più di artifici puramente organizzatori, per fermare un declino M5S in atto. Nessuno che minimamente conosca la Lega e la sua storia può pensare che abbia davvero a cuore – anche nella versione Salvini – l’unità della Repubblica e l’eguaglianza dei cittadini. Ma M5S deve una risposta al paese ed al Sud. Quindi, niente scambio una Tav a me, un’autonomia a te, nemmeno in formato mini. E ci preoccupa molto nella cena richiamata la centralità – a quanto si legge in rete – delle chiacchiere. Il federalismo fiscale non trainerà nessuna crescita.

 

il Manifesto

1 marzo 2019

Il sindacato contro la secessione di Piero Bevilacqua

Il sindacato contro la secessione di Piero Bevilacqua

Non credo che il successo della Lega sia ascrivibile a una improvvisa trasformazione antropologica degli italiani, tutti diventati razzisti. Questo è un vecchio alibi di chi sostiene che «non c’è niente da fare» per poter continuare a badare ai fatti propri. Questo sì, un antico tratto guicciardiniano del carattere italiano.

Ma il nostro è il paese più cosmopolita d’Europa, per storia millenaria e recente. Non c’è, nel Vecchio Continente, un territorio come il nostro, che già in età preromana era formato da un mosaico di etnie, arricchitie dal cosmpolitismo dell’Impero, attraversato da popoli stranieri dal medioevo fino all’età moderna. Senza dimenticare il ruolo universalistico giocato dalla Chiesa di Roma. Un popolo continuamente migrante, che tra ‘800 e 900 ha colonizzato non pochi angoli del pianeta. E che spesso è ritornato in patria. E l’Italia non ha il passato coloniale della Spagna, della Gran Bretagna, della Francia, della Germania…

CERTO NON mancano da noi sacche di abiezione civile, ma sono bassifondi marginali. Dunque il successo del razzismo leghista è un fenomeno recente e politico, legato alle condizioni di disagio create dagli immigrati nelle nostre periferie, all’arretramento sociale di vaste fascie di popolazione, al risentimento contro la «casta», alla politica dell’Ue, la prima sorgente del dilagare di quello che chiamiamo populismo o sovranismo.
Oggi si presenta tuttavia una grande occasione di fermare l’avanzare della Lega: sottrarre il Sud alla sua influenza, mostrare il suo immutato carattere regionalista e secessionista.

La legge per la cosiddetta autonomia differenziata, che minaccia l’unità del paese, come abbiamo più volte ripetuto su queste pagine, costituisce anche una opportunità politica. Essa infatti non tende solo a emarginare il Sud, ma è una strada percorribile solo tramite la disarticolazione del welfare nazionale, la rottura degli ordinamenti, l’emarginazione dello stato unitario. Questa prospettiva, esaminata da tanti studiosi e istituti con analisi inoppugnabili, spaventa non solo le popolazioni del Sud, ma anche tanti cittadini del resto del Paese.

E L’ITALIA ha mostrato non poche volte la capacità di unirsi di fronte alle manipolazioni della Costituzione che mettevano in pericolo la conquista storica della nostra unità. Oggi, nel momento in cui il disegno segreto della Lega è diventato noto, sta montando la mobilitazione. A sinistra Rifondazione comunista e Sinistra Italiana, ma anche alcuni esponenti del Pd, solitariamente, si stanno attivando. Ma sono soprattutto alcune categorie sociali a mobilitarsi, come gli insegnanti e i medici, il cui Ordine nazionale ha assunto posizioni coraggiose di denuncia. E tuttavia si tratta di iniziative sparse e disperse. Ancora non è stata colta la potenzialità decisiva di questa lotta. Mostrare almeno ai meridionali che cosa la Lega di Salvini, Zaia, Maroni sta preparando al Mezzogiorno dovrebbe servire come ammonimento a non dare più un solo voto a chi li sta pugnalando alle spalle.

È IN QUESTA situazione che a mio avviso la Cgil guidata da Landini potrebbe assumere un ruolo importante, di mobilitazione e di unificazione delle lotte. Sul sindacato occorrerebbe per la verità una profonda riflessione. Questo fondamentale presidio di democrazia è ancora attardato a una visione novecentesca dello sviluppo economico, subisce passivamente la dimensione locale del suo insediamento, di fronte alla mobilità mondiale del capitale.

Oggi occorrerebe immettere nel grande corpo della Cgil un bel po’ di giovani che hanno lauree, dottorati, master, conoscono più lingue, a trent’anni hanno girato mezzo mondo e che potrebbero portare nuove culture, nuove visioni e proiezioni internazionali. Oggi questi giovani sono chiamati e incentivati a creare le cosiddette sturtup, se li prende il capitale per accrescere profitti. Mentre il sindacato potrebbe offrir loro l’ opportunità di diventare nuovi gruppi dirigenti al centro e nei territori.

È UNA LINEA che può essere ricercata subito se il sindacato rimette il Mezzogiorno al centro della sua lotta come leva per l’unità e la ripresa generale dell’intero paese. Occorrerebbe selezionare pochi obiettivi realizzabili: i servizi della sanità e della scuola, le infratrtture ferroviarie e viarie,(Matera, città europea della cultura, non ha una stazione ferroviaria), la rigenerazione urbana, la valorizzazione delle aree interne più suscettibili di ripresa economica, mobilitando soprattuto i sindaci. In Puglia la vicepresidente della Regione, Angela Barbanente, ha realizzato alcuni anni fa un modello esemplare di rigenerazione, con i fondi Ue, cambiando il volto di interi quartieri, paesi, scuole, servizi.

Ma bisogna indirizzare la rabbia meridionale nella giusta direzione. Il Sud è stato messo ai margini anche perché alcune regioni del Nord – come insegna il caso Formigoni – hanno praticato una secessione finanziaria di fatto, a cui oggi vogliono fornire il marchio definitivo di una legge.

 

Il Manifesto

1.3.2019

La portata devastante dell’autonomia differenziata di Stefano Fassina

La portata devastante dell’autonomia differenziata di Stefano Fassina

Le ragioni per contrastare la cosiddetta “autonomia differenziata” sono state ben descritte, con un impegno inizialmente solitario, dal prof Viesti, dal prof Villone e pochissimi altri: determinerebbe la fine della scuola pubblica come fattore di integrazione nazionale, l’aggravamento delle condizioni del Servizio Sanitario Nazionale, l’indebolimento ulteriore della tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.

Grazie a Laterza, è scaricabile gratuitamente un pamphlet, scritto proprio da Gianfranco Viesti, dove viene illustrata in modo semplice un’analisi chiara e documentata della “secessione dei ricchi“. Alla propaganda dei presidenti leghisti e della ineffabile ministra Stefani, sarebbe sufficiente contrapporre l’art. 4 delle pre-Intese sciaguratamente sottoscritte in limine mortis dal governo Gentiloni con Zaia, Maroni e Bonaccini: la “riforma” del Titolo V, per stupide ragioni tattiche, ha aperto varchi pericolosi, ma la responsabilità di legare i fabbisogni standard al gettito fiscale raccolto in ciascun Regione è “merito” dell’ultimo esecutivo dei buoni, dei competenti, dei responsabili.

L’autonomia differenziata, oltre che per il merito, è inaccettabile anche per la procedura parlamentare prevista per la sua approvazione: prendere o lasciare, senza possibilità di emendare i Disegni di Legge di portata costituzionale per attuare le “intese” tra governo e presidenti di Veneto, Lombardia e Emilia. Anche su tale pericolo, Piero Bevilacqua, attraverso Il Manifesto, ha inviatoun’accorata lettera aperta al presidente Mattarella garante dell’unità nazionale.

Non vi è altro da aggiungere per spiegare la portata devastante sul piano dei principi costituzionali dei provvedimenti in segreta elaborazione. Le ragioni per fare le barricate sono divenute chiare. Ma su quale terreno combattiamo? È possibile fare la resistenza all’offensiva della Lega, Nord nonostante la riverniciatura salviniana, soltanto sulla base di astratte e fredde norme costituzionali? E come affrontiamo le cause strutturali dell’offensiva secessionista? Vi sono? Oppure, siamo di fronte soltanto a egoismo da contrastare con lezioni di giustizia sociale, riteniamo che il “vincolo interno” alla solidarietà sia indipendente dal “vincolo esterno” all’europeismo liberista?

La controffensiva deve partire, innanzitutto, sul terreno “sentimentale”: per denunciare e fermare la fine dell’unità nazionale va richiamato il nostro essere Nazione, come definito nella nostra Costituzione, ossia comunità non di sangue, ma di condivisione di Storia e storie, cultura, lingua e programma politico fondamentale, ossia la nostra Costituzione.

Ha colto molto efficacemente il punto Tomaso Montanari che, su Il Fatto, in un commento sulla prevista attribuzione alle Regioni in via di differenziazione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, scrive: “Se c’è qualcosa che ci fa italiani differenziandoci da tutte le altre nazioni e unendoci tra noi al di là delle infinite diversità della penisola, ebbene quel qualcosa è il legame tra pietre e popolo…”.

Senza “sentire” il legame condiviso di Nazione (la maiuscola è nella Costituzione), senza un sentimento di comune appartenenza alla Patria (Art. 52 della Costituzione), come possiamo considerare obbligo morale dei cittadini a maggior reddito e ricchezza redistribuire a chi ha meno?

In altri termini, perché non chiediamo solidarietà fiscale ai ricchi della Baviera, della Catalogna o della provincia di Amsterdam e, invece, la pretendiamo dai ricchi del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna? La risposta è semplice: perché non esiste un legame transnazionale che “fa” popolo. Non esiste, ahimè, il demos europeo (da qui, l’inconsistenza storico-politica della prospettiva di ‘riforma dei Trattati Europei’ o degli ‘Stati Uniti d’Europa’ enunciata dalle sinistre riformiste e radicali, da Calenda a Varoufakis). Il legame comunitario di Nazione, impasto di Storia, cultura, lingua e pietre è fondativo, condizione necessaria, del programma costituzionale.

Veniamo alle cause strutturali dell’offensiva secessionista. Perché avviene ora? Perché ora che la Lega si auto-rappresenta e viene nel voto riconosciuta come Lega Nazionale? Anche qui la risposta è semplice: perché vincolo interno (alla redistribuzione fiscale prevista dalla Costituzione) e vincolo esterno (i Trattati europei, il mercato e la moneta unica, in primis) sono interdipendenti.

Perché anche i territori più forti sono in sempre più acuta difficoltà in un mercato unico europeo e con una moneta unica al servizio dell’estremismo mercantilista made in Germany, ora giustamente e inevitabilmente osteggiato dal protezionismo del presidente Trump. Sarebbe sufficiente guardare la sempre più ampia divaricazione, nell’ultimo quarto di secolo, del costo del lavoro per unità di prodotto di Italia e Germania per comprendere la domanda rabbiosa di alleggerimento fiscale e contributivo delle imprese del Lombardo-Veneto. Per le quali, va aggiunto, a differenza di quanto avveniva fino a un paio di decenni fa, il mercato interno offerto dal Mezzogiorno è sempre meno rilevante, data la drammatica caduta di potere d’acquisto lì avvenuta.

Nonostante le sinistre riformiste e cosiddette antagoniste si siano auto-confinate in un impotente, ma gratificante, suprematismo morale e culturale, le scelte politiche risentono anche di interessi materiali. Per sconfiggere il disegno secessionista, è quindi decisivo un movimento tra struttura e sovrastruttura: in primo luogo, rianimare il sentimento di Patria e di comunità nazionale; in secondo luogo, ricordare alle classi dirigenti padane l’utilità di essere Italia unita piuttosto che, sempre più, colonia tedesca; infine, allentare la tensione tra vincolo interno e vincolo esterno, sia attraverso un piano per lo sviluppo del Mezzogiorno, sia mediante le forzature necessarie alla regolazione mercantilista dell’Unione europea e dell’eurozona.

Soltanto così, possiamo “chiamare” il bluff della Lega Nord per l’indipendenza della Padania. Soltanto così, possiamo sfidare nelle loro responsabilità “territoriali” i “portavoce” del M5S. Soltanto così possiamo ritrovare una distintiva funzione storica.

 

fonte: huffingtonpost.it